Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzione?
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Re: Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzion
.......................................SHOAH 2.0...........................
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Libia, i racconti dei sopravvissuti a Medu: “Nei centri di detenzione torturano e uccidono i migranti per divertimento”
di F. Q. | 5 ottobre 2017
25
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Più informazioni su: Libia, Migranti, Niger, Trattato Italia-Libia
“La prima volta che sono partito in mare la Guardia costiera libica ci ha intercettato e ci ha riportato a terra. Ci ha condotto in una prigione a Zawiya che si chiama Ossama Prison. Lì ti picchiano e ti torturano, ma se si paga il riscatto si è sicuri che si verrà rilasciati, cosa non sempre vera per le altre prigioni. Questo posto viene monitorato da una commissione di europei una volta al mese. Durante la visita mensile le guardie fanno sparire tutti gli strumenti di tortura, le catene e aprono tutte le celle così che sembri un campo profughi piuttosto che una prigione. Poi quando la visita è finita tutto ricomincia come prima”. X.Y. ha 25 anni, arriva dal Camerun. A luglio, nell’hotspot di Pozzallo, ha raccontato la propria odissea agli operatori di Medici per i Diritti Umani, organizzazione di solidarietà internazionale che ha pubblicato ESODI 2017, la nuova web map sulle rotte migratorie dai Paesi sub-sahariani verso l’Europa.
Duemilaseicento le testimonianze raccolte tra il 2014 e il 2017, di cui oltre la metà soltanto nell’ultimo anno. Il cammino verso l’Italia emerge come una discesa all’inferno. La situazione più drammatica è in Libia come testimoniano i racconti dei migranti in questi giorni a Tripoli, Sabha, Gharyan, Beni Walid, Zawiya e Sabrata. “Siamo stati portati in una prigione vicino Tripoli che si chiama Mitiga – ha raccontato I., 20 anni, partito dalla Costa d’Avorio – sono stato picchiato tutti i giorni, torturato mentre i miei familiari assistevano per telefono per convincerli a pagare un riscatto. Mi legavano le gambe e mi appendevano a testa in giù e poi colpivano con forza sotto i piedi. A volte mi versavano addosso dell’acqua gelata e poi mi colpivano su tutto il corpo con dei tubi di plastica dura. Una volta un arabo mi ha tagliato con un coltello sulla mano. Ho visto molte persone venire uccise per futili motivi, a volte solo per divertimento“.
Gli accodi stretti dal governo Gentiloni e dall’Ue con Tripoli e con Paesi come Niger e Sudan hanno ridotto gli imbarchi dalle coste libiche. Così centinaia di migliaia di migranti sono rimasti bloccati nel Paese, la maggior parte in condizioni di detenzione, sequestro e schiavitù. I 30 centri di detenzione formalmente sotto il controllo del governo di Fayez Al Sarraj contengano attualmente un numero che oscilla tra le 6mila e le 15mila persone. Le restanti decine di migliaia di migranti si trovano in un buco nero fatti di luoghi di detenzione e di sequestro controllati da milizie, trafficanti e bande criminali. L’obiettivo del miglioramento delle condizioni di vita dei migranti nei “centri d’accoglienza” previsto dall’accordo italo-libico di febbraio, avallato da Bruxelles, è stato del tutto disatteso: secondo i dati raccolti da Medu, in questi 4 anni l’85% ha subito in Libia torture e trattamenti inumani e degradanti e nello specifico il 79% è stato detenuto/sequestrato in luoghi sovraffollati ed in pessime condizioni igienico sanitarie, il 60% ha subito costanti deprivazioni di cibo, acqua e cure mediche.
“Sono stato in prigione in Libia per 11 mesi – raccontava ad agosto a Pozzallo L., 20 anni proveniente dal Gambia – durante la detenzione mi sono ammalato per via delle terribili condizioni igieniche della prigione. Ho contratto una malattia della pelle. Tutto il mio corpo era pieno di ferite che sanguinavano e perdevano pus. Loro non mi hanno mai permesso di vedere un dottore così sono peggiorato moltissimo. Mi umiliavano davanti a tutti per questa condizione e nessuno voleva starmi vicino. Le guardie venivano solo per picchiarmi. Così un giorno ho provato a scappare insieme ad un amico. Le guardie ci hanno scoperto quasi subito, ci hanno riportato dentro e ci hanno picchiato violentemente. Alle percosse il mio amico non è sopravvissuto. L’ho visto morire davanti miei occhi”.
Il 55% dei racconti riporta gravi e ripetute percosse e percentuali inferiori, ma comunque rilevanti, stupri e oltraggi sessuali, ustioni provocate con gli strumenti più disparati, falaka (percosse alle piante dei piedi), scariche elettriche e torture da sospensione. Nove migranti su 10 hanno dichiarato di aver visto qualcuno morire, essere ucciso o torturato. Alcuni sopravvissuti sono stati costretti a torturare altri migranti per evitare di essere uccisi.
Le atrocità raccontate dai testimoni, prosegue l’organizzazione, trovano conferma nelle sequele fisiche e psichiche rilevate nei sopravvissuti. L’82% dei pazienti visitati dai medici di Medu presentava ancora segni fisici, spesso gravi, compatibili con le violenze riferite. Spesso più insidiose e invalidanti sono le conseguenze psicopatologiche della prigionia. L. ha 17 anni, arriva dal Gambia: “Sono stato in Libia per 3 anni – ha raccontato il ragazzi al personale di Medu l’8 settembre – gli ultimi 2 anni li ho trascorsi a Zwara. Ho lavorato per la polizia libica, ma non era proprio un lavoro. Loro mi usavano, io non mi potevo rifiutare. Quando ho provato a rifiutarmi mi hanno pestato e hanno minacciato di uccidermi. Il mio compito era quello di recuperare i cadaveri dal mare, i cadaveri dei miei fratelli che morivano durante i naufragi. Li recuperavo e poi dovevo seppellirli. In questi due anni ho contato circa 3mila corpi. Ho finito per farci l’abitudine. Alla fine non mi emozionavo più, non mi sconvolgevo più. Solo per le donne in gravidanza o per i cadaveri dei bambini non sono mai riuscito a farci l’abitudine”.
di F. Q. | 5 ottobre 2017
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/10 ... o/3896094/
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Libia, i racconti dei sopravvissuti a Medu: “Nei centri di detenzione torturano e uccidono i migranti per divertimento”
di F. Q. | 5 ottobre 2017
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“La prima volta che sono partito in mare la Guardia costiera libica ci ha intercettato e ci ha riportato a terra. Ci ha condotto in una prigione a Zawiya che si chiama Ossama Prison. Lì ti picchiano e ti torturano, ma se si paga il riscatto si è sicuri che si verrà rilasciati, cosa non sempre vera per le altre prigioni. Questo posto viene monitorato da una commissione di europei una volta al mese. Durante la visita mensile le guardie fanno sparire tutti gli strumenti di tortura, le catene e aprono tutte le celle così che sembri un campo profughi piuttosto che una prigione. Poi quando la visita è finita tutto ricomincia come prima”. X.Y. ha 25 anni, arriva dal Camerun. A luglio, nell’hotspot di Pozzallo, ha raccontato la propria odissea agli operatori di Medici per i Diritti Umani, organizzazione di solidarietà internazionale che ha pubblicato ESODI 2017, la nuova web map sulle rotte migratorie dai Paesi sub-sahariani verso l’Europa.
Duemilaseicento le testimonianze raccolte tra il 2014 e il 2017, di cui oltre la metà soltanto nell’ultimo anno. Il cammino verso l’Italia emerge come una discesa all’inferno. La situazione più drammatica è in Libia come testimoniano i racconti dei migranti in questi giorni a Tripoli, Sabha, Gharyan, Beni Walid, Zawiya e Sabrata. “Siamo stati portati in una prigione vicino Tripoli che si chiama Mitiga – ha raccontato I., 20 anni, partito dalla Costa d’Avorio – sono stato picchiato tutti i giorni, torturato mentre i miei familiari assistevano per telefono per convincerli a pagare un riscatto. Mi legavano le gambe e mi appendevano a testa in giù e poi colpivano con forza sotto i piedi. A volte mi versavano addosso dell’acqua gelata e poi mi colpivano su tutto il corpo con dei tubi di plastica dura. Una volta un arabo mi ha tagliato con un coltello sulla mano. Ho visto molte persone venire uccise per futili motivi, a volte solo per divertimento“.
Gli accodi stretti dal governo Gentiloni e dall’Ue con Tripoli e con Paesi come Niger e Sudan hanno ridotto gli imbarchi dalle coste libiche. Così centinaia di migliaia di migranti sono rimasti bloccati nel Paese, la maggior parte in condizioni di detenzione, sequestro e schiavitù. I 30 centri di detenzione formalmente sotto il controllo del governo di Fayez Al Sarraj contengano attualmente un numero che oscilla tra le 6mila e le 15mila persone. Le restanti decine di migliaia di migranti si trovano in un buco nero fatti di luoghi di detenzione e di sequestro controllati da milizie, trafficanti e bande criminali. L’obiettivo del miglioramento delle condizioni di vita dei migranti nei “centri d’accoglienza” previsto dall’accordo italo-libico di febbraio, avallato da Bruxelles, è stato del tutto disatteso: secondo i dati raccolti da Medu, in questi 4 anni l’85% ha subito in Libia torture e trattamenti inumani e degradanti e nello specifico il 79% è stato detenuto/sequestrato in luoghi sovraffollati ed in pessime condizioni igienico sanitarie, il 60% ha subito costanti deprivazioni di cibo, acqua e cure mediche.
