Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzione?

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UncleTom
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Re: Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzion

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FORMIDABILE………………….!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

HANNO RAGGIUNTO L’APOGEO DELLA FALSITA’



Paolo Guzzanti a 77 anni si presta a fare da cassa di risonanza ai fascisti per elemosinare un voto in più.

Ma i suo figli non gli dicono niente????????? Non si vergognano di cotanto padre?????????



Quegli schiavisti libici
e i buonisti di casa nostra

Basta fingere di non sapere come la carne umana arriva dopo un calvario di violenze, tassate da Isis e Boko Haram
di Paolo Guzzanti
poco fa
0



SCOPRE ADESSO L'ACQUA CALDA??????????????????????
UncleTom
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Re: Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzion

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Sankara: basta rapinare l’Africa, col debito. E lo uccisero
Scritto il 10/9/17 • nella Categoria: idee Condividi

Noi pensiamo che il debito si analizzi prima di tutto dalla sua origine.

Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo.

Quelli che ci hanno prestato denaro sono gli stessi che ci avevano colonizzato.

Sono gli stessi che gestivano i nostri Stati e le nostre economie.

Sono i colonizzatori che indebitavano l’Africa con i finanziatori internazionali, che erano i loro fratelli e cugini.

Noi non c’entravamo niente con questo debito.

Quindi non possiamo pagarlo.

Il debito è ancora il neocolonialismo, con i colonizzatori trasformati in assistenti tecnici – anzi, dovremmo invece dire “assassini tecnici”.

Sono loro che ci hanno proposto dei canali di finanziamento, dei “finanziatori”.

Un termine che si usa ogni giorno, come se ci fossero degli uomini che solo “sbadigliando” possono creare lo sviluppo degli altri.

Questi finanziatori ci sono stati consigliati, raccomandati. Ci hanno presentato dei dossier e dei movimenti finanziari allettanti. Noi ci siamo indebitati per cinquant’anni, sessant’anni e più. Cioè siamo stati portati a compromettere i nostri popoli per cinquant’anni e più.

Il debito nella sua forma attuale, controllata e dominata dall’imperialismo, è una riconquista dell’Africa sapientemente organizzata, in modo che la sua crescita e il suo sviluppo obbediscano a delle norme che ci sono completamente estranee.

In modo che ognuno di noi diventi schiavo finanziario, cioè schiavo tout court, di quelli che hanno avuto l’opportunità, l’intelligenza, la furbizia, di investire da noi con l’obbligo di rimborso.

Ci dicono di rimborsare il debito. Non è un problema morale.

Rimborsare o non rimborsare non è un problema di onore.

Abbiamo prima ascoltato e applaudito il primo ministro della Norvegia, intervenuta qui.

Ha detto, lei che è un’europea, che il debito non può essere rimborsato tutto.

Il debito non può essere rimborsato prima di tutto perché se noi non paghiamo, i nostri finanziatori non moriranno, siamone sicuri.

Invece se paghiamo, saremo noi a morire, ne siamo ugualmente sicuri.

Quelli che ci hanno condotti all’indebitamento hanno giocato come al casinò.

Finché guadagnavano non c’era nessun problema; ora che perdono al gioco esigono il rimborso.

E si parla di crisi.

No, signor presidente. Hanno giocato, hanno perduto, è la regola del gioco. E la vita continua.

Non possiamo rimborsare il debito perché non abbiamo di che pagare.

Non possiamo rimborsare il debito perché non siamo responsabili del debito.

Non possiamo pagare il debito perché, al contrario, gli altri ci devono ciò che le più grandi ricchezze non potranno mai ripagare: il debito del sangue.

E’ il nostro sangue che è stato versato.

CONTINUA
UncleTom
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Re: Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzion

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CONTINUA


Si parla del Piano Marshall che ha rifatto l’Europa economica.

Ma non si parla mai del Piano africano che ha permesso all’Europa di far fronte alle orde hitleriane quando la sua economia e la sua stabilità erano minacciate.

Chi ha salvato l’Europa?

E’ stata l’Africa.

Se ne parla molto poco.

Così poco che noi non possiamo essere complici di questo silenzio ingrato.

Se gli altri non possono cantare le nostre lodi, noi abbiamo almeno il dovere di dire che i nostri padri furono coraggiosi e che i nostri combattenti hanno salvato l’Europa e alla fine hanno permesso al mondo di sbarazzarsi del nazismo.

