Fermate il treno, voglio scendere.
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Re: Fermate il treno, voglio scendere.
....MA ALLORA, BABBO NATALE ESISTE!!!!!!!!!!!
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Rifkin: potere al popolo, così l’Italia cambierà quest’Europa
Scritto il 07/6/18 • nella Categoria: idee Condividi Tweet
Il nuovo governo rappresenta una opportunità. Non quella di formare semplicemente un nuovo esecutivo, bensì quella di preparare un piano di lungo termine per trasformare l’economia delle comunità locali, dando più potere al popolo e facendo così dell’Italia, che ha una creatività pro capite straordinaria, il “faro” della trasformazione dell’Ue, per entrare nella nuova fase del “sogno europeo”, in nome del principio di sussidiarietà, che è scritto nei trattati ma viene poco applicato. E’ il momento per tutta Italia di fare un grosso respiro, di fare un passo indietro e di chiedersi: chi siamo noi come popolo? Ho passato trent’anni in Italia, sono stato in ogni comunità locale: la creatività pro capite in Italia è semplicemente straordinaria, perché c’è un’enorme diversità culturale, che è una ricchezza. Oggi ogni regione d’Italia dovrebbe sfruttare il proprio patrimonio culturale, al di là dei confini, iniziando a mostrare l’Italia come il faro della prossima fase del “sogno europeo”. Ricordatevi che sono stati gli italiani, con Altiero Spinelli, a portare l’Europa nel “sogno europeo”. Ora è un nuovo inizio: non penso che nessuno dica di no all’Europa. Ma è tempo di riflettere, a livello italiano ed europeo, su come passare meglio alla prossima fase del sogno europeo. E di fare le trasformazioni necessarie per rendere l’Europa più collaborativa e più forte, più adatta agli interessi delle comunità locali d’Europa: questa è la chiave.
Dal voto è emersa volontà della gente di contare di più. Quello attuale è un momento di opportunità per due partiti politici, il Movimento 5 Stelle e la Lega, che hanno passato molto tempo organizzando i rispettivi elettorati, per fare una grossa differenza. Non solamente per avere un altro governo in carica: questa è un’opportunità, non va sprecata. Bisogna creare una road map economica, muovendo verso la Terza Rivoluzione Industriale, portando l’Italia su una strada che può essere il faro per la prossima fase, per quello che vogliamo dappertutto, in Europa e nel mondo: più potere al popolo, più potere distribuito, in modo che le persone possano avere un maggior diritto di parola sul loro destino economico. C’è un principio, nel Trattato di Roma, il principio di sussidiarietà, che dice che il potere deve iniziare nelle comunità locali, dove le persone vivono la loro vita. Il potere deve essere laterale, non verticale. C’è una legittima constatazione che il mondo, per come è governato ora, si sta muovendo troppo verso le élite, e penso che sia una constatazione giustificata, in tutto il pianeta. E ora penso che in posti come l’Italia, ma anche in giro per il mondo, le persone dicano “vogliamo avere più controllo sulla nostra economia e sulle nostre vite”.
Questa è una cosa positiva. Non credo che nessuno in Italia dirà che vuole uscire dall’Europa. Ma credo che sia legittimo pensare che ora, dopo cinquant’anni di Ue, ci sono altri cinquant’anni davanti a noi e, quindi, sarebbe bene fare proposte in modo che ogni livello di governance sia più in sintonia con quello che succede tra i 500 milioni di persone che vivono nelle comunità locali. Credo fermamente nel principio di sussidiarietà, che è la rivoluzione che non è ancora accaduta. Il principio di solidarietà è nei trattati e sospetto che molte persone in Europa non sappiano neppure che esiste. Il potere, secondo i trattati, nasce nelle comunità locali e nelle Regioni. Tutto quello che dobbiamo fare è prendere sul serio questo principio e sviluppare un piano per la Terza Rivoluzione Industriale in Italia e in Europa. Questo è il principio basilare della governance europea – in teoria, ma non in pratica. Ora in Europa è un momento in cui gli elettori votano e quello che sento dire loro, al di là della retorica, è “dobbiamo avere un maggior diritto di parola sul nostro destino economico nelle comunità in cui viviamo”.
Questo non preclude la globalizzazione, ma diventa glocalizzazione. Ogni comunità locale, grazie alle tecnologie, può impegnarsi con Regioni in tutto il mondo e cercare nuove opportunità economiche: non è teoria, ma pratica, sta già succedendo. Quello di cui abbiamo bisogno ora è una visione di governo che sia commisurata alla piattaforma trasparente e digitale laterale che stiamo creando: e quella visione è il principio di sussidiarietà. Che non preclude l’esistenza degli Stati-nazione, né dell’Ue, ma significa che tutto il potere decisionale deve partire dai luoghi in cui le persone vivono e lavorano. Bisogna creare una road map economica, muovendo verso la Terza Rivoluzione Industriale, portando l’Italia su una strada che può essere il faro per la prossima fase, per quello che vogliamo dappertutto, in Europa e nel mondo: più potere al popolo, più potere distribuito, in modo che le persone possano avere un maggior diritto di parola sul loro destino economico.
(Jeremy Rifkin, “Con il governo del cambiamento più potere al popolo e alle comunità locali”, riflessione a margine del Brussels Economic Forum 2018, pubblicata dal “Blog delle Stelle” sulla base della ricostruzione offerta dell’agenzia Adnkronos. Economista, sociologo e ambientalista statunitense, Rifkin è il teorico della Terza Rivoluzione Industriale. Autore di saggi tradotti in tutto il mondo, collabora con alcune tra le più importanti testate giornalitiche europee, come il “Guardian”, “El Pais”, “L’Espresso” e la “Suddeutsche Zeitung”).
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Rifkin: potere al popolo, così l’Italia cambierà quest’Europa
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Il nuovo governo rappresenta una opportunità. Non quella di formare semplicemente un nuovo esecutivo, bensì quella di preparare un piano di lungo termine per trasformare l’economia delle comunità locali, dando più potere al popolo e facendo così dell’Italia, che ha una creatività pro capite straordinaria, il “faro” della trasformazione dell’Ue, per entrare nella nuova fase del “sogno europeo”, in nome del principio di sussidiarietà, che è scritto nei trattati ma viene poco applicato. E’ il momento per tutta Italia di fare un grosso respiro, di fare un passo indietro e di chiedersi: chi siamo noi come popolo? Ho passato trent’anni in Italia, sono stato in ogni comunità locale: la creatività pro capite in Italia è semplicemente straordinaria, perché c’è un’enorme diversità culturale, che è una ricchezza. Oggi ogni regione d’Italia dovrebbe sfruttare il proprio patrimonio culturale, al di là dei confini, iniziando a mostrare l’Italia come il faro della prossima fase del “sogno europeo”. Ricordatevi che sono stati gli italiani, con Altiero Spinelli, a portare l’Europa nel “sogno europeo”. Ora è un nuovo inizio: non penso che nessuno dica di no all’Europa. Ma è tempo di riflettere, a livello italiano ed europeo, su come passare meglio alla prossima fase del sogno europeo. E di fare le trasformazioni necessarie per rendere l’Europa più collaborativa e più forte, più adatta agli interessi delle comunità locali d’Europa: questa è la chiave.
Dal voto è emersa volontà della gente di contare di più. Quello attuale è un momento di opportunità per due partiti politici, il Movimento 5 Stelle e la Lega, che hanno passato molto tempo organizzando i rispettivi elettorati, per fare una grossa differenza. Non solamente per avere un altro governo in carica: questa è un’opportunità, non va sprecata. Bisogna creare una road map economica, muovendo verso la Terza Rivoluzione Industriale, portando l’Italia su una strada che può essere il faro per la prossima fase, per quello che vogliamo dappertutto, in Europa e nel mondo: più potere al popolo, più potere distribuito, in modo che le persone possano avere un maggior diritto di parola sul loro destino economico. C’è un principio, nel Trattato di Roma, il principio di sussidiarietà, che dice che il potere deve iniziare nelle comunità locali, dove le persone vivono la loro vita. Il potere deve essere laterale, non verticale. C’è una legittima constatazione che il mondo, per come è governato ora, si sta muovendo troppo verso le élite, e penso che sia una constatazione giustificata, in tutto il pianeta. E ora penso che in posti come l’Italia, ma anche in giro per il mondo, le persone dicano “vogliamo avere più controllo sulla nostra economia e sulle nostre vite”.
Questa è una cosa positiva. Non credo che nessuno in Italia dirà che vuole uscire dall’Europa. Ma credo che sia legittimo pensare che ora, dopo cinquant’anni di Ue, ci sono altri cinquant’anni davanti a noi e, quindi, sarebbe bene fare proposte in modo che ogni livello di governance sia più in sintonia con quello che succede tra i 500 milioni di persone che vivono nelle comunità locali. Credo fermamente nel principio di sussidiarietà, che è la rivoluzione che non è ancora accaduta. Il principio di solidarietà è nei trattati e sospetto che molte persone in Europa non sappiano neppure che esiste. Il potere, secondo i trattati, nasce nelle comunità locali e nelle Regioni. Tutto quello che dobbiamo fare è prendere sul serio questo principio e sviluppare un piano per la Terza Rivoluzione Industriale in Italia e in Europa. Questo è il principio basilare della governance europea – in teoria, ma non in pratica. Ora in Europa è un momento in cui gli elettori votano e quello che sento dire loro, al di là della retorica, è “dobbiamo avere un maggior diritto di parola sul nostro destino economico nelle comunità in cui viviamo”.
Questo non preclude la globalizzazione, ma diventa glocalizzazione. Ogni comunità locale, grazie alle tecnologie, può impegnarsi con Regioni in tutto il mondo e cercare nuove opportunità economiche: non è teoria, ma pratica, sta già succedendo. Quello di cui abbiamo bisogno ora è una visione di governo che sia commisurata alla piattaforma trasparente e digitale laterale che stiamo creando: e quella visione è il principio di sussidiarietà. Che non preclude l’esistenza degli Stati-nazione, né dell’Ue, ma significa che tutto il potere decisionale deve partire dai luoghi in cui le persone vivono e lavorano. Bisogna creare una road map economica, muovendo verso la Terza Rivoluzione Industriale, portando l’Italia su una strada che può essere il faro per la prossima fase, per quello che vogliamo dappertutto, in Europa e nel mondo: più potere al popolo, più potere distribuito, in modo che le persone possano avere un maggior diritto di parola sul loro destino economico.