“Sono stato in prigione in Libia per 11 mesi – raccontava ad agosto a Pozzallo L., 20 anni proveniente dal Gambia – durante la detenzione mi sono ammalato per via delle terribili condizioni igieniche della prigione. Ho contratto una malattia della pelle. Tutto il mio corpo era pieno di ferite che sanguinavano e perdevano pus. Loro non mi hanno mai permesso di vedere un dottore così sono peggiorato moltissimo. Mi umiliavano davanti a tutti per questa condizione e nessuno voleva starmi vicino. Le guardie venivano solo per picchiarmi. Così un giorno ho provato a scappare insieme ad un amico. Le guardie ci hanno scoperto quasi subito, ci hanno riportato dentro e ci hanno picchiato violentemente. Alle percosse il mio amico non è sopravvissuto. L’ho visto morire davanti miei occhi”.
Il 55% dei racconti riporta gravi e ripetute percosse e percentuali inferiori, ma comunque rilevanti, stupri e oltraggi sessuali, ustioni provocate con gli strumenti più disparati, falaka (percosse alle piante dei piedi), scariche elettriche e torture da sospensione. Nove migranti su 10 hanno dichiarato di aver visto qualcuno morire, essere ucciso o torturato. Alcuni sopravvissuti sono stati costretti a torturare altri migranti per evitare di essere uccisi.
Le atrocità raccontate dai testimoni, prosegue l’organizzazione, trovano conferma nelle sequele fisiche e psichiche rilevate nei sopravvissuti. L’82% dei pazienti visitati dai medici di Medu presentava ancora segni fisici, spesso gravi, compatibili con le violenze riferite. Spesso più insidiose e invalidanti sono le conseguenze psicopatologiche della prigionia. L. ha 17 anni, arriva dal Gambia: “Sono stato in Libia per 3 anni – ha raccontato il ragazzi al personale di Medu l’8 settembre – gli ultimi 2 anni li ho trascorsi a Zwara. Ho lavorato per la polizia libica, ma non era proprio un lavoro. Loro mi usavano, io non mi potevo rifiutare. Quando ho provato a rifiutarmi mi hanno pestato e hanno minacciato di uccidermi. Il mio compito era quello di recuperare i cadaveri dal mare, i cadaveri dei miei fratelli che morivano durante i naufragi. Li recuperavo e poi dovevo seppellirli. In questi due anni ho contato circa 3mila corpi. Ho finito per farci l’abitudine. Alla fine non mi emozionavo più, non mi sconvolgevo più. Solo per le donne in gravidanza o per i cadaveri dei bambini non sono mai riuscito a farci l’abitudine”.
di F. Q. | 5 ottobre 2017
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6 ottobre 2017
"Un unico destino": il film evento di Fabrizio Gatti
Il naufragio che ha cambiato la nostra storia, avvenuto l'11 ottobre di quattro anni fa, ora è diventato un film. Sull'Espresso in edicola domenica 8 ottobre la presentazione di "Un unico destino", il lungometraggio di Fabrizio Gatti sul più grande massacro di civili di cui è accusata la Marina militare. Che andrà in onda in prima assoluta su Sky Atlantic (15 ottobre). Sul giornale anche la testimonianza straordinaria di un pilota delle forze armate maltesi, che dal suo aereo ha visto tutto. #domenicaEspresso
http://video.espresso.repubblica.it/tut ... 1038/11139
6 ottobre 2017
"Un unico destino": il film evento di Fabrizio Gatti
Il naufragio che ha cambiato la nostra storia, avvenuto l'11 ottobre di quattro anni fa, ora è diventato un film. Sull'Espresso in edicola domenica 8 ottobre la presentazione di "Un unico destino", il lungometraggio di Fabrizio Gatti sul più grande massacro di civili di cui è accusata la Marina militare. Che andrà in onda in prima assoluta su Sky Atlantic (15 ottobre). Sul giornale anche la testimonianza straordinaria di un pilota delle forze armate maltesi, che dal suo aereo ha visto tutto. #domenicaEspresso
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Re: Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzion
Il film evento
Così li ho visti morire
Un aereo sulla zona del disastro. Sotto gli occhi dei
piloti, il barcone sta per affondare. E Nave Libra non interviene
DI FABRIZIO GATTI
09 ottobre 2017
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Il maggiore George Abela, in una sequenza del film, ai comandi di un aereo militare Sono l’ex maggiore George Abela e non ho bisogno di interpreti. Si presenta così, in un buon italiano, il testimone che ha assistito alla fuga di nave Libra: l’11 ottobre di quattro anni fa il pattugliatore della Marina militare non avrebbe risposto all’obbligo di soccorrere 480 persone, tra cui cento bambini, alla deriva su un peschereccio che stava affondando. Le sue parole sono la prova che da lassù, dall’aereo ricognitore maltese King Air B200 in volo sopra il punto geografico dell’emergenza, hanno visto tutto. E sono la dimostrazione che le due Procure italiane che hanno indagato sul disastro, Agrigento e Roma, non hanno mai chiesto la collaborazione delle autorità maltesi per accertare le eventuali responsabilità nella morte di 268 siriani, tra i quali 60 bambini. L’inchiesta l’ha invece fatta L’Espresso: è bastato cercare a Malta e lì abbiamo trovato le risposte alle nostre domande. La testimonianza di George Abela è una delle rivelazioni più sconvolgenti del film “Un unico destino”, che andrà in onda in prima assoluta domenica 15 ottobre alle 21.15 su SkyAtlantic.
L’11 ottobre 2013 il maggiore pilota Abela è il comandante dell’aereo ricognitore inviato dal Centro coordinamento soccorsi di Malta a verificare le condizioni di galleggiabilità del peschereccio. Alla cloche accanto a lui è seduto il copilota, il capitano Pierre Paul Carabez, secondo quanto riportano i registri di servizio di quel pomeriggio. Dietro di loro, i tecnici dell’equipaggio, addetti alle apparecchiature elettroniche di avvistamento. Il King Air è in volo da più di mezz’ora sul mare. La sala operativa di Roma della Guardia costiera italiana, che ha ricevuto la prima richiesta di aiuto dal peschereccio alle 12.26, ha passato l’intervento alle Forze armate di Malta: perché formalmente il punto geografico dell’emergenza è nella zona di competenza maltese per la ricerca e il soccorso. Anche se il barcone si trova a 61 miglia nautiche a Sud di Lampedusa e a ben 118 miglia a Sud Ovest di Malta.
La Guardia costiera, nel trasmettere le informazioni, non riferisce però due particolari fondamentali: il peschereccio ha già mezzo metro d’acqua nello scafo e sta affondando. Altre due ore vengono perse perché il fax italiano con cui viene chiesto l’intervento maltese non arriva a destinazione.Quando, alle quattro del pomeriggio, il maggiore Abela e il capitano Carabez vedono il barcone non sanno nulla di tutto questo. Ciò che più li stupisce è la presenza lì vicino del pattugliatore P402 Libra, comandato dal tenente di vascello Catia Pellegrino. Abela e Carabez non sanno nemmeno che il Comando in capo della Squadra navale della Marina militare ha già ordinato alla Libra di andare a nascondersi: cioè di scappare oltre l’orizzonte per non farsi vedere dalla motovedetta maltese in arrivo, che è ancora molto lontana. Il maggiore Abela fa puntare la potente telecamera di bordo sul peschereccio e contemporaneamente si attacca alla radio. Chiama e richiama gli ufficiali di Catia Pellegrino sul canale 16 Vhf marino riservato alle comunicazioni di emergenza. E ancora oggi, quattro anni dopo il naufragio, la sua testimonianza, mai confidata prima, è agghiacciante. George Abela la spedisce via email alle 10.17 del 27 giugno, nei primi giorni di preparazione del film. Da allora abbiamo fatto le dovute verifiche con quanto è scritto nei rapporti delle Forze armate di Malta. Adesso la possiamo pubblicare.
«Allora, io sono un ex maggiore dell’esercito maltese», premette George Abela, «e rispondo soltanto al mio governo. Io non mi fido di nessuno, nessuno. C’era una sola persona che aveva tutta la mia fiducia ed è morta 20 anni fa».
La barca ha bisogno di aiuto
«Sì, sfortunatamente io ero lì e ho visto tutto e non posso mai dimenticare quel bambino che annegava molto lentamente, dopo essere stato messo giù da un adulto in stato di panico. Non posso dimenticare mai il numero di persone in diminuzione dopo ogni giro che abbiamo fatto con l’aereo. Non dimentico mai che alla mia prima chiamata radio avevo detto che la barca sembrava molto instabile e aveva bisogno di aiuto immediato. Loro ci avevano visto immediatamente ed era ovvio, tutti facevano segnali con le loro t-shirt e altre cose. Dopo un’ora e quattro minuti (di sorvolo), la barca si è capovolta e non siamo stati noi a provocarlo. In quel momento l’aereo stava in autopilota in orbita sopra la barca a chissà quale quota. Con il nostro apparecchio a bordo non c’è più bisogno di volare basso a osservare».
Quel pomeriggio, quel volo, quei bambini che scompaiono sott’acqua sono un punto di non ritorno nella vita di George Abela. «Questo evento», continua nella sua testimonianza, «è stato uno dei tanti fattori che mi ha fatto decidere di lasciare il mio lavoro. Ho realizzato che io sono soltanto una pedina su una scacchiera e Frontex e la collaborazione tra Paesi sono soltanto uno scherzo pieno di merda».