Il debito è anche conseguenza degli scontri.

Quando ci parlano di crisi economica, dimenticano di dirci che la crisi non è venuta all’improvviso.

La crisi è sempre esistita e si aggraverà ogni volta che le masse popolari diventeranno più coscienti dei loro diritti di fronte allo sfruttatore.

Oggi c’è crisi perché le masse rifiutano che le ricchezze siano concentrate nelle mani di pochi individui.

C’è crisi perché pochi individui depositano nelle banche estere delle somme colossali che basterebbero a sviluppare l’Africa intera.

C’è crisi perché di fronte a queste ricchezze individuali, che hanno nomi e cognomi, le masse popolari si rifiutano di vivere nei ghetti e nei bassifondi.

C’è crisi perché i popoli rifiutano dappertutto di essere dentro una Soweto di fronte a Johannesburg.

C’è quindi lotta, e l’esacerbazione di questa lotta preoccupa chi ha il potere finanziario.

Ci si chiede oggi di essere complici della ricerca di un equilibrio.

Equilibrio a favore di chi ha il potere finanziario.

Equilibrio a scapito delle nostre masse popolari.

No! Non possiamo essere complici.

Non possiamo accompagnare quelli che succhiano il sangue dei nostri popoli e vivono del sudore dei nostri popoli nelle loro azioni assassine.

Signor presidente, sentiamo parlare di club – Club di Roma, Club di Parigi, Club di dappertutto.

Sentiamo parlare del Gruppo dei Cinque, dei Sette, del Gruppo dei Dieci, forse del Gruppo dei Cento o che so io.

E’ normale allora che anche noi creiamo il nostro club e il nostro gruppo.

Facciamo in modo che a partire da oggi anche Addis Abeba diventi la sede, il centro da cui partirà il vento nuovo del Club di Addis Abeba.

Abbiamo il dovere di creare oggi il fronte unito di Addis Abeba contro il debito.

E’ solo così che potremo dire, oggi, che rifiutando di pagare non abbiamo intenzioni bellicose ma, al contrario, intenzioni fraterne.

Del resto, le masse popolari in Europa non sono contro le masse popolari in Africa.

Ma quelli che vogliono sfruttare l’Africa sono gli stessi che sfruttano l’Europa.

Abbiamo un nemico comune.

Quindi il club di Addis Abeba dovrà dire agli uni e agli altri che il debito non sarà pagato.

Quando diciamo che il debito non sarà pagato non vuol dire che siamo contro la morale, la dignità, il rispetto della parola.

Noi pensiamo di non avere la stessa morale degli altri.

Tra il ricco e il povero non c’è la stessa morale.

La Bibbia, il Corano, non possono servire nello stesso modo chi sfrutta il popolo e chi è sfruttato.

C’è bisogno che ci siano due edizioni della Bibbia e due edizioni del Corano.

Non possiamo accettare che ci parlino di dignità.

Non possiamo accettare che ci parlino di merito per quelli che pagano, e perdita di fiducia per quelli che non dovessero pagare.

Noi dobbiamo dire, al contrario, che oggi è normale si preferisca riconoscere come i più grandi ladri siano i più ricchi.

Un povero, quando ruba, non commette che un peccatucolo per sopravvivere e per necessità.

I ricchi sono quelli che rubano al fisco, alle dogane.

Sono quelli che sfruttano il popolo.

Signor presidente, non è quindi provocazione o spettacolo.

Dico solo ciò che ognuno di noi pensa e vorrebbe.

Chi non vorrebbe, qui, che il debito fosse semplicemente cancellato?

Quelli che non lo vogliono possono subito uscire, prendere il loro aereo e andare dritti alla Banca Mondiale a pagare!

Non vorrei poi che si prendesse la proposta del Burkina Faso come fatta da “giovani”, senza maturità ed esperienza.

Non vorrei neanche che si pensasse che solo i rivoluzionari parlano in questo modo.

Vorrei semplicemente che si ammettesse che è una cosa oggettiva, un fatto dovuto.

E posso citare, tra quelli che dicono di non pagare il debito, dei rivoluzionari e non, dei giovani e degli anziani.

Per esempio Fidel Castro ha già detto di non pagare.

Non ha la mia età, anche se è un rivoluzionario.

Ma posso citare anche François Mitterrand, che ha detto che i paesi africani non possono pagare, i paesi poveri non possono pagare.

