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Murray: a colpire Skripal è stato il Mossad, non la Russia
Scritto il 15/3/18 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
Porta la firma del Mossad israeliano il tentato omicidio in Inghilterra dell’ex agente russo Sergej Skripal, che ha innescato la guerra tra Londra e Mosca con espulsioni simmetriche di diplomatici. Lo sostiene Craig Murray, già ambasciatore britannico in paesi come l’Uzbekistan. Murray non è un fan di Putin. Al contrario: ritiene che siano stati i russi ad assassinare col polonio Alexandr Litvinenko nel 2006, in più imputa alla Russia l’occupazione “illegale” della Crimea e dell’Ossezia del Sud (Georgia), e arriva ad accusare il Cremlino di aver organizzato auto-attentati allo scopo di avere il pretesto del «brutale assalto alla Cecenia». E’ infatti emerso che fu proprio Boris Eltsin a promuovere il “separatismo ceceno”, per poi procedere con l’intervento militare (cui mise fine proprio Putin). Ma stavolta i russi non c’entrano, con l’attentato che ha ridotto in fin di vita l’ex 007 Skripal e sua figlia Yulia nella città inglese di Salisbury. E’ più che sospetta la determinazione con la quale il governo britannico ha subito puntato il dito contro Mosca: la premier Theresa May e il ministro degli esteri Boris Johnson additano la Russia come unico mandante. La loro tesi: l’ex agente del Gru (l’intelligence militare di Mosca, poi passato agli inglesi) è stato avvelenato con gas nervino. Ma è l’agenzia internazionale per il disarmo chimico a chiarire che la Russia non dispone più di gas letali. E poi, perché rischiare un simile autogoal d’immagine?
La versione di Londra, scrive “L’Antidiplomatico”, non convince affatto l’ex ambasciatore britannico Craig Murray, che invita ad approfondire una strada diversa: quella che conduce direttamente a Israele e al Mossad. Lo riporta il giornalista investigativo Nafeez Ahmed su “Insurge”. Semmai è Israele a possedere l’agente nervino, spiega Murray, e il suo servizio segreto, il Mossad, «è estremamente abile negli omicidi in territorio straniero». Theresa May ha rivendicato la propensione russa all’assassinio all’estero far credere che ci sia Mosca dietro all’attentato? «Se è per questo, il Mossad ha una propensione ancora maggiore all’assassinio all’estero», afferma Murray. «E mentre mi sto sforzando per trovare un motivo valido per cui la Russia avrebbe dovuto rischiare di danneggiare la sua reputazione internazionale in modo così penoso – aggiunge – Israele ha una chiara motivazione per danneggiare la reputazione russa in modo così profondo». E spiega: «L’azione russa in Siria ha minato la posizione israeliana in Siria e Libano in modo fondamentale, e Israele ha tutti i motivi per voler danneggiare la posizione internazionale della Russia con un attacco che mira a gettare responsabilità su Mosca». Murray inoltre evidenzia come sia improbabile che i russi «abbiano atteso otto anni per colpire», dopo la “diserzione” del loro vecchio agente. Allo stesso modo, «non ha alcun senso assassinare improvvisamente una spia liberata attraverso uno scambio di prigionieri, e che per ben otto anni ha vissuto a Londra alla luce del sole».
Nel caso Skripal, scrive “L’Antidiplomatico”, a colpire è la determinazione, la pervicacia, con cui le autorità britanniche si affannano a incolpare la Russia, «senza peraltro fornire alcuna prova a sostegno delle tesi accusatorie», peraltro seccamente smentite persino dall’Opcw, l’organizzazione internazionale per la proibizione delle armi chimiche. «L’agenzia, con sede a L’Aia, ha infatti certificato che la Russia ha distrutto il proprio arsenale di armi chimiche, agenti nervini compresi». L’Opcw non ha quindi trovato alcuna evidenza indicante che la Russia mantenga una capacità di “avvelenamento” da gas nervino, «mentre non si può dire lo stesso per Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele». A far da detonatore, dopo il successo russo in Siria, potrebbe anche esser stato il clamoroso annuncio del 1° marzo, nel quale Putin – presentando i nuovi missili atomici iper-sonici, come nuova frontiera della deterrenza (armi che annullerebbero l’arsenale nucleare Usa) – ha di fatto mutato, in modo clamoroso, l’aspetto militare dell’equilibrio geopolitico. Al punto che Donald Trump è giunto alla rimozione di Rex Tillerson. Nuovo segretario di Stato, il “falco” antirusso Mike Pompeo, che lascia la guida della Cia a Gina Haspel, accusata di aver introdotto l’uso sistematico della tortura (come il “waterboardig”) per i sospetti terroristi, inclusi quelli detenuti a Guantanamo in flagrante violazione dei diritti umani.
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Murray: a colpire Skripal è stato il Mossad, non la Russia
Scritto il 15/3/18 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
Porta la firma del Mossad israeliano il tentato omicidio in Inghilterra dell’ex agente russo Sergej Skripal, che ha innescato la guerra tra Londra e Mosca con espulsioni simmetriche di diplomatici. Lo sostiene Craig Murray, già ambasciatore britannico in paesi come l’Uzbekistan. Murray non è un fan di Putin. Al contrario: ritiene che siano stati i russi ad assassinare col polonio Alexandr Litvinenko nel 2006, in più imputa alla Russia l’occupazione “illegale” della Crimea e dell’Ossezia del Sud (Georgia), e arriva ad accusare il Cremlino di aver organizzato auto-attentati allo scopo di avere il pretesto del «brutale assalto alla Cecenia». E’ infatti emerso che fu proprio Boris Eltsin a promuovere il “separatismo ceceno”, per poi procedere con l’intervento militare (cui mise fine proprio Putin). Ma stavolta i russi non c’entrano, con l’attentato che ha ridotto in fin di vita l’ex 007 Skripal e sua figlia Yulia nella città inglese di Salisbury. E’ più che sospetta la determinazione con la quale il governo britannico ha subito puntato il dito contro Mosca: la premier Theresa May e il ministro degli esteri Boris Johnson additano la Russia come unico mandante. La loro tesi: l’ex agente del Gru (l’intelligence militare di Mosca, poi passato agli inglesi) è stato avvelenato con gas nervino. Ma è l’agenzia internazionale per il disarmo chimico a chiarire che la Russia non dispone più di gas letali. E poi, perché rischiare un simile autogoal d’immagine?
La versione di Londra, scrive “L’Antidiplomatico”, non convince affatto l’ex ambasciatore britannico Craig Murray, che invita ad approfondire una strada diversa: quella che conduce direttamente a Israele e al Mossad. Lo riporta il giornalista investigativo Nafeez Ahmed su “Insurge”. Semmai è Israele a possedere l’agente nervino, spiega Murray, e il suo servizio segreto, il Mossad, «è estremamente abile negli omicidi in territorio straniero». Theresa May ha rivendicato la propensione russa all’assassinio all’estero far credere che ci sia Mosca dietro all’attentato? «Se è per questo, il Mossad ha una propensione ancora maggiore all’assassinio all’estero», afferma Murray. «E mentre mi sto sforzando per trovare un motivo valido per cui la Russia avrebbe dovuto rischiare di danneggiare la sua reputazione internazionale in modo così penoso – aggiunge – Israele ha una chiara motivazione per danneggiare la reputazione russa in modo così profondo». E spiega: «L’azione russa in Siria ha minato la posizione israeliana in Siria e Libano in modo fondamentale, e Israele ha tutti i motivi per voler danneggiare la posizione internazionale della Russia con un attacco che mira a gettare responsabilità su Mosca». Murray inoltre evidenzia come sia improbabile che i russi «abbiano atteso otto anni per colpire», dopo la “diserzione” del loro vecchio agente. Allo stesso modo, «non ha alcun senso assassinare improvvisamente una spia liberata attraverso uno scambio di prigionieri, e che per ben otto anni ha vissuto a Londra alla luce del sole».
Nel caso Skripal, scrive “L’Antidiplomatico”, a colpire è la determinazione, la pervicacia, con cui le autorità britanniche si affannano a incolpare la Russia, «senza peraltro fornire alcuna prova a sostegno delle tesi accusatorie», peraltro seccamente smentite persino dall’Opcw, l’organizzazione internazionale per la proibizione delle armi chimiche. «L’agenzia, con sede a L’Aia, ha infatti certificato che la Russia ha distrutto il proprio arsenale di armi chimiche, agenti nervini compresi». L’Opcw non ha quindi trovato alcuna evidenza indicante che la Russia mantenga una capacità di “avvelenamento” da gas nervino, «mentre non si può dire lo stesso per Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele». A far da detonatore, dopo il successo russo in Siria, potrebbe anche esser stato il clamoroso annuncio del 1° marzo, nel quale Putin – presentando i nuovi missili atomici iper-sonici, come nuova frontiera della deterrenza (armi che annullerebbero l’arsenale nucleare Usa) – ha di fatto mutato, in modo clamoroso, l’aspetto militare dell’equilibrio geopolitico. Al punto che Donald Trump è giunto alla rimozione di Rex Tillerson. Nuovo segretario di Stato, il “falco” antirusso Mike Pompeo, che lascia la guida della Cia a Gina Haspel, accusata di aver introdotto l’uso sistematico della tortura (come il “waterboardig”) per i sospetti terroristi, inclusi quelli detenuti a Guantanamo in flagrante violazione dei diritti umani.
