COME VA IL PD
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Re: COME VA IL PD
Tutto vero ? Forse.
Resta il fatto che c'è una gran moltitudine di persone che si sta guardando intorno per capire con chi e dove andare.
Oggi , l'era di internet, in cui tutto è veloce, in cui la democrazia avrebbe aperte tutte le porte e i cittadini potrebbero davvero essere i protagonisti della politica.
Mi sento dire da Renzi : “Voglio una cosa nuova aperta a tutti e senza signori delle tessere”
«NON esiste più quel modello in cui o hai la tessera o non sei nessuno e ti escludono dal gioco politico. Per me il Pd non è questo».
GIUSTO
Belle parole, ma nei fatti chi ha deciso finora?
Vedo sondaggi che dicono cose contradditorie: da un lato 2/3 degli elettori del PD sostengono la politica di Renzi.
dall'altro ( Sondaggio Ixé: art.18) il 64% dice no all'abolizione.
Da più parti della minoranza PD e Civati si chiede di utilizzare il referendum come previsto dallo Statuto ( aperto agli iscritti e simpatizzanti), da Renzi solo parole.
Resta il fatto che c'è una gran moltitudine di persone che si sta guardando intorno per capire con chi e dove andare.
Oggi , l'era di internet, in cui tutto è veloce, in cui la democrazia avrebbe aperte tutte le porte e i cittadini potrebbero davvero essere i protagonisti della politica.
Mi sento dire da Renzi : “Voglio una cosa nuova aperta a tutti e senza signori delle tessere”
«NON esiste più quel modello in cui o hai la tessera o non sei nessuno e ti escludono dal gioco politico. Per me il Pd non è questo».
GIUSTO
Belle parole, ma nei fatti chi ha deciso finora?
Vedo sondaggi che dicono cose contradditorie: da un lato 2/3 degli elettori del PD sostengono la politica di Renzi.
dall'altro ( Sondaggio Ixé: art.18) il 64% dice no all'abolizione.
Da più parti della minoranza PD e Civati si chiede di utilizzare il referendum come previsto dallo Statuto ( aperto agli iscritti e simpatizzanti), da Renzi solo parole.
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Re: COME VA IL PD
Minoranza Pd in fuga “Facciamo la guerra, ma come Togliatti”
(Fabrizio d’Esposito).
08/10/2014 di triskel182
LA RESA BERSANIANA: “BISOGNA EVITARE CRISI DI GOVERNO E SOCCORSO AZZURRO”. FASSINA ISOLATO E CIVATI IN TRINCEA.
Gramsci e Togliatti, Renzo Arbore e un po’ di Giorgio Gaber.
Lo Spregiudicato punta la pistola della fiducia alla tempia della minoranza e questa si arrende in un bel mattino soleggiato di autunno.
Una bella morte, in fondo.
Ad appena dieci giorni dalla direzione del Pd, ottobre non è più il mese rivoluzionario promesso dal glorioso quintetto base di quel giorno: D’Alema, Bersani, Civati, Cuperlo e Fassina.
La prima fase della resa mescola l’arborismo e il realismo del Migliore. Indietro tutta per citare il mitico Renzo degli anni Ottanta della Rai e prima ancora il compagno Ferrini di Quelli della notte che sentenzia: “Non capisco ma mi adeguo”.
La cadenza è la stessa di Pier Luigi Bersani, il gran capo della Ditta trasfigurata in vecchia guardia che in nome della responsabilità oggi voterà la fiducia al Senato.
IL TRAVAGLIO dei bersaniani, dialoganti e non, è affidato al nuovo pupillo del mancato smacchiatore di giaguari, Alfredo D’Attorre, spilungone dal pensiero altissimo: “Ho appena comprato una ristampa dei discorsi di Togliatti, un volume sulla guerra di posizione in Italia.
Non si può mica aprire una crisi di governo mandando per aria il Paese.
Quella di Civati è una guerra di movimento, che non porta da nessuna parte. Noi, invece, abbiamo ottenuto che il jobs act migliorasse.
Ora passa al Senato, alla Camera chiederemo altri miglioramenti perché le condizioni ci sono visto che Ncd non è determinante e che Sacconi qui non è presidente di Commissione. La guerra di posizione, appunto”. Aggiungono altri bersaniani del Senato: “Renzi avrebbe avuto il soccorso azzurro dell’amico Berlusconi e questo avrebbe accentuato il carattere della crisi”.
Il quadro politico va di pari passo con la sostanza del provvedimento. Una sostanza che c’è ma non si vede. È una fiducia al buio su entrambi i fronti.
Per chi l’ha imposta e per chi la subisce.
Ed è per questo che renziani e vecchia guardia si scambiano reciproche accuse di debolezza.
Per i primi deve interpretarsi così il cedimento dei bersaniani. Al contrario spiega il senatore Miguel Gotor, un tempo in auge come consigliere del principe Pier Luigi: “La richiesta della fiducia è un segno di debolezza di Renzi sia verso il suo partito sia verso la sua maggioranza”.
Chi ha ragione? Chi è più debole? D’Attorre cita Civati sulla differenza tra la guerra di posizione e quella di movimento per rinfacciare alla sinistra interna dura e pura la volontà di rottura totale.
CON LA FIDUCIA, infatti, naufraga per sempre il sogno sussurrato e sempre smentito di trasformare la difesa dell’articolo nell’atto di rinascita del vecchio Pds, approdo di un’eventuale scissione.
Non a caso, i toni di Civati sono solennemente assertivi: “Con questi qui, Renzi governerà per i prossimi cinquant’anni. È clamoroso che i bersaniani votino la fiducia, è un segnale di debolezza”.
E dagli con la debolezza. Oggettivamente renziani e civatiani concordano sul mancato coraggio dei bersaniani.
Non solo. Sempre oggettivamente, la linea di Civati è quella del presunto soccorso azzurro preparato da Denis Verdini, lo sherpa renzusconiano del patto segreto del Nazareno.
Nel piano di Verdini, infatti, alla bisogna alcuni senatori forzisti potrebbero uscire dall’aula di Palazzo Madama, dove l’astensione è contata come voto contrario. Idem i cosiddetti senatori civatiani che sono almeno cinque (Ricchiuti, Guerra, Tocci, Casson, Mineo). Civati non si impressiona: “Il gesto potrebbe essere lo stesso ma il senso è di pressione al limite dell’esplosione. L’altro giorno ha minacciato “conseguenze politiche” sulla questione della fiducia, ma queste ancora non sono spuntate all’orizzonte.
Perdipiù il povero Fassina viene sbeffeggiato così da avversari renziani e amici bersaniani: “Fassina è alla Camera e lì il suo voto conta ancora meno”.
Ma il punto centrale della resa è il sarcasmo di Civati sulle promesse della minoranza di battagliare in futuro, dal jobs act che arriva alla Camera alla frontiera della legge elettorale: “La volta dopo è sempre quella buona”. Nulla di nuovo sotto il sole. C’era una volta Gaber che cantava “la rivoluzione oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente”. Titolo: Qualcuno era comunista. verso.
Verdini sarebbe un amico in più, noi degli amici in meno”. Per il leader degli antirenziani non togliattiani “la fiducia è un atto religioso nonché una delega in bianco alla terza potenza, se ne fa un uso deprecabile per questo ho scritto a Napolitano”.