Il comandante del King Air B200, uno dei più bravi piloti istruttori delle Forze armate di Malta, è stato coerente con il suo disgusto. Si è congedato ed è diventato l’ex maggiore George Abela: «Non dimentico mai la sensazione di disperazione e il senso di non poter fare qualcosa in più durante l’evento. Ma», confida ora, «devo vivere con questo incubo. Noi abbiamo fatto il nostro meglio. La nostra motovedetta stava a due ore quando abbiamo trovato il target (il peschereccio), la Libra era soltanto a circa trenta, quaranta minuti. Ho chiamato la Libra sul canale 16 tantissime volte, ma nessuna risposta. Allora, io mi fermo qui. Risponderò soltanto al mio governo che tiene le prove di tutto questo».
Non è stato semplice far parlare il più importante testimone della fuga degli ufficiali italiani davanti al loro dovere. Lo abbiamo rintracciato con l’aiuto di un suo ex collega. Gli abbiamo chiesto di rispondere alle nostre domande. Ma in quei giorni di inizio estate l’ex maggiore Abela ha paura. Sa che lui, il capitano Carabez, il loro equipaggio e tutte le Forze armate di Malta hanno risposto alla richiesta di emergenza in modo impeccabile. Hanno fatto di tutto per convincere le autorità italiane a rispettare la legge del mare e a inviare nave Libra. Ma tutti i militari a Malta sanno anche che i politici sull’isola non la pensano come loro. Il governo maltese ha indirettamente ricavato i suoi benefici dal naufragio dell’11 ottobre: da fine 2013, dall’operazione di salvataggio “Mare nostrum”, l’Italia si è fatta carico di tutti i barconi che hanno attraversato il Mediterraneo. E a Malta non è sbarcato più nessuno, tranne rare eccezioni. Perché rovinarsi i rapporti con il governo italiano mettendo a disposizione documenti, registrazioni video, comunicazioni radio del più grande massacro di civili di cui è accusata la nostra Marina militare? E così il muro del silenzio ha retto quattro anni. Un silenzio rotto oggi dal film prodotto dall’Espresso, Repubblica, Sky e realizzato da 42° Parallelo.
Se un magistrato italiano volesse indagare fino in fondo, a Malta troverebbe ciò che è necessario sapere. Le Forze armate conservano scrupolosamente i rapporti dell’operazione, le registrazioni delle comunicazioni, le videoriprese del King Air. Ci sono perfino le fotografie fatte scattare dal comandante Abela a nave Libra mentre si sta allontanando, con la prua puntata in una direzione diversa da quella del peschereccio sovraccarico e molto instabile. Foto che L’Espresso ha potuto vedere.
All’inizio, però, George Abela non ha proprio voglia di parlare. «Non ho ucciso nessuno», si confida con un amico, «ho fatto del mio meglio per chiedere aiuto, ho lanciato il battellino gonfiabile di bordo e ho osservato in preda alla disperazione. Abbiamo anche pianto. Ma non potevamo fare altro che gettare l’unico battello che avevamo. Ho chiuso, mi sono congedato. Se parlo, nessuno mi difenderà. Risponderò soltanto al mio governo».
La porta dell’anima
Se l’ex maggiore Abela non vuole svuotare la scatola dei suoi ricordi, nemmeno il capitano Carabez può parlare: è ancora in servizio ed è vincolato al segreto. Sembra così che da Malta non arrivi nessuna buona notizia. È il 26 giugno. Mazen Dahhan, Ayman Mostafa e Mohanad Jammo hanno accettato di aprire la porta della loro anima, dei loro incubi, dell’indicibile. Lì dentro hanno chiuso il loro passato che continua a svegliarli la notte e a inseguirli a occhi aperti di giorno. Un’altra persona, un altro papà al loro posto avrebbe pensato al suicidio e raggiunto i suoi bambini. Loro sono medici fino in fondo: hanno fatto un giuramento con la vita e non la tradiscono. Non amano mettersi in mostra. Non lo vorrebbero mai fare. Ma se il film è l’unico mezzo per ricostruire i fatti allora sì, non si tireranno indietro. Dopo le richieste di archiviazione delle Procure di Agrigento e Roma a favore degli ufficiali della Marina militare e della Guardia costiera, avevano perso la speranza di ottenere almeno un processo per i loro bambini. Negli stessi giorni però la ritrovano grazie al giudice per le indagini preliminari di Agrigento, Francesco Provenzano. Il gip siciliano ha stabilito che si è trattato di omicidio, con dolo eventuale. E ha trasmesso gli atti per competenza a Roma, dove un altro giudice si pronuncerà il prossimo 27 ottobre. Il bisogno di giustizia dei sopravvissuti si è infatti scontrato con la terza richiesta di archiviazione per gli ufficiali indagati, tra cui Catia Pellegrino: secondo la Procura romana tutto quello che è successo e si può sentire nelle comunicazioni registrate non costituisce reato.
Di fronte al coraggio dei tre papà un pilota che ha fatto così tanto per evitare la loro morte non può a sua volta scappare. Riproviamo a convincere l’ex maggiore Abela nella tarda serata del 26 giugno. La mail che gli mandiamo, in inglese, è diretta, personale. Sono stato per un breve periodo in Accademia aeronautica, prima di dare le dimissioni: 101° corso ufficiali piloti, era il 1987, l’anno del corso Grifo. È la chiave giusta. «Anch’io sono stato a Latina», risponde in italiano nel giro di poche ore George Abela, «corso Nova, nel 1992, sugli SF260 dell’Aeronautica militare e dopo ho anche fatto Viterbo, corso pilota osservatore». Comincia proprio così la sua confessione.
Il risveglio degli incubi
Adesso tocca ai governi fare la loro parte. Il premier maltese Joseph Muscat deve rassicurare pubblicamente i testimoni. E i suoi ministri devono fare in modo che i documenti sul massacro siano trasmessi all’autorità giudiziaria italiana. Come presto chiederanno gli avvocati Alessandra Ballerini e Emiliano Benzi, che assistono i familiari delle vittime.
Una sera tardi, dopo ore di riprese in un piccolo paese a Nord di Göteborg in Svezia, Mazen Dahhan apre la porta del suo appartamento dove da allora vive solo. «Forse quegli ufficiali hanno sbagliato?», chiede: «Io sono un medico, so che un errore è sempre possibile. Ma non riesco a capire la perdita di tempo. Se invece di correre in sala operatoria, mi allontano e il paziente muore, io sono responsabile. È l’assurda banalità di quello che è successo a tormentarmi. Abbiamo atteso cinque ore i soccorsi, ho poi saputo che la nave italiana poteva salvarci in 45 minuti. Erano così vicini e ci hanno lasciati morire».
© Riproduzione riservata 09 ottobre 2017
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Così li ho visti morire
Un aereo sulla zona del disastro. Sotto gli occhi dei
piloti, il barcone sta per affondare. E Nave Libra non interviene
DI FABRIZIO GATTI
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Il maggiore George Abela, in una sequenza del film, ai comandi di un aereo militare Sono l’ex maggiore George Abela e non ho bisogno di interpreti. Si presenta così, in un buon italiano, il testimone che ha assistito alla fuga di nave Libra: l’11 ottobre di quattro anni fa il pattugliatore della Marina militare non avrebbe risposto all’obbligo di soccorrere 480 persone, tra cui cento bambini, alla deriva su un peschereccio che stava affondando. Le sue parole sono la prova che da lassù, dall’aereo ricognitore maltese King Air B200 in volo sopra il punto geografico dell’emergenza, hanno visto tutto. E sono la dimostrazione che le due Procure italiane che hanno indagato sul disastro, Agrigento e Roma, non hanno mai chiesto la collaborazione delle autorità maltesi per accertare le eventuali responsabilità nella morte di 268 siriani, tra i quali 60 bambini. L’inchiesta l’ha invece fatta L’Espresso: è bastato cercare a Malta e lì abbiamo trovato le risposte alle nostre domande. La testimonianza di George Abela è una delle rivelazioni più sconvolgenti del film “Un unico destino”, che andrà in onda in prima assoluta domenica 15 ottobre alle 21.15 su SkyAtlantic.
L’11 ottobre 2013 il maggiore pilota Abela è il comandante dell’aereo ricognitore inviato dal Centro coordinamento soccorsi di Malta a verificare le condizioni di galleggiabilità del peschereccio. Alla cloche accanto a lui è seduto il copilota, il capitano Pierre Paul Carabez, secondo quanto riportano i registri di servizio di quel pomeriggio. Dietro di loro, i tecnici dell’equipaggio, addetti alle apparecchiature elettroniche di avvistamento. Il King Air è in volo da più di mezz’ora sul mare. La sala operativa di Roma della Guardia costiera italiana, che ha ricevuto la prima richiesta di aiuto dal peschereccio alle 12.26, ha passato l’intervento alle Forze armate di Malta: perché formalmente il punto geografico dell’emergenza è nella zona di competenza maltese per la ricerca e il soccorso. Anche se il barcone si trova a 61 miglia nautiche a Sud di Lampedusa e a ben 118 miglia a Sud Ovest di Malta.
La Guardia costiera, nel trasmettere le informazioni, non riferisce però due particolari fondamentali: il peschereccio ha già mezzo metro d’acqua nello scafo e sta affondando. Altre due ore vengono perse perché il fax italiano con cui viene chiesto l’intervento maltese non arriva a destinazione.Quando, alle quattro del pomeriggio, il maggiore Abela e il capitano Carabez vedono il barcone non sanno nulla di tutto questo. Ciò che più li stupisce è la presenza lì vicino del pattugliatore P402 Libra, comandato dal tenente di vascello Catia Pellegrino. Abela e Carabez non sanno nemmeno che il Comando in capo della Squadra navale della Marina militare ha già ordinato alla Libra di andare a nascondersi: cioè di scappare oltre l’orizzonte per non farsi vedere dalla motovedetta maltese in arrivo, che è ancora molto lontana. Il maggiore Abela fa puntare la potente telecamera di bordo sul peschereccio e contemporaneamente si attacca alla radio. Chiama e richiama gli ufficiali di Catia Pellegrino sul canale 16 Vhf marino riservato alle comunicazioni di emergenza. E ancora oggi, quattro anni dopo il naufragio, la sua testimonianza, mai confidata prima, è agghiacciante. George Abela la spedisce via email alle 10.17 del 27 giugno, nei primi giorni di preparazione del film. Da allora abbiamo fatto le dovute verifiche con quanto è scritto nei rapporti delle Forze armate di Malta. Adesso la possiamo pubblicare.