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Europa privatizzata: non teme la sinistra, ma la democrazia
Scritto il 15/3/18 • nella Categoria: idee Condividi
Non è possibile rimuovere il dato che il “popolo” «ritenga ormai la sinistra parte del problema e non della soluzione». Su “Contropiano”, che si definisce “giornale comunista online” e si è schierato con “Potere al Popolo”, Sergio Cararo ammette: il cosiddetto “popolo della sinistra”, «ormai residuo, residuale e limitato» (vedasi il pessimo risultato di “Liberi e Uguali”) «non è più sufficiente né credibile neanche per una dignitosa testimonianza istituzionale». Lo stesso “Potere al Popolo” «non è riuscito ad esprimersi fuori dal perimetro e dal linguaggio del popolo della sinistra». Per Gioele Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt, la parola “sinistra” non è di per sé sinonimo di progressismo, come non lo è l’ideologia comunista, «che di fatto finisce sempre per affidare il potere a un’oligarchia (di burocrati, in questo caso)». Magaldi si definisce liberale e socialista: storicamente, il liberalismo ha rappresentato la rottura del monopolio politico dell’élite economica, e il socialismo ha offerto il know-how per mettere in pratica una giustizia sociale che non lasci indietro nessuno. Il dramma, in questa Italia – dice Magaldi a “Colors Radio” – è che abbiamo cestinato le ideologie utili, per tenerci solo quella, ipocrita e subdola, del neoliberismo disonesto, devastatore e privatizzatore, in nome del quale la super-casta finanziaria ha occupato militarmente le istituzioni, nazionali ed europee.
«La statistica degli ultimi anni ci suggerisce che i mercati oggi sono sempre meno spaventati se un paese dell’area euro affronta un momento più o meno lungo di “non-governo”», scrive il “Sole 24 Ore” in un passo citato da Cararo su “Contropiano”. «È la prova che oggi i governi nazionali dell’area euro contano sempre meno», aggiunge il quotidiano di Confindustria. «Le regole dei trattati sovranazionali, sottoscritte attraverso cessioni parziali di sovranità, depotenziano – che piaccia o no – le iniziative “fuori dagli schemi” a livello nazionale». Per Cararo sono «parole pesanti come piombo, ma veritiere», che infatti «delineano uno scenario con cui fare inevitabilmente i conti». Sulla realtà dell’Italia post-elettorale, aggiunge Cararo, «incombono ipoteche già in scadenza come la manovra finanziaria aggiuntiva che l’Italia dovrà fare a primavera sulla base dei diktat dell’Unione Europea, poi c’è il Fiscal Compact da approvare entro l’anno, e poi ci sono i “mercati finanziari” che fino ad ora non sembrano molto preoccupati della instabilità politica in Italia, come non lo sono stati di quella post-elettorale in Belgio, Spagna, Germania». E questo, «nonostante siano stati sconfitti due partiti “di sistema” come Pd e Forza Italia e abbiano vinto due partiti percepiti – fino ad ora – come “antisistema e populisti”», vale a dire Movimento 5 Stelle e Lega.
Se hanno vinto grillini e leghisti, dice Cararo, è per via della «composizione sociale “spuria” delle classi subalterne nel nostro paese», strati sociali che «avevano bisogno di un nemico sulla base del quale darsi – in negativo – una identità». Il “nemico” della Lega sono i migranti, quello dei 5 Stelle la “casta” dei partiti corrotti. Alle urne c’era un’Italia esasperata, «ma la “sinistra” non le ha offerto nulla di alternativo». Il cosiddetto antifascismo di oggi, tornato in auge come bandiera da sventolate contro CasaPound, per Cararo «va declinato nella sua attualità». Ovvero: «Il nesso tra le politiche antipopolari connaturate all’Unione Europea e la società del rancore che vota per vendetta, era la contraddizione che andava colta e agita a tutto campo». E se l’Europa del rigore produce l’Italia del rancore, quella è la faglia lungo la quale – per Magaldi – occorre predisporre una risposta democratica ampia e popolare, che potrebbe chiamarsi Pdp, Partito Democratico Progressista. «Partito, innanzitutto, fatto di militanti e dirigenti democraticamente selezionati: perché di quello c’è bisogno, non di cartelli elettorali velleitari che si squagliano come neve al sole dopo aver raccolto lo zero-virgola, alle urne». Progressista, in quanto «liberale e socialista come Olof Palme, il premier svedese assassinato nel 1986 anche per intimidire la socialdemocrazia europea».
Al leader svedese, costruttore del miglior welfare europeo (nonché di una formula economica basata sulla partecipazione azionaria degli operai nelle aziende aiutate dallo Stato) il Movimento Roosevelt dedicherà un convegno, in primavera, a Milano. «Con Palme, probabilmente, questa Disunione Europea non sarebbe mai nata», sostiene Magaldi, che nel bestseller “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere) ha messo a nudo la natura supermassonica del vero potere, che all’inizio degli anni ‘80 – con il patto “United Freemansons for Globalization” – ha imposto questa mondializzazione brutale e senza diritti. Primo step, all’epoca: liquidare la sinistra socialista. Con il piombo, come nel caso di Palme, o con la comparsa dei post-socialisti come Clinton e Blair, pronti a smantellare diritti (precariato, flessibilità) e procurare profitti stellari all’élite finanziaria, tra deregulation per i capitali e turbo-privatizzazioni a favore degli “amici”. Magaldi non è catastrofista: riconosce ai 5 Stelle e alla Lega di aver sostenuto istanze democratiche sacrosante. Il problema? La mancanza di una sintesi, puntualmente palesata dalla paralisi post-voto. «Lasciamo perdere la parola “sinistra”», propone Magaldi, «e rispolveriamo ideologie utili: quella liberale, democratica, e quella socialista». Unica possibilità: «Costruire insieme una via d’uscita largamente popolare, condivisa, per trovare la forza di smontare le regole truccate di quest’Europa “matrigna” e privatizzata».
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Europa privatizzata: non teme la sinistra, ma la democrazia
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Non è possibile rimuovere il dato che il “popolo” «ritenga ormai la sinistra parte del problema e non della soluzione». Su “Contropiano”, che si definisce “giornale comunista online” e si è schierato con “Potere al Popolo”, Sergio Cararo ammette: il cosiddetto “popolo della sinistra”, «ormai residuo, residuale e limitato» (vedasi il pessimo risultato di “Liberi e Uguali”) «non è più sufficiente né credibile neanche per una dignitosa testimonianza istituzionale». Lo stesso “Potere al Popolo” «non è riuscito ad esprimersi fuori dal perimetro e dal linguaggio del popolo della sinistra». Per Gioele Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt, la parola “sinistra” non è di per sé sinonimo di progressismo, come non lo è l’ideologia comunista, «che di fatto finisce sempre per affidare il potere a un’oligarchia (di burocrati, in questo caso)». Magaldi si definisce liberale e socialista: storicamente, il liberalismo ha rappresentato la rottura del monopolio politico dell’élite economica, e il socialismo ha offerto il know-how per mettere in pratica una giustizia sociale che non lasci indietro nessuno. Il dramma, in questa Italia – dice Magaldi a “Colors Radio” – è che abbiamo cestinato le ideologie utili, per tenerci solo quella, ipocrita e subdola, del neoliberismo disonesto, devastatore e privatizzatore, in nome del quale la super-casta finanziaria ha occupato militarmente le istituzioni, nazionali ed europee.
«La statistica degli ultimi anni ci suggerisce che i mercati oggi sono sempre meno spaventati se un paese dell’area euro affronta un momento più o meno lungo di “non-governo”», scrive il “Sole 24 Ore” in un passo citato da Cararo su “Contropiano”. «È la prova che oggi i governi nazionali dell’area euro contano sempre meno», aggiunge il quotidiano di Confindustria. «Le regole dei trattati sovranazionali, sottoscritte attraverso cessioni parziali di sovranità, depotenziano – che piaccia o no – le iniziative “fuori dagli schemi” a livello nazionale». Per Cararo sono «parole pesanti come piombo, ma veritiere», che infatti «delineano uno scenario con cui fare inevitabilmente i conti». Sulla realtà dell’Italia post-elettorale, aggiunge Cararo, «incombono ipoteche già in scadenza come la manovra finanziaria aggiuntiva che l’Italia dovrà fare a primavera sulla base dei diktat dell’Unione Europea, poi c’è il Fiscal Compact da approvare entro l’anno, e poi ci sono i “mercati finanziari” che fino ad ora non sembrano molto preoccupati della instabilità politica in Italia, come non lo sono stati di quella post-elettorale in Belgio, Spagna, Germania». E questo, «nonostante siano stati sconfitti due partiti “di sistema” come Pd e Forza Italia e abbiano vinto due partiti percepiti – fino ad ora – come “antisistema e populisti”», vale a dire Movimento 5 Stelle e Lega.
Se hanno vinto grillini e leghisti, dice Cararo, è per via della «composizione sociale “spuria” delle classi subalterne nel nostro paese», strati sociali che «avevano bisogno di un nemico sulla base del quale darsi – in negativo – una identità». Il “nemico” della Lega sono i migranti, quello dei 5 Stelle la “casta” dei partiti corrotti. Alle urne c’era un’Italia esasperata, «ma la “sinistra” non le ha offerto nulla di alternativo». Il cosiddetto antifascismo di oggi, tornato in auge come bandiera da sventolate contro CasaPound, per Cararo «va declinato nella sua attualità». Ovvero: «Il nesso tra le politiche antipopolari connaturate all’Unione Europea e la società del rancore che vota per vendetta, era la contraddizione che andava colta e agita a tutto campo». E se l’Europa del rigore produce l’Italia del rancore, quella è la faglia lungo la quale – per Magaldi – occorre predisporre una risposta democratica ampia e popolare, che potrebbe chiamarsi Pdp, Partito Democratico Progressista. «Partito, innanzitutto, fatto di militanti e dirigenti democraticamente selezionati: perché di quello c’è bisogno, non di cartelli elettorali velleitari che si squagliano come neve al sole dopo aver raccolto lo zero-virgola, alle urne». Progressista, in quanto «liberale e socialista come Olof Palme, il premier svedese assassinato nel 1986 anche per intimidire la socialdemocrazia europea».