Posso citare la signora primo ministro di Norvegia.

Non conosco la sua età e mi dispiacerebbe chiederglielo, è solo un esempio.

Vorrei anche citare il presidente Félix Houphouët Boigny.

Non ha la mia età, eppure ha dichiarato pubblicamente che, quanto al suo paese, la Costa d’Avorio, non può pagare.

Ma la Costa d’Avorio è tra i paesi che stanno meglio in Africa, almeno nell’Africa francofona.

E per questo, d’altronde, è normale che paghi un contributo maggiore, qui.

Signor presidente, la mia non è quindi una provocazione.

Vorrei che molto saggiamente lei ci offrisse delle soluzioni.

Vorrei che la nostra conferenza adottasse la risoluzione di dire chiaramente che noi non possiamo pagare il debito.

Non in uno spirito bellicoso, bellico.

Questo per evitare di farci assassinare individualmente. Se il Burkina Faso da solo rifiuta di pagare il debito, io non sarò qui alla prossima conferenza!

Invece, col sostegno di tutti, di cui ho molto bisogno, col sostegno di tutti potremo evitare di pagare.

Ed evitando di pagare potremo consacrare le nostre magre risorse al nostro sviluppo.

E vorrei terminare dicendo che ogni volta che un paese africano compra un’arma, è contro un africano.

Non contro un europeo, non contro un asiatico.

E’ contro un africano.

Perciò dobbiamo, anche sulla scia della risoluzione sul problema del debito, trovare una soluzione al problema delle armi.

Sono militare e porto un’arma.

Ma, signor presidente, vorrei che ci disarmassimo.

Perché io porto l’unica arma che possiedo.

Altri hanno nascosto le armi che pure portano.

Allora, cari fratelli, col sostegno di tutti, potremo fare la pace a casa nostra.

Potremo anche usare le sue immense potenzialità per sviluppare l’Africa, perché il nostro suolo e il nostro sottosuolo sono ricchi.

Abbiamo abbastanza braccia e un mercato immenso, da Nord a Sud, da Est a Ovest.

Abbiamo abbastanza capacità intellettuali per creare, o almeno prendere la tecnologia e la scienza in ogni luogo dove si trovano.

Signor presidente, facciamo in modo di realizzare questo fronte unito di Addis Abeba contro il debito.

Facciamo in modo che, a partire da Addis Abeba, decidiamo di limitare la corsa agli armamenti tra paesi deboli e poveri.

I manganelli e i machete che compriamo sono inutili.

Facciamo in modo che il mercato africano sia il mercato degli africani.

Produrre in Africa, trasformare in Africa, consumare in Africa.

Produciamo quello di cui abbiamo bisogno e consumiamo quello che produciamo, invece di importarlo.

Il Burkina Faso è venuto a mostrare qui la cotonella, prodotta in Burkina Faso, tessuta in Burkina Faso, cucita in Burkina Faso per vestire i burkinabé.

La mia delegazione e io stesso siamo vestiti dai nostri tessitori, dai nostri contadini.

Non c’è un solo filo che venga d’Europa o d’America.

Non faccio una sfilata di moda, ma vorrei semplicemente dire che dobbiamo accettare di vivere africano.

E’ il solo modo di vivere liberi e degni.

(Thomas Sankara, estratto dal “discorso sul debito” pronunciato al vertice panafricano di Addis Abeba, Etiopia, il 29 luglio 1987. Un anno dopo, il 28 ottobre, Sankara verrà assassinato a Ouagadougu, capitale del Burkina Faso, che quattro anni prima aveva liberato, con la sua rivoluzione, dal colonialismo francese. Il presidente dell’Organizzazione per l’Unità Africana, cui Sankara si rivolge nel discorso, è il congolese Denis Sassou-Nguesso, mentre la citata premier norvegese è Gro Harlem Brundtland, progressista e ambientalista. Riletto oggi, il celebre discorso di Sankara – martire socialista della sovranità democratica dell’Africa – è particolarmente illuminante, di fronte alla tragedia quotidiana dell’esodo dei migranti africani).
UncleTom
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Re: Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzion

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TU ANNEGHERAI IN MARE 2011 - 2017









