IL LAVORO

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iospero
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IL LAVORO

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WORKERS ACT VS JOBS ACT
di Giulio Marcon, 19 marzo 2015

Una volta — per essere com­pe­ti­tivi — si sva­lu­tava la moneta, oggi si sva­luta il lavoro: meno diritti, meno tutele, meno retri­bu­zione. Le poli­ti­che neo­li­be­ri­ste si sono basate in que­sti decenni su quat­tro pila­stri: la ridu­zione della spesa pub­blica e del ruolo dello Stato; le pri­va­tiz­za­zioni e le libe­ra­zioni (a par­tire da quella della cir­co­la­zione dei capi­tali); gli inve­sti­menti pri­vati (il mer­cato) e la pre­ca­riz­za­zione del mer­cato del lavoro. La riforma del mer­cato del lavoro è una di quelle riforme strut­tu­rali cui Renzi affida la spe­ranza di rilan­ciare l’occupazione e l’economia. In realtà, come sap­piamo tutti, in que­sti anni l’esistenza di oltre 45 forme di lavoro ati­pico non ha inco­rag­giato ad assu­mere di più, ma sem­pli­ce­mente a sosti­tuire i con­tratti di lavoro con tutele con forme di lavoro pre­ca­rio, senza diritti. Non si sono creati posti di lavoro in più, ma solo più lavori pre­cari. Nè que­ste riforme hanno avuto effetti sal­vi­fici sull’economia. Pro­prio nel Def si dice che l’impatto del Jobs Act sul Pil sarà minimo: non più dello 0,1%. Si tratta di pre­vi­sioni; e quelle del governo in que­sti vent’anni sono sem­pre state troppo otti­mi­sti­che e poi ine­vi­ta­bil­mente cor­rette al ribasso.

L’assunto dal quale si parte è noto: biso­gna met­tere le imprese nelle con­di­zioni di avere meno vin­coli e costi pos­si­bile. E così potranno assu­mere. Solo che, pro­ba­bil­mente, i nuovi assunti saranno assai pochi: la mag­gior parte dei nuovi con­tratti saranno sosti­tu­tivi, cioè tra­sfor­me­ranno rap­porti di lavoro pre-esistenti più gra­vosi in quelli più con­ve­nienti intro­dotti dalla legge di sta­bi­lità. Tutte le age­vo­la­zioni fiscali di que­sti anni, le imprese non le hanno uti­liz­zate per fare inve­sti­menti nell’economia reale, ma in quella finan­zia­ria e spe­cu­la­tiva o per arro­ton­dare i loro profitti.

La realtà è che i governi occi­den­tali di que­sti anni (e Renzi, oggi), rinun­ciano ad ogni poli­tica pub­blica attiva: non c’è una poli­tica indu­striale, non c’è una poli­tica degli inve­sti­menti pub­blici (che in 20 anni si sono dimez­zati), non c’è una poli­tica del lavoro.

Non c’è più una poli­tica della domanda (di soste­gno, pro­gram­ma­zione, inve­sti­mento), ma solo dell’offerta, dove — per quel che ci riguarda — non è più nem­meno offerta di lavoro, ma offerta di lavo­ra­tori alle con­di­zioni più van­tag­giose per le imprese. Nel frat­tempo gli ultimi dati Istat ci dicono che la situa­zione in Ita­lia con­ti­nua a peg­gio­rare. E già que­sto dovrebbe indurre i governi ad un serio ripen­sa­mento delle poli­ti­che sin qui seguite.

L’idea di lasciare al mer­cato la crea­zione di occu­pa­zione non fun­ziona e non ha fun­zio­nato mai, se non per la pro­du­zione di posti di lavoro pre­cari, effi­meri, mal retri­buiti, senza tutele. Ma quale sistema eco­no­mico e pro­dut­tivo può pen­sare di soprav­vi­vere gra­zie ad una idea di lavoro così retriva e padro­nale? Altro che moder­nità, qui siamo al ritorno all’ottocento, anche se 2.0. Un lavoro senza qua­lità porta con sè una eco­no­mia senza futuro. Senza un inve­sti­mento nel lavoro (in ter­mini di risorse, ma anche di for­ma­zione, di tutele, ecc.) non ci può essere alcuna eco­no­mia di qua­lità, inno­va­tiva, capace di com­pe­tere. Un’impresa che si serve del lavoro usa e getta, non ha spe­ranze, è di bassa qua­lità, dura poco: non ’è più impresa, ma solo busi­ness di pic­colo cabo­tag­gio (anche se magari di grande ritorno affaristico).