(Jeremy Rifkin, “Con il governo del cambiamento più potere al popolo e alle comunità locali”, riflessione a margine del Brussels Economic Forum 2018, pubblicata dal “Blog delle Stelle” sulla base della ricostruzione offerta dell’agenzia Adnkronos. Economista, sociologo e ambientalista statunitense, Rifkin è il teorico della Terza Rivoluzione Industriale. Autore di saggi tradotti in tutto il mondo, collabora con alcune tra le più importanti testate giornalitiche europee, come il “Guardian”, “El Pais”, “L’Espresso” e la “Suddeutsche Zeitung”).
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Morto che parla: le bugie di Prodi e la Repubblica senza idee
Scritto il 08/6/18 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
Romano Prodi, ancora lui. «Due volte presidente del Consiglio», lo presenta Simona Casalini su “Repubblica”, evitando di evidenziare le funzioni rivelatrici che ne illumiano il curriculum: privatizzatore dell’Iri, presidente della Commissione Europea e advisor europeo della Goldman Sachs, la cupola di “bankster” che ha infiltrato le economie nazionali per saccheggiarle crocifiggendole al debito, come la Grecia a cui lavorò Mario Draghi. Ma, per “Repubblica”, nel giugno 2018 – con Di Maio e Salvini e al governo – Romano Prodi è ancora il “due volte presidente del Consiglio”, l’autorevole “professore” interpellato sull’Italia come fosse un economista di Sydney, un osservatore neutrale e nobilmente estraneo al disastro italiano. Al forum “La Repubblica delle Idee”, Prodi risponde alle affabili domandine del direttore del quotidiano di De Benedetti, Mario Calabresi, affiancato dal collega de “L’Espresso”, Marco Damilano. «La gente non ha più fiducia nelle democrazie», proclama soavemente Prodi, fingendo di non sapere che in quest’Europa è stata proprio la democrazia a trionfare in Gran Bretagna addirittura con un referendum, mentre ora in Italia – sempre a suon di voti – ha mandato a casa l’ex inaffondabile euro-Pd. Se c’è una notizia è proprio la riscoperta della democrazia come possibilità. E i direttori del gruppo Espresso lasciano che il super-tecnocrate italiano dica il contrario esatto della verità.
Il crollo generale di fiducia – non “nelle democrazie”, com’è evidente, ma negli euro-governi non democratici – secondo Prodi nasce da «un problema di diritti», palesemente conculcati. E ammette: «Bisogna cambiare registro. La disparità è aumentata in quasi tutti i paesi del mondo proprio perché i governi democratici hanno adottato modelli fiscali e di welfare che hanno aumentato la disparità». Dov’era, il “professore”, mentre tutto ciò accadeva? Su Marte, potrebbe pensare il lettore, se non sapesse che Prodi era prima all’Iri, impegnato a tagliare le gambe all’Italia, per poi “finire il lavoro” tra Bruxelles e Palazzo Chigi, lautamente ricompensato da Wall Street. “Chi sei e da dove vieni” dovrebbero essere l’abc del giornalismo? Nei film, forse. Nella realtà, Mario Calabresi “incalza” Prodi chiedendogli di esercitare il suo apollineo intelletto misurandosi su giudizi temerari, come quello concernente la vera natura del neonato governo gialloverde. Per la precisione: l’orientamento del neo-premier. «Conte? E’ di destra», sentenzia il “professore”, per quarant’anni al servizio della destra economica neoliberista. Ormai l’Italia è spacciata, ripeteva, da Palazzo Chigi: l’economia del mondo è in mano a grandi “cluster” industriali, di fronte ai quali il made in Italy – piccola e media impresa – può solo estinguersi.
Ambasciatore prescelto dall’Impero globalista per piegare le ultime resistenze della sinistra sociale, l’ipocrita Prodi – travestito da cattolico “di sinistra” – tiene ancora banco, tra gli addetti alla non-informazione quotidiana. «Quando si governa ci sono decisioni che sono di sinistra e altre di destra», pontifica il grande rottamatore dell’Italia, sfoggiando il suo cinico pragmatismo (così apprezzato, da Bruxelles a Washington). «Serve un progetto politico», brontola, pensando all’ex finta sinistra da lui un tempo guidata. Auspica «un ampio, largo dibattito collettivo nel paese». Velenose falsità, come sempre, anche sull’euro-mostro chiamato Unione Europea: «Se qualcuno si vuole male esce dall’Europa». L’euro? «L’introduzione della moneta unica doveva essere accompagnata da molte altre decisioni e invece siamo rimasti a metà». Che peccato. Ma vorrebbe suscitare tenerezza l’amarcord da coccodrillo in lacrime che riserva all’ingenua platea della “Repubblica delle Idee”: «Kohl mi disse che i tedeschi erano contro la sua introduzione ma lui lo volle a tutti i costi perchè era anche un forte simbolo di pace, raccontandomi che suo fratello era morto in guerra».
Kohl, sì: il cancelliere che telefonava a Roma, dando ordini – da Berlino – al governo italiano. Per la precisione, pretendeva l’allontanamento dell’economista keynesiano e progressista Nino Galloni, il funzionario strategico che lavorava (con Andreotti) per parare i colpi mortali di Maastricht. E sua eccellenza Prodi, il “professore”? Era impegnato a smontare l’Iri, per poi prepararsi a spiegare – all’Italia ormai declassata – che avrebbe dovuto subire 25 anni di disgrazie, presentate come “sacrifici” purtroppo inevitabili, nel mondo-cluster visto come l’unico possibile dal globalizzatore fatalista e reazionario Romano Prodi, massimo architetto della “democratura” italiana sottomessa a poteri privati e famelici. Il ruolo di quei poteri, i soli e veri decisori, non è neppure lontanamente evocabile – né ora né mai – nelle sacrestie provinciali del nuovo feudalesimo imperiale e nei servili retrobottega della macchina che fabbrica notizie false e pensieri deprimenti. Il paese è in rivolta a causa del declino nel quale è stato precitato? Ovvio, per “Repubblica” ed “Espresso”, chiedere lumi proprio all’uomo che, più di ogni altro, quel declino ha organizzato, prima come privatizzatore e poi come liquidatore fallimentare del paese. Bel tipo, il “professore”: pagato dai banchieri, s’intende, ma pur sempre “di sinistra”.
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Morto che parla: le bugie di Prodi e la Repubblica senza idee
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Romano Prodi, ancora lui. «Due volte presidente del Consiglio», lo presenta Simona Casalini su “Repubblica”, evitando di evidenziare le funzioni rivelatrici che ne illumiano il curriculum: privatizzatore dell’Iri, presidente della Commissione Europea e advisor europeo della Goldman Sachs, la cupola di “bankster” che ha infiltrato le economie nazionali per saccheggiarle crocifiggendole al debito, come la Grecia a cui lavorò Mario Draghi. Ma, per “Repubblica”, nel giugno 2018 – con Di Maio e Salvini e al governo – Romano Prodi è ancora il “due volte presidente del Consiglio”, l’autorevole “professore” interpellato sull’Italia come fosse un economista di Sydney, un osservatore neutrale e nobilmente estraneo al disastro italiano. Al forum “La Repubblica delle Idee”, Prodi risponde alle affabili domandine del direttore del quotidiano di De Benedetti, Mario Calabresi, affiancato dal collega de “L’Espresso”, Marco Damilano. «La gente non ha più fiducia nelle democrazie», proclama soavemente Prodi, fingendo di non sapere che in quest’Europa è stata proprio la democrazia a trionfare in Gran Bretagna addirittura con un referendum, mentre ora in Italia – sempre a suon di voti – ha mandato a casa l’ex inaffondabile euro-Pd. Se c’è una notizia è proprio la riscoperta della democrazia come possibilità. E i direttori del gruppo Espresso lasciano che il super-tecnocrate italiano dica il contrario esatto della verità.
Il crollo generale di fiducia – non “nelle democrazie”, com’è evidente, ma negli euro-governi non democratici – secondo Prodi nasce da «un problema di diritti», palesemente conculcati. E ammette: «Bisogna cambiare registro. La disparità è aumentata in quasi tutti i paesi del mondo proprio perché i governi democratici hanno adottato modelli fiscali e di welfare che hanno aumentato la disparità». Dov’era, il “professore”, mentre tutto ciò accadeva? Su Marte, potrebbe pensare il lettore, se non sapesse che Prodi era prima all’Iri, impegnato a tagliare le gambe all’Italia, per poi “finire il lavoro” tra Bruxelles e Palazzo Chigi, lautamente ricompensato da Wall Street. “Chi sei e da dove vieni” dovrebbero essere l’abc del giornalismo? Nei film, forse. Nella realtà, Mario Calabresi “incalza” Prodi chiedendogli di esercitare il suo apollineo intelletto misurandosi su giudizi temerari, come quello concernente la vera natura del neonato governo gialloverde. Per la precisione: l’orientamento del neo-premier. «Conte? E’ di destra», sentenzia il “professore”, per quarant’anni al servizio della destra economica neoliberista. Ormai l’Italia è spacciata, ripeteva, da Palazzo Chigi: l’economia del mondo è in mano a grandi “cluster” industriali, di fronte ai quali il made in Italy – piccola e media impresa – può solo estinguersi.
Ambasciatore prescelto dall’Impero globalista per piegare le ultime resistenze della sinistra sociale, l’ipocrita Prodi – travestito da cattolico “di sinistra” – tiene ancora banco, tra gli addetti alla non-informazione quotidiana. «Quando si governa ci sono decisioni che sono di sinistra e altre di destra», pontifica il grande rottamatore dell’Italia, sfoggiando il suo cinico pragmatismo (così apprezzato, da Bruxelles a Washington). «Serve un progetto politico», brontola, pensando all’ex finta sinistra da lui un tempo guidata. Auspica «un ampio, largo dibattito collettivo nel paese». Velenose falsità, come sempre, anche sull’euro-mostro chiamato Unione Europea: «Se qualcuno si vuole male esce dall’Europa». L’euro? «L’introduzione della moneta unica doveva essere accompagnata da molte altre decisioni e invece siamo rimasti a metà». Che peccato. Ma vorrebbe suscitare tenerezza l’amarcord da coccodrillo in lacrime che riserva all’ingenua platea della “Repubblica delle Idee”: «Kohl mi disse che i tedeschi erano contro la sua introduzione ma lui lo volle a tutti i costi perchè era anche un forte simbolo di pace, raccontandomi che suo fratello era morto in guerra».