L'inchiesta


Naufragio dei bambini, nuove verità sulla strage

Secondo i rapporti dei maltesi, le telefonate dimostrano come ci siamo tenuti lontani dal barcone affondato. Ma i magistrati romani hanno ignorato i documenti e non hanno voluto ascoltare nessuno dei sopravvissuti di quell'11 ottobre, quando morirono 60 bimbi nel Mediterraneo. E ora si prepara l'archiviazione dell'indagine
di Fabrizio Gatti


Un segreto accompagna da quattro anni gli accordi tra Italia e Malta su immigrazione e sbarchi. Sette giorni prima dell’inizio dell’operazione Mare Nostrum, la nave Libra, il pattugliatore allora comandato dal tenente di vascello Catia Pellegrino, il volto simbolo della Marina militare, non ha risposto alle continue e disperate richieste di soccorso inviate via radio sul canale di emergenza dall’equipaggio di un aereo militare maltese. La mancata risposta, secondo un rapporto custodito dalle forze armate della Valletta, avrebbe impedito il salvataggio tempestivo di 480 profughi siriani in fuga da Aleppo e da altre città: dopo cinque ore di inutile attesa, per l’affondamento del loro barcone che la notte precedente era stato preso a mitragliate da una motovedetta libica, 268 persone sono annegate, tra le quali almeno sessanta bambini. Per tutte quelle cinque ore, la Libra era a meno di un’ora di navigazione.

È il naufragio che ha cambiato la storia del Mediterraneo: proprio i morti di quel pomeriggio, l’11 ottobre 2013, una settimana dopo l’altra strage a Lampedusa, hanno convinto il premier Enrico Letta a ordinare l’intervento unilaterale italiano per intercettare tutti i barconi al largo della Libia. E da allora, prima con Mare Nostrum poi con le organizzazioni umanitarie (le Ong), l’Italia si è fatta carico da sola di assistere oltre seicentomila uomini, donne e bambini raccolti dal mare. Anche quelli destinati a Malta. In altre parole, la storia recente sarebbe potuta andare diversamente e non ci sarebbe stato bisogno di missioni come Mare Nostrum, se quattro anni fa gli ufficiali della Libra (e del comando in capo della Marina militare italiana) avessero fatto fino in fondo il loro dovere.

Il retroscena, scoperto dall’Espresso, è confermato da fonti qualificate delle Armed Forces of Malta, le forze armate dell’isola, che riuniscono in un solo corpo difesa e soccorso. E che nell’operazione di quel giorno hanno invece fatto tutto il possibile per salvare i passeggeri del peschereccio. Catia Pellegrino, 41 anni, famosa per essere stata la prima donna a comandare una nave da guerra italiana e testimonial della Marina sotto il comando dell’ammiraglio Giuseppe De Giorgi durante i mesi di Mare Nostrum, non smentisce il fatto. Ma il suo legale spiega che non può rispondere alle nostre domande: «In ragione dell’esistenza di un procedimento penale relativo alla nota vicenda», scrive l’avvocato Gianluca Mongelli, «nonché in ragione delle facoltà derivanti dalla mia posizione di difensore di fiducia del comandante Pellegrino, la stessa non potrà fornire alcuna informazione specifica né personalmente, né per il mio tramite, relativamente ai fatti che, ribadisco, sono oggetto di procedimento penale».

Quella raccontata nel rapporto delle Armed Forces of Malta è una storia molto diversa dalla versione riferita ai magistrati della Procura di Roma dagli ufficiali italiani. Una storia confermata dalle registrazioni di quel giorno, che non sono mai state ascoltate. La mancata risposta della Libra alla richiesta diretta di intervento sul canale di emergenza, una violazione delle norme civili e militari di soccorso in mare, non appare infatti negli atti delle indagini. Quando l’aereo ricognitore maltese, un grosso bimotore a elica Kingair B200, raggiunge il cielo sopra il barcone sono le 16 dell’11 ottobre. La prima chiamata dal peschereccio arriva alla centrale operativa di Roma della Guardia costiera alle 12.26. L’sos lo lancia uno dei tanti medici a bordo, Mohanad Jammo, in fuga dalla Libia con la moglie e i tre figli piccoli. Sanno di essere ad appena 60 miglia da Lampedusa (dove due motovedette della Guardia di finanza resteranno tranquillamente ormeggiate in porto fino a naufragio avvenuto).