Ser­vi­rebbe invece una poli­tica pub­blica per il lavoro: una sorta di piano straor­di­na­rio del lavoro fon­dato sugli inve­sti­menti pub­blici per creare occu­pa­zione nella rispo­sta alle grandi emer­genze nazio­nali (lotta al dis­se­sto idro­geo­lo­gico, edi­li­zia sco­la­stica, pic­cole opere, ecc) e nelle fron­tiere delle nuove pro­du­zioni della cosid­detta Green Eco­nomy (mobi­lità soste­ni­bile, ener­gie pulite, ecc.). Ser­vi­rebbe uno Stato che fosse attivo –indi­ret­ta­mente, ma anche diret­ta­mente– nella crea­zione di posti di lavoro, attra­verso un’agenzia nazio­nale come quella (la Works Pro­gress Admi­ni­stra­tion) che fu creata da Frank­lin Delano Roo­svelt durante il New Deal. E ser­vi­reb­bero degli inve­sti­menti pazienti (che danno riscon­tro sul medio periodo) in set­tori fon­da­men­tali per creare buona eco­no­mia e buona occu­pa­zione: nell’innovazione e nella ricerca, nel set­tore for­ma­tivo ed edu­ca­tivo e nella coe­sione sociale. E poi, biso­gne­rebbe ripren­dere un discorso che oggi può sem­brare in con­tro­ten­denza (sicu­ra­mente rispetto alle poli­ti­che neo­li­be­ri­ste), ma quanto mai attuale e neces­sa­rio: la ridu­zione dell’orario di lavoro. Se il lavoro è poco, biso­gna fare in modo che il lavoro sia redi­stri­buito il più pos­si­bile. Lasciare milioni di per­sone nella disoc­cu­pa­zione e nell’inattività è eco­no­mi­ca­mente sba­gliato, moral­mente disu­mano e social­mente ingiu­sto e pericoloso.

da il manifesto del 20 marzo 2015
camillobenso
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Re: IL LAVORO

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.«La mancanza di lavoro ci toglie dignità»
Poi il tema del lavoro: «Un segno negativo del nostro tempo è la mancanza del lavoro per i giovani. Piu’ del 40 per cento dei giovani dai 25 anni in giù non ha lavoro», spiega. «Che futuro ha un giovane senza lavoro e che strada di vita sceglie. Una responsabilità non solo della citta’, del paese ma anche del mondo. c’è un sistema economico che scarta la gente».
Francesco a Napoli.


Altro che il Job Act del PAV.
camillobenso
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Re: IL LAVORO

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Taylorismo digitale, finta creatività e schiavitù informatica
Scritto il 29/3/15 • nella Categoria: idee


Com’è noto, l’organizzazione scientifica del lavoro teorizzata da Taylor consisteva in una serie di pratiche di quantificazione/misurazione di ogni gesto lavorativo – pratiche che servivano a definire (e successivamente imporre) il “modo migliore” (cioè più veloce, efficiente e produttivo di valore per l’impresa) di effettuare una determinata mansione.

Negli ultimi anni è prevalsa la convinzione che lo spirito del taylorismo sia tramontato assieme alla fabbrica fordista, sostituito da un modo di produrre che – grazie alle tecnologie di rete – si fonda sulla creatività e sull’autonoma capacità di cooperare dei lavoratori autonomi.

Questa visione ottimista è andata in crisi a mano a mano che ci si è resi conto del fatto che le tecnologie digitali – in particolare gli algoritmi del software – incorporano una serie di regole, procedure e schemi cognitivi che sono in grado di controllare/disciplinare i comportamenti del lavoro “creativo” (più o meno “autonomo”) in misura non inferiore a quella in cui la catena di montaggio subordinava il lavoro dell’operaio fordista.