«Allora, io sono un ex maggiore dell’esercito maltese», premette George Abela, «e rispondo soltanto al mio governo. Io non mi fido di nessuno, nessuno. C’era una sola persona che aveva tutta la mia fiducia ed è morta 20 anni fa».
La barca ha bisogno di aiuto
«Sì, sfortunatamente io ero lì e ho visto tutto e non posso mai dimenticare quel bambino che annegava molto lentamente, dopo essere stato messo giù da un adulto in stato di panico. Non posso dimenticare mai il numero di persone in diminuzione dopo ogni giro che abbiamo fatto con l’aereo. Non dimentico mai che alla mia prima chiamata radio avevo detto che la barca sembrava molto instabile e aveva bisogno di aiuto immediato. Loro ci avevano visto immediatamente ed era ovvio, tutti facevano segnali con le loro t-shirt e altre cose. Dopo un’ora e quattro minuti (di sorvolo), la barca si è capovolta e non siamo stati noi a provocarlo. In quel momento l’aereo stava in autopilota in orbita sopra la barca a chissà quale quota. Con il nostro apparecchio a bordo non c’è più bisogno di volare basso a osservare».
Quel pomeriggio, quel volo, quei bambini che scompaiono sott’acqua sono un punto di non ritorno nella vita di George Abela. «Questo evento», continua nella sua testimonianza, «è stato uno dei tanti fattori che mi ha fatto decidere di lasciare il mio lavoro. Ho realizzato che io sono soltanto una pedina su una scacchiera e Frontex e la collaborazione tra Paesi sono soltanto uno scherzo pieno di merda».
Il comandante del King Air B200, uno dei più bravi piloti istruttori delle Forze armate di Malta, è stato coerente con il suo disgusto. Si è congedato ed è diventato l’ex maggiore George Abela: «Non dimentico mai la sensazione di disperazione e il senso di non poter fare qualcosa in più durante l’evento. Ma», confida ora, «devo vivere con questo incubo. Noi abbiamo fatto il nostro meglio. La nostra motovedetta stava a due ore quando abbiamo trovato il target (il peschereccio), la Libra era soltanto a circa trenta, quaranta minuti. Ho chiamato la Libra sul canale 16 tantissime volte, ma nessuna risposta. Allora, io mi fermo qui. Risponderò soltanto al mio governo che tiene le prove di tutto questo».
Non è stato semplice far parlare il più importante testimone della fuga degli ufficiali italiani davanti al loro dovere. Lo abbiamo rintracciato con l’aiuto di un suo ex collega. Gli abbiamo chiesto di rispondere alle nostre domande. Ma in quei giorni di inizio estate l’ex maggiore Abela ha paura. Sa che lui, il capitano Carabez, il loro equipaggio e tutte le Forze armate di Malta hanno risposto alla richiesta di emergenza in modo impeccabile. Hanno fatto di tutto per convincere le autorità italiane a rispettare la legge del mare e a inviare nave Libra. Ma tutti i militari a Malta sanno anche che i politici sull’isola non la pensano come loro. Il governo maltese ha indirettamente ricavato i suoi benefici dal naufragio dell’11 ottobre: da fine 2013, dall’operazione di salvataggio “Mare nostrum”, l’Italia si è fatta carico di tutti i barconi che hanno attraversato il Mediterraneo. E a Malta non è sbarcato più nessuno, tranne rare eccezioni. Perché rovinarsi i rapporti con il governo italiano mettendo a disposizione documenti, registrazioni video, comunicazioni radio del più grande massacro di civili di cui è accusata la nostra Marina militare? E così il muro del silenzio ha retto quattro anni. Un silenzio rotto oggi dal film prodotto dall’Espresso, Repubblica, Sky e realizzato da 42° Parallelo.
Se un magistrato italiano volesse indagare fino in fondo, a Malta troverebbe ciò che è necessario sapere. Le Forze armate conservano scrupolosamente i rapporti dell’operazione, le registrazioni delle comunicazioni, le videoriprese del King Air. Ci sono perfino le fotografie fatte scattare dal comandante Abela a nave Libra mentre si sta allontanando, con la prua puntata in una direzione diversa da quella del peschereccio sovraccarico e molto instabile. Foto che L’Espresso ha potuto vedere.
All’inizio, però, George Abela non ha proprio voglia di parlare. «Non ho ucciso nessuno», si confida con un amico, «ho fatto del mio meglio per chiedere aiuto, ho lanciato il battellino gonfiabile di bordo e ho osservato in preda alla disperazione. Abbiamo anche pianto. Ma non potevamo fare altro che gettare l’unico battello che avevamo. Ho chiuso, mi sono congedato. Se parlo, nessuno mi difenderà. Risponderò soltanto al mio governo».
La porta dell’anima
Se l’ex maggiore Abela non vuole svuotare la scatola dei suoi ricordi, nemmeno il capitano Carabez può parlare: è ancora in servizio ed è vincolato al segreto. Sembra così che da Malta non arrivi nessuna buona notizia. È il 26 giugno. Mazen Dahhan, Ayman Mostafa e Mohanad Jammo hanno accettato di aprire la porta della loro anima, dei loro incubi, dell’indicibile. Lì dentro hanno chiuso il loro passato che continua a svegliarli la notte e a inseguirli a occhi aperti di giorno. Un’altra persona, un altro papà al loro posto avrebbe pensato al suicidio e raggiunto i suoi bambini. Loro sono medici fino in fondo: hanno fatto un giuramento con la vita e non la tradiscono. Non amano mettersi in mostra. Non lo vorrebbero mai fare. Ma se il film è l’unico mezzo per ricostruire i fatti allora sì, non si tireranno indietro. Dopo le richieste di archiviazione delle Procure di Agrigento e Roma a favore degli ufficiali della Marina militare e della Guardia costiera, avevano perso la speranza di ottenere almeno un processo per i loro bambini. Negli stessi giorni però la ritrovano grazie al giudice per le indagini preliminari di Agrigento, Francesco Provenzano. Il gip siciliano ha stabilito che si è trattato di omicidio, con dolo eventuale. E ha trasmesso gli atti per competenza a Roma, dove un altro giudice si pronuncerà il prossimo 27 ottobre. Il bisogno di giustizia dei sopravvissuti si è infatti scontrato con la terza richiesta di archiviazione per gli ufficiali indagati, tra cui Catia Pellegrino: secondo la Procura romana tutto quello che è successo e si può sentire nelle comunicazioni registrate non costituisce reato.
Di fronte al coraggio dei tre papà un pilota che ha fatto così tanto per evitare la loro morte non può a sua volta scappare. Riproviamo a convincere l’ex maggiore Abela nella tarda serata del 26 giugno. La mail che gli mandiamo, in inglese, è diretta, personale. Sono stato per un breve periodo in Accademia aeronautica, prima di dare le dimissioni: 101° corso ufficiali piloti, era il 1987, l’anno del corso Grifo. È la chiave giusta. «Anch’io sono stato a Latina», risponde in italiano nel giro di poche ore George Abela, «corso Nova, nel 1992, sugli SF260 dell’Aeronautica militare e dopo ho anche fatto Viterbo, corso pilota osservatore». Comincia proprio così la sua confessione.
Il risveglio degli incubi
Adesso tocca ai governi fare la loro parte. Il premier maltese Joseph Muscat deve rassicurare pubblicamente i testimoni. E i suoi ministri devono fare in modo che i documenti sul massacro siano trasmessi all’autorità giudiziaria italiana. Come presto chiederanno gli avvocati Alessandra Ballerini e Emiliano Benzi, che assistono i familiari delle vittime.
Una sera tardi, dopo ore di riprese in un piccolo paese a Nord di Göteborg in Svezia, Mazen Dahhan apre la porta del suo appartamento dove da allora vive solo. «Forse quegli ufficiali hanno sbagliato?», chiede: «Io sono un medico, so che un errore è sempre possibile. Ma non riesco a capire la perdita di tempo. Se invece di correre in sala operatoria, mi allontano e il paziente muore, io sono responsabile. È l’assurda banalità di quello che è successo a tormentarmi. Abbiamo atteso cinque ore i soccorsi, ho poi saputo che la nave italiana poteva salvarci in 45 minuti. Erano così vicini e ci hanno lasciati morire».
© Riproduzione riservata 09 ottobre 2017
http://espresso.repubblica.it/attualita ... =HEF_RULLO
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Re: Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzion
..........IN NOME DEL DIO PIU' POTENTE DI QUESTO PIANETA.........IL DIO DOLLARO......
(Federica Francesconi, “Un ectoplasma si aggira per l’Europa: Soros e la sua mania di onnipotenza”, dal blog della Francesconi del 10 settembre 2017).