Ma i siriani sono entrati nell’area di ricerca e soccorso di competenza di Malta. E, anche se l’isola-Stato è molto più lontana da loro, a 118 miglia, l’ufficiale di servizio della Guardia costiera italiana passa l’intervento ai maltesi. Lo fa seguendo questa curiosa procedura: non comunica che la barca sta affondando e che l’acqua nello scafo ha già raggiunto il mezzo metro (telefonata delle 13); riferisce al dottor Jammo la falsa informazione di essere più vicino a Malta che a Lampedusa (telefonata delle 13.18); pur rappresentando fino a quel momento l’autorità di coordinamento dei soccorsi, verifica in ritardo che Malta non ha ricevuto da Roma la formalizzazione della richiesta di intervento via fax (telefonata delle 14.35); non rivela mai ai maltesi l’esatta posizione di Libra, che è in pattugliamento a una decina di miglia dal barcone e ha un elicottero a bordo, con cui avrebbero già potuto valutare in pochi minuti di volo le esatte condizioni di pericolo. Le informazioni incomplete che trasmette l’Italia inducono la centrale operativa maltese a trattare il caso all’inizio come una semplice segnalazione di avvicinamento di un barcone carico di profughi. Non come una chiamata di emergenza.

Il cielo è sereno. Il mare quasi calmo. Il sole ancora alto. La P61, la motovedetta maltese più vicina, è in pattugliamento a 71 miglia a Sud dell’isola. Dalle 14 ha ricevuto l’ordine di avvicinarsi al punto e tenersi a disposizione, ma è ancora a quasi quattro ore di navigazione. Il dottor Jammo, su invito della Guardia costiera, comincia a telefonare anche a Malta. E la centrale operativa decide di mandare il suo aereo ricognitore a verificare la situazione. Alle 16 dopo oltre mezz’ora di volo, l’equipaggio del Kingair inquadra la superficie del mare con la telecamera di bordo e vede subito che il barcone è sovraccarico di persone ed è molto instabile: sbanda e si inclina pericolosamente su un fianco e sull’altro per l’acqua che sta imbarcando. Ma soprattutto, dall’aereo, scoprono che da Roma la Guardia costiera ha tenuto nascosta la presenza lì vicino di una nave costruita e attrezzata proprio per i soccorsi in mare. Leggono sulle sue lamiere grigie il distintivo ottico: P402. Riconoscono che è la Libra. Hanno già collaborato molte volte nei soccorsi. Hanno anche comunicato direttamente. Così dall’alto i maltesi fanno la cosa più normale per qualunque equipaggio addestrato a navigare o volare in mare aperto: chiamano la nave italiana sul canale 16 Vhf marino, quello riservato alle comunicazioni di emergenza. E la Libra non risponde.

Dal Kingair richiamano e sempre via radio spiegano il perché della loro richiesta. Nel rapporto è scritto che dicono più volte alla Libra che il barcone è «overcrowded and very unstable», sovraccarico e molto instabile. E per questo ha bisogno di aiuto immediato. Volano in circolo sul pattugliatore e sul peschereccio. Le due imbarcazioni sono così vicine che dall’alto possono vederle in un solo colpo d’occhio. Sempre nel rapporto hanno scritto che chiamano e richiamano la Libra per due minuti senza sosta. Sperano che il canale 16 gracchi finalmente quello che si aspettano: «P402, roger». Due minuti di chiamate di emergenza sono un tempo lunghissimo. Ma, sempre secondo il rapporto maltese, la Libra continua a ignorare la chiara e dettagliata richiesta lanciata dai militari sull’aereo. Non è solo uno sgarbo a una forza armata alleata e a uno Stato dell’Unione Europea e della Nato: Malta in quel momento rappresenta anche l’autorità di coordinamento e comando della missione di ricerca e soccorso in mare.

Dal ricognitore chiamano allora la loro centrale operativa, chiedendo di dire a Roma che è necessario dare subito istruzioni dirette alla nave italiana. Non c’è più tempo da perdere. Solo la Libra può salvare quei bambini. Adesso tocca all’ufficiale di servizio, il maggiore Ruth Ruggier, la prima donna ufficiale di Malta. Fa mandare i fax formali di richiesta. E telefona alla Guardia costiera. Spiega che la motovedetta maltese è ancora lontana. Che la nave commerciale più vicina è addirittura a 70 miglia. Ma dal comando in capo della Marina militare, il Cincnav, dicono no. E la Guardia costiera si limita a riferire. L’ordine preciso lo pronuncia il capitano di fregata Luca Licciardi, capo sezione attività correnti del Cincnav. Con queste parole: dice che la Libra «non deve stare tra i coglioni quando arrivano le motovedette» maltesi e che deve tenersi a una distanza «tale da poter vedere se sta pisciando in un cestino di frutta ovvero se sta lanciando missili balistici» (telefonata delle 15.37). L’ordine viene poi girato a Catia Pellegrino con la telefonata delle 15.41. A quell’ora al Cincnav sanno che Malta ha inviato soltanto una lenta motovedetta. Non si aspettano l’arrivo dell’aereo.