Al leader svedese, costruttore del miglior welfare europeo (nonché di una formula economica basata sulla partecipazione azionaria degli operai nelle aziende aiutate dallo Stato) il Movimento Roosevelt dedicherà un convegno, in primavera, a Milano. «Con Palme, probabilmente, questa Disunione Europea non sarebbe mai nata», sostiene Magaldi, che nel bestseller “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere) ha messo a nudo la natura supermassonica del vero potere, che all’inizio degli anni ‘80 – con il patto “United Freemansons for Globalization” – ha imposto questa mondializzazione brutale e senza diritti. Primo step, all’epoca: liquidare la sinistra socialista. Con il piombo, come nel caso di Palme, o con la comparsa dei post-socialisti come Clinton e Blair, pronti a smantellare diritti (precariato, flessibilità) e procurare profitti stellari all’élite finanziaria, tra deregulation per i capitali e turbo-privatizzazioni a favore degli “amici”. Magaldi non è catastrofista: riconosce ai 5 Stelle e alla Lega di aver sostenuto istanze democratiche sacrosante. Il problema? La mancanza di una sintesi, puntualmente palesata dalla paralisi post-voto. «Lasciamo perdere la parola “sinistra”», propone Magaldi, «e rispolveriamo ideologie utili: quella liberale, democratica, e quella socialista». Unica possibilità: «Costruire insieme una via d’uscita largamente popolare, condivisa, per trovare la forza di smontare le regole truccate di quest’Europa “matrigna” e privatizzata».
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Accordi segreti: paghiamo tasse evase dalle multinazionali
Scritto il 22/3/18 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
Mille miliardi di euro, tra evasione fiscale ed elusione: le multinazionali pagano molto meno degli altri, e così agli Stati tocca tirare la cinghia e metter mano a dolorosi tagli. Secondo “Business Insider”, sono addirittura 2.053 gli accordi segreti tra governi Ue e multinazionali per non pagare le tasse: un giochetto che all’Italia costa 10 miliardi all’anno. «Alla fine del 2016, tra le note del Def – scrive il newsmagazine – il ministero dell’economia aveva calcolato che solo all’Italia mancano almeno 31 miliardi di base imponibile. Tradotto, con un tassazione media per le imprese del 30% mancano 10 miliardi di gettito fiscale: lo 0,6% del Pil. Una cifra sufficiente a finanziare buona parte del reddito di cittadinanza del Movimento 5 Stelle o a evitare l’aumento dell’Iva l’anno prossimo». Nel 2013, aggiunge “Business Insider”, l’economista britannico di “Tax Research”, Richard Murphy, aveva calcolato che l’evasione fiscale all’interno del vecchio continente ammonta a circa 850 miliardi, mentre l’elusione vale altri 150 miliardi di euro. E il trend è in ascesa: «Tre anni dopo lo scandalo LuxLeaks che mise a nudo i rapporti fiscali segreti tra governi e colossi industriali, il numero di accordi in essere continua ad aumentare: secondo l’ultimo rapporto della Commissione Europea sono cresciuti dai 1.252 del 2015 ai 2.053 del 2016».
A nulla è servita la maxi-multa comminata all’Irlanda per aver favorito Apple. L’Unione Europea interviene solo a cose fatte, «quando le intese fiscali segrete si rivelano aiuti di Stato tali da condizionare la libera concorrenza». Contro gli abusi si agita il Parlamento Europeo, che però non ha potere. «Anche perché le grandi multinazionali hanno schierato l’artiglieria pesante: con il trucco degli accordi fiscali riescono a strappare condizioni da paradisi fiscali nel cuore del vecchio continente». Con i “tax ruling”, aggiunge “Business Insider”, le multinazionali possono concordare il trattamento fiscale che potrebbe essere loro riservato per un periodo di tempo predeterminato; ma in realtà il “tax ruling” è lo strumento che permette alle corporations di ridurre drasticamente il proprio carico fiscale globale. «Dal punto di vista formale, lo schema è sempre lo stesso: le grandi multinazionali promettono investimenti e occupazione in cambio di tassazioni agevolate, poi una volta stabilitesi spostano i profitti da una controllata all’altra per ridurre al minimo le imposte. Un meccanismo utilizzato già da Apple, Fiat, Amazon, Google, Starbucks e anche McDonald’s». In Italia gli accordi segreti sono 78, e l’“Espresso” ha rivelato che tre di questi riguardano Michelin, Microsoft e Philip Morris.
Sono proprio questi accordi, spiega “Business Insider”, ad aver fatto del Lussemburgo lo snodo centrale della finanza europea: «Molte imprese versano al Granducato un’aliquota effettiva inferiore all’1% degli utili dichiarati». L’Ue è intervenuta in modo tardivo e sporadico. «I cittadini-contribuenti e altri attori economici, come le piccole e medie imprese, avrebbero tutto il diritto di conoscere e giudicare i trattamenti fiscali che le autorità nazionali riservano alle grandi corporation», sostiene Mikhail Maslennikov, “policy advisor” di Oxfam Italia per la giustizia fiscale. «Sempre più spesso – aggiunge – i “ruling” segreti dei paesi Ue si rivelano come un tassello fondamentale per la pianificazione fiscale aggressiva delle multinazionali, facilitandone il “profit-shifting” verso giurisdizioni dal fisco amico e garantendo un trattamento fiscale ad hoc ai grandi colossi, che vedono ridursi considerevolmente le proprie aliquote effettive». I “ruling” segreti pongono seri interrogativi sul fairplay fiscale anche per Tove Maria Ryding, coordinatore del team di giustizia fiscale del network europeo “Eurodad”: «Le decisioni confidenziali assunte da un paese hanno impatti sulla contribuzione fiscale in tanti altri paesi», dice Ryding. «E spesso si tratta dei paesi più poveri e dei contesti più vulnerabili al mondo». O magari paesi come l’Italia, stritolati da una tassazione record.
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Accordi segreti: paghiamo tasse evase dalle multinazionali
Scritto il 22/3/18 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
Mille miliardi di euro, tra evasione fiscale ed elusione: le multinazionali pagano molto meno degli altri, e così agli Stati tocca tirare la cinghia e metter mano a dolorosi tagli. Secondo “Business Insider”, sono addirittura 2.053 gli accordi segreti tra governi Ue e multinazionali per non pagare le tasse: un giochetto che all’Italia costa 10 miliardi all’anno. «Alla fine del 2016, tra le note del Def – scrive il newsmagazine – il ministero dell’economia aveva calcolato che solo all’Italia mancano almeno 31 miliardi di base imponibile. Tradotto, con un tassazione media per le imprese del 30% mancano 10 miliardi di gettito fiscale: lo 0,6% del Pil. Una cifra sufficiente a finanziare buona parte del reddito di cittadinanza del Movimento 5 Stelle o a evitare l’aumento dell’Iva l’anno prossimo». Nel 2013, aggiunge “Business Insider”, l’economista britannico di “Tax Research”, Richard Murphy, aveva calcolato che l’evasione fiscale all’interno del vecchio continente ammonta a circa 850 miliardi, mentre l’elusione vale altri 150 miliardi di euro. E il trend è in ascesa: «Tre anni dopo lo scandalo LuxLeaks che mise a nudo i rapporti fiscali segreti tra governi e colossi industriali, il numero di accordi in essere continua ad aumentare: secondo l’ultimo rapporto della Commissione Europea sono cresciuti dai 1.252 del 2015 ai 2.053 del 2016».
A nulla è servita la maxi-multa comminata all’Irlanda per aver favorito Apple. L’Unione Europea interviene solo a cose fatte, «quando le intese fiscali segrete si rivelano aiuti di Stato tali da condizionare la libera concorrenza». Contro gli abusi si agita il Parlamento Europeo, che però non ha potere. «Anche perché le grandi multinazionali hanno schierato l’artiglieria pesante: con il trucco degli accordi fiscali riescono a strappare condizioni da paradisi fiscali nel cuore del vecchio continente». Con i “tax ruling”, aggiunge “Business Insider”, le multinazionali possono concordare il trattamento fiscale che potrebbe essere loro riservato per un periodo di tempo predeterminato; ma in realtà il “tax ruling” è lo strumento che permette alle corporations di ridurre drasticamente il proprio carico fiscale globale. «Dal punto di vista formale, lo schema è sempre lo stesso: le grandi multinazionali promettono investimenti e occupazione in cambio di tassazioni agevolate, poi una volta stabilitesi spostano i profitti da una controllata all’altra per ridurre al minimo le imposte. Un meccanismo utilizzato già da Apple, Fiat, Amazon, Google, Starbucks e anche McDonald’s». In Italia gli accordi segreti sono 78, e l’“Espresso” ha rivelato che tre di questi riguardano Michelin, Microsoft e Philip Morris.
Sono proprio questi accordi, spiega “Business Insider”, ad aver fatto del Lussemburgo lo snodo centrale della finanza europea: «Molte imprese versano al Granducato un’aliquota effettiva inferiore all’1% degli utili dichiarati». L’Ue è intervenuta in modo tardivo e sporadico. «I cittadini-contribuenti e altri attori economici, come le piccole e medie imprese, avrebbero tutto il diritto di conoscere e giudicare i trattamenti fiscali che le autorità nazionali riservano alle grandi corporation», sostiene Mikhail Maslennikov, “policy advisor” di Oxfam Italia per la giustizia fiscale. «Sempre più spesso – aggiunge – i “ruling” segreti dei paesi Ue si rivelano come un tassello fondamentale per la pianificazione fiscale aggressiva delle multinazionali, facilitandone il “profit-shifting” verso giurisdizioni dal fisco amico e garantendo un trattamento fiscale ad hoc ai grandi colossi, che vedono ridursi considerevolmente le proprie aliquote effettive». I “ruling” segreti pongono seri interrogativi sul fairplay fiscale anche per Tove Maria Ryding, coordinatore del team di giustizia fiscale del network europeo “Eurodad”: «Le decisioni confidenziali assunte da un paese hanno impatti sulla contribuzione fiscale in tanti altri paesi», dice Ryding. «E spesso si tratta dei paesi più poveri e dei contesti più vulnerabili al mondo». O magari paesi come l’Italia, stritolati da una tassazione record.