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Il fantasma di Soros: buonismo migrante, guerre e affari
Scritto il 10/10/17 • nella Categoria: idee Condividi
Una presenza ectoplasmatica si aggira per l’Europa: George Soros, il miliardario ottuagenario la cui longa manus rattrappita sta dietro tutti i movimenti (contro)rivoluzionari del pianeta, le novità pseudoculturali, l’umanitarismo di facciata che nasconde interessi economici inconfessabili. Osannato dal mondo della cooperazione, dalle Ong e dai partiti progressisti europei, l’arzillo nonnino è ormai diventato in Europa un’icona della filantropia, il difensore per eccellenza dei diritti umani e delle minoranze straniere e di genere. Ma sotto una crosta superficiale di santità questo personaggio nasconde ben altro, essendo il principale finanziatore a livello mondiale della sovversione controiniziatica che sta portando il mondo alla deriva. Poco noti al grande pubblico sono infatti gli intrecci loschi tra Soros e gli agenti della sovversione. Ma andiamo per ordine, cominciando col rivelare i legami torbidi tra Soros e il mondo della cooperazione, anche italiana. Stando al quotidiano “Il Sole 24 Ore” Soros avrebbe di recente investito sui titoli di alcune cooperative rosse del Nord Italia diventando, con il 5% del capitale sociale, il terzo azionista di alcuni colossi che fanno capo alla Lega delle Cooperative, quella presieduta dal pacioccone Poletti, ministro del lavoro dell’attuale governo.
L’ingresso di Soros svela il passaggio del mondo della cooperazione italiana da un modello economico di tipo solidale a un modello capitalistico tout court, già da anni adottato dalle cooperative, che ancora oggi si ammantano di un idealismo e di una purezza che non hanno mai posseduto. Insomma, le mani del nonnino Soros sulla cooperazione italiana porta alla luce del sole quel che già si sapeva da tempo e che era sottaciuto da molti: la trasformazione di quel mondo in un potere forte in grado di esercitare pressioni lobbistiche sui governi (e la nomina di Poletti alla guida del ministero del lavoro ne è una prova tangibile). Soros finanzia anche la cooperazione bianca, di matrice cattolica. Ben documentata è infatti la partecipazione di Soros alle attività filantropiche della Compagnia delle Opere, che fa capo al colosso cattolico Comunione e Liberazione. In concomitanza con l’aumento dei flussi migratori verso il nostro paese, molte cooperative bianche e rosse hanno di recente riconvertito le loro attività nel sociale, precedentemente concentrate in settori quali i servizi educativi e sanitari, in attività di accoglienza e di gestione dei profughi. E’ quindi nata negli ultimi anni una costellazione di strutture residenziali e di comunità per accogliere e integrare i clandestini portati in Italia dalle Ong che operano nel Mediterraneo per il salvataggio di costoro.
Altro aspetto, questa volta più noto, dell’intraprendenza “filantropica” di Soros è il suo legame a doppio filo con le Ong, specialmente con quelle che si occupano della promozione dei diritti umani, in paesi dove vengono a loro dire calpestati. Attraverso la Open Society Foundation, Soros ha creato in pochi anni una vera e propria ragnatela in cui sono state attirate migliaia di Ong, spesso politicizzate e ideologizzate in senso radical progressista, che operano come agenti di disturbo verso i governi legittimamente eletti di paesi non allineati. Il caso della Siria è emblematico: attraverso una machiavellica propaganda mediatica queste Ong hanno creato a tavolino la fola della Siria violatrice di diritti umani e diffuso l’immagine demoniaca di Assad dittatore sanguinario che tortura i suoi cittadini. Altro aspetto veramente inquietante della rete labirintica creata da Soros per destabilizzare il mondo è il generoso finanziamento che egli elargisce alle associazioni Lgbtq. Secondo i documenti desecretati da Wikileaks, l’organizzazione di Julian Assange, è Soros il principale finanziatore del movimento delle Pussy Riots, un gruppo punk di donne russe sciamannate che contesta con atti provocatori Putin e l’attaccamento del popolo russo alle tradizioni patrie, e le laide Femen ucraine, sospettate di simpatie naziste. Come è lo stesso Soros a finanziare, solo per fare un esempio tra i tanti, l’Arcigay e tante altre associazioni gay e gender.
Il filo rosso che unisce Soros alle Ong che operano nel Mediterraneo è poi noto a tutti (o quasi). E’ lui che finanzia le navi che solcano il Mediterraneo per soccorrere i clandestini caricati nelle carrette degli scafisti. Anche se più che di soccorso bisognerebbe parlare di complicità vera e propria tra gli operatori Ong e gli scafisti, come alcune recenti indagini della magistratura italiana hanno rivelato. D’altra parte i referenti delle Ong non nascondono, con un certo autocompiacimento, la loro stretta collaborazione con la Open Society Foundation sorosiana, e i bilanci di tali Ong palesano il finanziamento diretto da parte di essa. Il legame tra il magnate ungherese e le Ong dei “profughi” è così stretto che quando il mese scorso il governo libico ha deciso di vietare alle navi Ong di accostarsi alle coste libiche per caricare i clandestini, Soros ha avuto un’esplosione di rabbia, tempestando di telefonate tutti i big della politica internazionale, Onu compresa, per bloccare la decisione del governo libico.
E per sensibilizzare l’opinione pubblica occidentale Soros ha già pronto l’avvio di un nuovo movimento di protesta pro migrates, i No Borders, che si attiveranno con manifestazioni e provocazioni di ogni tipo in tutti i paesi europei. Solita strategia della manipolazione dell’opinione pubblica a suon di slogan e attivismo a pagamento, insomma. Cambiamo gli attori ma la trama e il regista restano uguali. Che dire, per concludere, di questo magnate con il chiodo fisso della democrazia a tutti i costi? Ma che cosa intenderà mai il filantropo Soros con il termine “democrazia”? Potere al popolo, come l’etimologia suggerisce, o potere alle élite illuminate che sovrastano il popolo prendendo decisioni non condivise che peggiorano la qualità della vita? Democrazia come solidarietà e difesa delle fasce più deboli della cittadinanza o democrazia del denaro? Rispetto dell’autodeterminazione dei popoli o imposizione della democrazia attraverso campagne di demonizzazione o campagne militari? Lascio ai più lungimiranti l’ardua risposta.
(Federica Francesconi, “Un ectoplasma si aggira per l’Europa: Soros e la sua mania di onnipotenza”, dal blog della Francesconi del 10 settembre 2017).
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Una presenza ectoplasmatica si aggira per l’Europa: George Soros, il miliardario ottuagenario la cui longa manus rattrappita sta dietro tutti i movimenti (contro)rivoluzionari del pianeta, le novità pseudoculturali, l’umanitarismo di facciata che nasconde interessi economici inconfessabili. Osannato dal mondo della cooperazione, dalle Ong e dai partiti progressisti europei, l’arzillo nonnino è ormai diventato in Europa un’icona della filantropia, il difensore per eccellenza dei diritti umani e delle minoranze straniere e di genere. Ma sotto una crosta superficiale di santità questo personaggio nasconde ben altro, essendo il principale finanziatore a livello mondiale della sovversione controiniziatica che sta portando il mondo alla deriva. Poco noti al grande pubblico sono infatti gli intrecci loschi tra Soros e gli agenti della sovversione. Ma andiamo per ordine, cominciando col rivelare i legami torbidi tra Soros e il mondo della cooperazione, anche italiana. Stando al quotidiano “Il Sole 24 Ore” Soros avrebbe di recente investito sui titoli di alcune cooperative rosse del Nord Italia diventando, con il 5% del capitale sociale, il terzo azionista di alcuni colossi che fanno capo alla Lega delle Cooperative, quella presieduta dal pacioccone Poletti, ministro del lavoro dell’attuale governo.
L’ingresso di Soros svela il passaggio del mondo della cooperazione italiana da un modello economico di tipo solidale a un modello capitalistico tout court, già da anni adottato dalle cooperative, che ancora oggi si ammantano di un idealismo e di una purezza che non hanno mai posseduto. Insomma, le mani del nonnino Soros sulla cooperazione italiana porta alla luce del sole quel che già si sapeva da tempo e che era sottaciuto da molti: la trasformazione di quel mondo in un potere forte in grado di esercitare pressioni lobbistiche sui governi (e la nomina di Poletti alla guida del ministero del lavoro ne è una prova tangibile). Soros finanzia anche la cooperazione bianca, di matrice cattolica. Ben documentata è infatti la partecipazione di Soros alle attività filantropiche della Compagnia delle Opere, che fa capo al colosso cattolico Comunione e Liberazione. In concomitanza con l’aumento dei flussi migratori verso il nostro paese, molte cooperative bianche e rosse hanno di recente riconvertito le loro attività nel sociale, precedentemente concentrate in settori quali i servizi educativi e sanitari, in attività di accoglienza e di gestione dei profughi. E’ quindi nata negli ultimi anni una costellazione di strutture residenziali e di comunità per accogliere e integrare i clandestini portati in Italia dalle Ong che operano nel Mediterraneo per il salvataggio di costoro.
Altro aspetto, questa volta più noto, dell’intraprendenza “filantropica” di Soros è il suo legame a doppio filo con le Ong, specialmente con quelle che si occupano della promozione dei diritti umani, in paesi dove vengono a loro dire calpestati. Attraverso la Open Society Foundation, Soros ha creato in pochi anni una vera e propria ragnatela in cui sono state attirate migliaia di Ong, spesso politicizzate e ideologizzate in senso radical progressista, che operano come agenti di disturbo verso i governi legittimamente eletti di paesi non allineati. Il caso della Siria è emblematico: attraverso una machiavellica propaganda mediatica queste Ong hanno creato a tavolino la fola della Siria violatrice di diritti umani e diffuso l’immagine demoniaca di Assad dittatore sanguinario che tortura i suoi cittadini. Altro aspetto veramente inquietante della rete labirintica creata da Soros per destabilizzare il mondo è il generoso finanziamento che egli elargisce alle associazioni Lgbtq. Secondo i documenti desecretati da Wikileaks, l’organizzazione di Julian Assange, è Soros il principale finanziatore del movimento delle Pussy Riots, un gruppo punk di donne russe sciamannate che contesta con atti provocatori Putin e l’attaccamento del popolo russo alle tradizioni patrie, e le laide Femen ucraine, sospettate di simpatie naziste. Come è lo stesso Soros a finanziare, solo per fare un esempio tra i tanti, l’Arcigay e tante altre associazioni gay e gender.