L’equipaggio del Kingair non può sentire le conversazioni tra gli ufficiali italiani. Ma lassù sono ugualmente infuriati e disperati. Non rispondere alle chiamate dirette sul canale 16 è un fatto grave. Quindi per tre volte mirano il loro puntatore laser sulla Libra. Zoomano la telecamera al massimo ingrandimento. E per tre volte scattano la foto corredata di data, ora, velocità e punto geografico. Vedono che il pattugliatore, invece di avvicinarsi, si è addirittura allontanato. La comandante Pellegrino fa percorrere alla sua nave un arco di circonferenza, mantenendosi a una distanza costante di diciannove miglia dal barcone. I motori al minimo. La prua in navigazione nella direzione opposta a quella del peschereccio che sta affondando.

I piloti inquadrano e scattano. La targa della Libra in evidenza: P402. È la prova che documenta la fuga degli ufficiali italiani dal dovere di soccorrere quasi 500 innocenti alla deriva. Alle 16, alle 16.30, alle 17 sono ancora tutti vivi. Sia gli adulti, sia i cento bambini a bordo. Il peschereccio si rovescia alle 17.07. Alla prima chiamata sul canale 16 Catia Pellegrino ha ancora più di un’ora per salvarli o perlomeno per mitigare le conseguenze del naufragio. La P61 arriverà in zona prima degli italiani, ma soltanto alle 17.51. La Libra addirittura alle 18: cinque ore e 34 minuti dopo la prima telefonata dal barcone. Appena 212 persone verranno portate a terra vive, insieme con 26 cadaveri: il resto delle famiglie e dei bambini, compresi due dei tre figli del dottor Jammo, sono ancora lì, in fondo al mare.

Forse sulla Libra non stavano ascoltando il canale 16? I militari maltesi contattati dall’Espresso sorridono. Impossibile, dicono. Su tutte le navi militari del mondo c’è un ufficiale addetto alle comunicazioni radio. Non possono non aver sentito. Il canale 16 deve essere costantemente monitorato. È un obbligo anche per le navi civili. Soprattutto se c’è un’operazione di soccorso in atto. La testimonianza maltese coinvolge quindi tutta la catena di comando a bordo del pattugliatore italiano: dall’ufficiale addetto alle telecomunicazioni alla comandante.

Catia Pellegrino è già indagata in due inchieste ereditate per competenza territoriale dalla Procura di Roma. In una è accusata di omicidio con dolo eventuale. Per lo stesso reato è indagato, si apprende ora, anche Filippo Maria Foffi, 64 anni, l’ammiraglio di Mare Nostrum fino al 2016 comandante in capo della squadra navale della Marina, oltre ai tenenti di vascello Clarissa Torturo, 40 anni, e Antonio Miniero, 42, i due ufficiali della centrale operativa della Guardia costiera che hanno gestito le numerose richieste di intervento via telefono satellitare dal peschereccio carico di bambini e via telefono e fax dall’autorità militare maltese. La comandante Pellegrino è anche indagata, per lo stesso naufragio, in un secondo procedimento per omissione di soccorso con i capitani di fregata Nicola Giannotta, 43 anni, e Luca Licciardi, 47, sottoposti quel pomeriggio alla catena di comando dell’ammiraglio Foffi, e Leopoldo Manna, 56 anni, capo della centrale operativa della Guardia costiera.
Per tutti loro la Procura di Roma, con atto firmato anche dal procuratore Giuseppe Pignatone, ha comunque chiesto l’archiviazione. I magistrati, per le due inchieste che hanno ereditato da Palermo e da Agrigento, non hanno voluto sentire la testimonianza di nessuno dei sopravvissuti e nemmeno hanno chiesto all’autorità maltese i rapporti sul naufragio. Mercoledì 13 settembre il Gip, Giovanni Giorgianni, dovrà quindi decidere se archiviare le accuse contro gli ufficiali oppure no, sulla base di un’indagine che non è andata oltre le parziali versioni della Marina militare italiana.