Da Il Fatto Quotidiano del 08/10/2014.
(Fabrizio d’Esposito).
08/10/2014 di triskel182
LA RESA BERSANIANA: “BISOGNA EVITARE CRISI DI GOVERNO E SOCCORSO AZZURRO”. FASSINA ISOLATO E CIVATI IN TRINCEA.
Gramsci e Togliatti, Renzo Arbore e un po’ di Giorgio Gaber.
Lo Spregiudicato punta la pistola della fiducia alla tempia della minoranza e questa si arrende in un bel mattino soleggiato di autunno.
Una bella morte, in fondo.
Ad appena dieci giorni dalla direzione del Pd, ottobre non è più il mese rivoluzionario promesso dal glorioso quintetto base di quel giorno: D’Alema, Bersani, Civati, Cuperlo e Fassina.
La prima fase della resa mescola l’arborismo e il realismo del Migliore. Indietro tutta per citare il mitico Renzo degli anni Ottanta della Rai e prima ancora il compagno Ferrini di Quelli della notte che sentenzia: “Non capisco ma mi adeguo”.
La cadenza è la stessa di Pier Luigi Bersani, il gran capo della Ditta trasfigurata in vecchia guardia che in nome della responsabilità oggi voterà la fiducia al Senato.
IL TRAVAGLIO dei bersaniani, dialoganti e non, è affidato al nuovo pupillo del mancato smacchiatore di giaguari, Alfredo D’Attorre, spilungone dal pensiero altissimo: “Ho appena comprato una ristampa dei discorsi di Togliatti, un volume sulla guerra di posizione in Italia.
Non si può mica aprire una crisi di governo mandando per aria il Paese.
Quella di Civati è una guerra di movimento, che non porta da nessuna parte. Noi, invece, abbiamo ottenuto che il jobs act migliorasse.
Ora passa al Senato, alla Camera chiederemo altri miglioramenti perché le condizioni ci sono visto che Ncd non è determinante e che Sacconi qui non è presidente di Commissione. La guerra di posizione, appunto”. Aggiungono altri bersaniani del Senato: “Renzi avrebbe avuto il soccorso azzurro dell’amico Berlusconi e questo avrebbe accentuato il carattere della crisi”.
Il quadro politico va di pari passo con la sostanza del provvedimento. Una sostanza che c’è ma non si vede. È una fiducia al buio su entrambi i fronti.
Per chi l’ha imposta e per chi la subisce.
Ed è per questo che renziani e vecchia guardia si scambiano reciproche accuse di debolezza.
Per i primi deve interpretarsi così il cedimento dei bersaniani. Al contrario spiega il senatore Miguel Gotor, un tempo in auge come consigliere del principe Pier Luigi: “La richiesta della fiducia è un segno di debolezza di Renzi sia verso il suo partito sia verso la sua maggioranza”.
Chi ha ragione? Chi è più debole? D’Attorre cita Civati sulla differenza tra la guerra di posizione e quella di movimento per rinfacciare alla sinistra interna dura e pura la volontà di rottura totale.
CON LA FIDUCIA, infatti, naufraga per sempre il sogno sussurrato e sempre smentito di trasformare la difesa dell’articolo nell’atto di rinascita del vecchio Pds, approdo di un’eventuale scissione.
Non a caso, i toni di Civati sono solennemente assertivi: “Con questi qui, Renzi governerà per i prossimi cinquant’anni. È clamoroso che i bersaniani votino la fiducia, è un segnale di debolezza”.
E dagli con la debolezza. Oggettivamente renziani e civatiani concordano sul mancato coraggio dei bersaniani.
Non solo. Sempre oggettivamente, la linea di Civati è quella del presunto soccorso azzurro preparato da Denis Verdini, lo sherpa renzusconiano del patto segreto del Nazareno.
Nel piano di Verdini, infatti, alla bisogna alcuni senatori forzisti potrebbero uscire dall’aula di Palazzo Madama, dove l’astensione è contata come voto contrario. Idem i cosiddetti senatori civatiani che sono almeno cinque (Ricchiuti, Guerra, Tocci, Casson, Mineo). Civati non si impressiona: “Il gesto potrebbe essere lo stesso ma il senso è di pressione al limite dell’esplosione. L’altro giorno ha minacciato “conseguenze politiche” sulla questione della fiducia, ma queste ancora non sono spuntate all’orizzonte.
Perdipiù il povero Fassina viene sbeffeggiato così da avversari renziani e amici bersaniani: “Fassina è alla Camera e lì il suo voto conta ancora meno”.
Ma il punto centrale della resa è il sarcasmo di Civati sulle promesse della minoranza di battagliare in futuro, dal jobs act che arriva alla Camera alla frontiera della legge elettorale: “La volta dopo è sempre quella buona”. Nulla di nuovo sotto il sole. C’era una volta Gaber che cantava “la rivoluzione oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente”. Titolo: Qualcuno era comunista. verso.
Verdini sarebbe un amico in più, noi degli amici in meno”. Per il leader degli antirenziani non togliattiani “la fiducia è un atto religioso nonché una delega in bianco alla terza potenza, se ne fa un uso deprecabile per questo ho scritto a Napolitano”.
Da Il Fatto Quotidiano del 08/10/2014.
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Re: COME VA IL PD
Repubblica 8.10.14
Il destino dei partiti senza iscritti
Certo in un periodo di rampante antipolitica ha del miracoloso convincere qualcuno a fare o rinnovare un passo così deciso
di Piero Ignazi
SERVONO ancora gli iscritti ai partiti? O sono il residuato di un tempo mitico e lontano in cui masse (?) di militanti partecipavano intensamente e infaticabilmente ad ogni attività del partito, e con il loro piccolo, modesto obolo della tessera fornivano linfa vitale alla loro beneamata organizzazione? In tutti i paesi europei il calo verticale delle iscrizioni e il sempre più ridotto impegno dei membri indicano una tendenza al declino. In Italia, negli ultimi vent’anni, le fortune dei partiti hanno oscillato paurosamente ma, in complesso, le loro organizzazioni hanno tenuto abbastanza. Questo perché la mitologia dell’iscritto quale “ambasciatore tra società e leadership”, alla fine, ha pervaso anche la destra. Se Fi era nata in dispetto ai partiti tradizionali, e Berlusconi non faceva altro che parlare di movimento evitando di nominare invano quel nome terribile, poi i più accorti e navigati consiglieri lo convinsero che di una cosa che assomigliasse ad un partito c’era proprio bisogno. E così anche Fi si mise a reclutare ed inquadrare i propri sostenitori vantando cifre mirabolanti di adesioni, addirittura 401.004 a fine febbraio 2007, record storico dopo i 312.863 del 2000; e tutta quella massa di iscritti era suddivisa in ben 4.306 coordinamenti comunali. Altro che partito “leggero”. E an- cora oggi, persino chi incarna l’anti-partito per eccellenza, il M5s, dichiara orgogliosamente di avere più di mille meetup (termine esotico per indicare le sezioni) e più di 100 mila iscritti, secondo quanto affermato pubblicamente da Gianroberto Casaleggio nel maggio scorso.