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Re: News dal mondo
Intervista
Sì, i nostri smartphone sono fatti sfruttando gli schiavi bambini
Migliaia di piccoli schiacciati in cunicoli per estrarre i materiali che servono ai nostri prodotti hi-tech. La denuncia dell'economista Leonardo Becchetti
di Francesca Sironi
21 marzo 2018
Sì, i nostri smartphone sono fatti sfruttando gli schiavi bambini
Schiavi. Come non chiamare schiavi gli uomini e i bambini che ogni giorno estraggono schiacciati in cunicoli il cobalto per le nostre batterie, la casserite o il coltano per i nostri cellulari e le auto elettriche “green”? Sono schiavi, pedine di un sistema «orientato solo su due grandi obiettivi, il benessere del consumatore e il profitto dell’impresa». Un sistema che va costretto a cambiare. Leonardo Becchetti è ordinario di Economia politica all’università Tor Vergata di Roma ed è uno dei più convinti sostenitori della possibilità di modificarlo, quest’equilibrio distorto che promette futuro a una parte di mondo tenendone un’altra in catene. A latere di un incontro promosso da Pime, Mani Tese e Caritas contro il lavoro forzato, ha parlato con L’Espresso di “economia della schiavitù” e delle possibili strade per non accettare come inevitabile la sospensione dei diritti altrui per beneficio proprio. Rimettendo al centro le responsabilità delle aziende, dell’Europa. E dei consumatori.
Professore, le condizioni con cui vengono estratti i materiali che servono ai prodotti hi-tech ci ricordano come la schiavitù sia tutt’altro che abolita. Al massimo, esternalizzata.
«Fa parte delle conseguenze di un sistema produttivo volto a ridurre i costi il più possibile, senza limite verso il basso. Compreso quanto riguarda il costo del lavoro. Coloro che estraggono metalli preziosi sono un esercito di riserva, come lo definiva Marx: mano d’opera facilmente sostituibile. Dove si annida più facilmente lo sfruttamento. Anche perché le rivendicazioni sindacali non riescono a far leva, visto che la produzione può trovare nuove braccia o spostarsi. E non accade solo in Africa: basti pensare alla bracciante morta per sfinimento in Italia».
Come dire basta?
«Il cambiamento deve avvenire su tre assi. Il voto con il portafoglio, gli appalti di Stato, le politiche fiscali».
Politiche fiscali?
«Mi riferisco alla possibilità di introdurre dei dazi anti-dumping. Non i dazi sostenuti da Trump. Parliamo di meccanismi fiscali orientati a penalizzare le filiere produttive che non rispettano standard sociali e ambientali dignitosi. È la differenza fra un cannone e un bisturi. La politica di Trump è un cannone: risolve il problema della concorrenza sleale rappresentata in chiave nazionalistica. A questa politica di destra esiste una risposta di sinistra».
Leonardo Becchetti Leonardo Becchetti
Di sinistra?
«Sì, ovvero orientata al rispetto della dignità della persona, ovunque questa si trovi. Non solo nel proprio paese. Parliamo allora piuttosto di regole contro il dumping socio-ambientale che premino le aziende che trattano bene il lavoro, e tassino di più coloro che non rispettano le persone e l’ambiente. D’altronde, ci sono prodotti dello sfruttamento anche in Italia».
È una soluzione praticabile?
«È possibile, ed è la strada più importante. Certo, decidere dove stia il “sopra” e il “sotto” la dignità del lavoro in Bangladesh non è facile come stabilire di porre l’Iva al 4 per un motore elettrico, ma oggi la tecnologia ci permette controlli e informazioni prima impensabili. Abbiamo molte più informazioni, perché non usarle anche per questo? Significherebbe più trasparenza sui fornitori, non solo quelli diretti. E quindi più attenzione. Già con le campagne nate dai movimenti No-Global sulle multinazionali molti passi avanti sono stati fatti. E qui arriviamo anche ai consumatori».
Il “consumo responsabile”... non ha fatto il suo tempo?
«No. Sta cambiando anche questo. Il successo dei diamanti liberi da sfruttamento può restare assai limitato, certo, se questi devono essere pagati molto di più, e rimangono quindi elitari. Ma oggi ci sono molte altre risposte. Penso ad esempio a come si stanno muovendo grandi gestori di fondi come Blackrock, prendendo spunto da pratiche che Banca Etica mette in campo da vent’anni. Votando con il portafoglio. Attraverso consapevolezza, informazione, coordinamento e convenienza. Oggi, ad esempio, essere ambientalmente sostenibili è economicamente efficace, e va di moda. Anche in Borsa».
Prima l’ambiente, dopo il lavoro?
«Sull’ambiente la velocità della trasformazione è stata più rapida, è vero. Ora bisogna insistere sull’aspetto sociale».
Poi ci sono gli Stati diceva.
«Che devono iniziare a prevedere queste garanzie socio-ambientali in tutti i loro appalti, superando la logica del solo massimo ribasso».
E che devono avere il coraggio di contrastare lo sfruttamento, no?
«Certo. Ma la legge da sola non basta a mettere in condizioni le aziende di farsi concorrenza in modo sano. Anzi, in un mondo globalizzato, a volte rischiano di cancellare le possibilità di competere alla pari. È per questo che è importante che iniziative come quelle dei dazi anti-dumping sociale siano prese sul piano europeo».
Non abbiamo parlato dei lavoratori .
«Anche loro in questi casi sotto scacco per la facilità nel trovare nuove braccia o spostare la produzione. Ma non tutte le attività sono delocalizzabili. Le miniere, ad esempio, hanno un potere in questo senso. Come lo ha, dall’altro capo della filiera, la logistica». Un nuovo inizio?
Tag
schiavi
digitale
sfruttamento
sfruttamento
Sì, i nostri smartphone sono fatti sfruttando gli schiavi bambini
Migliaia di piccoli schiacciati in cunicoli per estrarre i materiali che servono ai nostri prodotti hi-tech. La denuncia dell'economista Leonardo Becchetti
di Francesca Sironi
21 marzo 2018
Sì, i nostri smartphone sono fatti sfruttando gli schiavi bambini
Schiavi. Come non chiamare schiavi gli uomini e i bambini che ogni giorno estraggono schiacciati in cunicoli il cobalto per le nostre batterie, la casserite o il coltano per i nostri cellulari e le auto elettriche “green”? Sono schiavi, pedine di un sistema «orientato solo su due grandi obiettivi, il benessere del consumatore e il profitto dell’impresa». Un sistema che va costretto a cambiare. Leonardo Becchetti è ordinario di Economia politica all’università Tor Vergata di Roma ed è uno dei più convinti sostenitori della possibilità di modificarlo, quest’equilibrio distorto che promette futuro a una parte di mondo tenendone un’altra in catene. A latere di un incontro promosso da Pime, Mani Tese e Caritas contro il lavoro forzato, ha parlato con L’Espresso di “economia della schiavitù” e delle possibili strade per non accettare come inevitabile la sospensione dei diritti altrui per beneficio proprio. Rimettendo al centro le responsabilità delle aziende, dell’Europa. E dei consumatori.
Professore, le condizioni con cui vengono estratti i materiali che servono ai prodotti hi-tech ci ricordano come la schiavitù sia tutt’altro che abolita. Al massimo, esternalizzata.
«Fa parte delle conseguenze di un sistema produttivo volto a ridurre i costi il più possibile, senza limite verso il basso. Compreso quanto riguarda il costo del lavoro. Coloro che estraggono metalli preziosi sono un esercito di riserva, come lo definiva Marx: mano d’opera facilmente sostituibile. Dove si annida più facilmente lo sfruttamento. Anche perché le rivendicazioni sindacali non riescono a far leva, visto che la produzione può trovare nuove braccia o spostarsi. E non accade solo in Africa: basti pensare alla bracciante morta per sfinimento in Italia».
Come dire basta?
«Il cambiamento deve avvenire su tre assi. Il voto con il portafoglio, gli appalti di Stato, le politiche fiscali».
Politiche fiscali?
«Mi riferisco alla possibilità di introdurre dei dazi anti-dumping. Non i dazi sostenuti da Trump. Parliamo di meccanismi fiscali orientati a penalizzare le filiere produttive che non rispettano standard sociali e ambientali dignitosi. È la differenza fra un cannone e un bisturi. La politica di Trump è un cannone: risolve il problema della concorrenza sleale rappresentata in chiave nazionalistica. A questa politica di destra esiste una risposta di sinistra».
Leonardo Becchetti Leonardo Becchetti
Di sinistra?
«Sì, ovvero orientata al rispetto della dignità della persona, ovunque questa si trovi. Non solo nel proprio paese. Parliamo allora piuttosto di regole contro il dumping socio-ambientale che premino le aziende che trattano bene il lavoro, e tassino di più coloro che non rispettano le persone e l’ambiente. D’altronde, ci sono prodotti dello sfruttamento anche in Italia».
È una soluzione praticabile?
«È possibile, ed è la strada più importante. Certo, decidere dove stia il “sopra” e il “sotto” la dignità del lavoro in Bangladesh non è facile come stabilire di porre l’Iva al 4 per un motore elettrico, ma oggi la tecnologia ci permette controlli e informazioni prima impensabili. Abbiamo molte più informazioni, perché non usarle anche per questo? Significherebbe più trasparenza sui fornitori, non solo quelli diretti. E quindi più attenzione. Già con le campagne nate dai movimenti No-Global sulle multinazionali molti passi avanti sono stati fatti. E qui arriviamo anche ai consumatori».
Il “consumo responsabile”... non ha fatto il suo tempo?
«No. Sta cambiando anche questo. Il successo dei diamanti liberi da sfruttamento può restare assai limitato, certo, se questi devono essere pagati molto di più, e rimangono quindi elitari. Ma oggi ci sono molte altre risposte. Penso ad esempio a come si stanno muovendo grandi gestori di fondi come Blackrock, prendendo spunto da pratiche che Banca Etica mette in campo da vent’anni. Votando con il portafoglio. Attraverso consapevolezza, informazione, coordinamento e convenienza. Oggi, ad esempio, essere ambientalmente sostenibili è economicamente efficace, e va di moda. Anche in Borsa».
Prima l’ambiente, dopo il lavoro?
«Sull’ambiente la velocità della trasformazione è stata più rapida, è vero. Ora bisogna insistere sull’aspetto sociale».
Poi ci sono gli Stati diceva.
«Che devono iniziare a prevedere queste garanzie socio-ambientali in tutti i loro appalti, superando la logica del solo massimo ribasso».
E che devono avere il coraggio di contrastare lo sfruttamento, no?
«Certo. Ma la legge da sola non basta a mettere in condizioni le aziende di farsi concorrenza in modo sano. Anzi, in un mondo globalizzato, a volte rischiano di cancellare le possibilità di competere alla pari. È per questo che è importante che iniziative come quelle dei dazi anti-dumping sociale siano prese sul piano europeo».