«Alla luce di queste nuove prove», commenta l’avvocato delle famiglie, Alessandra Ballerini, che ha presentato opposizione alla richiesta di chiudere le indagini senza nemmeno un processo, «ma anche alla luce degli audio delle comunicazioni già sentiti da noi e dalla Procura, siamo certi che questo caso non possa essere archiviato. Auspichiamo invece che tutti i testimoni possano essere sentiti dalla nostra autorità giudiziaria e possano essere acquisiti tutti gli atti e le comunicazioni che ancora mancano».

Nel verbale di interrogatorio di Catia Pellegrino infatti non compare nessun riferimento alle chiamate di soccorso sul canale 16: «La Pellegrino», è invece scritto nella richiesta di archiviazione firmata dal procuratore Pignatone e da due pubblici ministeri, «ha chiarito il momento in cui ha percepito che il natante con a bordo i migranti era in una situazione di pericolo, fissandolo alle 17.14, ossia quando ha avuto la comunicazione che il natante si era ribaltato». Il rapporto dei militari maltesi e le foto scattate dal loro aereo aprono oggi un buco di un’ora e quattordici minuti nella memoria di quel pomeriggio: lì dentro da quattro anni si nasconde il segreto di una generazione di ufficiali italiani che, dopo essere scappata di fronte al dovere, non ha ancora raccontato tutto quello che sa.
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• migranti
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• Libia
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• Malta
• strage dei bambini
• naufragio dei bambini
© Riproduzione riservata 13 settembre 2017

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Re: Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzion

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Diritti
Land grabbing e migranti, gli italiani coinvolti gridano ‘Aiutiamoli a casa loro’. Mentono
di Vittorio Agnoletto | 15 settembre 2017
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• 401


Più informazioni su: Africa, Agricoltura, Land Grabbing, Migranti, Multinazionali, Romania