Il punto è che l’alto numero di iscritti rafforza la legittimità del partito: dimostra che è in grado di raccogliere consensi non effimeri e convinti, che ha una capacità di convinzione nei confronti dei cittadini più forte del semplice rito sporadico del voto, che dispone di “truppe” mobilitabili all’occasione prima di altri e più intensamente di altri. In sostanza, che il rapporto con la società è profondo e ampio: non è limitato solo ai professionisti della politica, cioè agli eletti e ai dirigenti nazionali. Tutte ragioni, insomma, per fare dell’iscrizione un obiettivo centrale di ogni organizzazione partitica. Certo in un periodo di rampante antipolitica ha del miracoloso convincere qualcuno a fare o rinnovare un passo così deciso verso un partito. E magari a sostenerlo econo- micamente. Tutti i partiti — meno uno, il Pvv olandese del populista Geert Wilders che ha un solo aderente, lui stesso — cercano quindi di reclutare nuovi membri. Per smuovere l’indifferenza, scontando l’ostilità inattaccabile di quelli che hanno voltato le spalle alle politica e non ne vogliono più sapere, molte formazioni europee hanno fornito ulteriori incentivi agli iscritti: principalmente poter scegliere direttamente, senza intermediazioni, i dirigenti e i candidati alle elezioni di ogni livello, ed essere consultati con un referendum sulle grandi questioni (memorabile a questo proposito il referendum sull’adesione o meno al trattato costituzionale dell’Ue indetto dai socialisti francesi nel 2004 al quale partecipò l’83% degli iscritti!). Questi incentivi, in realtà, non hanno invertito la tendenza negativa. L’emorragia di iscritti continua più o meno intensamente ovunque in Europa. E il Pd, inevitabilmente, segue la tendenza. Però ha aggiunto qualcosa in più per scoraggiare le iscrizioni: l’avere incluso anche gli elettori nei processi decisionali interni. Coerentemente con quanto è scritto nell’articolo 1 dello statuto del Pd, approvato a suo tempo (2007) dai vecchi esponenti della ditta e promosso soprattutto dalla componente prodiana — “il partito (...) è costituito da elettori ed iscritti“ —, le scelte più importanti sono state demandate alla più ampia platea dei sostenitori. In realtà, costoro, a norma di statuto, dovrebbero essere inclusi in un apposito Albo, ma se ne sono perse le tracce… Ad ogni modo, nel momento in cui iscritti ed elettori sono sullo stesso piano, l’incentivo a prendere una tessera sfuma ulteriormente. L’evaporazione degli iscritti pone però un problema non irrilevante perché marginalizza gli spazi e le occasioni di discussione e di elaborazione politica. Tutte le leggi sui partiti che la maggior parte dei paesi europei ha introdotto specificano che, oltre al momento della scelta e della decisione, siano previsti anche momenti di discussione interna. Se questo aspetto viene invece considerato residuale perché tutto è rivolto a mobilitare la partecipazione dell’opinione pubblica nelle scelte dei candidati o dei leader, il partito perde linfa vitale. Così contano gli slogan e l’immagine. Il Pd, come altri partiti peraltro, rischia di configurarsi come un’arena fluida e destrutturata dove il meccanismo della incoronazione-legittimazione plebiscitaria vince sulla definizione collettiva di politiche. Il destino dei partiti senza iscritti e senza sedi di dialogo e riflessione è quello di ridursi ad uno spazio dove si mettono in scena scontri di personalità. E dove i leader si appellano direttamente all’opinione pubblica saltando a piè pari quel ferrovecchio di un partito dissanguato. Questa modalità di organizzazione è funzionale alle leadership con pulsioni plebiscitarie ma isterilisce la democrazia perché il dialogo ammutolisce.
il Fatto 8.10.14
Il Pd è sbarrato “Riapre domani”
di Mariagrazia Gerina
Altro che partito liquido. In crisi di iscritti. Senza più l’Unità. Al Nazareno, ieri, hanno deciso di mandare a casa anche i dipendenti e chiudere la porta. Linee staccate. Portone sbarrato. Nessun avviso ai passanti e meno che mai ai militanti. Inutile provare a citofonare: non risponde nessuno. Unico segno di vita, il blindato a guardia della sede nazionale: vuota. Più che liquido il Pd sembrava liquefatto, un partito fantasma. “È per i lavori alla rete elettrica della zona”, rassicura un signore dal marciapiede di fronte. “Domani riapre”. Un avviso affisso qualche civico più in là spiega: “Interruzione energia dalle 14 alle 18”. Ma nella via tutti i negozi sono aperti. Solo il leader più energico d’Europa ha deciso di “spegnere la ditta” per un giorno. Tanto non se ne accorge nessuno.
Il destino dei partiti senza iscritti
Certo in un periodo di rampante antipolitica ha del miracoloso convincere qualcuno a fare o rinnovare un passo così deciso
di Piero Ignazi
SERVONO ancora gli iscritti ai partiti? O sono il residuato di un tempo mitico e lontano in cui masse (?) di militanti partecipavano intensamente e infaticabilmente ad ogni attività del partito, e con il loro piccolo, modesto obolo della tessera fornivano linfa vitale alla loro beneamata organizzazione? In tutti i paesi europei il calo verticale delle iscrizioni e il sempre più ridotto impegno dei membri indicano una tendenza al declino. In Italia, negli ultimi vent’anni, le fortune dei partiti hanno oscillato paurosamente ma, in complesso, le loro organizzazioni hanno tenuto abbastanza. Questo perché la mitologia dell’iscritto quale “ambasciatore tra società e leadership”, alla fine, ha pervaso anche la destra. Se Fi era nata in dispetto ai partiti tradizionali, e Berlusconi non faceva altro che parlare di movimento evitando di nominare invano quel nome terribile, poi i più accorti e navigati consiglieri lo convinsero che di una cosa che assomigliasse ad un partito c’era proprio bisogno. E così anche Fi si mise a reclutare ed inquadrare i propri sostenitori vantando cifre mirabolanti di adesioni, addirittura 401.004 a fine febbraio 2007, record storico dopo i 312.863 del 2000; e tutta quella massa di iscritti era suddivisa in ben 4.306 coordinamenti comunali. Altro che partito “leggero”. E an- cora oggi, persino chi incarna l’anti-partito per eccellenza, il M5s, dichiara orgogliosamente di avere più di mille meetup (termine esotico per indicare le sezioni) e più di 100 mila iscritti, secondo quanto affermato pubblicamente da Gianroberto Casaleggio nel maggio scorso.