Il filo rosso che unisce Soros alle Ong che operano nel Mediterraneo è poi noto a tutti (o quasi). E’ lui che finanzia le navi che solcano il Mediterraneo per soccorrere i clandestini caricati nelle carrette degli scafisti. Anche se più che di soccorso bisognerebbe parlare di complicità vera e propria tra gli operatori Ong e gli scafisti, come alcune recenti indagini della magistratura italiana hanno rivelato. D’altra parte i referenti delle Ong non nascondono, con un certo autocompiacimento, la loro stretta collaborazione con la Open Society Foundation sorosiana, e i bilanci di tali Ong palesano il finanziamento diretto da parte di essa. Il legame tra il magnate ungherese e le Ong dei “profughi” è così stretto che quando il mese scorso il governo libico ha deciso di vietare alle navi Ong di accostarsi alle coste libiche per caricare i clandestini, Soros ha avuto un’esplosione di rabbia, tempestando di telefonate tutti i big della politica internazionale, Onu compresa, per bloccare la decisione del governo libico.
E per sensibilizzare l’opinione pubblica occidentale Soros ha già pronto l’avvio di un nuovo movimento di protesta pro migrates, i No Borders, che si attiveranno con manifestazioni e provocazioni di ogni tipo in tutti i paesi europei. Solita strategia della manipolazione dell’opinione pubblica a suon di slogan e attivismo a pagamento, insomma. Cambiamo gli attori ma la trama e il regista restano uguali. Che dire, per concludere, di questo magnate con il chiodo fisso della democrazia a tutti i costi? Ma che cosa intenderà mai il filantropo Soros con il termine “democrazia”? Potere al popolo, come l’etimologia suggerisce, o potere alle élite illuminate che sovrastano il popolo prendendo decisioni non condivise che peggiorano la qualità della vita? Democrazia come solidarietà e difesa delle fasce più deboli della cittadinanza o democrazia del denaro? Rispetto dell’autodeterminazione dei popoli o imposizione della democrazia attraverso campagne di demonizzazione o campagne militari? Lascio ai più lungimiranti l’ardua risposta.
(Federica Francesconi, “Un ectoplasma si aggira per l’Europa: Soros e la sua mania di onnipotenza”, dal blog della Francesconi del 10 settembre 2017).
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Re: Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzion
…….PEGGIO DELLA SHOAH 2.0, C’E’ SOLO LO SFRUTTAMENTO DI MILIONI DI PERSONE CHE PER PIGRIZIA VIVONO NELL’IGNORANZA…
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Il 66% degli italiani
è contro gli immigrati
Francesco Curridori
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Re: Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzion
UncleTom ha scritto:
…….PEGGIO DELLA SHOAH 2.0, C’E’ SOLO LO SFRUTTAMENTO DI MILIONI DI PERSONE CHE PER PIGRIZIA VIVONO NELL’IGNORANZA…
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Il 66% degli italiani
è contro gli immigrati
Francesco Curridori
Il 66% degli italiani è contro gli immigrati
Il 34% degli italiani sarebbe d'accordo a inviare i nostri militari in Libia per ristabilire il controllo delle frontiere e porre un freno all'arrivo degli immigrati dall'Africa
Francesco Curridori - Lun, 09/10/2017 - 19:01
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Gli italiani sempre meno contenti di accogliere l'invasione dei migranti dall'Africa. Secondo i dati di un rapporto del Laboratorio di Analisi Politiche dell'università di Siena, pubblicati da La Stampa, il tema immigrazione sarebbe balzato in cima all'agenda e un terzo dell'Italia sarebbe favorevole all'uscita dall'euro.
"È in atto un profondo cambiamento in Italia - spiega Ettore Greco,vicepresidente vicario dello Iai -, notiamo un'inclinazione maggiore verso l'uso della forza. Il 34% degli italiani sarebbe d'accordo a inviare i nostri militari in Libia per ristabilire il controllo delle frontiere in loco, anche a costo di subire perdite". Quattro italiani su dieci, inoltre, vorrebbero che il governo attuasse una politica di respingimenti "anche se questo espone i migranti a maltrattamenti disumani nei Paesi d'origine e di transito". Soltanto il 29% è favorevole ad accogliere i migranti sul suolo italiano. Il governo viene bocciato in materia di lotta al terrorismo (voto 5) e di gestione dell'immigrazione (voto 2,9). Sull'Europa, infine, un terzo degli italiani sarebbe infatti a favore dell'Italexit, l'uscita dall'Unione, il 36 per cento all'uscita dall'euro.
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Re: Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzion
Il problema non è se essere a favore o contro. Si sa bene che l'Italia non può sobbarcarsi tutta l'immigrazione e a tempo definito, come se poi fosse uno stato sviluppato. La domanda è posta male.
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Re: Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzion
Migranti, Leoluca Orlando: «Denuncio la Ue per genocidio»
9/27
Corriere della Sera
Redazione Online
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Sulla gestione «criminogena» dei migranti «l’Europa è responsabile di un vero e proprio genocidio.
Presenterò una denuncia alla Procura della Repubblica di Palermo rivolta agli stati europei, all’Unione europea.
Poi sarà la Procura a decidere».
Lo annuncia il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, intervistato da Sky Tg24.
«La mia è un’accusa da giurista - attacca Orlando - non mi riferisco alla distinzione, che io non accetto, tra migranti economici e richiedenti asilo.
Ma al fatto che in base alla propria legislazione, l’Europa riconosce il diritto all’asilo dei siriani, ma poi non li mette in condizione di raggiungere l’Europa.
Li costringe a vendersi a mercanti di morte, quando potrebbero viaggiare in business, atterrando a Londra, piuttosto che a Berlino o a Amsterdam.
Questa è materia sufficiente perché si faccia un processo penale».
«Continua l’intreccio perverso e criminale tra genocidio e business», ha aggiunto Orlando. «L’Europa - attacca - ogni tanto si sveglia dal suo sonno criminale e scopre quello che sta accadendo, cioè una vera e propria strage degli innocenti. Frutto di un sistema europeo criminogeno che alimenta la criminalità organizzata.
Adesso sono arrivati gli ucraini, i russi, gli yacht, le barche a vela...E il business continua».
«Dimenticando che il finanziamento di dittatori, ieri in Turchia oggi in Libia, produce soltanto un ulteriore incentivo al business criminale».
Per questo, ha ribadito il sindaco di Palermo, «presenterò una pronuncia alla Procura della Repubblica di Palermo, nei confronti di questo ignobile mercato che riguarda gli stati europei e l’Unione Europea.
Questo genocidio ci farà vergognare di essere europei».
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Corriere della Sera
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Sulla gestione «criminogena» dei migranti «l’Europa è responsabile di un vero e proprio genocidio.
Presenterò una denuncia alla Procura della Repubblica di Palermo rivolta agli stati europei, all’Unione europea.
Poi sarà la Procura a decidere».
Lo annuncia il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, intervistato da Sky Tg24.
«La mia è un’accusa da giurista - attacca Orlando - non mi riferisco alla distinzione, che io non accetto, tra migranti economici e richiedenti asilo.
Ma al fatto che in base alla propria legislazione, l’Europa riconosce il diritto all’asilo dei siriani, ma poi non li mette in condizione di raggiungere l’Europa.
Li costringe a vendersi a mercanti di morte, quando potrebbero viaggiare in business, atterrando a Londra, piuttosto che a Berlino o a Amsterdam.
Questa è materia sufficiente perché si faccia un processo penale».
«Continua l’intreccio perverso e criminale tra genocidio e business», ha aggiunto Orlando. «L’Europa - attacca - ogni tanto si sveglia dal suo sonno criminale e scopre quello che sta accadendo, cioè una vera e propria strage degli innocenti. Frutto di un sistema europeo criminogeno che alimenta la criminalità organizzata.
Adesso sono arrivati gli ucraini, i russi, gli yacht, le barche a vela...E il business continua».
«Dimenticando che il finanziamento di dittatori, ieri in Turchia oggi in Libia, produce soltanto un ulteriore incentivo al business criminale».
Per questo, ha ribadito il sindaco di Palermo, «presenterò una pronuncia alla Procura della Repubblica di Palermo, nei confronti di questo ignobile mercato che riguarda gli stati europei e l’Unione Europea.
Questo genocidio ci farà vergognare di essere europei».
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Re: Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzion
..........................................SHOAH 2.0
QUANDO ALLA FINE DEGLI ANNI '50 , LA RAI MANDO' IN ONDA I PRIMI FILMATI DELLE TRUPPE ANGLO-AMERICANE E SOVIETICHE CHE SI TROVARONO DI FRONTE AI CAMPI DI STERMINIO NAZISTI, UNO SPETTACOLO AGGHIACCIANTE, E GLI INTERVISTATI CIVILI TEDESCHI CHE SI COMPORTAVANO COME I SICILIANI: "NULLA VIDI, NULLA SENTII, NENTE SACCIU", GLI ITALIANI SOPRAVVISUTI ALL'OCCUPAZIONE NAZIFASCISTA SI INDIGNARONO NON POCO.