Kohl, sì: il cancelliere che telefonava a Roma, dando ordini – da Berlino – al governo italiano. Per la precisione, pretendeva l’allontanamento dell’economista keynesiano e progressista Nino Galloni, il funzionario strategico che lavorava (con Andreotti) per parare i colpi mortali di Maastricht. E sua eccellenza Prodi, il “professore”? Era impegnato a smontare l’Iri, per poi prepararsi a spiegare – all’Italia ormai declassata – che avrebbe dovuto subire 25 anni di disgrazie, presentate come “sacrifici” purtroppo inevitabili, nel mondo-cluster visto come l’unico possibile dal globalizzatore fatalista e reazionario Romano Prodi, massimo architetto della “democratura” italiana sottomessa a poteri privati e famelici. Il ruolo di quei poteri, i soli e veri decisori, non è neppure lontanamente evocabile – né ora né mai – nelle sacrestie provinciali del nuovo feudalesimo imperiale e nei servili retrobottega della macchina che fabbrica notizie false e pensieri deprimenti. Il paese è in rivolta a causa del declino nel quale è stato precitato? Ovvio, per “Repubblica” ed “Espresso”, chiedere lumi proprio all’uomo che, più di ogni altro, quel declino ha organizzato, prima come privatizzatore e poi come liquidatore fallimentare del paese. Bel tipo, il “professore”: pagato dai banchieri, s’intende, ma pur sempre “di sinistra”.
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Carpeoro: pericolo terrorismo, ora l’Italia ha nemici potenti
Scritto il 11/6/18 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
«Temo per l’Italia: c’è rischio di attentati, se si “smonta” il vertice dei servizi segreti». E’ un monito, quello che Gianfranco Carpeoro lancia al governo “gialloverde” appena insediato: l’attuale struttura di intelligence, dice, negli ultimi 4-5 anni ha vigiliato in modo efficiente sulla sicurezza del nostro paese, sventando stragi ed evitando all’Italia il sanguinoso “trattamento” cui sono stati sottoposti i maggiori partner europei, in primis la Francia, senza dimenticare la Germania e la Gran Bretagna, il Belgio, la Spagna. In web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, Carpeoro si mostra pessimista: tanto per cominciare, premette, «non mi aspetto una lunga durata di questo governo». In più, aggiunge, «mi aspetto una diversa gestione della finanza, a nostro danno, da parte della Bce». E, dulcis in fundo: «Mi aspetto qualcosa nell’ambito del terrorismo, a breve termine». Ma l’arma del terrorismo, appunto, non è l’unica a disposizione della “sovragestione”: c’è il ricatto finanziario del debito, «abbuonato alla Germania ma non all’Italia», che si somma alla situazione esplosiva creata in Libia, contro l’Italia, dalla Francia: «Io quantificherei il danno e ai francesi chiederei un risarcimento, in soldoni, per l’enorme perdita economica che hanno inflitto, al nostro paese, con la vergognosa deposizione di Gheddafi organizzata allo scopo di accaparrarsi la Libia».
Un’analisi a tutto campo, quella di Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che svela i retroscena – paramassonici, non islamici – della strategia della tensione internazionale scatenata in Europa e in Medio Oriente da settori d’intelligence manovrati da un’oligarchia altantica reazionaria: «Il famoso Abu Bakr Al-Baghadi, leader dell’Isis, è anche la tessera numero 12 della superloggia “Hathor Pentalpha” fondata dai Bush». Tra i suoi esponenti, anche Nicolas Sarkozy. La massoneria francese oggi si schiera contro l’Italia? Sveglia, dice Carpeoro: «E’ da quando fu silurato Mitterrand che la massoneria francese condiziona la politica di Parigi in funzione anti-italiana». E vogliamo parlare della Germania, che ci tiene appesi al nostro ingente debito pubblico? «Qualcuno – scandisce Carpeoro – dovrebbe andare a Bruxelles e chiedere come mai alla Germania fu cancellato l’enome debito che aveva, al momento di fondare l’Unione Europea, mentre all’Italia non fa sconti nessuno. Il nuovo governo dovrebbe dire, semplicemente, di essere pronto a rispondere solo per il debito effettivamente riconducibile alla politica italiana, non a quello derivante dalla politica finanziaria europea», su cui non c’è mai stata una validazione democratica.
“Sovragestione”, appunto: a partire dallo storico divorzio fra Tesoro e Bankitalia. Coincidenze: all’epoca «fu fatto sparire anche il professor Federico Caffè, eminente keynesiano». Per Carpeoro, la misteriosa scomparsa di Caffè – storico maestro di Mario Draghi, Bruno Amoroso e Nino Galloni – fu un messaggio chiaro, intimidatorio. Caffè si opponeva all’arrembante neoliberismo: dunque, chi lo avesse seguito avrebbe fatto la sua stessa fine. Draghi capì l’antifona e si mise al servizio del super-potere privatizzatore, quello che ha già tentato – con l’ostruzionismo di Mattarella – di fermare il governo Conte ponendo il veto su Paolo Savona, «altro allievo, guardacaso, di Federico Caffè». Oggi, l’Italia “gialloverde” è in mezzo a un guado pericoloso: Francia e Germania si preparano ad azzannarla, con l’aiuto della Bce. L’ultima cosa da fare, raccomanda Carpeoro, è sbaraccare l’attuale assetto dei servizi segreti che finora ci hanno protetto. Problema spinoso: per il momento, la delega l’ha mantenuta il premier. Di solito, spiega Carpeoro, viene attribuita al sottosegretario alla presidenza del Consiglio, che però in questo caso è Giorgetti, leghista come il ministro dell’interno Salvini. Due cariche che, per la prima volta, sono espresse dallo stesso partito.
Secondo Carpeoro, il nuovo potere insediatosi a Palazzo Chigi potrebbe avere la tentazione di mettere la propria firma anche sui servizi. E qui si entrerebbe in zona pericolo: «Quella è una struttura che si è rivelata molto efficiente. Cambiarne i vertici – sottolinea l’analista – vuol dire mettersi nelle condizioni di correre un grosso rischio: sul piano squisitamente tecnico, delle competenze, non è detto che gli eventuali successori siano all’altezza dei predecessori». Fino a ieri, aggiunge Carpeoro, va detto che l’Italia non era esattamente nell’occhio del ciclone: la sua completa irrilevanza politica – i governi Renzi e Gentiloni, innocui per Bruxelles – la mettevano al riparo dal pericolo di maxi-attentati come quelli di Nizza e del Bataclan. «In ogni caso – precisa Carpeoro – i nostri servizi hanno comunque sventato, già allora, decine di attentati minori sul suolo italiano». Ma è adesso che il pericolo cresce: se l’Italia ha tanti nuovi nemici, proprio ora potrebbe essere messo in agenda, dalla “sovragestione”, anche un maxi-attentato sul suolo italiano. «Ecco perché farei di tutto – dice Carpeoro – per mantenere integra la struttura che finora ha garantito la nostra sicurezza».
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Carpeoro: pericolo terrorismo, ora l’Italia ha nemici potenti
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«Temo per l’Italia: c’è rischio di attentati, se si “smonta” il vertice dei servizi segreti». E’ un monito, quello che Gianfranco Carpeoro lancia al governo “gialloverde” appena insediato: l’attuale struttura di intelligence, dice, negli ultimi 4-5 anni ha vigiliato in modo efficiente sulla sicurezza del nostro paese, sventando stragi ed evitando all’Italia il sanguinoso “trattamento” cui sono stati sottoposti i maggiori partner europei, in primis la Francia, senza dimenticare la Germania e la Gran Bretagna, il Belgio, la Spagna. In web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, Carpeoro si mostra pessimista: tanto per cominciare, premette, «non mi aspetto una lunga durata di questo governo». In più, aggiunge, «mi aspetto una diversa gestione della finanza, a nostro danno, da parte della Bce». E, dulcis in fundo: «Mi aspetto qualcosa nell’ambito del terrorismo, a breve termine». Ma l’arma del terrorismo, appunto, non è l’unica a disposizione della “sovragestione”: c’è il ricatto finanziario del debito, «abbuonato alla Germania ma non all’Italia», che si somma alla situazione esplosiva creata in Libia, contro l’Italia, dalla Francia: «Io quantificherei il danno e ai francesi chiederei un risarcimento, in soldoni, per l’enorme perdita economica che hanno inflitto, al nostro paese, con la vergognosa deposizione di Gheddafi organizzata allo scopo di accaparrarsi la Libia».
Un’analisi a tutto campo, quella di Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che svela i retroscena – paramassonici, non islamici – della strategia della tensione internazionale scatenata in Europa e in Medio Oriente da settori d’intelligence manovrati da un’oligarchia altantica reazionaria: «Il famoso Abu Bakr Al-Baghadi, leader dell’Isis, è anche la tessera numero 12 della superloggia “Hathor Pentalpha” fondata dai Bush». Tra i suoi esponenti, anche Nicolas Sarkozy. La massoneria francese oggi si schiera contro l’Italia? Sveglia, dice Carpeoro: «E’ da quando fu silurato Mitterrand che la massoneria francese condiziona la politica di Parigi in funzione anti-italiana». E vogliamo parlare della Germania, che ci tiene appesi al nostro ingente debito pubblico? «Qualcuno – scandisce Carpeoro – dovrebbe andare a Bruxelles e chiedere come mai alla Germania fu cancellato l’enome debito che aveva, al momento di fondare l’Unione Europea, mentre all’Italia non fa sconti nessuno. Il nuovo governo dovrebbe dire, semplicemente, di essere pronto a rispondere solo per il debito effettivamente riconducibile alla politica italiana, non a quello derivante dalla politica finanziaria europea», su cui non c’è mai stata una validazione democratica.