Si è così iniziato a parlare di “taylorismo digitale”, ma questa metafora, al pari di quella – cara ai teorici post-operaisti – che parla di “vita messa al lavoro”, appare insufficiente a descrivere il salto qualitativo che il capitalismo si appresta a compiere a mano a mano che il mezzo di lavoro computer viene sostituito dagli smartphone e altre tecnologie “indossabili” (ma soprattutto dalle “app” che animano questi dispositivi).


Per rendersene conto basta seguire il dibattito americano sul concetto di “Quantified Self” (letteralmente: sé quantificato, o misurato). Il termine è stato coniato da Gary Wolf e Kevin Kelly, noto apologeta della “rivoluzione” digitale fin dalla metà dei ’90. Riferendosi alla capacità dei dispositivi in questione di raccogliere dati su salute, performance fisiche e mentali e gestualità (oltre che sull’ambiente ad essi circostante) di coloro che li indossano, i due parlano della chance di attivare una sorta di autoanalisi della vita quotidiana per “migliorarsi” e aiutare gli altri (visto che i dati possono, anzi devono, essere condivisi) a fare lo stesso.


Mikey Siegel, un ex ingegnere della Nasa laureatosi al Mit, è il guru di una versione New Age di questo “movimento”. Tenere traccia dei propri passi, consumo di calorie, sonno, numero di volte in cui si controllano le mail, sostiene Siegel, è un potente strumento per ottenere un allargamento della coscienza, un’attenzione focalizzata sul proprio sé complementare a quella che si può raggiungere attraverso la meditazione.

Così, conclude, anche noi occidentali capiremo che le cause delle nostre sofferenze, paure, angosce, stanno nella psiche e non nel mondo che ci circonda (cioè in bazzecole come miseria, disuguaglianze, sfruttamento, violenza, oppressione dell’uomo sull’uomo).


Se poi nemmeno così riusciremo a superare il disagio provocato dall’eccesso di alternative che una realtà iperconsumistica ci offre, rendendoci incapaci di scegliere, ecco venirci in soccorso un’altra generazione di nuove “app”, capaci di trovare sempre la soluzione migliore per noi.


Per farla breve: qui siamo ben oltre il taylorismo digitale, andiamo verso uno scenario in cui si tenterà di garantire pace sociale, massimizzazione produttiva, autocontrollo e autodisciplina attraverso la disponibilità dei singoli soggetti di “godere” della consulenza operativa, psicologica e morale dei propri gadget e degli “spiritelli” che li abitano.


Uno scenario in cui il capitale non si limiterebbe ad appropriarsi a posteriori della libera e spontanea creatività del lavoro cognitivo, ma ne spegnerebbe a priori ogni reale margine di autonomia (Marx avrebbe parlato di transizione dalla subordinazione formale alla subordinazione sostanziale del lavoro al capitale).


Ma gli algoritmi non servono solo a disciplinare/controllare la vita messa al lavoro: sono al centro delle strategie di repressione delle “classi pericolose” escluse o confinate ai margini del processo produttivo.


Come racconta Massimo Gaggi in un articolo (“L’algoritmo che anticipa in crimini?”) apparso sul “Corriere della Sera” dell’8 marzo, le polizie di 58 città americane pattugliano ormai solo le sezioni di territorio che il software della società Predictive Policing (un marchio sinistramente evocativo del racconto “Minority Report” di Philip Dick, che descrive un regime totalitario in cui i criminali vengono arrestati “prima” che possano delinquere) seleziona come quelle statisticamente più esposte a ospitare reati.


E indovinate chi merita di finire sotto lo sguardo di questo Panopticon digitale? Neri e Latinos.

(Carlo Formenti, “Le insidie del taylorismo digitale”, da “Micromega” del 9 marzo 2015).
camillobenso
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Re: IL LAVORO

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Ferroviere licenziato perché non voleva guidare da solo. Il giudice gli dà ragione

Lavoro & Precari
Non si era presentato a lavoro dopo che Trenitalia aveva eliminato la figura del secondo macchinista: se avesse avuto un malore nessuno poteva guidare il convoglio incontro ai soccorsi. Il Tribunale di Genova ha annullato il licenziamento e 'bocciato' la strategia dell'azienda
di Ilaria Lonigro | 29 marzo 2015 COMMENTI



Il ferroviere Silvio Lorenzoni non voleva guidare senza il secondo macchinista. Come migliaia di colleghi temeva che, in caso di emergenza o se si fosse sentito male trovandosi in un tunnel o su un viadotto, un’ambulanza non lo avrebbe mai raggiunto: ci sarebbe stato bisogno di un collega che portasse il treno incontro ai soccorsi. Per questo Trenitalia lo ha sospeso e licenziato. Ma il Tribunale di Genova gli ha dato ragione.