OGGI SONO LORO A NON INDIGNARSI DI FRONTE AI CRIMINI CONTRO L'UMANITA'.
Libici contro Ong: la battaglia navale mentre 50 migranti muoiono in mare
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di ALESSANDRA ZINITI 3 ore fa
"THIS IS ITALIAN Navy helicopter, channel 16, we want you to stop now, now, now". L'elicottero della Marina italiana volava basso in tondo e provava a fermare la motovedetta libica mentre John moriva, trascinato via a folle velocità, sospeso in aria sul mare, una mano disperatamente attaccata alla cima e l'altra protesa verso la moglie, ormai in salvo sul gommone della Sea Watch. "Lui era lì, sul ponte della barca e gridava verso di me. I libici lo picchiavano con delle corde, lo prendevano a calci, poi l'ho visto scavalcare e buttarsi in acqua. È andato giù, l'ho visto riemergere, era riuscito a riaggrapparsi alla fune sul fianco della motovedetta. Gridava: "Aspettatemi, aspettatami, aiuto, non lasciatemi qui...". Ma a un certo punto i libici hanno riacceso il motore e la barca ha fatto un balzo in avanti trascinando via lui e tutti gli altri che stavano ancora in acqua. E non l'ho più visto. John non sapeva nuotare, era salvo ma è morto perché voleva raggiungere me che ero già in Italia".
Darfish piange senza sosta, in ospedale a Modica, mentre riavvolge il tragico film che lunedì mattina ha cambiato per sempre la sua vita. Lei, sul gommone della nave umanitaria tedesca, dunque "già in Italia ", suo marito, a bordo della motovedetta della Guardia costiera, dunque destinato a tornare in Libia. Viaggio di andata e ritorno all'inferno. Di nuovo in prigione, di nuovo torture, violenza, un nuovo riscatto da pagare per riprovarci ancora. Una prospettiva agghiacciante anche per chi, come questa giovane coppia camerunense, è sopravvissuto alla traversata nel deserto, alla prigionia nella connection house e persino al naufragio di quel gommone davanti al quale il destino ha aperto loro le "sliding doors" del Mediterraneo. Un drammatico soccorso conteso tra i libici e le Ong che, per la prima volta da quando sono entrati in vigore gli accordi tra il governo italiano e quello di Al Serraj, ha aperto gli occhi dell'Europa sulla roulette russa a cui è affidato il destino delle migliaia di persone che ancora tentano la traversata nel Mediterraneo.Un incidente che avrebbe fatto una cinquantina di dispersi e sul quale adesso indaga la Procura di Ragusa. Nei prossimi giorni i pm vaglieranno le testimonianze dei 59 superstiti portati a Pozzallo dalla Sea Watch insieme al corpicino del bimbo di due anni, annegato sotto gli occhi della madre, e a quelli delle altre quattro vittime recuperate e trasferite a bordo di un'altra nave umanitaria, la Aquarius di Sos Mediterranèe. Dovranno stabilire se su queste morti vi siano delle responsabilità di qualcuno degli attori intervenuti nelle operazioni di soccorso che, coordinate dalla sala operativa della Guardia costiera di Roma, hanno dovuto fare i conti con il contemporaneo arrivo sul luogo del naufragio della motovedetta libica e della nave umanitaria.
L'Italia da una parte e la Libia dall'altra, il gommone semiaffondato in mezzo, tanti corpi galleggianti in acqua ma soprattutto decine di persone, che ormai in salvo sull'imbarcazione libica, si sono buttate in mare nel vano tentativo di raggiungere quei due gommoni che avrebbero aperto loro le porte dell'Europa. Terribili disperati minuti di caos spezzati dalla fuga in avanti della motovedetta libica che, dopo aver tentato di trattenere a bordo con minacce e violenze i migranti, ha riacceso i motori ripartendo a tutto gas verso Tripoli con 42 superstiti a bordo che imploranti tendevano le mani urlando verso mogli, figli, fratelli, sorelle da cui probabilmente sono stati divisi per sempre.
La scena, da girone dantesco, è rimasta impressa non solo nei racconti di chi ce l'ha fatta, ma anche nella scatola nera della Sea Watch che ora l'equipaggio della ong tedesca mette a disposizione degli inquirenti per andare a fondo nelle indagini. Il disperato grido partito dall'elicottero della Marina italiana presente sulla scena è tutto registrato nelle conversazioni sul canale 16 riservato ai soccorsi: "Guardiacostiera libica, questo è un elicottero della Marina italiana, le persone stanno saltando in mare. Fermate i motori e collaborate con la Sea Watch. Per favore, collaborate con la Sea Watch", l'invito inascoltato. Nel racconto di Gennaro Giudetti, attivista italiano imbarcato sulla Sea Watch, tutto l'orrore di quei momenti: "Quando siamo arrivati sul posto c'erano già diversi cadaveri che galleggiavano e decine di persone in acqua che gridavano aiuto. Abbiamo dovuto lasciare stare i corpi per cercare di salvare più gente possibile. I libici ci ostacolavano in tutti i modi, per quanto incredibile possa sembrare, ci tiravano anche patate addosso. Loro non facevano assolutamente nulla, abbiamo dovuto allontanarci un po' per non alzare troppo il livello di tensione e in quel momento abbiamo visto che sulla nave libica i militari picchiavano i migranti con delle grosse corde e delle mazze. In tanti si sono buttati a mare per raggiungerci e sono stati spazzati via dalla partenza improvvisa della motovedetta. È stata una cosa straziante. E la colpa è di tutti noi, degli italiani, degli europei che supportiamo questo sistema. Quelle navi libiche le paghiamo noi. Quando ho raccolto dall'acqua il corpo di quel bambino, ho toccato davvero il fondo dell'umanità".
ALTRO SU MSN:
Migranti: altri 5 morti in mare, scambio di accuse tra ong tedesca e marina libica (Euronews)
VIDEO:
https://www.msn.com/it-it/notizie/itali ... spartanntp
QUANDO ALLA FINE DEGLI ANNI '50 , LA RAI MANDO' IN ONDA I PRIMI FILMATI DELLE TRUPPE ANGLO-AMERICANE E SOVIETICHE CHE SI TROVARONO DI FRONTE AI CAMPI DI STERMINIO NAZISTI, UNO SPETTACOLO AGGHIACCIANTE, E GLI INTERVISTATI CIVILI TEDESCHI CHE SI COMPORTAVANO COME I SICILIANI: "NULLA VIDI, NULLA SENTII, NENTE SACCIU", GLI ITALIANI SOPRAVVISUTI ALL'OCCUPAZIONE NAZIFASCISTA SI INDIGNARONO NON POCO.
OGGI SONO LORO A NON INDIGNARSI DI FRONTE AI CRIMINI CONTRO L'UMANITA'.
Libici contro Ong: la battaglia navale mentre 50 migranti muoiono in mare
1/33
di ALESSANDRA ZINITI 3 ore fa
"THIS IS ITALIAN Navy helicopter, channel 16, we want you to stop now, now, now". L'elicottero della Marina italiana volava basso in tondo e provava a fermare la motovedetta libica mentre John moriva, trascinato via a folle velocità, sospeso in aria sul mare, una mano disperatamente attaccata alla cima e l'altra protesa verso la moglie, ormai in salvo sul gommone della Sea Watch. "Lui era lì, sul ponte della barca e gridava verso di me. I libici lo picchiavano con delle corde, lo prendevano a calci, poi l'ho visto scavalcare e buttarsi in acqua. È andato giù, l'ho visto riemergere, era riuscito a riaggrapparsi alla fune sul fianco della motovedetta. Gridava: "Aspettatemi, aspettatami, aiuto, non lasciatemi qui...". Ma a un certo punto i libici hanno riacceso il motore e la barca ha fatto un balzo in avanti trascinando via lui e tutti gli altri che stavano ancora in acqua. E non l'ho più visto. John non sapeva nuotare, era salvo ma è morto perché voleva raggiungere me che ero già in Italia".
Darfish piange senza sosta, in ospedale a Modica, mentre riavvolge il tragico film che lunedì mattina ha cambiato per sempre la sua vita. Lei, sul gommone della nave umanitaria tedesca, dunque "già in Italia ", suo marito, a bordo della motovedetta della Guardia costiera, dunque destinato a tornare in Libia. Viaggio di andata e ritorno all'inferno. Di nuovo in prigione, di nuovo torture, violenza, un nuovo riscatto da pagare per riprovarci ancora. Una prospettiva agghiacciante anche per chi, come questa giovane coppia camerunense, è sopravvissuto alla traversata nel deserto, alla prigionia nella connection house e persino al naufragio di quel gommone davanti al quale il destino ha aperto loro le "sliding doors" del Mediterraneo. Un drammatico soccorso conteso tra i libici e le Ong che, per la prima volta da quando sono entrati in vigore gli accordi tra il governo italiano e quello di Al Serraj, ha aperto gli occhi dell'Europa sulla roulette russa a cui è affidato il destino delle migliaia di persone che ancora tentano la traversata nel Mediterraneo.Un incidente che avrebbe fatto una cinquantina di dispersi e sul quale adesso indaga la Procura di Ragusa. Nei prossimi giorni i pm vaglieranno le testimonianze dei 59 superstiti portati a Pozzallo dalla Sea Watch insieme al corpicino del bimbo di due anni, annegato sotto gli occhi della madre, e a quelli delle altre quattro vittime recuperate e trasferite a bordo di un'altra nave umanitaria, la Aquarius di Sos Mediterranèe. Dovranno stabilire se su queste morti vi siano delle responsabilità di qualcuno degli attori intervenuti nelle operazioni di soccorso che, coordinate dalla sala operativa della Guardia costiera di Roma, hanno dovuto fare i conti con il contemporaneo arrivo sul luogo del naufragio della motovedetta libica e della nave umanitaria.