“Sovragestione”, appunto: a partire dallo storico divorzio fra Tesoro e Bankitalia. Coincidenze: all’epoca «fu fatto sparire anche il professor Federico Caffè, eminente keynesiano». Per Carpeoro, la misteriosa scomparsa di Caffè – storico maestro di Mario Draghi, Bruno Amoroso e Nino Galloni – fu un messaggio chiaro, intimidatorio. Caffè si opponeva all’arrembante neoliberismo: dunque, chi lo avesse seguito avrebbe fatto la sua stessa fine. Draghi capì l’antifona e si mise al servizio del super-potere privatizzatore, quello che ha già tentato – con l’ostruzionismo di Mattarella – di fermare il governo Conte ponendo il veto su Paolo Savona, «altro allievo, guardacaso, di Federico Caffè». Oggi, l’Italia “gialloverde” è in mezzo a un guado pericoloso: Francia e Germania si preparano ad azzannarla, con l’aiuto della Bce. L’ultima cosa da fare, raccomanda Carpeoro, è sbaraccare l’attuale assetto dei servizi segreti che finora ci hanno protetto. Problema spinoso: per il momento, la delega l’ha mantenuta il premier. Di solito, spiega Carpeoro, viene attribuita al sottosegretario alla presidenza del Consiglio, che però in questo caso è Giorgetti, leghista come il ministro dell’interno Salvini. Due cariche che, per la prima volta, sono espresse dallo stesso partito.
Secondo Carpeoro, il nuovo potere insediatosi a Palazzo Chigi potrebbe avere la tentazione di mettere la propria firma anche sui servizi. E qui si entrerebbe in zona pericolo: «Quella è una struttura che si è rivelata molto efficiente. Cambiarne i vertici – sottolinea l’analista – vuol dire mettersi nelle condizioni di correre un grosso rischio: sul piano squisitamente tecnico, delle competenze, non è detto che gli eventuali successori siano all’altezza dei predecessori». Fino a ieri, aggiunge Carpeoro, va detto che l’Italia non era esattamente nell’occhio del ciclone: la sua completa irrilevanza politica – i governi Renzi e Gentiloni, innocui per Bruxelles – la mettevano al riparo dal pericolo di maxi-attentati come quelli di Nizza e del Bataclan. «In ogni caso – precisa Carpeoro – i nostri servizi hanno comunque sventato, già allora, decine di attentati minori sul suolo italiano». Ma è adesso che il pericolo cresce: se l’Italia ha tanti nuovi nemici, proprio ora potrebbe essere messo in agenda, dalla “sovragestione”, anche un maxi-attentato sul suolo italiano. «Ecco perché farei di tutto – dice Carpeoro – per mantenere integra la struttura che finora ha garantito la nostra sicurezza».
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:Dalla Coca Cola a Parnasi: trucchi e donazioni di Eyu
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Re: Fermate il treno, voglio scendere.
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Lilli e i suoi fratelli, la guerra dei media contro il popolo bue
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Va bene tutto, tranne la verità: come quando cade un regime, e gli organi del vecchio potere annaspano, manifestando rabbia e paura, come di fronte a orde di rivoluzionari scatenati. E’ livido il bombardamento quotidiano, il grottesco fuoco di sbarramento che il mainstream – a prescindere – riversa contro il neonato governo gialloverde. Editorialisti e giornalisti da salotto, esperti sostanzialmente nell’arte del baciamano, oggi sembrano rivoltosi sulle barricate: a Elsa Fornero perdonavano tutto, inclusi gli spargimenti di sangue, mentre sui 5 Stelle e sulla Lega si avventano come mastini. Imperdonabile, il voto degli italiani il 4 marzo: e, visto che il popolo bue ha evidentemente sbagliato a votare, gli addetti alla verità stanno facendo gli straordinari per dimostrare agli elettori grillini e leghisti che non l’avranno vinta: loro, gli euro-cantori dell’establishment, in ogni caso non si arrenderanno alla storia; resisteranno – come gli ultimi giapponesi sull’isoletta – alla marea furibonda del “popolo degli abissi”, espressione che Giulio Sapelli mutua da Jack London. Provare per credere: da manuale di boxe il trattamento che Lilli Gruber ha riservato al cattivone Matteo Salvini, reo di aver osato costringere l’Unione Europea a meditare sulla politica per i migranti, fermando una nave e facendo imbestialire il nemico numero uno dell’Italia, il supermassone reazionario Emmanuel Macron, di scuola Rothschild.
A Salvini, in prima serata, “Lady Bilderberg” ha riservato tutte le domande tenute nel cassetto per anni, mai poste a nessuno in precedenza: ma più che le risposte del neo-ministro, a fare notizia era l’evidente dispetto dipinto sul volto dell’dell’ex anchorman del Tg2 craxiano, poi eletta europarlamentare dell’Ulivo prima di tornare, come se niente fosse, a fare “informazione”. Dietlinde Gruber, detta Lilli, di fronte al capo leghista ha sfoderato un piglio bellicoso da Watergate – ma Bob Woodward e Carl Bernstein, vincitori del Pulitzer, mai avrebbero accettato (per dignità professionale) di farsi arruolare ufficialmente tra le fila degli avversari politici di Nixon. E se proprio fossero stati invitati al Bilderberg, avrebbero messo in messo in piazza qualche notizia, intercettata tra quelle segrete stanze. La giornalista de La7 invece partecipa ai “caminetti” a porte chiuse, di cui non riferisce nulla ai suoi telespettatori, e poi – come se niente fosse – carica Salvini a testa bassa, ricordandogli che George Soros è in realtà un grand’uomo, un vero filantropo, essendo la sua Open Society dedita essenzialmente a opere di bene. Lui, Soros: il più celebre speculatore della storia, il più noto supermassone di potere, profeta delle rivoluzioni colorate e ispiratore di “home jobs” insanguinati come il golpe in Ucraina, coi cecchini sui tetti a sparare sulla polizia di Yanukovich per poi far ricadere la colpa sul governo, da abbattere con mezzi criminali.
Dopo aver terremotato l’Africa, l’élite francese neoliberista e neocoloniale gioca allo scaricabarile e prova a colpire direttamente l’Italia, anche per distrarre un’opinione pubblica che, oltralpe, ha già perso la fiducia che aveva nell’oscuro, opaco Macron, sodale occulto dei peggiori Soros in circolazione? Niente paura: a reti unificate, le testate italiane – giornali che più nessuno legge – si schierano compatte col francese e contro l’italiano, scelgono il paese che sta cercando di sfrattare l’Italia dalla Libia e si avventano contro il ministro che ha avuto l’ardire di rimettere in discussione l’ipocrisia europea. Salvini fa politica: per la prima volta, un italiano riesce a spaccare in due la Germania e a dividere Berlino da Parigi. Ragione in più per trattarlo da nemico pubblico, in Italia. A malmenarlo, con inaudita violenza, è proprio la Gruber, che utilizza una scheda televisiva per dimostrare che la Francia ha accolto più rifugiati, rispetto all’Italia. Salvini però la smentisce all’istante: i dati esibiti a “Otto e mezzo” sono vecchi, risalgono al 2015. La verità, oggi, è ribaltata: l’Italia accoglie, la Francia non più. Dati ufficiali, del Viminale: una notizia, in teoria – ma non per Lilli Gruber e soci: a loro, le notizie sono l’ultima cosa che interessano, impegnati come sono nella loro rabbiosa crociata contro il popolo italiano e i mascalzoni che ha osato mandare al governo.
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Lilli e i suoi fratelli, la guerra dei media contro il popolo bue
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Va bene tutto, tranne la verità: come quando cade un regime, e gli organi del vecchio potere annaspano, manifestando rabbia e paura, come di fronte a orde di rivoluzionari scatenati. E’ livido il bombardamento quotidiano, il grottesco fuoco di sbarramento che il mainstream – a prescindere – riversa contro il neonato governo gialloverde. Editorialisti e giornalisti da salotto, esperti sostanzialmente nell’arte del baciamano, oggi sembrano rivoltosi sulle barricate: a Elsa Fornero perdonavano tutto, inclusi gli spargimenti di sangue, mentre sui 5 Stelle e sulla Lega si avventano come mastini. Imperdonabile, il voto degli italiani il 4 marzo: e, visto che il popolo bue ha evidentemente sbagliato a votare, gli addetti alla verità stanno facendo gli straordinari per dimostrare agli elettori grillini e leghisti che non l’avranno vinta: loro, gli euro-cantori dell’establishment, in ogni caso non si arrenderanno alla storia; resisteranno – come gli ultimi giapponesi sull’isoletta – alla marea furibonda del “popolo degli abissi”, espressione che Giulio Sapelli mutua da Jack London. Provare per credere: da manuale di boxe il trattamento che Lilli Gruber ha riservato al cattivone Matteo Salvini, reo di aver osato costringere l’Unione Europea a meditare sulla politica per i migranti, fermando una nave e facendo imbestialire il nemico numero uno dell’Italia, il supermassone reazionario Emmanuel Macron, di scuola Rothschild.
A Salvini, in prima serata, “Lady Bilderberg” ha riservato tutte le domande tenute nel cassetto per anni, mai poste a nessuno in precedenza: ma più che le risposte del neo-ministro, a fare notizia era l’evidente dispetto dipinto sul volto dell’dell’ex anchorman del Tg2 craxiano, poi eletta europarlamentare dell’Ulivo prima di tornare, come se niente fosse, a fare “informazione”. Dietlinde Gruber, detta Lilli, di fronte al capo leghista ha sfoderato un piglio bellicoso da Watergate – ma Bob Woodward e Carl Bernstein, vincitori del Pulitzer, mai avrebbero accettato (per dignità professionale) di farsi arruolare ufficialmente tra le fila degli avversari politici di Nixon. E se proprio fossero stati invitati al Bilderberg, avrebbero messo in messo in piazza qualche notizia, intercettata tra quelle segrete stanze. La giornalista de La7 invece partecipa ai “caminetti” a porte chiuse, di cui non riferisce nulla ai suoi telespettatori, e poi – come se niente fosse – carica Salvini a testa bassa, ricordandogli che George Soros è in realtà un grand’uomo, un vero filantropo, essendo la sua Open Society dedita essenzialmente a opere di bene. Lui, Soros: il più celebre speculatore della storia, il più noto supermassone di potere, profeta delle rivoluzioni colorate e ispiratore di “home jobs” insanguinati come il golpe in Ucraina, coi cecchini sui tetti a sparare sulla polizia di Yanukovich per poi far ricadere la colpa sul governo, da abbattere con mezzi criminali.