Non abbiamo parlato dei lavoratori .
«Anche loro in questi casi sotto scacco per la facilità nel trovare nuove braccia o spostare la produzione. Ma non tutte le attività sono delocalizzabili. Le miniere, ad esempio, hanno un potere in questo senso. Come lo ha, dall’altro capo della filiera, la logistica». Un nuovo inizio?
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Re: News dal mondo
Che si può dire su tutto questo Zione? Non è una novità questa come non è una novità quella di come vengono gestiti i social. Meravigliarsi che FB e Co ci spiasse e che potesse servirsi della ns privacy e' un po da stolti, non ti pare. I cambiamenti come le rivoluzioni pd evoco sempre passare prima nel ns interno e poi casomai lamentarciUncleTom ha scritto:Intervista
Sì, i nostri smartphone sono fatti sfruttando gli schiavi bambini
Migliaia di piccoli schiacciati in cunicoli per estrarre i materiali che servono ai nostri prodotti hi-tech. La denuncia dell'economista Leonardo Becchetti
di Francesca Sironi
21 marzo 2018
Sì, i nostri smartphone sono fatti sfruttando gli schiavi bambini
Schiavi. Come non chiamare schiavi gli uomini e i bambini che ogni giorno estraggono schiacciati in cunicoli il cobalto per le nostre batterie, la casserite o il coltano per i nostri cellulari e le auto elettriche “green”? Sono schiavi, pedine di un sistema «orientato solo su due grandi obiettivi, il benessere del consumatore e il profitto dell’impresa». Un sistema che va costretto a cambiare. Leonardo Becchetti è ordinario di Economia politica all’università Tor Vergata di Roma ed è uno dei più convinti sostenitori della possibilità di modificarlo, quest’equilibrio distorto che promette futuro a una parte di mondo tenendone un’altra in catene. A latere di un incontro promosso da Pime, Mani Tese e Caritas contro il lavoro forzato, ha parlato con L’Espresso di “economia della schiavitù” e delle possibili strade per non accettare come inevitabile la sospensione dei diritti altrui per beneficio proprio. Rimettendo al centro le responsabilità delle aziende, dell’Europa. E dei consumatori.
Professore, le condizioni con cui vengono estratti i materiali che servono ai prodotti hi-tech ci ricordano come la schiavitù sia tutt’altro che abolita. Al massimo, esternalizzata.
«Fa parte delle conseguenze di un sistema produttivo volto a ridurre i costi il più possibile, senza limite verso il basso. Compreso quanto riguarda il costo del lavoro. Coloro che estraggono metalli preziosi sono un esercito di riserva, come lo definiva Marx: mano d’opera facilmente sostituibile. Dove si annida più facilmente lo sfruttamento. Anche perché le rivendicazioni sindacali non riescono a far leva, visto che la produzione può trovare nuove braccia o spostarsi. E non accade solo in Africa: basti pensare alla bracciante morta per sfinimento in Italia».
Come dire basta?
«Il cambiamento deve avvenire su tre assi. Il voto con il portafoglio, gli appalti di Stato, le politiche fiscali».
Politiche fiscali?
«Mi riferisco alla possibilità di introdurre dei dazi anti-dumping. Non i dazi sostenuti da Trump. Parliamo di meccanismi fiscali orientati a penalizzare le filiere produttive che non rispettano standard sociali e ambientali dignitosi. È la differenza fra un cannone e un bisturi. La politica di Trump è un cannone: risolve il problema della concorrenza sleale rappresentata in chiave nazionalistica. A questa politica di destra esiste una risposta di sinistra».
Leonardo Becchetti Leonardo Becchetti
Di sinistra?
«Sì, ovvero orientata al rispetto della dignità della persona, ovunque questa si trovi. Non solo nel proprio paese. Parliamo allora piuttosto di regole contro il dumping socio-ambientale che premino le aziende che trattano bene il lavoro, e tassino di più coloro che non rispettano le persone e l’ambiente. D’altronde, ci sono prodotti dello sfruttamento anche in Italia».
È una soluzione praticabile?
«È possibile, ed è la strada più importante. Certo, decidere dove stia il “sopra” e il “sotto” la dignità del lavoro in Bangladesh non è facile come stabilire di porre l’Iva al 4 per un motore elettrico, ma oggi la tecnologia ci permette controlli e informazioni prima impensabili. Abbiamo molte più informazioni, perché non usarle anche per questo? Significherebbe più trasparenza sui fornitori, non solo quelli diretti. E quindi più attenzione. Già con le campagne nate dai movimenti No-Global sulle multinazionali molti passi avanti sono stati fatti. E qui arriviamo anche ai consumatori».
Il “consumo responsabile”... non ha fatto il suo tempo?
«No. Sta cambiando anche questo. Il successo dei diamanti liberi da sfruttamento può restare assai limitato, certo, se questi devono essere pagati molto di più, e rimangono quindi elitari. Ma oggi ci sono molte altre risposte. Penso ad esempio a come si stanno muovendo grandi gestori di fondi come Blackrock, prendendo spunto da pratiche che Banca Etica mette in campo da vent’anni. Votando con il portafoglio. Attraverso consapevolezza, informazione, coordinamento e convenienza. Oggi, ad esempio, essere ambientalmente sostenibili è economicamente efficace, e va di moda. Anche in Borsa».
Prima l’ambiente, dopo il lavoro?
«Sull’ambiente la velocità della trasformazione è stata più rapida, è vero. Ora bisogna insistere sull’aspetto sociale».
Poi ci sono gli Stati diceva.
«Che devono iniziare a prevedere queste garanzie socio-ambientali in tutti i loro appalti, superando la logica del solo massimo ribasso».
E che devono avere il coraggio di contrastare lo sfruttamento, no?
«Certo. Ma la legge da sola non basta a mettere in condizioni le aziende di farsi concorrenza in modo sano. Anzi, in un mondo globalizzato, a volte rischiano di cancellare le possibilità di competere alla pari. È per questo che è importante che iniziative come quelle dei dazi anti-dumping sociale siano prese sul piano europeo».
Non abbiamo parlato dei lavoratori .
«Anche loro in questi casi sotto scacco per la facilità nel trovare nuove braccia o spostare la produzione. Ma non tutte le attività sono delocalizzabili. Le miniere, ad esempio, hanno un potere in questo senso. Come lo ha, dall’altro capo della filiera, la logistica». Un nuovo inizio?
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Cercando l'impossibile, l'uomo ha sempre realizzato e conosciuto il possibile, e coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che sembrava possibile non sono mai avanzati di un sol passo.(M.A.Bakunin)
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Re: News dal mondo
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Giovani in fuga da Facebook, al riparo dai genitori guardoni
Scritto il 25/3/18 • nella Categoria: idee
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Siccome voglio fare l’influenzzzzer, anzi il guru, anzi il playboy, mi sono iscritto a Instagram! Sì, proprio il social che va per la maggiore tra i “ciòfani” e che agevola le pratiche onanistiche anche delle persone più anziane. «Non posso non esserci», mi sono detto. Anche se Instagram mi sembra più una Bibbia mediatica per segaioli impenitenti, così come all’inizio non mi piaceva Facebook, mi farò andare bene anche Instagram. Non possiamo sottrarci alle novità tecnologiche, fare i luddisti e spaccare le macchine con la clava. Non possiamo tirarci fuori. Ebbene, frequentando il “nuovo” social, mi sono subito accorto di una cosa: tutti i ragazzi che fino a 5 anni fa erano su Facebook, ora sono su Instagram e “fanno finta” di essere ancora presenti nel vecchio social. I loro profili Fb sono morti come Emma Bonino dopo le elezioni del 4 marzo. I loro ultimi commenti risalgono alla terza guerra punica. Su Instagram, invece, pullulano le stories (minchiate galattiche ove fano vedere video di 4 secondi dove fanno versi) e foto ritoccate all’inverosimile che farebbero sembrare figa anche Rosy Bindi. Eppure, diciamocelo chiaro: Instagram non arriva neanche ai garretti di Facebook.
In Facebook si possono fare tutte le cose di Instagram e molte di più. Su Fb puoi mettere video e musica, mentre su Instagram hai pochi secondi di sintesi che ti lasciano più insoddisfatto di Donald Trump al cospetto di Putin. Su Fb puoi fare dialoghi così lunghi e articolati che metterebbero in imbarazzo Platone. Su Fb veicoli immagini di tutte le dimensioni, mentre su Instagram occorre accontentarsi dei miseri pixel offerti dagli smartphone, con relativi ritagli. Insomma, non ha alcun senso usare Instagram, bastava che Zuckerberg si adoperasse un attimo per ottimizzare meglio Fb ai telefonini 2.0 e il gioco era fatto. Invece, l’informatico di Harvard ha preferito comprarsi tutto il pacchetto di Instagram. Aveva forse intuito che i “ciòfani” sarebbero transitati in massa sul nuovo social? E comunque, perchè lo fanno? Il motivo me l’han fatto capire mia figlia dodicenne e una studentessa, che alzano il sopracciglio ad ogni mio post con aria compassionevole. E proprio mi sorprendo di non averlo capito prima. Fuggono da noi! Fuggono dagli “adulti” e dalla loro smania di sembrare giovani. Fuggono dai discorsi politici e dalle polemiche infinite dei thread. Fuggono da adulti guardoni, sempre fuori sincrono e impacciati con le nuove tecnologie, anche se fingono di saperla lunga. Fuggono dal controllo.