Il punto è che l’alto numero di iscritti rafforza la legittimità del partito: dimostra che è in grado di raccogliere consensi non effimeri e convinti, che ha una capacità di convinzione nei confronti dei cittadini più forte del semplice rito sporadico del voto, che dispone di “truppe” mobilitabili all’occasione prima di altri e più intensamente di altri. In sostanza, che il rapporto con la società è profondo e ampio: non è limitato solo ai professionisti della politica, cioè agli eletti e ai dirigenti nazionali. Tutte ragioni, insomma, per fare dell’iscrizione un obiettivo centrale di ogni organizzazione partitica. Certo in un periodo di rampante antipolitica ha del miracoloso convincere qualcuno a fare o rinnovare un passo così deciso verso un partito. E magari a sostenerlo econo- micamente. Tutti i partiti — meno uno, il Pvv olandese del populista Geert Wilders che ha un solo aderente, lui stesso — cercano quindi di reclutare nuovi membri. Per smuovere l’indifferenza, scontando l’ostilità inattaccabile di quelli che hanno voltato le spalle alle politica e non ne vogliono più sapere, molte formazioni europee hanno fornito ulteriori incentivi agli iscritti: principalmente poter scegliere direttamente, senza intermediazioni, i dirigenti e i candidati alle elezioni di ogni livello, ed essere consultati con un referendum sulle grandi questioni (memorabile a questo proposito il referendum sull’adesione o meno al trattato costituzionale dell’Ue indetto dai socialisti francesi nel 2004 al quale partecipò l’83% degli iscritti!). Questi incentivi, in realtà, non hanno invertito la tendenza negativa. L’emorragia di iscritti continua più o meno intensamente ovunque in Europa. E il Pd, inevitabilmente, segue la tendenza. Però ha aggiunto qualcosa in più per scoraggiare le iscrizioni: l’avere incluso anche gli elettori nei processi decisionali interni. Coerentemente con quanto è scritto nell’articolo 1 dello statuto del Pd, approvato a suo tempo (2007) dai vecchi esponenti della ditta e promosso soprattutto dalla componente prodiana — “il partito (...) è costituito da elettori ed iscritti“ —, le scelte più importanti sono state demandate alla più ampia platea dei sostenitori. In realtà, costoro, a norma di statuto, dovrebbero essere inclusi in un apposito Albo, ma se ne sono perse le tracce… Ad ogni modo, nel momento in cui iscritti ed elettori sono sullo stesso piano, l’incentivo a prendere una tessera sfuma ulteriormente. L’evaporazione degli iscritti pone però un problema non irrilevante perché marginalizza gli spazi e le occasioni di discussione e di elaborazione politica. Tutte le leggi sui partiti che la maggior parte dei paesi europei ha introdotto specificano che, oltre al momento della scelta e della decisione, siano previsti anche momenti di discussione interna. Se questo aspetto viene invece considerato residuale perché tutto è rivolto a mobilitare la partecipazione dell’opinione pubblica nelle scelte dei candidati o dei leader, il partito perde linfa vitale. Così contano gli slogan e l’immagine. Il Pd, come altri partiti peraltro, rischia di configurarsi come un’arena fluida e destrutturata dove il meccanismo della incoronazione-legittimazione plebiscitaria vince sulla definizione collettiva di politiche. Il destino dei partiti senza iscritti e senza sedi di dialogo e riflessione è quello di ridursi ad uno spazio dove si mettono in scena scontri di personalità. E dove i leader si appellano direttamente all’opinione pubblica saltando a piè pari quel ferrovecchio di un partito dissanguato. Questa modalità di organizzazione è funzionale alle leadership con pulsioni plebiscitarie ma isterilisce la democrazia perché il dialogo ammutolisce.
il Fatto 8.10.14
Il Pd è sbarrato “Riapre domani”
di Mariagrazia Gerina
Altro che partito liquido. In crisi di iscritti. Senza più l’Unità. Al Nazareno, ieri, hanno deciso di mandare a casa anche i dipendenti e chiudere la porta. Linee staccate. Portone sbarrato. Nessun avviso ai passanti e meno che mai ai militanti. Inutile provare a citofonare: non risponde nessuno. Unico segno di vita, il blindato a guardia della sede nazionale: vuota. Più che liquido il Pd sembrava liquefatto, un partito fantasma. “È per i lavori alla rete elettrica della zona”, rassicura un signore dal marciapiede di fronte. “Domani riapre”. Un avviso affisso qualche civico più in là spiega: “Interruzione energia dalle 14 alle 18”. Ma nella via tutti i negozi sono aperti. Solo il leader più energico d’Europa ha deciso di “spegnere la ditta” per un giorno. Tanto non se ne accorge nessuno.
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Re: COME VA IL PD
Io riassumerei il tutto con una concetto semplicissimo. Spero che crepino tutti soffrendo un casino. Punto.
"Ma anche i furbi commettono un errore quando danno per scontato che tutti gli altri siano stupidi. E invece non tutti sono stupidi, impiegano solo un po' più di tempo a capire, tutto qui".
Robert Harris, "Archangel"
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Re: COME VA IL PD
scrive Civati nel suo blog
Il candidato X e il premier Y
Francesco coglie un problema di una qualche rilevanza:
Oggi vi propongo un paradosso, che tanto paradosso non è [...].
Mettiamo di essere il candidato X, eletto alle primarie dicendo :
Tuteliamo i lavoratori
Mai con Berlusconi
Sì al conflitto di interessi
No al presidenzialismo
Tre argomenti a caso con cui credo almeno 50 parlamentari sono stati eletti.
Ecco, io come candidato X ho preso le preferenze necessarie ad essere eletto convincendo un pezzo di elettori della necessità di fare queste cose.
Poi viene eletto premier Y, che dice:
Aboliamo l’articolo 18
Sì all’alleanza con Berlusconi
Non è il momento per una legge sul conflitto di interessi
Sì al presidenzialismo
Vale per i singoli parlamentari, rispetto al mandato degli elettori delle elezioni politiche, vale per il segretario eletto con le primarie come candidato premier (alle elezioni, come dovrebbe essere, o in sostituzione del precedente, come è stato) rispetto alla propria piattaforma politica (così tra l’altro recita lo Statuto del Pd, all’articolo 3: controllarlo prima di intentare processi a vanvera).
UN MIO COMMENTO
Quanto scritto corrisponde, guarda caso, perfettamente alla attuale situazione.
Visto che nella Direzione renziana non cambierà niente, non resta che occupare le sedi del partito invitare iscritti ed ex iscritti nonché simpatizzanti di sinistra a discutere e deliberare CHI NON RISPETTA LE REGOLE E CHI DEVE RITENERSI FUORI A QUANTO PREVISTO DALLO STATUTO
Il candidato X e il premier Y
Francesco coglie un problema di una qualche rilevanza:
Oggi vi propongo un paradosso, che tanto paradosso non è [...].
Mettiamo di essere il candidato X, eletto alle primarie dicendo :
Tuteliamo i lavoratori
Mai con Berlusconi
Sì al conflitto di interessi
No al presidenzialismo
Tre argomenti a caso con cui credo almeno 50 parlamentari sono stati eletti.
Ecco, io come candidato X ho preso le preferenze necessarie ad essere eletto convincendo un pezzo di elettori della necessità di fare queste cose.
Poi viene eletto premier Y, che dice:
Aboliamo l’articolo 18
Sì all’alleanza con Berlusconi
Non è il momento per una legge sul conflitto di interessi
Sì al presidenzialismo
Vale per i singoli parlamentari, rispetto al mandato degli elettori delle elezioni politiche, vale per il segretario eletto con le primarie come candidato premier (alle elezioni, come dovrebbe essere, o in sostituzione del precedente, come è stato) rispetto alla propria piattaforma politica (così tra l’altro recita lo Statuto del Pd, all’articolo 3: controllarlo prima di intentare processi a vanvera).
UN MIO COMMENTO
Quanto scritto corrisponde, guarda caso, perfettamente alla attuale situazione.