Dopo aver terremotato l’Africa, l’élite francese neoliberista e neocoloniale gioca allo scaricabarile e prova a colpire direttamente l’Italia, anche per distrarre un’opinione pubblica che, oltralpe, ha già perso la fiducia che aveva nell’oscuro, opaco Macron, sodale occulto dei peggiori Soros in circolazione? Niente paura: a reti unificate, le testate italiane – giornali che più nessuno legge – si schierano compatte col francese e contro l’italiano, scelgono il paese che sta cercando di sfrattare l’Italia dalla Libia e si avventano contro il ministro che ha avuto l’ardire di rimettere in discussione l’ipocrisia europea. Salvini fa politica: per la prima volta, un italiano riesce a spaccare in due la Germania e a dividere Berlino da Parigi. Ragione in più per trattarlo da nemico pubblico, in Italia. A malmenarlo, con inaudita violenza, è proprio la Gruber, che utilizza una scheda televisiva per dimostrare che la Francia ha accolto più rifugiati, rispetto all’Italia. Salvini però la smentisce all’istante: i dati esibiti a “Otto e mezzo” sono vecchi, risalgono al 2015. La verità, oggi, è ribaltata: l’Italia accoglie, la Francia non più. Dati ufficiali, del Viminale: una notizia, in teoria – ma non per Lilli Gruber e soci: a loro, le notizie sono l’ultima cosa che interessano, impegnati come sono nella loro rabbiosa crociata contro il popolo italiano e i mascalzoni che ha osato mandare al governo.
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Re: Fermate il treno, voglio scendere.
Le parole del presente
Adam Michnik: «La libertà è come l'ossigeno»
La responsabilità individuale. La sfida dei nazionalismi. Il ruolo della sinistra. Un grande intellettuale spiega perché sarà sempre il valore più grande
di Wlodek Goldkorn
30 maggio 2018
Quando in Polonia erano al potere i comunisti, Adam Michnik, fin da ragazzo attivista e leader dell’opposizione democratica, periodicamente finiva in galera: il dieci per cento dei suoi 71 anni li ha trascorsi dietro le sbarre. In quell’epoca amava però ripetere: «Io in quanto cittadino libero di un Paese libero...». Era un modo ironico per dire che lui aveva deciso di comportarsi e di vivere come se la dittatura non ci fosse;
salvo che era privo dei più elementari diritti civili. Oggi, direttore di Gazeta Wyborcza, è di nuovo nel mirino dei governanti, questa volta perché considerato nemico di ogni nazionalismo. Con Michnik, che si considera un uomo di sinistra, abbiamo parlato di una parola che la sinistra appunto qualche volta usa, altre volte dimentica perché troppo scomoda o abusata dalla destra, e che in ogni caso accende l’immaginazione di chiunque; di destra e di sinistra, ad eccezione dei tiranni. La parola è: libertà.
Quando né la Polonia né lei eravate liberi, lei si definiva un “libero cittadino” e lo diceva perfino quando stava in carcere. Ma allora cosa è la libertà?
«La libertà è la capacità di riflettere autonomamente su se stessi, sul mondo e sul nostro ruolo nel mondo. Sto dicendo una cosa elementare: posso mantenere la mia libertà anche in prigione. I libri, i saggi, i miei interventi sui giornali, scritti in galera e pubblicati clandestinamente in Polonia, erano testi di un uomo libero. Se invece, da detenuto, mi fossi arreso alla narrazione, alla retorica, al linguaggio dei miei carcerieri, avrei perso la mia libertà. Il grande poeta russo Osip Mandel’stam, quando scriveva le sue poesie ai tempi di Stalin, era un uomo libero. Voglio aggiungere un’altra cosa: la libertà è come l’ossigeno. Finché viviamo in condizioni normali non ci accorgiamo quanto sia indispensabile, ce ne rendiamo conto solo quando ci viene a mancare. La vita quotidiana di un Paese democratico non suscita entusiasmo né stupore, però quando comincia a mancare la libertà ci sentiamo soffocare. E soprattutto, perdiamo la parola. La perdiamo perché senza la libertà non siamo in grado di pensare e di immaginare un futuro».
Qual è il prezzo massimo che vale la pena di pagare per la libertà?
«Per me la libertà non ha prezzo».
Sarebbe disposto a pagare con la vita per la libertà? Lo era quando stava in prigione?
«Sì».
Ne è sicuro?
«Senta, se lei rinnega se stesso, se rinuncia alla propria libertà, la sua vita perde sapore, profumo, senso. Non credo di dire una cosa sorprendente. Ci sono state, nella storia, tantissime persone che hanno perso la vita pur di non rinunciare alla libertà».
Ma quasi sempre è esistita pure l’opzione di compromesso; la rinuncia a un po’ di libertà, l’accettazione di un limite, per poter operare alla luce del sole in regimi autoritari. Pensi a certe riviste di cultura sotto il fascismo in Italia o ai tempi del comunismo nel suo Paese, la Polonia. E c’erano persone, dentro le istituzioni, che aiutavano gli antifascisti in Italia o gli anticomunisti in Polonia.
«Ma non hanno rinunciato alla facoltà di libero arbitrio. Hanno scelto il compromesso e lo stare dentro le istituzioni come una tecnica di sopravvivenza».
Sta dicendo che il compromesso non intacca il principio della libertà?
«Direi di più: il compromesso è il pane e il vino della democrazia. E la democrazia non è altro che la libertà nel quadro delle leggi e della Costituzione».
Siamo cresciuti con le parole d’ordine Libertà, Uguaglianza, Fratellanza. Sono valori compatibili tra di loro, o occorre sceglierne uno o due a discapito degli altri?
«Sono valori e parole irrinunciabili. Però, la libertà significa mancanza di limitazioni, mentre l’uguaglianza, se è assoluta, comporta limitazioni delle libertà. La fratellanza infine è figlia dell’epoca dei Lumi, della Rivoluzione francese ed è una delle più belle parole del nostro vocabolario. Il problema è che difficilmente può essere tradotta in un linguaggio delle istituzioni. Ecco, io da questo punto di vista, sono seguace del filosofo liberale Isaiah Berlin: la libertà va intesa come mancanza di vincoli e non come il diritto a qualcosa. In termini tecnici, la libertà è negativa, non positiva».
Marx obietterebbe: la sua libertà è la libertà dei borghesi. Un povero, un proletario costretto a vendere il suo tempo, il suo ingegno, e obbligato a compiere certe azioni pur di sopravvivere, non è libero.
«Risponderei a Marx dicendo che posso sempre rifiutare di fare certe cose che mi chiede il datore di lavoro. La questione è il prezzo che pagherò per quel rifiuto, ma non l’atto stesso di dire no. Vede, io posso trovare ingiusta e abominevole la condizione della classe operaia in Inghilterra, così magistralmente descritta da Engels nell’omonimo libro, ma questo non significa che l’operaio non sia in grado di pensare e di giudicare il mondo da uomo libero».
Torniamo allora alla triplice parola d’ordine: Libertà Uguaglianza Fratellanza.
«Il problema è che la vita è piena di contraddizioni. Ci sono circostanze in cui la libertà è più importante dell’uguaglianza e tempi in cui occorre invece stare più attenti al valore dell’uguaglianza. Ma ci sono situazioni in cui non si può dare la precedenza a un solo di quei valori. Se vivessi in Cina sarei per la libertà ma non rinuncerei all’uguaglianza. Poi ci sono luoghi dove regna la menzogna propagata dal potere e dove occorre difendere la verità perché la libertà richiede una buona dose di verità. Nel mio Paese sento dire che i polacchi sono sempre stati un popolo innocente, una nazione che non ha mai fatto male a nessuno».
Si riferisce alle leggi che puniscono chi, secondo il potere, denigra la nazione polacca e che dovrebbero impedire una libera discussione sull’antisemitismo, sui difficili rapporti con gli ucraini, sui casi di polacchi che hanno consegnato ebrei ai nazisti?
«Certo. Ma intendo l’insieme della narrazione che evita di parlare dei lati oscuri della storia. Lo dico per dare un esempio di cosa sia una menzogna istituzionalizzata. E per spiegare che in quei casi io difendo la verità, mettendomi a guardia della libertà di ricerca».
La libertà ha quindi qualcosa in comune con la verità?
«La libertà che sceglie la menzogna rinnega se stessa».
Nel secolo scorso la minaccia alla libertà erano i totalitarismi: il fascismo e il comunismo, con tutte le differenze tra i due. E oggi?
«Oggi ci sono situazioni di golpe strisciante o di movimenti che lentamente portano verso regimi autoritari. Talvolta le strutture democratiche vengono usate per distruggerle dall’interno; e ci sono analogie evidenti con il secolo scorso. Ma a mio avviso la minaccia principale sta nella convinzione che ci sia una sola verità e siccome la verità è una sola, il potere ha il diritto di imporla a tutti. Un simile modo di pensare esclude il pluralismo, tende a mettere fuori gioco il dissenso. Si tratta di una “democrazia cannibale”; il partito che vince le elezioni mangia il partito che perde. La vediamo in azione in Russia, in Ungheria, in Polonia».
Situazioni che ricordano i totalitarismi?
«No. Situazioni che ricordano la strada verso il totalitarismo».
I totalitarismi non sono quindi un fenomeno esclusivo del Novecento ma potrebbero tornare?
«È una lezione che ho imparato da Marek Edelman (il comandante in seconda della rivolta nel ghetto di Varsavia, ndr). Edelman diceva che la storia si ripete, intendeva lo sterminio degli ebrei e i genocidi. Citava la Bosnia, il Rwanda. All’epoca prendevo troppo alla leggera le sue parole, ma oggi ho capito che aveva ragione lui e io torto. Per me vale come analogia con i totalitarismi».