La grande fuga è iniziata già da qualche tempo, ma nel 2018 è destinata ad aumentare in modo clamoroso. Le ragioni dunque sono social-familiari. La prima è che su Fb, o anche su Twitter, ci sono tanti genitori che “spiano”. In questi ultimi mesi, e proprio come ha fatto il sottoscritto senza averci pensato, gli adulti stanno arrivando anche su Instagram e i ragazzi non a caso hanno aperto anche dei nuovi profili Snapchat (un social ancora più “evanescente” di Instagram). Non mi stupirei affatto se, continuando così, le nuove generazioni transitassero armi e bagagli nel Deep Web, l’Internet oscuro e demoniaco dove trovi anche i kalashnikov in vendita e dove preti e puttanieri si scambiano i ruoli. La verità è che i ragazzi fanno benissimo e che noi adulti dobbiamo piantarla. Siamo decisamente più ridicoli e patetici dei nostri vecchi quando facevano la loro comparsata in discoteca alle undici di sera fingendo di bersi un bicchiere al bar. Dobbiamo invecchiare, farci crescere la barba, andare a caccia, comprarci l’Ape, fare la legna e toglierci dalle palle. Però comincate voi che mi leggete; io infatti orami sono un influenzzzer, guru, blogger e tutto il repertorio.
(Massimo Bordin, “Fuga da Facebook”, dal blog “Micidial” del 12 marzo 2018).
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Giovani in fuga da Facebook, al riparo dai genitori guardoni
Scritto il 25/3/18 • nella Categoria: idee
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Siccome voglio fare l’influenzzzzer, anzi il guru, anzi il playboy, mi sono iscritto a Instagram! Sì, proprio il social che va per la maggiore tra i “ciòfani” e che agevola le pratiche onanistiche anche delle persone più anziane. «Non posso non esserci», mi sono detto. Anche se Instagram mi sembra più una Bibbia mediatica per segaioli impenitenti, così come all’inizio non mi piaceva Facebook, mi farò andare bene anche Instagram. Non possiamo sottrarci alle novità tecnologiche, fare i luddisti e spaccare le macchine con la clava. Non possiamo tirarci fuori. Ebbene, frequentando il “nuovo” social, mi sono subito accorto di una cosa: tutti i ragazzi che fino a 5 anni fa erano su Facebook, ora sono su Instagram e “fanno finta” di essere ancora presenti nel vecchio social. I loro profili Fb sono morti come Emma Bonino dopo le elezioni del 4 marzo. I loro ultimi commenti risalgono alla terza guerra punica. Su Instagram, invece, pullulano le stories (minchiate galattiche ove fano vedere video di 4 secondi dove fanno versi) e foto ritoccate all’inverosimile che farebbero sembrare figa anche Rosy Bindi. Eppure, diciamocelo chiaro: Instagram non arriva neanche ai garretti di Facebook.
In Facebook si possono fare tutte le cose di Instagram e molte di più. Su Fb puoi mettere video e musica, mentre su Instagram hai pochi secondi di sintesi che ti lasciano più insoddisfatto di Donald Trump al cospetto di Putin. Su Fb puoi fare dialoghi così lunghi e articolati che metterebbero in imbarazzo Platone. Su Fb veicoli immagini di tutte le dimensioni, mentre su Instagram occorre accontentarsi dei miseri pixel offerti dagli smartphone, con relativi ritagli. Insomma, non ha alcun senso usare Instagram, bastava che Zuckerberg si adoperasse un attimo per ottimizzare meglio Fb ai telefonini 2.0 e il gioco era fatto. Invece, l’informatico di Harvard ha preferito comprarsi tutto il pacchetto di Instagram. Aveva forse intuito che i “ciòfani” sarebbero transitati in massa sul nuovo social? E comunque, perchè lo fanno? Il motivo me l’han fatto capire mia figlia dodicenne e una studentessa, che alzano il sopracciglio ad ogni mio post con aria compassionevole. E proprio mi sorprendo di non averlo capito prima. Fuggono da noi! Fuggono dagli “adulti” e dalla loro smania di sembrare giovani. Fuggono dai discorsi politici e dalle polemiche infinite dei thread. Fuggono da adulti guardoni, sempre fuori sincrono e impacciati con le nuove tecnologie, anche se fingono di saperla lunga. Fuggono dal controllo.
La grande fuga è iniziata già da qualche tempo, ma nel 2018 è destinata ad aumentare in modo clamoroso. Le ragioni dunque sono social-familiari. La prima è che su Fb, o anche su Twitter, ci sono tanti genitori che “spiano”. In questi ultimi mesi, e proprio come ha fatto il sottoscritto senza averci pensato, gli adulti stanno arrivando anche su Instagram e i ragazzi non a caso hanno aperto anche dei nuovi profili Snapchat (un social ancora più “evanescente” di Instagram). Non mi stupirei affatto se, continuando così, le nuove generazioni transitassero armi e bagagli nel Deep Web, l’Internet oscuro e demoniaco dove trovi anche i kalashnikov in vendita e dove preti e puttanieri si scambiano i ruoli. La verità è che i ragazzi fanno benissimo e che noi adulti dobbiamo piantarla. Siamo decisamente più ridicoli e patetici dei nostri vecchi quando facevano la loro comparsata in discoteca alle undici di sera fingendo di bersi un bicchiere al bar. Dobbiamo invecchiare, farci crescere la barba, andare a caccia, comprarci l’Ape, fare la legna e toglierci dalle palle. Però comincate voi che mi leggete; io infatti orami sono un influenzzzer, guru, blogger e tutto il repertorio.
(Massimo Bordin, “Fuga da Facebook”, dal blog “Micidial” del 12 marzo 2018).
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Re: News dal mondo
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Il Grande Fratello sa tutto di noi, soprattutto grazie a noi
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Facebook avrebbe “passato” a Cambridge Analytica 51 milioni di profili. Destinazione, la campagna pro-Brexit e quella pro-Trump, consentendo ai persuasori di mirare con precisione, fino a centrare in modo selettivo il target desiderato: appelli politici per convincere utenti già “schedati” dal social network, presentati (a loro insaputa) come “clienti” teoricamente disponibili, in base alle loro preferenze: idee espresse nei commenti, tipologia dei consumi dichiarati. Da qui la mappatura virtuale del “cliente”: se so cosa ti piace oggi, il mio sistema deduce al volo ciò che ti piacerà domani. Si grida allo scandalo: Steve Bannon, l’ex guru di Trump, è uno stregone della manipolazione. «Non lo faremo più», promette Zuckerberg. Scandalo? Bannon fa il suo mestiere: portare voti ai politici per cui lavora. Anche Zuckerberg fa il suo mestiere: vendere al marketing i profili degli utenti, che sono ormai 2 miliardi di persone, in tutto il mondo. Rivelazioni: il potente algoritmo messo in campo da Cambridge Analytica permette di “scannerizzare” all’istante, incrociando dati, anche le intenzioni degli ignari utenti, scoprendo in anticipo chi voterà per chi. Ma né Bannon né Zuckerberg hanno mai estorto alcunché: la fornitura dei dati-chiave è volontaria, da parte degli utenti.
Gli utenti di Facebook, poi, sanno benissimo (o dovrebbero sapere) che non sono proprietari dei contenuti delle loro “pagine”: dal punto di vista legale, in base al diritto editoriale, tutto ciò che viene pubblicato – parole e pensieri, immagini e video – non appartiene in nessun caso a loro, ma solo a Facebook. In quanto editore unico e senza vincoli, il social network è liberissimo di rimovere i contenuti quando vuole, senza neppure l’obbligo di lasciarne una copia, privata, a disposizione dell’utente. Quasi un terzo dell’umanità ormai utilizza Facebook, affidando alla piattaforma social la rappresentazione pubblica – più o meno realistica – della propria identità personale. Facebook offre una vasta gamma di servizi – a costo zero per l’utente, ma remunerati in altro modo: è ovvio che faccia gola, al marketing, la più grande banca dati del pianeta. Perché stupirsene? Se si fa una qualsiasi richiesta a Google, il motore di ricerca la registra, classificando subito l’utente e proponendogli – sotto forma di proposta pubblicitaria – merce analoga a quella già cercata. Anche Google “sa” chi siamo e cosa ci piace. Anche Google svolge un servizio gratuito per l’utente. Un servizio prezioso, ormai imprescindibile, e remunerato altrimenti, cioè mettendo il profilo psicologico del potenziale cliente a disposizione del mercato.
Con l’avvento degli smartphone, oggi il sistema sa anche – sempre – dove siamo. Attraverso i social, le chat, le email, il sistema sa cosa pensiamo, dove andiamo, chi incontriamo. Anni fa, fece scalpore la rivelazione – esternata dal solo Marcello Foa – del capo dei servizi segreti svizzeri: spiegò che ogni parola in uscita dai nostri computer finisce in due immensi archivi, dislocati a Londra e a Washington. Il Grande Fratello è in ascolto, certo: ma qualcuno può davvero stupirsene? Smentendo il vittimismo complottistico, un osservatore atipico come Paolo Franceschetti (avvocato, autore si studi scomodi sui misteri italiani) offre la seguente riflessione: perché ci illudiamo che in passato la situazione del “popolo” fosse migliore? Fino a ieri non ci voleva molto per rischiare il carcere, bastava mancare di rispetto al sovrano (e l’altro ieri peggio ancora, si finiva sul rogo per il solo fatto di aver manifestato idee difformi dal dogma vigente). Oggi, al contrario, si assiste a una diffusione di opinioni quale mai s’era vista, in migliaia di anni. Circolazione istantanea di idee, libera e planetaria. Osservata e spiata? Vietato meravigliarsene.
Quanto a Facebook, parla da sola la sua data di nascita. Serviva un sistema per raccogliere dati e schedare milioni di persone, in modo da trarre d’impaccio l’intelligence Usa, in enorme imbarazzo dopo la storica débacle dell’11 Settembre. Zuckerberg ha offerto la soluzione più brillante, a costo zero per lo Stato: sarebbero stati direttamente i cittadini a raccontare tutto di sé – chi sono, dove vivono, in cosa credono, che amici hanno. Facebook ha raccolto milioni di confidenze, che oggi sono diventate miliardi. Ma non le ha carpite: gli sono state offerte spontaneamente. Il sistema ha solo creato uno spazio (pubblico) per esprimerle e condividerle. Uno spazio che prima non esisteva, e di cui gli Zuckerberg del pianeta avevano intuito il bisogno, la necessità percepita. Parlare, raccontarsi: prima dell’avvento dell’email (non secoli fa: si parla della vigilia del Duemila) le persone avevano smesso di scriversi lettere. Hanno ricominciato a scrivere proprio grazie alla posta elettronica. Milioni di persone hanno ristabilito contatti epistolari frequenti, recuperando anche il gusto della scrittura. Facebook e gli altri social media completano l’offerta, realizzando un diario digitale personale ma condivisibile, arricchito da segnalazioni e link, veicolando in questo modo l’altra grande fonte recente di idee e informazioni: i blog.