Visto che nella Direzione renziana non cambierà niente, non resta che occupare le sedi del partito invitare iscritti ed ex iscritti nonché simpatizzanti di sinistra a discutere e deliberare CHI NON RISPETTA LE REGOLE E CHI DEVE RITENERSI FUORI A QUANTO PREVISTO DALLO STATUTO
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Re: COME VA IL PD
DAI SONDAGGI SECONDO DEMOS
Rispetto al marzo 2013, all'indomani delle elezioni politiche, il profilo politico di Renzi, fra gli elettori è cambiato profondamente. La fiducia nei suoi confronti, fra coloro che si definiscono di Sinistra: dall'84% è scesa al 62%. Venti punti in meno. Ma ne ha recuperati, in parallelo, dieci fra quelli di Destra. Mentre fra quelli di Centrosinistra si conferma all'80%. E nella base elettorale del Centro e del Centrodestra oscilla fra il 60 % e il 70%; in sensibile ri-crescita, comunque, rispetto a un mese fa.
Alla fine il PD di Renzi è diventato un gran pastrocchio, necessita una verifica con i suoi elettori.
Rispetto al marzo 2013, all'indomani delle elezioni politiche, il profilo politico di Renzi, fra gli elettori è cambiato profondamente. La fiducia nei suoi confronti, fra coloro che si definiscono di Sinistra: dall'84% è scesa al 62%. Venti punti in meno. Ma ne ha recuperati, in parallelo, dieci fra quelli di Destra. Mentre fra quelli di Centrosinistra si conferma all'80%. E nella base elettorale del Centro e del Centrodestra oscilla fra il 60 % e il 70%; in sensibile ri-crescita, comunque, rispetto a un mese fa.
Alla fine il PD di Renzi è diventato un gran pastrocchio, necessita una verifica con i suoi elettori.
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Re: COME VA IL PD
Gli elettori del pd hanno trovato la loro forza italia...
Che paese di idioti. Comunque, ripeto, spero crepino tutti quanti. Prima di giovedì magari
Che paese di idioti. Comunque, ripeto, spero crepino tutti quanti. Prima di giovedì magari
"Ma anche i furbi commettono un errore quando danno per scontato che tutti gli altri siano stupidi. E invece non tutti sono stupidi, impiegano solo un po' più di tempo a capire, tutto qui".
Robert Harris, "Archangel"
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Re: COME VA IL PD
Repubblica 13.10.14
Renzi vuole il super-partito
Cresce il pressing su Fi “Silvio, cambiamo l’Italicum”
di Francesco Bei
ROMA L’esca è stata lanciata tre settimane fa. Quando Renzi, nell’ultimo incontro a palazzo Chigi con Berlusconi e Verdini, ha gettato sul tavolo una proposta dirompente: «E se il premio di maggioranza, invece che alla coalizione che arriva prima, lo dessimo alla migliore lista? Pensateci bene, potrebbe convenire anche a voi».
Berlusconi, che di legge elettorale non ne mastica molta, ha replicato con un «fammici pensare su», mentre Verdini allarmatissimo lo trascinava via per un braccio.
L’ingranaggio comunque si è messo in moto. L’idea sta facendo proseliti nella maggioranza. Angelino Alfano ne ha discusso con i suoi e l’Ncd è pronto a rilanciarla.
Il disegno di Renzi, coerente con l’aspirazione a consolidare il 40,8% in un partito a «vocazione maggioritaria», è quella di rompere gli indugi e puntare tutto su uno schema tendenzialmente bipartitico.
Lo ha rivelato lui stesso, intervistato da Paolo Del Debbio: «Bisogna arrivare a due partiti: un centrodestra e un centrosinistra».
Essendo la legge elettorale il prodotto delle convenienze dei partiti, quale interesse avrebbe un peso leggero come l’Ncd a stravolgere in senso bipartitico l’Italicum?
Lo spiega Gaetano Quagliariello: «Per noi si aprirebbero due scenari. Si potrebbe costruire un partito-coalizione, un soggetto unico del centrodestra con Forza Italia.
Oppure potremmo presentarci da soli al primo turno e negoziare la nostra partecipazione al governo come junior-partner.
È quello che è successo in Germania ai liberali o in Inghilterra ai lib-dem». Inoltre passare da un Italicum con le coalizioni a una legge che premia i singoli partiti, avrebbe per Alfano l’indubbio vantaggio di una semplificazione delle soglie, con l’introduzione di uno sbarramento unico al 3 o al 4 per cento.
Un’opportunità a cui potrebbe guardare con favore anche una eventuale forza di sinistra che metta insieme Vendola, Landini e Civati. E anche Lega e Fratelli d’Italia, entrambi sempre più connotati come forze antieuro, anti-immigrazione, anti-Ue, potrebbero presentarsi da soli senza la camicia di forza di un’alleanza con Berlusconi.
Dunque il vero ostacolo alla proposta di Renzi resta Forza Italia. Permane imponderabile il pensiero del Cavaliere sull’argomento, l’unica cosa certa è la decisa opposizione di Verdini.
Che ha messo in guardia il leader dal pericolo reale della proposta: «Se al ballottaggio ci vanno i partiti e non le coalizioni noi siamo morti. Al doppio turno accedono solo Renzi e Grillo».
Eppure non è detto che il ragionamento di Verdini sia quello che farà breccia in Berlusconi. Perché, se la legislatura dovesse andare avanti con Forza Italia sulla soglia del governo, nel 2018 le aziende di famiglia potrebbe essere messe al sicuro, forse anche la questione della riabilitazione politica sarebbe un problema in via di soluzione grazie all’elezione di un capo dello Stato figlio del patto del Nazareno.
Per Berlusconi insomma il futuro di Forza Italia è un problema secondario visto in uno scenario più ampio.
In ogni caso, in attesa di capire le mosse del leader forzista, la riforma elettorale langue dimenticata nei cassetti di palazzo Madama. Tanto che Roberto Giachetti ha minacciato di ricominciare lo sciopero della fame se non verrà tirata fuori dalla palude.
Renzi in privato lo ha rassicurato: «Entro dicembre lo approviamo in Senato». Ma ormai, tra ferie e sessione di bilancio, i giorni effettivi di lavoro sono si e no una trentina.
E nel Pd ancora si litiga dietro le quinte su chi dovrà fare il relatore. Intanto il Cavaliere sta preparando il suo piano d’emergenza.
Se tutto dovesse precipitare verso le elezioni anticipate, meglio tenersi il Consultellum (proporzionale puro sia alla Camera che al Senato) e lanciarsi alla riconquista dei voti perduti. I toni da campagna elettorale usati ieri contro Renzi e Alfano sono la spia che il vecchio leader si tiene pronto a tutto.
Renzi vuole il super-partito
Cresce il pressing su Fi “Silvio, cambiamo l’Italicum”
di Francesco Bei
ROMA L’esca è stata lanciata tre settimane fa. Quando Renzi, nell’ultimo incontro a palazzo Chigi con Berlusconi e Verdini, ha gettato sul tavolo una proposta dirompente: «E se il premio di maggioranza, invece che alla coalizione che arriva prima, lo dessimo alla migliore lista? Pensateci bene, potrebbe convenire anche a voi».