Lei di formazione è storico. Ha vissuto sotto il comunismo e lo ha combattuto. Vede le differenze tra il fascismo e il comunismo?
«Sì, e numerose. Il fascismo era più sincero. Diceva: noi siamo i migliori e gli altri devono essere eliminati o esclusi o dominati. Il comunismo sosteneva invece: chiunque voglia combattere assieme a noi è il benvenuto e avrà tutti i diritti. Grazie alla sua retorica inclusiva il comunismo ha avuto una grande forza di attrazione per gli oppressi e gli umiliati. C’era il richiamo al più buono e il più bello. Ma poi, nella pratica quotidiana il comunismo realizzava il peggio e il più brutto».
Forse il problema è ancora più complesso. Oggi si tende a dimenticare che Churchill, non a caso, era alleato di Stalin e non di Hitler. E anche che in Italia, Paese che lei conosce molto bene, i comunisti hanno partecipato alla scrittura di una Costituzione democratica.
«Churchill era un conservatore, disprezzava il comunismo e ne aveva il timore, ma era un realista. Capiva che negli anni Trenta, il regime più minaccioso, più cattivo, più distruttivo per il mondo era quello di Hitler e non di Stalin. Ma posso immaginarmi un’ipotetica alleanza tra Churchill e la destra radicale non nazista tedesca contro Stalin. E per quanto riguarda i comunisti italiani. Il comunismo ha avuto più volti. Uno, particolare, l’ha avuto in Italia. Il comunismo italiano negli anni Trenta si era costituito nella lotta contro il fascismo e quindi contro un regime totalitario. Ma potrei allargare il discorso: nel ghetto di Varsavia i comunisti combatterono assieme ai socialisti anti-stalinisti del Bund e ai sionisti. E nessuno se ne era stupito né si era sentito a disagio».
Vogliamo parlare del rapporto tra libertà e responsabilità, un tema caro agli esistenzialisti, a Sartre, a Camus?
«Il concetto è semplice: posso essere responsabile solo a patto di essere libero».
E tuttavia chi è oppresso e quindi non è libero talvolta deve decidere per esempio se darsi alla lotta, pacifica o armata, o invece cercare di salvare il salvabile. In altre parole, anche chi non è libero deve porsi il problema della responsabilità.
«In questo momento siamo a Varsavia, a casa mia, non lontano dal ghetto. Mi permetta quindi di fare un esempio estremo. Parliamo di Adam Czerniaków, il capo dello Judenrat, il consiglio ebraico nominato dai tedeschi. Czerniaków si è suicidato quando ha saputo che i nazisti stavano per deportare verso le camere a gas l’intera popolazione. Edelman considerava questo suicidio una fuga dalla responsabilità e ha più volte criticato non solo quella scelta, ma tutto l’atteggiamento di quest’uomo che cercava appunto di salvare il salvabile. Edelman aveva tutto il diritto di esprimere le sue critiche, ma non hanno lo stesso diritto i nazionalisti polacchi che ora tentanto di parlare del “collaborazionismo” degli ebrei».
Certamente, ma lei non è un nazionalista polacco, è un eroe della lotta per la libertà ed era amico di Edelman. Quindi le chiedo: lei che cosa ne pensa?
«Czerniaków stava cercando di salvare il salvabile, perché nel mondo normale il compromesso spesso è necessario e talvolta paga. Quando però capì che quella regola non valeva nel mondo dei nazisti, si suicidò. Tutta la mia simpatia va alla scelta di Edelman, ma credo di capire Czerniaków. E del resto lo stesso Edelman diceva che occorreva più eroismo per accompagnare un figlio in una camera a gas che non per combattere con le armi in pugno».
Torniamo al nostro mondo banale. Dov’è il limite della libertà?
«Il limite è la libertà dell’Altro».
C’è però anche un concetto di libertà collettiva. La libertà di una nazione di governare se stessa, l’autodeterminazione. Come fare perché non si trasformi nella pratica di pulizia etnica, dell’espulsione degli altri?
«Tornare ai classici. Capire che la dimensione individuale della libertà è la più importante. E poi, comprendere che la vittoria dei nazionalismi porta al disastro, sempre».
Diceva Dostoevskij: se non c’è Dio tutto è lecito...
«Sta parlando del nichilismo. Bene, il linguaggio di Dostoevskij si riferiva alla libertà come assenza di Dio. La libertà laica può portare al nichilismo, ma non per forza e non come una diretta conseguenza. Non erano nichilisti né Camus, né Sacharov, né Orwell, né Arendt, tutti uomini e donne laici e liberi. Mi soffermo sul nichilismo: c’erano situazioni, come quella dei terroristi russi dell’Ottocento, che nella lotta contro lo zarismo, hanno superato i confini del lecito: ma lo hanno fatto perché per loro la lotta per la libertà era più importante della stessa libertà. Simile era la situazione dei comunisti, prima che arrivassero al potere».
Dai tempi di Marx, la sinistra sostiene una sola verità, con la pretesa che si tratti di una verità scientifica. Di conseguenza la sinistra ha sempre avuto problemi con il linguaggio della libertà....
«Mi aspettavo invece una domanda sul futuro della sinistra. Sono di sinistra Erdogan, Orbán, Kaczynski, politici che usano il linguaggio delle rivendicazioni sociali? E dov’è la classe operaia di una volta? In Europa non esiste più. E allora la sinistra per me è un progetto culturale; un certo atteggiamento nei confronti degli stranieri, degli immigrati. Sinistra è femminismo. La vera questione del futuro è la lotta tra coloro che vorranno uno Stato e una società aperti e coloro che opteranno per la chiusura. Il futuro della sinistra è la lotta per la libertà».
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Adam Michnik: «La libertà è come l'ossigeno»
La responsabilità individuale. La sfida dei nazionalismi. Il ruolo della sinistra. Un grande intellettuale spiega perché sarà sempre il valore più grande
di Wlodek Goldkorn
30 maggio 2018
Quando in Polonia erano al potere i comunisti, Adam Michnik, fin da ragazzo attivista e leader dell’opposizione democratica, periodicamente finiva in galera: il dieci per cento dei suoi 71 anni li ha trascorsi dietro le sbarre. In quell’epoca amava però ripetere: «Io in quanto cittadino libero di un Paese libero...». Era un modo ironico per dire che lui aveva deciso di comportarsi e di vivere come se la dittatura non ci fosse;
salvo che era privo dei più elementari diritti civili. Oggi, direttore di Gazeta Wyborcza, è di nuovo nel mirino dei governanti, questa volta perché considerato nemico di ogni nazionalismo. Con Michnik, che si considera un uomo di sinistra, abbiamo parlato di una parola che la sinistra appunto qualche volta usa, altre volte dimentica perché troppo scomoda o abusata dalla destra, e che in ogni caso accende l’immaginazione di chiunque; di destra e di sinistra, ad eccezione dei tiranni. La parola è: libertà.
Quando né la Polonia né lei eravate liberi, lei si definiva un “libero cittadino” e lo diceva perfino quando stava in carcere. Ma allora cosa è la libertà?
«La libertà è la capacità di riflettere autonomamente su se stessi, sul mondo e sul nostro ruolo nel mondo. Sto dicendo una cosa elementare: posso mantenere la mia libertà anche in prigione. I libri, i saggi, i miei interventi sui giornali, scritti in galera e pubblicati clandestinamente in Polonia, erano testi di un uomo libero. Se invece, da detenuto, mi fossi arreso alla narrazione, alla retorica, al linguaggio dei miei carcerieri, avrei perso la mia libertà. Il grande poeta russo Osip Mandel’stam, quando scriveva le sue poesie ai tempi di Stalin, era un uomo libero. Voglio aggiungere un’altra cosa: la libertà è come l’ossigeno. Finché viviamo in condizioni normali non ci accorgiamo quanto sia indispensabile, ce ne rendiamo conto solo quando ci viene a mancare. La vita quotidiana di un Paese democratico non suscita entusiasmo né stupore, però quando comincia a mancare la libertà ci sentiamo soffocare. E soprattutto, perdiamo la parola. La perdiamo perché senza la libertà non siamo in grado di pensare e di immaginare un futuro».
Qual è il prezzo massimo che vale la pena di pagare per la libertà?
«Per me la libertà non ha prezzo».
Sarebbe disposto a pagare con la vita per la libertà? Lo era quando stava in prigione?
«Sì».
Ne è sicuro?
«Senta, se lei rinnega se stesso, se rinuncia alla propria libertà, la sua vita perde sapore, profumo, senso. Non credo di dire una cosa sorprendente. Ci sono state, nella storia, tantissime persone che hanno perso la vita pur di non rinunciare alla libertà».
Ma quasi sempre è esistita pure l’opzione di compromesso; la rinuncia a un po’ di libertà, l’accettazione di un limite, per poter operare alla luce del sole in regimi autoritari. Pensi a certe riviste di cultura sotto il fascismo in Italia o ai tempi del comunismo nel suo Paese, la Polonia. E c’erano persone, dentro le istituzioni, che aiutavano gli antifascisti in Italia o gli anticomunisti in Polonia.
«Ma non hanno rinunciato alla facoltà di libero arbitrio. Hanno scelto il compromesso e lo stare dentro le istituzioni come una tecnica di sopravvivenza».
Sta dicendo che il compromesso non intacca il principio della libertà?
«Direi di più: il compromesso è il pane e il vino della democrazia. E la democrazia non è altro che la libertà nel quadro delle leggi e della Costituzione».
Siamo cresciuti con le parole d’ordine Libertà, Uguaglianza, Fratellanza. Sono valori compatibili tra di loro, o occorre sceglierne uno o due a discapito degli altri?
«Sono valori e parole irrinunciabili. Però, la libertà significa mancanza di limitazioni, mentre l’uguaglianza, se è assoluta, comporta limitazioni delle libertà. La fratellanza infine è figlia dell’epoca dei Lumi, della Rivoluzione francese ed è una delle più belle parole del nostro vocabolario. Il problema è che difficilmente può essere tradotta in un linguaggio delle istituzioni. Ecco, io da questo punto di vista, sono seguace del filosofo liberale Isaiah Berlin: la libertà va intesa come mancanza di vincoli e non come il diritto a qualcosa. In termini tecnici, la libertà è negativa, non positiva».