Nella sua ricostruzione della storia del Cristianesimo, formulata da un punto di vista ruvidamente anticlericale, un’autrice come Laura Fezia sostiene che il “format” cristiano sia stato inoculato come un virus nell’imperialismo romano, per corroderlo dall’interno fino a farlo crollare. Tradotto: se non riesci a battere il nemico in campo aperto, ti conviene infiltrarlo. E’ nemico, oggi, il web? E’ sicuramente padrone: compra, vende, orienta, controlla, manipola. Non è un amico disinteressato: se l’ha fatto credere, bluffava. Ma spesso (quasi sempre) è un alleato di cui non si può fare a meno. E’ un orizzonte sistemico, nel quale vivere, e in cui – come in ogni altra cosa – convivono due modi di intendere e volere. Il bene e il male? Dipende sempre dal punto di vista: il male della gazzella coincide con il bene dei cuccioli della leonessa. Sarà anche una savana, il web, ma non è senza padroni: è anzi un giardino zoologico severamente protetto e custodito dai grandi proprietari dell’infrastruttura strategica, da cui ormai dipende il pianeta, che è diventato infinitamente e istantaneamente manipolabile. Sono infatti tramontate le fiabe ingenue sull’innocenza della Rete, utilizzate anche in Italia a fini politici. Ma la Rete resta, e – con i suoi limiti – è ancora disposizione: per ospitare idee, magari, oltre che immagini delle vacanze e piatti “stellati”, fotografati al ristorante.
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Il Grande Fratello sa tutto di noi, soprattutto grazie a noi
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Facebook avrebbe “passato” a Cambridge Analytica 51 milioni di profili. Destinazione, la campagna pro-Brexit e quella pro-Trump, consentendo ai persuasori di mirare con precisione, fino a centrare in modo selettivo il target desiderato: appelli politici per convincere utenti già “schedati” dal social network, presentati (a loro insaputa) come “clienti” teoricamente disponibili, in base alle loro preferenze: idee espresse nei commenti, tipologia dei consumi dichiarati. Da qui la mappatura virtuale del “cliente”: se so cosa ti piace oggi, il mio sistema deduce al volo ciò che ti piacerà domani. Si grida allo scandalo: Steve Bannon, l’ex guru di Trump, è uno stregone della manipolazione. «Non lo faremo più», promette Zuckerberg. Scandalo? Bannon fa il suo mestiere: portare voti ai politici per cui lavora. Anche Zuckerberg fa il suo mestiere: vendere al marketing i profili degli utenti, che sono ormai 2 miliardi di persone, in tutto il mondo. Rivelazioni: il potente algoritmo messo in campo da Cambridge Analytica permette di “scannerizzare” all’istante, incrociando dati, anche le intenzioni degli ignari utenti, scoprendo in anticipo chi voterà per chi. Ma né Bannon né Zuckerberg hanno mai estorto alcunché: la fornitura dei dati-chiave è volontaria, da parte degli utenti.
Gli utenti di Facebook, poi, sanno benissimo (o dovrebbero sapere) che non sono proprietari dei contenuti delle loro “pagine”: dal punto di vista legale, in base al diritto editoriale, tutto ciò che viene pubblicato – parole e pensieri, immagini e video – non appartiene in nessun caso a loro, ma solo a Facebook. In quanto editore unico e senza vincoli, il social network è liberissimo di rimovere i contenuti quando vuole, senza neppure l’obbligo di lasciarne una copia, privata, a disposizione dell’utente. Quasi un terzo dell’umanità ormai utilizza Facebook, affidando alla piattaforma social la rappresentazione pubblica – più o meno realistica – della propria identità personale. Facebook offre una vasta gamma di servizi – a costo zero per l’utente, ma remunerati in altro modo: è ovvio che faccia gola, al marketing, la più grande banca dati del pianeta. Perché stupirsene? Se si fa una qualsiasi richiesta a Google, il motore di ricerca la registra, classificando subito l’utente e proponendogli – sotto forma di proposta pubblicitaria – merce analoga a quella già cercata. Anche Google “sa” chi siamo e cosa ci piace. Anche Google svolge un servizio gratuito per l’utente. Un servizio prezioso, ormai imprescindibile, e remunerato altrimenti, cioè mettendo il profilo psicologico del potenziale cliente a disposizione del mercato.
Con l’avvento degli smartphone, oggi il sistema sa anche – sempre – dove siamo. Attraverso i social, le chat, le email, il sistema sa cosa pensiamo, dove andiamo, chi incontriamo. Anni fa, fece scalpore la rivelazione – esternata dal solo Marcello Foa – del capo dei servizi segreti svizzeri: spiegò che ogni parola in uscita dai nostri computer finisce in due immensi archivi, dislocati a Londra e a Washington. Il Grande Fratello è in ascolto, certo: ma qualcuno può davvero stupirsene? Smentendo il vittimismo complottistico, un osservatore atipico come Paolo Franceschetti (avvocato, autore si studi scomodi sui misteri italiani) offre la seguente riflessione: perché ci illudiamo che in passato la situazione del “popolo” fosse migliore? Fino a ieri non ci voleva molto per rischiare il carcere, bastava mancare di rispetto al sovrano (e l’altro ieri peggio ancora, si finiva sul rogo per il solo fatto di aver manifestato idee difformi dal dogma vigente). Oggi, al contrario, si assiste a una diffusione di opinioni quale mai s’era vista, in migliaia di anni. Circolazione istantanea di idee, libera e planetaria. Osservata e spiata? Vietato meravigliarsene.
Quanto a Facebook, parla da sola la sua data di nascita. Serviva un sistema per raccogliere dati e schedare milioni di persone, in modo da trarre d’impaccio l’intelligence Usa, in enorme imbarazzo dopo la storica débacle dell’11 Settembre. Zuckerberg ha offerto la soluzione più brillante, a costo zero per lo Stato: sarebbero stati direttamente i cittadini a raccontare tutto di sé – chi sono, dove vivono, in cosa credono, che amici hanno. Facebook ha raccolto milioni di confidenze, che oggi sono diventate miliardi. Ma non le ha carpite: gli sono state offerte spontaneamente. Il sistema ha solo creato uno spazio (pubblico) per esprimerle e condividerle. Uno spazio che prima non esisteva, e di cui gli Zuckerberg del pianeta avevano intuito il bisogno, la necessità percepita. Parlare, raccontarsi: prima dell’avvento dell’email (non secoli fa: si parla della vigilia del Duemila) le persone avevano smesso di scriversi lettere. Hanno ricominciato a scrivere proprio grazie alla posta elettronica. Milioni di persone hanno ristabilito contatti epistolari frequenti, recuperando anche il gusto della scrittura. Facebook e gli altri social media completano l’offerta, realizzando un diario digitale personale ma condivisibile, arricchito da segnalazioni e link, veicolando in questo modo l’altra grande fonte recente di idee e informazioni: i blog.
Nella sua ricostruzione della storia del Cristianesimo, formulata da un punto di vista ruvidamente anticlericale, un’autrice come Laura Fezia sostiene che il “format” cristiano sia stato inoculato come un virus nell’imperialismo romano, per corroderlo dall’interno fino a farlo crollare. Tradotto: se non riesci a battere il nemico in campo aperto, ti conviene infiltrarlo. E’ nemico, oggi, il web? E’ sicuramente padrone: compra, vende, orienta, controlla, manipola. Non è un amico disinteressato: se l’ha fatto credere, bluffava. Ma spesso (quasi sempre) è un alleato di cui non si può fare a meno. E’ un orizzonte sistemico, nel quale vivere, e in cui – come in ogni altra cosa – convivono due modi di intendere e volere. Il bene e il male? Dipende sempre dal punto di vista: il male della gazzella coincide con il bene dei cuccioli della leonessa. Sarà anche una savana, il web, ma non è senza padroni: è anzi un giardino zoologico severamente protetto e custodito dai grandi proprietari dell’infrastruttura strategica, da cui ormai dipende il pianeta, che è diventato infinitamente e istantaneamente manipolabile. Sono infatti tramontate le fiabe ingenue sull’innocenza della Rete, utilizzate anche in Italia a fini politici. Ma la Rete resta, e – con i suoi limiti – è ancora disposizione: per ospitare idee, magari, oltre che immagini delle vacanze e piatti “stellati”, fotografati al ristorante.
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Re: News dal mondo
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Assange: Google è come la Cia, il suo business è spiarci
Scritto il 23/9/14 • nella Categoria: segnalazioni
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Julian Assange nel suo nuovo libro “When Google Met WikiLeaks” è durissimo: «Se volete una visione del futuro», scrive, «immaginate occhiali di Google promossi da Washington e legati a volti assenti – per sempre». L’accusa al colosso web è di mostrare addirittura «l’impenetrabile banalità del non fare il male». Se i rimandi sono a George Orwell e Hannah Arendt, l’accusa è diretta: Google è tutt’uno con la politica estera Usa, ed è anche un’entità che configura «una forma postmoderna di totalitarismo». Del resto, «il modello imprenditoriale di Google è spionistico», dichiara Assange alla “Bbc”. Il motore di ricerca? «Un colossale strumento di sorveglianza di massa, l’incarnazione dei più foschi incubi totalitaristici». Punto di partenza del libro, l’incontro tra il creatore di Wikileaks e l’amministratore delegato di Google, Eric Schmidt, avvenuto nel 2011 in Inghilterra. Per il giornalista australiano, Google funziona esattamente come la Nsa, la struttura spionistica di massa smascherata da Edward Snowden.