Il problema del doppio macchinista
Trenitalia, come altre aziende del trasporto ferroviario, dal 2009 ha introdotto l’agente solo per il trasporto viaggiatori e dal 2010 ha progressivamente tagliato i doppi macchinisti a bordo dei treni merci, affiancando a un unico conducente il cosiddetto tecnico polivalente. Questo, in caso di malore del macchinista, ferma il treno e chiama i soccorsi, ma non è in grado di guidare. Una misura presa per rendere più efficiente il lavoro, dopo la liberalizzazione del trasporto ferroviario. “Allora furono 7mila, sui 10mila macchinisti totali che ci sono in Italia, a firmare contro questa misura. Ma in un clima segnato da sospensioni e licenziamenti, in pochi sono stati coerenti e hanno continuato a rifiutarsi di guidare. Uno di questi è Lorenzoni” fa sapere a ilfattoquotidiano.it il ferroviere genovese Antonino Catalano, responsabile del sindacato Cat (Coordinamento autorganizzato trasporti).

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Addetto alla Divisione Cargo dell’Area Nord Ovest, Lorenzoni era abituato a guidare su tratte piene di tunnel, come quelle liguri. Da solo non voleva lavorare: sarebbe stato troppo pericoloso in caso di malore. Lo aveva messo anche nero su bianco, con una lettera indirizzata alla direzione di Trenitalia il 22 febbraio 2011. Avvertiva che avrebbe potuto “astenersi dal compiere l’attività di condotta richiesta in tali condizioni di degrado, a tutela della propria incolumità”. E ha mantenuto la promessa. Nel 2012 era stato sospeso per due volte, perché, non lavorando, aveva causato ritardi e quindi danni patrimoniali all’azienda. Nel 2014 lo aveva fatto di nuovo, quattro volte. Dopo le sanzioni disciplinari (oltre 30 giorni senza lavoro e senza paga), Trenitalia è passata al licenziamento, il 5 settembre 2014.

Una decisione storica che potrebbe cambiare il trasporto ferroviario
A distanza di sei mesi, il tribunale di Genova non si limita ad annullare il licenziamento con un’ordinanza immediatamente esecutiva, ma entra nel merito della questione. Secondo il giudice Marcello Basilico, l’azienda non può aumentare i rischi per i lavoratori per motivi di “economicità” ed “efficienza”. Se lo fa, è da considerarsi responsabile. “Sono più di 200 i macchinisti sanzionati con giorni di sospensione perché si sono rifiutati di guidare senza un collega pronto a sostituirli in caso di malore; in tribunale hanno perso in primo grado, aspettano l‘appello. Ma questa ordinanza potrebbe cambiare tutto” spiega ancora il ferroviere e sindacalista Catalano.

L’ultimo caso due giorni fa, in Sardegna: infarto del conducente
A meno che il treno non si trovi nella Pianura Padana, lontano da gallerie, il conducente rischia grosso se si sente male sul lavoro. Come è accaduto il 26 marzo sulla linea Iglesias-Cagliari, quando l’uomo alla guida di un regionale ha accusato sintomi di infarto. Fortuna che tra i passeggeri c’era un collega fuori servizio, che ha portato il treno alla stazione più vicina. Soccorso dall’ambulanza, il macchinista è giunto in ospedale e operato di urgenza. Se c’è stato un lieto fine, lo si deve solo al caso


http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/03 ... a/1548521/
iospero
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Re: IL LAVORO

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DA REPUBBLICA.IT

Disoccupazione: Istat, il tasso a febbraio risale al 12,7%
Dopo i segnali positivi di dicembre e gennaio, il mercato del lavoro italiano subisce una battuta d'arresto: 67mila disoccupati in più rispetto al febbraio 2014. I giovani disoccupati aumentano di 11mila nel mese, per un tasso del 42,6%: cresce di 1,3 punti. Grillo attacca: "Crescono le balle del governo". Poletti: "Nessuna contraddizione"
31 marzo