Marx obietterebbe: la sua libertà è la libertà dei borghesi. Un povero, un proletario costretto a vendere il suo tempo, il suo ingegno, e obbligato a compiere certe azioni pur di sopravvivere, non è libero.
«Risponderei a Marx dicendo che posso sempre rifiutare di fare certe cose che mi chiede il datore di lavoro. La questione è il prezzo che pagherò per quel rifiuto, ma non l’atto stesso di dire no. Vede, io posso trovare ingiusta e abominevole la condizione della classe operaia in Inghilterra, così magistralmente descritta da Engels nell’omonimo libro, ma questo non significa che l’operaio non sia in grado di pensare e di giudicare il mondo da uomo libero».
Torniamo allora alla triplice parola d’ordine: Libertà Uguaglianza Fratellanza.
«Il problema è che la vita è piena di contraddizioni. Ci sono circostanze in cui la libertà è più importante dell’uguaglianza e tempi in cui occorre invece stare più attenti al valore dell’uguaglianza. Ma ci sono situazioni in cui non si può dare la precedenza a un solo di quei valori. Se vivessi in Cina sarei per la libertà ma non rinuncerei all’uguaglianza. Poi ci sono luoghi dove regna la menzogna propagata dal potere e dove occorre difendere la verità perché la libertà richiede una buona dose di verità. Nel mio Paese sento dire che i polacchi sono sempre stati un popolo innocente, una nazione che non ha mai fatto male a nessuno».
Si riferisce alle leggi che puniscono chi, secondo il potere, denigra la nazione polacca e che dovrebbero impedire una libera discussione sull’antisemitismo, sui difficili rapporti con gli ucraini, sui casi di polacchi che hanno consegnato ebrei ai nazisti?
«Certo. Ma intendo l’insieme della narrazione che evita di parlare dei lati oscuri della storia. Lo dico per dare un esempio di cosa sia una menzogna istituzionalizzata. E per spiegare che in quei casi io difendo la verità, mettendomi a guardia della libertà di ricerca».
La libertà ha quindi qualcosa in comune con la verità?
«La libertà che sceglie la menzogna rinnega se stessa».
Nel secolo scorso la minaccia alla libertà erano i totalitarismi: il fascismo e il comunismo, con tutte le differenze tra i due. E oggi?
«Oggi ci sono situazioni di golpe strisciante o di movimenti che lentamente portano verso regimi autoritari. Talvolta le strutture democratiche vengono usate per distruggerle dall’interno; e ci sono analogie evidenti con il secolo scorso. Ma a mio avviso la minaccia principale sta nella convinzione che ci sia una sola verità e siccome la verità è una sola, il potere ha il diritto di imporla a tutti. Un simile modo di pensare esclude il pluralismo, tende a mettere fuori gioco il dissenso. Si tratta di una “democrazia cannibale”; il partito che vince le elezioni mangia il partito che perde. La vediamo in azione in Russia, in Ungheria, in Polonia».
Situazioni che ricordano i totalitarismi?
«No. Situazioni che ricordano la strada verso il totalitarismo».
I totalitarismi non sono quindi un fenomeno esclusivo del Novecento ma potrebbero tornare?
«È una lezione che ho imparato da Marek Edelman (il comandante in seconda della rivolta nel ghetto di Varsavia, ndr). Edelman diceva che la storia si ripete, intendeva lo sterminio degli ebrei e i genocidi. Citava la Bosnia, il Rwanda. All’epoca prendevo troppo alla leggera le sue parole, ma oggi ho capito che aveva ragione lui e io torto. Per me vale come analogia con i totalitarismi».
Lei di formazione è storico. Ha vissuto sotto il comunismo e lo ha combattuto. Vede le differenze tra il fascismo e il comunismo?
«Sì, e numerose. Il fascismo era più sincero. Diceva: noi siamo i migliori e gli altri devono essere eliminati o esclusi o dominati. Il comunismo sosteneva invece: chiunque voglia combattere assieme a noi è il benvenuto e avrà tutti i diritti. Grazie alla sua retorica inclusiva il comunismo ha avuto una grande forza di attrazione per gli oppressi e gli umiliati. C’era il richiamo al più buono e il più bello. Ma poi, nella pratica quotidiana il comunismo realizzava il peggio e il più brutto».
Forse il problema è ancora più complesso. Oggi si tende a dimenticare che Churchill, non a caso, era alleato di Stalin e non di Hitler. E anche che in Italia, Paese che lei conosce molto bene, i comunisti hanno partecipato alla scrittura di una Costituzione democratica.
«Churchill era un conservatore, disprezzava il comunismo e ne aveva il timore, ma era un realista. Capiva che negli anni Trenta, il regime più minaccioso, più cattivo, più distruttivo per il mondo era quello di Hitler e non di Stalin. Ma posso immaginarmi un’ipotetica alleanza tra Churchill e la destra radicale non nazista tedesca contro Stalin. E per quanto riguarda i comunisti italiani. Il comunismo ha avuto più volti. Uno, particolare, l’ha avuto in Italia. Il comunismo italiano negli anni Trenta si era costituito nella lotta contro il fascismo e quindi contro un regime totalitario. Ma potrei allargare il discorso: nel ghetto di Varsavia i comunisti combatterono assieme ai socialisti anti-stalinisti del Bund e ai sionisti. E nessuno se ne era stupito né si era sentito a disagio».
Vogliamo parlare del rapporto tra libertà e responsabilità, un tema caro agli esistenzialisti, a Sartre, a Camus?
«Il concetto è semplice: posso essere responsabile solo a patto di essere libero».
E tuttavia chi è oppresso e quindi non è libero talvolta deve decidere per esempio se darsi alla lotta, pacifica o armata, o invece cercare di salvare il salvabile. In altre parole, anche chi non è libero deve porsi il problema della responsabilità.
«In questo momento siamo a Varsavia, a casa mia, non lontano dal ghetto. Mi permetta quindi di fare un esempio estremo. Parliamo di Adam Czerniaków, il capo dello Judenrat, il consiglio ebraico nominato dai tedeschi. Czerniaków si è suicidato quando ha saputo che i nazisti stavano per deportare verso le camere a gas l’intera popolazione. Edelman considerava questo suicidio una fuga dalla responsabilità e ha più volte criticato non solo quella scelta, ma tutto l’atteggiamento di quest’uomo che cercava appunto di salvare il salvabile. Edelman aveva tutto il diritto di esprimere le sue critiche, ma non hanno lo stesso diritto i nazionalisti polacchi che ora tentanto di parlare del “collaborazionismo” degli ebrei».
Certamente, ma lei non è un nazionalista polacco, è un eroe della lotta per la libertà ed era amico di Edelman. Quindi le chiedo: lei che cosa ne pensa?
«Czerniaków stava cercando di salvare il salvabile, perché nel mondo normale il compromesso spesso è necessario e talvolta paga. Quando però capì che quella regola non valeva nel mondo dei nazisti, si suicidò. Tutta la mia simpatia va alla scelta di Edelman, ma credo di capire Czerniaków. E del resto lo stesso Edelman diceva che occorreva più eroismo per accompagnare un figlio in una camera a gas che non per combattere con le armi in pugno».
Torniamo al nostro mondo banale. Dov’è il limite della libertà?
«Il limite è la libertà dell’Altro».
C’è però anche un concetto di libertà collettiva. La libertà di una nazione di governare se stessa, l’autodeterminazione. Come fare perché non si trasformi nella pratica di pulizia etnica, dell’espulsione degli altri?
«Tornare ai classici. Capire che la dimensione individuale della libertà è la più importante. E poi, comprendere che la vittoria dei nazionalismi porta al disastro, sempre».
Diceva Dostoevskij: se non c’è Dio tutto è lecito...
«Sta parlando del nichilismo. Bene, il linguaggio di Dostoevskij si riferiva alla libertà come assenza di Dio. La libertà laica può portare al nichilismo, ma non per forza e non come una diretta conseguenza. Non erano nichilisti né Camus, né Sacharov, né Orwell, né Arendt, tutti uomini e donne laici e liberi. Mi soffermo sul nichilismo: c’erano situazioni, come quella dei terroristi russi dell’Ottocento, che nella lotta contro lo zarismo, hanno superato i confini del lecito: ma lo hanno fatto perché per loro la lotta per la libertà era più importante della stessa libertà. Simile era la situazione dei comunisti, prima che arrivassero al potere».
Dai tempi di Marx, la sinistra sostiene una sola verità, con la pretesa che si tratti di una verità scientifica. Di conseguenza la sinistra ha sempre avuto problemi con il linguaggio della libertà....
«Mi aspettavo invece una domanda sul futuro della sinistra. Sono di sinistra Erdogan, Orbán, Kaczynski, politici che usano il linguaggio delle rivendicazioni sociali? E dov’è la classe operaia di una volta? In Europa non esiste più. E allora la sinistra per me è un progetto culturale; un certo atteggiamento nei confronti degli stranieri, degli immigrati. Sinistra è femminismo. La vera questione del futuro è la lotta tra coloro che vorranno uno Stato e una società aperti e coloro che opteranno per la chiusura. Il futuro della sinistra è la lotta per la libertà».
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Re: Fermate il treno, voglio scendere.
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E il boss di 'ndrangheta ordinò al bambino: «Ora uccidi quell'infame di tua madre»
La drammatica storia vera del piccolo Rocco, che avrebbe dovuto ammazzare la mamma su ordine del padre. La racconta il libro "Rinnega tuo padre", viaggio tra le storie dei minorenni allontanati dal tribunale dalle famiglie appartenenti ai clan. Documenti e interviste raccolte dal giornalista dell'Espresso Giovanni Tizian
di Giovanni Tizian - foto di Pietro Masturzo
18 giugno 2018
«La devi ammazzare. Due colpi nella faccia di quell’infame di tua mamma e chiudiamo ’sta tragedia una volta per tutte. Devi farlo tu. Con l’età che c’hai non andrai in galera». Il padre fissava il piccolo Rocco, da lui si aspettava la stessa determinazione nel tenere lo sguardo alto. Non rimase deluso.