Berlusconi, che di legge elettorale non ne mastica molta, ha replicato con un «fammici pensare su», mentre Verdini allarmatissimo lo trascinava via per un braccio.
L’ingranaggio comunque si è messo in moto. L’idea sta facendo proseliti nella maggioranza. Angelino Alfano ne ha discusso con i suoi e l’Ncd è pronto a rilanciarla.
Il disegno di Renzi, coerente con l’aspirazione a consolidare il 40,8% in un partito a «vocazione maggioritaria», è quella di rompere gli indugi e puntare tutto su uno schema tendenzialmente bipartitico.
Lo ha rivelato lui stesso, intervistato da Paolo Del Debbio: «Bisogna arrivare a due partiti: un centrodestra e un centrosinistra».
Essendo la legge elettorale il prodotto delle convenienze dei partiti, quale interesse avrebbe un peso leggero come l’Ncd a stravolgere in senso bipartitico l’Italicum?
Lo spiega Gaetano Quagliariello: «Per noi si aprirebbero due scenari. Si potrebbe costruire un partito-coalizione, un soggetto unico del centrodestra con Forza Italia.
Oppure potremmo presentarci da soli al primo turno e negoziare la nostra partecipazione al governo come junior-partner.
È quello che è successo in Germania ai liberali o in Inghilterra ai lib-dem». Inoltre passare da un Italicum con le coalizioni a una legge che premia i singoli partiti, avrebbe per Alfano l’indubbio vantaggio di una semplificazione delle soglie, con l’introduzione di uno sbarramento unico al 3 o al 4 per cento.
Un’opportunità a cui potrebbe guardare con favore anche una eventuale forza di sinistra che metta insieme Vendola, Landini e Civati. E anche Lega e Fratelli d’Italia, entrambi sempre più connotati come forze antieuro, anti-immigrazione, anti-Ue, potrebbero presentarsi da soli senza la camicia di forza di un’alleanza con Berlusconi.
Dunque il vero ostacolo alla proposta di Renzi resta Forza Italia. Permane imponderabile il pensiero del Cavaliere sull’argomento, l’unica cosa certa è la decisa opposizione di Verdini.
Che ha messo in guardia il leader dal pericolo reale della proposta: «Se al ballottaggio ci vanno i partiti e non le coalizioni noi siamo morti. Al doppio turno accedono solo Renzi e Grillo».
Eppure non è detto che il ragionamento di Verdini sia quello che farà breccia in Berlusconi. Perché, se la legislatura dovesse andare avanti con Forza Italia sulla soglia del governo, nel 2018 le aziende di famiglia potrebbe essere messe al sicuro, forse anche la questione della riabilitazione politica sarebbe un problema in via di soluzione grazie all’elezione di un capo dello Stato figlio del patto del Nazareno.
Per Berlusconi insomma il futuro di Forza Italia è un problema secondario visto in uno scenario più ampio.
In ogni caso, in attesa di capire le mosse del leader forzista, la riforma elettorale langue dimenticata nei cassetti di palazzo Madama. Tanto che Roberto Giachetti ha minacciato di ricominciare lo sciopero della fame se non verrà tirata fuori dalla palude.
Renzi in privato lo ha rassicurato: «Entro dicembre lo approviamo in Senato». Ma ormai, tra ferie e sessione di bilancio, i giorni effettivi di lavoro sono si e no una trentina.
E nel Pd ancora si litiga dietro le quinte su chi dovrà fare il relatore. Intanto il Cavaliere sta preparando il suo piano d’emergenza.
Se tutto dovesse precipitare verso le elezioni anticipate, meglio tenersi il Consultellum (proporzionale puro sia alla Camera che al Senato) e lanciarsi alla riconquista dei voti perduti. I toni da campagna elettorale usati ieri contro Renzi e Alfano sono la spia che il vecchio leader si tiene pronto a tutto.
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Re: COME VA IL PD
Il giorno dello sciacallo - 1
Quando ci si vende per il potere. I problemi dei Testimoni di Renzi, non sono Alfano, Sacconi, Schifani, il piduista Verdini (in Spe-Servizio permanente effettivo) o Berlusconi che ha iniziato le sue fortune facendo la testa di legno per la Mafia SpA.
^^^^^^^
“Voi sparirete, perché siete antropologicamente diversi”
(Wanda Marra).
16/10/2014 di triskel182
PD ALLA RESA DEI CONTI: L’OBIETTIVO È LA CANCELLAZIONE DELLA SINISTRA INTERNA.
C’è un problema di coerenza nella classe dirigente del Pd”. Parola del responsabile economico del partito, Filippo Taddei.
Che a Rainews24 la mette così: “Nel partito ci sono anime, correnti e culture politiche divergenti. C’è una difformità antropologica e una delle due componenti è destinata a sparire. È quella che prima era impegnata nell’antiberlusconismo e poi è stata travolta da Renzi”.
Mai dichiarazioni furono più esplicite di come la maggioranza renziana vede le minoranze. Persino gli uomini del presidente si stupiscono: “Ha detto così?” Ma spingere fuori dal partito chi si ostina a opporsi è un obiettivo. ULTIMO terreno di scontro, la fiducia sul jobs act.
Prossimo, la manifestazione della Cgil a Piazza San Giovanni, con mezzo partito (da Civati a D’Attorre, passando per Fassina e Damiano) che sarà in piazza. “Chi nel Pd sceglie di manifestare contro il governo dovrà prendersi la responsabilità di spiegare questa scelta ai cittadini”, commentano duri dagli alti piani dem. Perplessità e rabbia nelle minoranze: “Ma che me la deve mettere in mezzo Taddei l’antropologia? Posso discutere con Levy Strauss”, dice Bersani. E D’Attorre: “Questo partito è più mio che loro”. Idem, Cesare Damiano. A proposito di difformità antropologica, i renziani ragionano più o meno così: tranne che nello Spi, nelle organizzazioni territoriali del sindacato ormai i dirigenti Pd sono minoranza rispetto a quelli di Sel e Prc. E pronosticano sconfitte della Cgil come accadde al sindacato con la marcia dei quarantamila nell’80, o con la scala mobile nell’85. Polemizza Dario Parrini, renzianissimo segretario toscano: “C’è una sinistra molto acrimoniosa, e per fortuna molto minoritaria, che ha sempre cercato di indebolire il riformismo di governo”. E alla Cgil: “Polemizzate col Pd; polemizzate con Renzi. Ma mantenetevi fermi contro questa misera demagogia”. Che “la sparizione” di un certo dissenso (antico, marginale, “piccolo” ) la vorrebbe Renzi è chiaro. Per schiacciarlo, la strategia è raffinata quanto diabolica. SCONVOCATA l’Assemblea dei senatori prevista per oggi che deve valutare il non voto sul lavoro di Ricchiuti, Mineo e Casson. I tre non saranno espulsi (“figuriamoci se Matteo gli regala lo status di martiri”, spiegano i renziani), ma “avvertiti”. Un ammonimento. Ci sarà martedì, dopo la direzione in programma lunedì per discutere la forma partito. Una richiesta della stessa minoranza che Renzi ha accolto. E che sfrutterà a suo vantaggio. I gruppi parlamentari sono sollecitati a serrare i ranghi. Nessun nuovo regolamento immediato. Ma un percorso verso un partito più aperto, in cui contino tanto gli elettori, quanto i tesserati. Un partito funzionale al governo (lo raccontano così). Nel frattempo, si pensa a modifiche dello Statuto, per rendere meno larghe le maglie in cui si può votare in dissenso dalle decisioni dellamaggioranza (per ora, si parla di questioni etiche e principi fondamentali della Costituzione). E poi, si ricorda la circolare di Bersani, che ai futuri candidati fece sottoscrivere l’impegno a votare secondo mandato. Sanzioni possibili? Se si vota no alla fiducia, l’espulsione è automatica, ragionano i renziani. E chi non partecipa al voto? Misure allo studio. Tra cui quella di cancellare i ribelli ostinati dall’anagrafe degli iscritti e togliergli la tessera. La minaccia, sotterranea, per Renzi, è quella che funziona di più. E la principale è la condanna all’irrilevanza. Ancora i renziani. “Ma Civati perché non va in Sel? Perché nel Pd da oppositore ha un palcoscenico maggiore”. Poi, c’è la certa espulsione dalle liste future. QUANTO FUTURE? Nella strategia di Renzi, il voto è un’opportunità sempre aperta. Nella road map che partirà con la direzione di lunedì, l’approdo è un’Assemblea nazionale (in programma tra 3 o 4 mesi, ma chissà). Che voterà un Pd a immagine e somiglianza del leader. Pronto all’uso per eventuali elezioni.