Ha poco da gongolarsi il governo con questi numeri anche se Poletti cerca di destreggiarsi-
camillobenso
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Re: IL LAVORO

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La Stampa 1.4.15
Ma i giovani rischiano di restare fuori dal nuovo contratto a tutele crescenti
Le imprese preferiscono lavoratori già esperti. E molti ragazzi scelgono la partita Iva

di Walter Passerini



I messaggi sono contrastanti, da elettrocardiogramma impazzito. Oggi i punti fermi Istat sono: il 12,7% di disoccupazione generale, il 42,6% di disoccupazione giovanile. Dovremo rassegnarci: leggere ogni mese i dati ci rende prigionieri delle montagne russe, costringendoci a emozioni e colpi di scena a ritmo serrato.
Solo lunedì il governo celebrava 79mila assunzioni a gennaio e febbraio 2015, ma ieri l’Istat ha precisato che sono dati non confrontabili perché «sono di diversa natura e non necessariamente significano nuovi occupati; possono anche essere transizioni dal tempo determinato e altri tipi di contratti». La lotteria dei numeri crea sconcerto e offusca le tendenze. A febbraio sono calati di 44 mila unità gli occupati, quasi tutte donne, rispetto a gennaio, ma a preoccupare è la disoccupazione giovanile salita di 1,3 punti su gennaio, proprio nel bimestre in cui trionfano gli incentivi della legge di Stabilità (sconto di 8060 euro l’anno per assunto, 24 mila euro nel triennio). Evidentemente il doping da solo non basta, dobbiamo attendere il boom dei contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti partito il 7 marzo.
La spia delle difficoltà
È la questione giovanile la spia e la metafora delle difficoltà, anche perché il mitico e miracoloso contratto per neo-assunti non è detto che darà lavoro soprattutto ai più giovani. Intanto a febbraio i giovani occupati sono sempre pochi (868 mila tra 15-24 anni), 40 mila in meno rispetto all’anno precedente e 34 mila in meno su gennaio. Il tasso di disoccupazione è al 43%, mentre l’occupazione scende al 14,6% (solo un giovane su sette lavora). E nel contempo salgono gli inattivi a 4,4 milioni, aumentando di 35 mila unità in un anno e di 20 mila in un mese (dentro ci sono 2 milioni di Neet). Ma le fotografie non servono, ci vuole la macchina da presa che colga il movimento e la nascita di un nuovo dualismo tra tutelati e non. Ora le attese sono sul contratto a tutele crescenti e senza l’articolo 18, che metterà il turbo anche grazie agli sconti contributivi. Un anno fa aveva fatto terra bruciata il contratto a tempo determinato, reso più facile e passepartout di tutte le assunzioni: tre anni di flessibilità senza causale.
Non a caso il contratto a termine ha cannibalizzato gli altri contratti (sette su dieci). Ora il nuovo contratto lo sostituirà? Diventerà la formula regina? Forse, ma i giovani potrebbero venire emarginati. L’ipotesi viene ventilata dal mondo delle imprese che, cercando di trarre il massimo vantaggio dalle novità, faranno sì assunzioni con il nuovo contratto superscontato, ma sceglieranno bene le persone da assumere con grande selettività.
Problema di competitività
Il problema delle aziende è oggi la concorrenza e la competitività: otterranno più produttività facendo rientrare in parte i cassintegrati e assumendo risorse esterne più esperte che giovani, più competenti che da formare. La fretta giocherà il resto, nella rincorsa al massimo di produttività. La selezione segmenterà e riposizionerà il mercato: a farne le spese potrebbero essere i giovani, per i quali si profila un futuro di precarietà, viste le troppe formule che non sono state disboscate. Si ripropone così, nonostante il nuovo contratto, quel dualismo del mercato del lavoro che è fonte di ambiguità. Le evidenze sono la spinosa stabilizzazione dei cocopro, ma anche la ripresa dei contratti in somministrazione (ex interinali, crescono al 9% e registrano 300mila occupati al mese, in gran parte giovani), la stabilità dell’apprendistato (fortemente incentivato), l’aumento di stage e tirocini (spesso fuorilegge), job on call e voucher. Ma anche l’aumento delle partite Iva giovanili dovuta a ragioni fiscali (regime dei minimi), che fa sì che a oggi 700mila under 35enni abbiano scelto la via dell’auto-impresa.
Tra le strategie giovanili alternative c’è così il passaggio dal lavoro dipendente al lavoro autonomo. Insieme al trasferimento all’estero (l’anno scorso ha coinvolto 100mila italiani di cui la metà sotto i 40 anni): scelta più matura e consapevole, sempre meno fuga da emarginati. Mentre grida vendetta il flop della Garanzia giovani (1,5 miliardi di finanziamento), icona d’impotenza e dagherrotipo dell’immobilismo dell’Italia che fu.
camillobenso
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Re: IL LAVORO