Erano uno di fronte all’altro nella campagna stretta tra l’Aspromonte e il mar Ionio. Seduti su poltroncine di plastica sotto un albero di arance in fiore, protetti da un lungo arbusto di gelsomino, che segnava il confine della tenuta. L’intenso e dolce profumo di gelsomino strideva con il cinico progetto di morte che don Nicola aveva appena consegnato nelle mani del suo erede.
Al racconto shock e inedito è dedicato il primo capitolo del libro appena pubblicato da Laterza dal titolo "Rinnega tuo padre" . Il piccolo Rocco è nato nel 2004, alcuni anni dopo l’ingresso di Nicola nella ’ndrina del paese. Rocco, tuttavia, non è il suo vero nome e sul paese possiamo dire poco. Non per omettere qualcosa, ma solo per tutelare il ragazzo, che oggi vive in una località protetta. Lontano da quel padre che voleva diventasse un killer, battezzato col sangue della madre come nelle più classiche delle tragedie greche. L’inizio di una carriera. Per diventare magari un giorno capomafia.
Rocco non vede più suo padre da oltre un anno. Vive con la mamma e la sorella fuori dalla Calabria. È uno degli ultimi ragazzi allontanati per decreto del Tribunale dal genitore ’ndranghetista. Il termine tecnico della procedura è “decadenza della responsabilità genitoriale”. Finora il presidente del Tribunale, Roberto Di Bella, ha firmato quasi 50 decreti di questo tipo. La decisione di intervenire non è indiscriminata. Si fonda su notizie provenienti da indagini della magistratura da cui emerge il degrado educativo di cui sono vittime questi ragazzi. Degrado educativo inteso come trasmissione di valori mafiosi e perciò trattato alla pari di un maltrattamento fisico. Per comprendere fino in fondo cosa si intenda per trasmissione della cultura ’ndranghetista e come questa venga inculcata nella mente di adolescenti indifesi, è necessario leggere gli atti che sono alla base delle decisioni del Tribunale.
Nelle pagine di Rinnega tuo padre, infatti, troviamo i tratti di una pedagogia parallela, l’educazione di un figlio al crimine. Il più piccolo degli “allontanati” nel 2016 aveva 12 anni. Per Rocco e altri ragazzini come lui, figli di latitanti, di boss, di soldati semplici, il destino familiare aveva riservato un posto nell’organizzazione. La ’ndrangheta, però, non aveva fatto i conti con un giudice altrettanto determinato e coraggioso. Il magistrato che ormai da cinque anni offre una via d’uscita all’obbligatorietà della pena. E che ha cambiato il corso degli eventi. Dimostrando come il destino non sia immutabile.
Rocco aveva impugnato per la prima volta la pistola a 12 anni. Gracile com’era, non era stato facile per lui premere il grilletto e resistere al rinculo. Suo padre aveva improvvisato un poligono artigianale nella campagna del nonno. Su un tavolo piazzato tra due alberi aveva sistemato alcuni barattoli di latta. Rocco aveva preso la mira con l’aiuto del papà. Poi in un attimo il colpo era partito e la tensione che aveva fatto tremare quelle gambe incerte di bambino si era sciolta. La seconda volta aveva sparato con il fucile del nonno. La terza di nuovo con la pistola. In un mese aveva ormai acquisito la sicurezza di un pistolero esperto. Agli occhi di suo padre stava diventando finalmente un uomo. Passavano gli inverni e le estati, e Rocco era pieno di ammirazione per quel padre autoritario e violento.
Rocco respirava ’ndrangheta e piombo. Chissà quale ruolo gli sarebbe toccato. Di certo, un giudice ha impedito che Rocco diventasse un killer bambino. Ha impedito che la vita di sua madre diventasse lo scalpo da portare in dono al capotribù in segno di riconoscenza. L’iniziazione, dopo la quale non è più possibile tornare indietro, non si è ultimata. Ancora qualche anno e avrebbe giurato fedeltà a san Michele Arcangelo con il sangue.
La madre aveva paura, per se stessa e per il figlio. Ecco un passaggio della sua testimonianza contenuta in Rinnega tuo padre: «Io non riesco più a controllare la pericolosità di mio figlio, che è manipolato dal padre e dal nonno, persone pregiudicate e molto pericolose. Dopo la denuncia, il mio ex marito mi ha fatto sapere, tramite mio figlio, che mi brucerà viva. Ho paura [...] mio figlio è abituato a usare armi, che gli dà il padre, e temo possa utilizzarle per commettere gravi reati contro noi familiari e sé stesso».
Il dramma di una famiglia, devastata dal senso distorto dell'onore.
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E il boss di 'ndrangheta ordinò al bambino: «Ora uccidi quell'infame di tua madre»
La drammatica storia vera del piccolo Rocco, che avrebbe dovuto ammazzare la mamma su ordine del padre. La racconta il libro "Rinnega tuo padre", viaggio tra le storie dei minorenni allontanati dal tribunale dalle famiglie appartenenti ai clan. Documenti e interviste raccolte dal giornalista dell'Espresso Giovanni Tizian
di Giovanni Tizian - foto di Pietro Masturzo
18 giugno 2018
«La devi ammazzare. Due colpi nella faccia di quell’infame di tua mamma e chiudiamo ’sta tragedia una volta per tutte. Devi farlo tu. Con l’età che c’hai non andrai in galera». Il padre fissava il piccolo Rocco, da lui si aspettava la stessa determinazione nel tenere lo sguardo alto. Non rimase deluso.
Erano uno di fronte all’altro nella campagna stretta tra l’Aspromonte e il mar Ionio. Seduti su poltroncine di plastica sotto un albero di arance in fiore, protetti da un lungo arbusto di gelsomino, che segnava il confine della tenuta. L’intenso e dolce profumo di gelsomino strideva con il cinico progetto di morte che don Nicola aveva appena consegnato nelle mani del suo erede.
Al racconto shock e inedito è dedicato il primo capitolo del libro appena pubblicato da Laterza dal titolo "Rinnega tuo padre" . Il piccolo Rocco è nato nel 2004, alcuni anni dopo l’ingresso di Nicola nella ’ndrina del paese. Rocco, tuttavia, non è il suo vero nome e sul paese possiamo dire poco. Non per omettere qualcosa, ma solo per tutelare il ragazzo, che oggi vive in una località protetta. Lontano da quel padre che voleva diventasse un killer, battezzato col sangue della madre come nelle più classiche delle tragedie greche. L’inizio di una carriera. Per diventare magari un giorno capomafia.
Rocco non vede più suo padre da oltre un anno. Vive con la mamma e la sorella fuori dalla Calabria. È uno degli ultimi ragazzi allontanati per decreto del Tribunale dal genitore ’ndranghetista. Il termine tecnico della procedura è “decadenza della responsabilità genitoriale”. Finora il presidente del Tribunale, Roberto Di Bella, ha firmato quasi 50 decreti di questo tipo. La decisione di intervenire non è indiscriminata. Si fonda su notizie provenienti da indagini della magistratura da cui emerge il degrado educativo di cui sono vittime questi ragazzi. Degrado educativo inteso come trasmissione di valori mafiosi e perciò trattato alla pari di un maltrattamento fisico. Per comprendere fino in fondo cosa si intenda per trasmissione della cultura ’ndranghetista e come questa venga inculcata nella mente di adolescenti indifesi, è necessario leggere gli atti che sono alla base delle decisioni del Tribunale.
Nelle pagine di Rinnega tuo padre, infatti, troviamo i tratti di una pedagogia parallela, l’educazione di un figlio al crimine. Il più piccolo degli “allontanati” nel 2016 aveva 12 anni. Per Rocco e altri ragazzini come lui, figli di latitanti, di boss, di soldati semplici, il destino familiare aveva riservato un posto nell’organizzazione. La ’ndrangheta, però, non aveva fatto i conti con un giudice altrettanto determinato e coraggioso. Il magistrato che ormai da cinque anni offre una via d’uscita all’obbligatorietà della pena. E che ha cambiato il corso degli eventi. Dimostrando come il destino non sia immutabile.
Rocco aveva impugnato per la prima volta la pistola a 12 anni. Gracile com’era, non era stato facile per lui premere il grilletto e resistere al rinculo. Suo padre aveva improvvisato un poligono artigianale nella campagna del nonno. Su un tavolo piazzato tra due alberi aveva sistemato alcuni barattoli di latta. Rocco aveva preso la mira con l’aiuto del papà. Poi in un attimo il colpo era partito e la tensione che aveva fatto tremare quelle gambe incerte di bambino si era sciolta. La seconda volta aveva sparato con il fucile del nonno. La terza di nuovo con la pistola. In un mese aveva ormai acquisito la sicurezza di un pistolero esperto. Agli occhi di suo padre stava diventando finalmente un uomo. Passavano gli inverni e le estati, e Rocco era pieno di ammirazione per quel padre autoritario e violento.
Rocco respirava ’ndrangheta e piombo. Chissà quale ruolo gli sarebbe toccato. Di certo, un giudice ha impedito che Rocco diventasse un killer bambino. Ha impedito che la vita di sua madre diventasse lo scalpo da portare in dono al capotribù in segno di riconoscenza. L’iniziazione, dopo la quale non è più possibile tornare indietro, non si è ultimata. Ancora qualche anno e avrebbe giurato fedeltà a san Michele Arcangelo con il sangue.
La madre aveva paura, per se stessa e per il figlio. Ecco un passaggio della sua testimonianza contenuta in Rinnega tuo padre: «Io non riesco più a controllare la pericolosità di mio figlio, che è manipolato dal padre e dal nonno, persone pregiudicate e molto pericolose. Dopo la denuncia, il mio ex marito mi ha fatto sapere, tramite mio figlio, che mi brucerà viva. Ho paura [...] mio figlio è abituato a usare armi, che gli dà il padre, e temo possa utilizzarle per commettere gravi reati contro noi familiari e sé stesso».
Il dramma di una famiglia, devastata dal senso distorto dell'onore.
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