Da Il Fatto Quotidiano del 16/10/2014.
Quando ci si vende per il potere. I problemi dei Testimoni di Renzi, non sono Alfano, Sacconi, Schifani, il piduista Verdini (in Spe-Servizio permanente effettivo) o Berlusconi che ha iniziato le sue fortune facendo la testa di legno per la Mafia SpA.
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“Voi sparirete, perché siete antropologicamente diversi”
(Wanda Marra).
16/10/2014 di triskel182
PD ALLA RESA DEI CONTI: L’OBIETTIVO È LA CANCELLAZIONE DELLA SINISTRA INTERNA.
C’è un problema di coerenza nella classe dirigente del Pd”. Parola del responsabile economico del partito, Filippo Taddei.
Che a Rainews24 la mette così: “Nel partito ci sono anime, correnti e culture politiche divergenti. C’è una difformità antropologica e una delle due componenti è destinata a sparire. È quella che prima era impegnata nell’antiberlusconismo e poi è stata travolta da Renzi”.
Mai dichiarazioni furono più esplicite di come la maggioranza renziana vede le minoranze. Persino gli uomini del presidente si stupiscono: “Ha detto così?” Ma spingere fuori dal partito chi si ostina a opporsi è un obiettivo. ULTIMO terreno di scontro, la fiducia sul jobs act.
Prossimo, la manifestazione della Cgil a Piazza San Giovanni, con mezzo partito (da Civati a D’Attorre, passando per Fassina e Damiano) che sarà in piazza. “Chi nel Pd sceglie di manifestare contro il governo dovrà prendersi la responsabilità di spiegare questa scelta ai cittadini”, commentano duri dagli alti piani dem. Perplessità e rabbia nelle minoranze: “Ma che me la deve mettere in mezzo Taddei l’antropologia? Posso discutere con Levy Strauss”, dice Bersani. E D’Attorre: “Questo partito è più mio che loro”. Idem, Cesare Damiano. A proposito di difformità antropologica, i renziani ragionano più o meno così: tranne che nello Spi, nelle organizzazioni territoriali del sindacato ormai i dirigenti Pd sono minoranza rispetto a quelli di Sel e Prc. E pronosticano sconfitte della Cgil come accadde al sindacato con la marcia dei quarantamila nell’80, o con la scala mobile nell’85. Polemizza Dario Parrini, renzianissimo segretario toscano: “C’è una sinistra molto acrimoniosa, e per fortuna molto minoritaria, che ha sempre cercato di indebolire il riformismo di governo”. E alla Cgil: “Polemizzate col Pd; polemizzate con Renzi. Ma mantenetevi fermi contro questa misera demagogia”. Che “la sparizione” di un certo dissenso (antico, marginale, “piccolo” ) la vorrebbe Renzi è chiaro. Per schiacciarlo, la strategia è raffinata quanto diabolica. SCONVOCATA l’Assemblea dei senatori prevista per oggi che deve valutare il non voto sul lavoro di Ricchiuti, Mineo e Casson. I tre non saranno espulsi (“figuriamoci se Matteo gli regala lo status di martiri”, spiegano i renziani), ma “avvertiti”. Un ammonimento. Ci sarà martedì, dopo la direzione in programma lunedì per discutere la forma partito. Una richiesta della stessa minoranza che Renzi ha accolto. E che sfrutterà a suo vantaggio. I gruppi parlamentari sono sollecitati a serrare i ranghi. Nessun nuovo regolamento immediato. Ma un percorso verso un partito più aperto, in cui contino tanto gli elettori, quanto i tesserati. Un partito funzionale al governo (lo raccontano così). Nel frattempo, si pensa a modifiche dello Statuto, per rendere meno larghe le maglie in cui si può votare in dissenso dalle decisioni dellamaggioranza (per ora, si parla di questioni etiche e principi fondamentali della Costituzione). E poi, si ricorda la circolare di Bersani, che ai futuri candidati fece sottoscrivere l’impegno a votare secondo mandato. Sanzioni possibili? Se si vota no alla fiducia, l’espulsione è automatica, ragionano i renziani. E chi non partecipa al voto? Misure allo studio. Tra cui quella di cancellare i ribelli ostinati dall’anagrafe degli iscritti e togliergli la tessera. La minaccia, sotterranea, per Renzi, è quella che funziona di più. E la principale è la condanna all’irrilevanza. Ancora i renziani. “Ma Civati perché non va in Sel? Perché nel Pd da oppositore ha un palcoscenico maggiore”. Poi, c’è la certa espulsione dalle liste future. QUANTO FUTURE? Nella strategia di Renzi, il voto è un’opportunità sempre aperta. Nella road map che partirà con la direzione di lunedì, l’approdo è un’Assemblea nazionale (in programma tra 3 o 4 mesi, ma chissà). Che voterà un Pd a immagine e somiglianza del leader. Pronto all’uso per eventuali elezioni.
Da Il Fatto Quotidiano del 16/10/2014.
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Re: COME VA IL PD
La zia Leopolda - 1
Leopolda 2014: decostruzione di un ‘meeting’
di Pierfranco Pellizzetti | 25 ottobre 2014 COMMENTI
Ci si chiede: «Ma– in effetti – questa Leopolda cosa è?». Provo a rispondere, precisando che la mia analisi congetturale attinge esclusivamente alle fonti medianiche (Tg e stampa). D’altro canto, se non fossi un vecchietto con la schiena a pezzi, questo sabato starei a Roma, a fianco degli ultimi drappelli del lavoro scesi in piazza a difesa della modernità democratica fondata sulla dignità dei diritti e la socialità del mutualismo; non certo a Firenze, dove si sta svolgendo la kermesse postmoderna dei furboni mimetizzati tra le moltitudini di quelli che vogliono bersela.