Google, rivela Assange, «fa più dell’80% del fatturato raccogliendo informazioni sulle persone, aggregandole, archiviandole e classificandole». Il super-motore di ricerca web «costruisce profili della gente per poterne prevedere gli interessi e il comportamento, e vende questi profili principalmente alle agenzie di pubblicità», sostiene Assange in un’intervista ripresa da “Megachip”. «Google è parte costituente dell’industria americana della difesa, con un ruolo ufficiale dal 2009». E’ praticamente una struttura organica alla politica estera degli Stati Uniti. Peraltro, aggiunge lo stesso Assange in un colloquio con “Repubblica”, non è affatto inconsueta l’alleanza tra tecnologia e dittatura: «Il totalitarismo che si è sviluppato nella Germania nazista e nell’Unione Sovietica era hi-tech». I nazisti, dichiara Assange a Fabio Chiusi, «sono stati la guida mondiale nello sviluppo tecnologico sotto diversi aspetti, e avevano l’ambizione ideologica di spingersi in un mondo inedito di nuove meraviglie tecnologiche». Certo, ovviamente Google «non è ancora per nulla vicina» allo spirito del brutale sistema nazista, «ma il desiderio totalizzante c’è».
«Il modello di business di Google, la sorveglianza, colpisce miliardi di cittadini», continua Assange. Modello che consiste nel «raccogliere più informazioni possibile sulle persone, immagazzinarle, indicizzarle, usarle per creare modelli che prevedono i loro comportamenti e venderli ai pubblicitari. Essenzialmente, lo stesso modello di raccolta massiva dei dati che ha la Nsa. Il che spiega perché la Nsa si è garantita di accedervi», aggiunge Assange, sempre nell’intervista a “Repubblica”. «Google come compagnia e Larry Page hanno una visione totalizzante dell’azienda, che prevede un futuro in cui chiunque indosserà “Google Glass”, così da poter intercettare perfino il nostro sguardo, i luoghi, gli appuntamenti, controllare le automobili e i consigli su cosa fare e non fare. Tutto nel nome di ciò che sembra una massimizzazione dell’efficienza, senza alcuna considerazione per il sistema totalizzante che è stato costruito, che – al confronto – fa sembrare degli ignoranti gli assillanti burocrati stalinisti».
Una bocciatura radicale che va oltre Google, osserva Chiusi. Nel suo precedente volume, “Cypherpunks”, Assange ha scritto che Internet è «il più pericoloso facilitatore del totalitarismo che abbiamo mai conosciuto». In quest’ultimo lavoro, però, il fondatore di “Wikileaks” sostiene che «la cosa migliore che sta accadendo è la radicalizzazione della gioventù che sa usare Internet». Abbastanza per opporsi alla prospettiva di una distopia digitale globale? «Ci sono un po’ di rimedi – possono essere sufficienti o meno, ma sono tutto ciò che abbiamo. Uno è l’educazione politica di massa, che ha cominciato a verificarsi su Internet, in risposta, e sta continuando. La capacità dei giovani di imparare e adattarsi a ciò che altrimenti sarebbe un sistema diretto verso il totalitarismo elettronico non dovrebbe essere sottovalutata. Per esempio, vediamo sorgere nuove forme organizzative, sistemi come Bitcoin che aggiungono uno strato sicuro, protetto dalla crittografia, a quello della rete compromessa».
Dunque siamo alla sorveglianza di massa, mentre gli Usa si mobilitano contro l’ultimo nemico “artificiale”, ovvero il Califfato Islamico che oggi si fa chiamare semplicemente Is, Islamic State, mentre solo ieri era Isis, l’altro ieri Isil e fino a qualche tempo fa, semplicemente Al-Qaeda. In altre parole, i “cattivi ragazzi” reclutati e pagati per fare il lavoro sporco in Libia, Siria e Iraq, domani forse anche in Russia e in Cina. «Abbiamo pubblicato migliaia di documenti sull’Is fin dal 2007», afferma Assange. «Il Califfato non è, nella sua essenza, un fenomeno nuovo». Secondo Assange, l’Isis «comprende bene che, se vuole aumentare il sostegno a suo favore, deve essere attaccato». Quindi, deve suscitare orrore, paura e indignazione: «Quei video terribili delle decapitazioni servono a guadagnare sostenitori», e al tempo stesso ad attirare la “punizione”. La risposta degli Usa è sempre la stessa: «Trasformare qualunque cosa in una minaccia alla propria sicurezza, che lo sia o meno, così da terrorizzare l’opinione pubblica». E, ovviamente, giustificare la sorveglianza di massa. «Certo, sta già accadendo». Leggi anti-spionaggio? Illusioni: in fondo, aggiunge Assange, il ruolo della Nsa «è infrangere la legge».
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Assange: Google è come la Cia, il suo business è spiarci
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Julian Assange nel suo nuovo libro “When Google Met WikiLeaks” è durissimo: «Se volete una visione del futuro», scrive, «immaginate occhiali di Google promossi da Washington e legati a volti assenti – per sempre». L’accusa al colosso web è di mostrare addirittura «l’impenetrabile banalità del non fare il male». Se i rimandi sono a George Orwell e Hannah Arendt, l’accusa è diretta: Google è tutt’uno con la politica estera Usa, ed è anche un’entità che configura «una forma postmoderna di totalitarismo». Del resto, «il modello imprenditoriale di Google è spionistico», dichiara Assange alla “Bbc”. Il motore di ricerca? «Un colossale strumento di sorveglianza di massa, l’incarnazione dei più foschi incubi totalitaristici». Punto di partenza del libro, l’incontro tra il creatore di Wikileaks e l’amministratore delegato di Google, Eric Schmidt, avvenuto nel 2011 in Inghilterra. Per il giornalista australiano, Google funziona esattamente come la Nsa, la struttura spionistica di massa smascherata da Edward Snowden.
Google, rivela Assange, «fa più dell’80% del fatturato raccogliendo informazioni sulle persone, aggregandole, archiviandole e classificandole». Il super-motore di ricerca web «costruisce profili della gente per poterne prevedere gli interessi e il comportamento, e vende questi profili principalmente alle agenzie di pubblicità», sostiene Assange in un’intervista ripresa da “Megachip”. «Google è parte costituente dell’industria americana della difesa, con un ruolo ufficiale dal 2009». E’ praticamente una struttura organica alla politica estera degli Stati Uniti. Peraltro, aggiunge lo stesso Assange in un colloquio con “Repubblica”, non è affatto inconsueta l’alleanza tra tecnologia e dittatura: «Il totalitarismo che si è sviluppato nella Germania nazista e nell’Unione Sovietica era hi-tech». I nazisti, dichiara Assange a Fabio Chiusi, «sono stati la guida mondiale nello sviluppo tecnologico sotto diversi aspetti, e avevano l’ambizione ideologica di spingersi in un mondo inedito di nuove meraviglie tecnologiche». Certo, ovviamente Google «non è ancora per nulla vicina» allo spirito del brutale sistema nazista, «ma il desiderio totalizzante c’è».
«Il modello di business di Google, la sorveglianza, colpisce miliardi di cittadini», continua Assange. Modello che consiste nel «raccogliere più informazioni possibile sulle persone, immagazzinarle, indicizzarle, usarle per creare modelli che prevedono i loro comportamenti e venderli ai pubblicitari. Essenzialmente, lo stesso modello di raccolta massiva dei dati che ha la Nsa. Il che spiega perché la Nsa si è garantita di accedervi», aggiunge Assange, sempre nell’intervista a “Repubblica”. «Google come compagnia e Larry Page hanno una visione totalizzante dell’azienda, che prevede un futuro in cui chiunque indosserà “Google Glass”, così da poter intercettare perfino il nostro sguardo, i luoghi, gli appuntamenti, controllare le automobili e i consigli su cosa fare e non fare. Tutto nel nome di ciò che sembra una massimizzazione dell’efficienza, senza alcuna considerazione per il sistema totalizzante che è stato costruito, che – al confronto – fa sembrare degli ignoranti gli assillanti burocrati stalinisti».
Una bocciatura radicale che va oltre Google, osserva Chiusi. Nel suo precedente volume, “Cypherpunks”, Assange ha scritto che Internet è «il più pericoloso facilitatore del totalitarismo che abbiamo mai conosciuto». In quest’ultimo lavoro, però, il fondatore di “Wikileaks” sostiene che «la cosa migliore che sta accadendo è la radicalizzazione della gioventù che sa usare Internet». Abbastanza per opporsi alla prospettiva di una distopia digitale globale? «Ci sono un po’ di rimedi – possono essere sufficienti o meno, ma sono tutto ciò che abbiamo. Uno è l’educazione politica di massa, che ha cominciato a verificarsi su Internet, in risposta, e sta continuando. La capacità dei giovani di imparare e adattarsi a ciò che altrimenti sarebbe un sistema diretto verso il totalitarismo elettronico non dovrebbe essere sottovalutata. Per esempio, vediamo sorgere nuove forme organizzative, sistemi come Bitcoin che aggiungono uno strato sicuro, protetto dalla crittografia, a quello della rete compromessa».
Dunque siamo alla sorveglianza di massa, mentre gli Usa si mobilitano contro l’ultimo nemico “artificiale”, ovvero il Califfato Islamico che oggi si fa chiamare semplicemente Is, Islamic State, mentre solo ieri era Isis, l’altro ieri Isil e fino a qualche tempo fa, semplicemente Al-Qaeda. In altre parole, i “cattivi ragazzi” reclutati e pagati per fare il lavoro sporco in Libia, Siria e Iraq, domani forse anche in Russia e in Cina. «Abbiamo pubblicato migliaia di documenti sull’Is fin dal 2007», afferma Assange. «Il Califfato non è, nella sua essenza, un fenomeno nuovo». Secondo Assange, l’Isis «comprende bene che, se vuole aumentare il sostegno a suo favore, deve essere attaccato». Quindi, deve suscitare orrore, paura e indignazione: «Quei video terribili delle decapitazioni servono a guadagnare sostenitori», e al tempo stesso ad attirare la “punizione”. La risposta degli Usa è sempre la stessa: «Trasformare qualunque cosa in una minaccia alla propria sicurezza, che lo sia o meno, così da terrorizzare l’opinione pubblica». E, ovviamente, giustificare la sorveglianza di massa. «Certo, sta già accadendo». Leggi anti-spionaggio? Illusioni: in fondo, aggiunge Assange, il ruolo della Nsa «è infrangere la legge».
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