L'Italia da una parte e la Libia dall'altra, il gommone semiaffondato in mezzo, tanti corpi galleggianti in acqua ma soprattutto decine di persone, che ormai in salvo sull'imbarcazione libica, si sono buttate in mare nel vano tentativo di raggiungere quei due gommoni che avrebbero aperto loro le porte dell'Europa. Terribili disperati minuti di caos spezzati dalla fuga in avanti della motovedetta libica che, dopo aver tentato di trattenere a bordo con minacce e violenze i migranti, ha riacceso i motori ripartendo a tutto gas verso Tripoli con 42 superstiti a bordo che imploranti tendevano le mani urlando verso mogli, figli, fratelli, sorelle da cui probabilmente sono stati divisi per sempre.
La scena, da girone dantesco, è rimasta impressa non solo nei racconti di chi ce l'ha fatta, ma anche nella scatola nera della Sea Watch che ora l'equipaggio della ong tedesca mette a disposizione degli inquirenti per andare a fondo nelle indagini. Il disperato grido partito dall'elicottero della Marina italiana presente sulla scena è tutto registrato nelle conversazioni sul canale 16 riservato ai soccorsi: "Guardiacostiera libica, questo è un elicottero della Marina italiana, le persone stanno saltando in mare. Fermate i motori e collaborate con la Sea Watch. Per favore, collaborate con la Sea Watch", l'invito inascoltato. Nel racconto di Gennaro Giudetti, attivista italiano imbarcato sulla Sea Watch, tutto l'orrore di quei momenti: "Quando siamo arrivati sul posto c'erano già diversi cadaveri che galleggiavano e decine di persone in acqua che gridavano aiuto. Abbiamo dovuto lasciare stare i corpi per cercare di salvare più gente possibile. I libici ci ostacolavano in tutti i modi, per quanto incredibile possa sembrare, ci tiravano anche patate addosso. Loro non facevano assolutamente nulla, abbiamo dovuto allontanarci un po' per non alzare troppo il livello di tensione e in quel momento abbiamo visto che sulla nave libica i militari picchiavano i migranti con delle grosse corde e delle mazze. In tanti si sono buttati a mare per raggiungerci e sono stati spazzati via dalla partenza improvvisa della motovedetta. È stata una cosa straziante. E la colpa è di tutti noi, degli italiani, degli europei che supportiamo questo sistema. Quelle navi libiche le paghiamo noi. Quando ho raccolto dall'acqua il corpo di quel bambino, ho toccato davvero il fondo dell'umanità".
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Migranti: altri 5 morti in mare, scambio di accuse tra ong tedesca e marina libica (Euronews)
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Re: Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzion
Quale soluzione chiede questo 3D. E questo il senso di questo argomento altrimenti saremo sempre qui a postare queste cronache che credo non piacciano a nessuno.UncleTom ha scritto:..........................................SHOAH 2.0
QUANDO ALLA FINE DEGLI ANNI '50 , LA RAI MANDO' IN ONDA I PRIMI FILMATI DELLE TRUPPE ANGLO-AMERICANE E SOVIETICHE CHE SI TROVARONO DI FRONTE AI CAMPI DI STERMINIO NAZISTI, UNO SPETTACOLO AGGHIACCIANTE, E GLI INTERVISTATI CIVILI TEDESCHI CHE SI COMPORTAVANO COME I SICILIANI: "NULLA VIDI, NULLA SENTII, NENTE SACCIU", GLI ITALIANI SOPRAVVISUTI ALL'OCCUPAZIONE NAZIFASCISTA SI INDIGNARONO NON POCO.
OGGI SONO LORO A NON INDIGNARSI DI FRONTE AI CRIMINI CONTRO L'UMANITA'.
Libici contro Ong: la battaglia navale mentre 50 migranti muoiono in mare
1/33
di ALESSANDRA ZINITI 3 ore fa
"THIS IS ITALIAN Navy helicopter, channel 16, we want you to stop now, now, now". L'elicottero della Marina italiana volava basso in tondo e provava a fermare la motovedetta libica mentre John moriva, trascinato via a folle velocità, sospeso in aria sul mare, una mano disperatamente attaccata alla cima e l'altra protesa verso la moglie, ormai in salvo sul gommone della Sea Watch. "Lui era lì, sul ponte della barca e gridava verso di me. I libici lo picchiavano con delle corde, lo prendevano a calci, poi l'ho visto scavalcare e buttarsi in acqua. È andato giù, l'ho visto riemergere, era riuscito a riaggrapparsi alla fune sul fianco della motovedetta. Gridava: "Aspettatemi, aspettatami, aiuto, non lasciatemi qui...". Ma a un certo punto i libici hanno riacceso il motore e la barca ha fatto un balzo in avanti trascinando via lui e tutti gli altri che stavano ancora in acqua. E non l'ho più visto. John non sapeva nuotare, era salvo ma è morto perché voleva raggiungere me che ero già in Italia".
Darfish piange senza sosta, in ospedale a Modica, mentre riavvolge il tragico film che lunedì mattina ha cambiato per sempre la sua vita. Lei, sul gommone della nave umanitaria tedesca, dunque "già in Italia ", suo marito, a bordo della motovedetta della Guardia costiera, dunque destinato a tornare in Libia. Viaggio di andata e ritorno all'inferno. Di nuovo in prigione, di nuovo torture, violenza, un nuovo riscatto da pagare per riprovarci ancora. Una prospettiva agghiacciante anche per chi, come questa giovane coppia camerunense, è sopravvissuto alla traversata nel deserto, alla prigionia nella connection house e persino al naufragio di quel gommone davanti al quale il destino ha aperto loro le "sliding doors" del Mediterraneo. Un drammatico soccorso conteso tra i libici e le Ong che, per la prima volta da quando sono entrati in vigore gli accordi tra il governo italiano e quello di Al Serraj, ha aperto gli occhi dell'Europa sulla roulette russa a cui è affidato il destino delle migliaia di persone che ancora tentano la traversata nel Mediterraneo.Un incidente che avrebbe fatto una cinquantina di dispersi e sul quale adesso indaga la Procura di Ragusa. Nei prossimi giorni i pm vaglieranno le testimonianze dei 59 superstiti portati a Pozzallo dalla Sea Watch insieme al corpicino del bimbo di due anni, annegato sotto gli occhi della madre, e a quelli delle altre quattro vittime recuperate e trasferite a bordo di un'altra nave umanitaria, la Aquarius di Sos Mediterranèe. Dovranno stabilire se su queste morti vi siano delle responsabilità di qualcuno degli attori intervenuti nelle operazioni di soccorso che, coordinate dalla sala operativa della Guardia costiera di Roma, hanno dovuto fare i conti con il contemporaneo arrivo sul luogo del naufragio della motovedetta libica e della nave umanitaria.
L'Italia da una parte e la Libia dall'altra, il gommone semiaffondato in mezzo, tanti corpi galleggianti in acqua ma soprattutto decine di persone, che ormai in salvo sull'imbarcazione libica, si sono buttate in mare nel vano tentativo di raggiungere quei due gommoni che avrebbero aperto loro le porte dell'Europa. Terribili disperati minuti di caos spezzati dalla fuga in avanti della motovedetta libica che, dopo aver tentato di trattenere a bordo con minacce e violenze i migranti, ha riacceso i motori ripartendo a tutto gas verso Tripoli con 42 superstiti a bordo che imploranti tendevano le mani urlando verso mogli, figli, fratelli, sorelle da cui probabilmente sono stati divisi per sempre.
La scena, da girone dantesco, è rimasta impressa non solo nei racconti di chi ce l'ha fatta, ma anche nella scatola nera della Sea Watch che ora l'equipaggio della ong tedesca mette a disposizione degli inquirenti per andare a fondo nelle indagini. Il disperato grido partito dall'elicottero della Marina italiana presente sulla scena è tutto registrato nelle conversazioni sul canale 16 riservato ai soccorsi: "Guardiacostiera libica, questo è un elicottero della Marina italiana, le persone stanno saltando in mare. Fermate i motori e collaborate con la Sea Watch. Per favore, collaborate con la Sea Watch", l'invito inascoltato. Nel racconto di Gennaro Giudetti, attivista italiano imbarcato sulla Sea Watch, tutto l'orrore di quei momenti: "Quando siamo arrivati sul posto c'erano già diversi cadaveri che galleggiavano e decine di persone in acqua che gridavano aiuto. Abbiamo dovuto lasciare stare i corpi per cercare di salvare più gente possibile. I libici ci ostacolavano in tutti i modi, per quanto incredibile possa sembrare, ci tiravano anche patate addosso. Loro non facevano assolutamente nulla, abbiamo dovuto allontanarci un po' per non alzare troppo il livello di tensione e in quel momento abbiamo visto che sulla nave libica i militari picchiavano i migranti con delle grosse corde e delle mazze. In tanti si sono buttati a mare per raggiungerci e sono stati spazzati via dalla partenza improvvisa della motovedetta. È stata una cosa straziante. E la colpa è di tutti noi, degli italiani, degli europei che supportiamo questo sistema. Quelle navi libiche le paghiamo noi. Quando ho raccolto dall'acqua il corpo di quel bambino, ho toccato davvero il fondo dell'umanità".
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un salutone
Cercando l'impossibile, l'uomo ha sempre realizzato e conosciuto il possibile, e coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che sembrava possibile non sono mai avanzati di un sol passo.(M.A.Bakunin)
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