Ebbene, lo dico subito: a mio avviso la Leopolda è semplicemente il punto di emersione di una rete sotterranea; che Matteo Renzi e compari iniziarono ad annodare – come rivela il diretto interessato – nel preciso istante in cui ci si rese conto della “scalabilità italiana”.
Per l’esattezza, i punti di emersione sono due: uno pop, bene in vista; l’altro elitario e – quindi – “coperto”.
Comunque, un modello organizzativo bifronte; largamente influenzato dallo spirito del tempo, aziendalistico e gerarchico –finanziario.
La Leopolda alla luce del sole riprende abbondantemente lo schema delle convention aziendali, in cui il Top gratifica e fidelizza “la truppa” facendola giocare al gioco del “siamo tutti sulla stessa barca, siamo una squadra vincente”: gli stessi proclami a tinte rosa, seguiti dagli immancabili gruppi di lavoro (o tavoli) in cui svariate pattuglie si divertiranno a progettare banalità che l’alta dirigenza fingerà di ascoltare con grande interesse. I consulenti che hanno progettato l’evento garantiscono che siffatti psicodrammi potenziano motivazione (commitment) e autonomia (empowerment). Anche se alla fine della giornata i Vip se ne andranno in Ferrari o Jaguar, mentre i Nip rientreranno a casa sulla loro Panda. Macchine blu (ma non le avevano messe tutte all’asta?) versus mezzo pubblico e utilitaria.
Secondo tale format, gli spin-doctors, teorici dell’andare sempre verso il positivo (anche nel caso di palesi bluff), fanno dire a Renzi che qui si coltiva “proposta”; mentre dalle altre parti si precipiterebbe nel negativo della “protesta” (anche se è grazie alle proteste organizzate che il secondo Novecento è stata una fase storica in cui si sono ridotte le disuguaglianze sociali. Leggersi Thomas Piketty). Difatti il meccanismo è proprio quello di incorniciare le banalità del tempo come genialate. In modo che quanti se le bevono abbiano essi stessi l’impressione di essere geniali. In altri tempi si sarebbe parlato di “irridente paternalismo demagogico”, oggi di straordinarie “strategie d’ascolto”.
Questa la Leopolda (on light) per le vaste platee di pellegrini alla ricerca di una speranza purchessia. Poi c’è l’operazione in penombra (Leopolda darkness), che ricalca i modelli messi a punto dall’Internazionale del privilegio; con i suoi periodici meeting per pochi intimi, che si danno appuntamento in località amene. Il modello classico è quello di Davos, in cui si consolidano alleanze, si mettono a punto strategie e si scambiano favori. Il tutto in un clima di riservatezza molto più funzionale allo scopo (compattare cordate) dell’infelice sede del Nazareno, dove le ombre dell’accordo tra il giovane rampante venuto da Rignano e il vecchio pregiudicato della Brianza apparvero in tutta la loro imbarazzante evidenza.
Gratificato l’audience, ci si può dedicare agli scopi effettivi: scalata l’Italia, blindarne il controllo. Come? Visto che la cordata è composta da allegri provincialotti, ripetere la lezione dei maestri. Magari anglo-americani.
La Thatcher si imbullonò al potere schiantando il sindacato dei minatori. Staremo a vedere se l’Italia del lavoro è friabile quanto l’Inghilterra di allora.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/10 ... g/1171128/
Leopolda 2014: decostruzione di un ‘meeting’
di Pierfranco Pellizzetti | 25 ottobre 2014 COMMENTI
Ci si chiede: «Ma– in effetti – questa Leopolda cosa è?». Provo a rispondere, precisando che la mia analisi congetturale attinge esclusivamente alle fonti medianiche (Tg e stampa). D’altro canto, se non fossi un vecchietto con la schiena a pezzi, questo sabato starei a Roma, a fianco degli ultimi drappelli del lavoro scesi in piazza a difesa della modernità democratica fondata sulla dignità dei diritti e la socialità del mutualismo; non certo a Firenze, dove si sta svolgendo la kermesse postmoderna dei furboni mimetizzati tra le moltitudini di quelli che vogliono bersela.
Ebbene, lo dico subito: a mio avviso la Leopolda è semplicemente il punto di emersione di una rete sotterranea; che Matteo Renzi e compari iniziarono ad annodare – come rivela il diretto interessato – nel preciso istante in cui ci si rese conto della “scalabilità italiana”.
Per l’esattezza, i punti di emersione sono due: uno pop, bene in vista; l’altro elitario e – quindi – “coperto”.
Comunque, un modello organizzativo bifronte; largamente influenzato dallo spirito del tempo, aziendalistico e gerarchico –finanziario.
La Leopolda alla luce del sole riprende abbondantemente lo schema delle convention aziendali, in cui il Top gratifica e fidelizza “la truppa” facendola giocare al gioco del “siamo tutti sulla stessa barca, siamo una squadra vincente”: gli stessi proclami a tinte rosa, seguiti dagli immancabili gruppi di lavoro (o tavoli) in cui svariate pattuglie si divertiranno a progettare banalità che l’alta dirigenza fingerà di ascoltare con grande interesse. I consulenti che hanno progettato l’evento garantiscono che siffatti psicodrammi potenziano motivazione (commitment) e autonomia (empowerment). Anche se alla fine della giornata i Vip se ne andranno in Ferrari o Jaguar, mentre i Nip rientreranno a casa sulla loro Panda. Macchine blu (ma non le avevano messe tutte all’asta?) versus mezzo pubblico e utilitaria.
Secondo tale format, gli spin-doctors, teorici dell’andare sempre verso il positivo (anche nel caso di palesi bluff), fanno dire a Renzi che qui si coltiva “proposta”; mentre dalle altre parti si precipiterebbe nel negativo della “protesta” (anche se è grazie alle proteste organizzate che il secondo Novecento è stata una fase storica in cui si sono ridotte le disuguaglianze sociali. Leggersi Thomas Piketty). Difatti il meccanismo è proprio quello di incorniciare le banalità del tempo come genialate. In modo che quanti se le bevono abbiano essi stessi l’impressione di essere geniali. In altri tempi si sarebbe parlato di “irridente paternalismo demagogico”, oggi di straordinarie “strategie d’ascolto”.
Questa la Leopolda (on light) per le vaste platee di pellegrini alla ricerca di una speranza purchessia. Poi c’è l’operazione in penombra (Leopolda darkness), che ricalca i modelli messi a punto dall’Internazionale del privilegio; con i suoi periodici meeting per pochi intimi, che si danno appuntamento in località amene. Il modello classico è quello di Davos, in cui si consolidano alleanze, si mettono a punto strategie e si scambiano favori. Il tutto in un clima di riservatezza molto più funzionale allo scopo (compattare cordate) dell’infelice sede del Nazareno, dove le ombre dell’accordo tra il giovane rampante venuto da Rignano e il vecchio pregiudicato della Brianza apparvero in tutta la loro imbarazzante evidenza.
Gratificato l’audience, ci si può dedicare agli scopi effettivi: scalata l’Italia, blindarne il controllo. Come? Visto che la cordata è composta da allegri provincialotti, ripetere la lezione dei maestri. Magari anglo-americani.
La Thatcher si imbullonò al potere schiantando il sindacato dei minatori. Staremo a vedere se l’Italia del lavoro è friabile quanto l’Inghilterra di allora.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/10 ... g/1171128/
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