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Una volta — per essere com­pe­ti­tivi — si sva­lu­tava la moneta, oggi si sva­luta il lavoro: meno diritti, meno tutele, meno retri­bu­zione. Le poli­ti­che neo­li­be­ri­ste si sono basate in que­sti decenni su quat­tro pila­stri: la ridu­zione della spesa pub­blica e del ruolo dello Stato; le pri­va­tiz­za­zioni e le libe­ra­zioni (a par­tire da quella della cir­co­la­zione dei capi­tali); gli inve­sti­menti pri­vati (il mer­cato) e la pre­ca­riz­za­zione del mer­cato del lavoro.
Giulio Marcon


Dal dibattito di Omnibus di domenica scorsa, la domanda di rito è diventata questa: "Vuoi più lavoro o più diritti?"
camillobenso
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Re: IL LAVORO

Messaggio da camillobenso »

Tg7 delle 14,00 - Cronache

In 12.000 stamani all'Ospedale di Niguarda di Milano, per un concorso per 25 posti da infermiere.

Qualche riflessione è d'obbligo.
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Re: IL LAVORO

Messaggio da camillobenso »

QUANDO IL MENEFREGHISMO GENERALE ARRIVA A QUESTI LIVELLI


I 147 cristiani trucidati in Kenia hanno lasciato il segno ai dinosauri presenti stamani alla Biblioteca centrale. Tardivamente, ma almeno se ne è discusso.

Varrà lo stesso domani per quanto accaduto a Lucca??? Oppure due famiglie e più, distrutte dalla crisi per il momento non preoccupa più di tanto????


E cos'ha twettato, prontamente, in proposito Leopoldo Paràkulos????

Il miracoloso Job act, non comprende questi casi????



IL CASO
Lucca, operaio uccide il suo capo
Temeva di essere licenziato

Un uomo di 52 anni, caporeparto alla cartiera Lucart di Porcari, è stato atteso e ucciso all’alba in piazza sotto casa a colpi di pistola da un dipendente della stessa azienda. Il killer poi si è costituito. La moglie della vittima era alla finestra
di Simone Dinelli, Simone Innocenti
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Re: IL LAVORO

Messaggio da camillobenso »

Whirlpool chiude tre fabbriche: 1350 esuberi
Per Renzi l’acquisizione di Indesit era ‘fantastica’

Il gruppo Usa ferma gli stabilimenti di Caserta, None e Albacina. Governo: “Forte contrarietà”. A luglio
il premier aveva rivendicato: “Non conta il passaporto, ma il piano industriale”. Operai occupano strade



Lavoro & Precari
Il 13 luglio scorso, dopo l’annuncio dell’acquisizione della marchigiana Indesit da parte del gruppo statunitense Whirlpool, Matteo Renzi aveva definito l’operazione “fantastica” rivendicando di aver “parlato personalmente con gli americani a Palazzo Chigi”. “Noi, se ci riusciamo, vogliamo portare aziende da tutto il mondo a Taranto, a Termini Imerese, nel Sulcis, come nel Veneto. Il punto non è il passaporto, ma il piano industriale”. Ora il piano industriale di Whirlpool è arrivato, ma è ben diverso dagli auspici del presidente del Consiglio: chiusura di tre siti produttivi e 1.350 esuberi

hp. F.Q.

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Articolo + video

http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/04 ... i/1597054/
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