Vittorio Agnoletto
Medico, professore presso l'Università degli Studi di Milano
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Alcuni commenti al mio precedente post mettevano in dubbio alcuni dati da me citati, in particolare il ruolo svolto dalle aziende italiane nel Land grabbing, l’accaparramento delle terre fertili da parte di grandi multinazionali o di interi Stati, in Africa.
Per superare ogni dubbio è sufficiente cliccare su Web of transnational deals e quindi Italy (con il browser Internet Explorer non funziona) e sarà possibile osservare come sono ben 1.017.828 gli ettari acquistati da industrie italiane attraverso il Land grabbing, terreni quasi tutti collocati in Africa, tranne circa 36mila ettari in Romania. Questi dati sono stimati per difetto, perché fanno riferimento unicamente ai contratti già chiusi nel 2015; molte altre trattative erano allora ancora aperte ed altre sono state avviate recentemente.
Cliccando su Show all outbound deals è possibile, poi, vedere la lista delle aziende italiane coinvolte in tale pratica, aggiornata al 2015. Quelli indicati come Secondary investor indicano l’azienda con sede in Italia che sta dietro i primi acquirenti (primary investor). Questi ultimi, in genere, fungono da prestanome locale: sono aziende collocate nel Paese in cui si trova il terreno, utili a superare le leggi nazionali che vincolano gli investimenti italiani.
Scorrendo fino in fondo la colonna Intention of investment, appare evidente come circa solo un terzo dei terreni acquistati con Land grabbing sono stati destinati all’agricoltura; confrontando la colonna Intended size ha (le dimensioni previste in ettari dei terreno da acquistare) con la colonna Contract size ha (la quantità di ettari di terreno già acquistati) si può osservare come già allora erano avviate le trattative per l’acquisto di circa un altro un milione di ha di terreno in Africa da parte di industrie con sede in Italia.
Siamo quindi di fronte ad un fenomeno in continua crescita e del quale molti aspetti restano ancora sconosciuti e nascosti anche per ragioni commerciali e fiscali.
Come già scritto nel post precedente, tra le conseguenze del Land grabbing vi è l’abbandono delle terre da parte di migliaia e migliaia di contadini destinati a precipitare in una condizione di ulteriore drammatica povertà che li porta ad emigrare verso nord spesso fino alle sponde del Mediterraneo con tutte le conseguenze che conosciamo. Ecco perché non ha alcun senso dire “aiutiamoli a casa loro” se contemporaneamente non vengono bloccate pratiche quali il Land grabbing.
Chiarito questo punto, rispondo brevemente anche ad altre obiezioni che mi erano state rivolte:
1. Non penso certo che “800 milioni di Africani devono venire da noi” né che “non dobbiamo aiutarli a casa loro”; sostengo molto più semplicemente che non li stiamo aiutando a casa loro e che i politici che usano lo slogan “aiutiamoli a casa loro” usano questo slogan solo per contrastare le politiche di accoglienza e per realizzare politiche di respingimento e finanziare governi e bande armate che gestiscono e costruiscono veri e propri lager nei quali rinchiudere i migranti prima che giungano sulle coste del Mediterraneo.
2. E’ evidente che le responsabilità sulla vendita delle armi o sul land grabbing non sono direttamente del singolo cittadino italiano. Con l’uso della prima persona plurale, ad esempio “Vendiamo armi” intendo riferirmi al sistema Italia, al governo – che per altro viene eletto da noi – e alle aziende/multinazionali italiane.
3. E’ ampiamente documentato che anche in Italia vi sono grandi differenze economiche, e infatti la gran parte dei post che ho pubblicato nel mio blog è dedicata ad esempio alla difficoltà di curarsi per chi è povero. Ed è altrettanto risaputo che le differenze economiche nel nostro Paese sono drammatiche. Contemporaneamente, vi è un piccolo gruppo di individui (nel mondo dell’industria, della finanza eccetera) che dalla crisi trae grandi vantaggi a danno di altri. Ad esempio la chiusura di migliaia di piccole aziende agricole familiari in Italia e nel sud dell’Europa è diretta conseguenza delle politiche delle grandi multinazionali dell’agrobusiness sostenute dai sussidi dell’Unione europea.
Sarebbe quindi molto più logico (e intelligente), anziché individuare nei migranti e negli africani i nostri nemici, comprendere che coloro che stanno depredando quel continente sono gli stessi che stanno mandando in miseria milioni di italiani ed europei. Ma nessun governo italiano, né quello attuale, né i precedenti, ha mai chiesto di rimettere in discussione i sussidi alle multinazionali europee dell’agricoltura, tanto per fare un esempio.
4. Chi vende le armi lo fa sperando che queste siano usate in modo tale da poterne vendere altre e quindi ha solo vantaggio a fomentare i conflitti. Ovviamente, un’enorme responsabilità hanno molti governi ed élites africane che scatenano le guerre pensando solo a arricchire se stesse lasciando in miseria i loro popoli. Ma a maggior ragione, i nostri leader politici, che ben conoscono tutto ciò, non dovrebbero commerciare armi con tali governi.



Se invece i nostri governi e le élites economiche finanziarie continueranno ad applicare l’antica massima pecunia non olet è bene che si sappia che le migrazioni continueranno ad aumentare senza sosta.




di Vittorio Agnoletto | 15 settembre 2017


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Re: Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzion

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TU ANNEGHERAI IN MARE O NEI CAMPI DI STERMINIO IN LIBIA 2011 - 2017







Migranti
La costa dei lager: i centri di detenzione dei migranti in Libia, dove neanche l'Onu entra
In Libia ce ne sono ormai dozzine. Ufficiali, gestiti da milizie vicine al governo. 
E segreti, in mano alle bande di trafficanti di armi e droga. Le tribù hanno capito che tenere i migranti sotto chiave è un guadagno 
proprio come farli partire. Il reportage dell'Espresso da Zawhia (Libia)
DI FRANCESCA MANNOCCHI
08 settembre 2017


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Zawhia? «Appartiene alla Libia solo sulla carta, ma in realtà ha le sue leggi, è uno stato a se stante». Mahmoud ha quasi quarant’anni, lavora per una società che si occupa della sicurezza delle aziende straniere a Zawhia, città nella parte occidentale della Libia, a circa 50 chilometri dalla capitale Tripoli. Siamo nella parte di paese solitamente indicata come “controllata dal governo di al-Sarraj”, quello riconosciuto internazionalmente, ma che invece è in mano a milizie contrapposte e bande armate che si spartiscono tutti i traffici illegali, compreso quello dei migranti.

Anche per percorrere le cinquanta miglia che separano Tripoli da Zawhia è meglio andare in barca, via mare: in automobile è troppo pericoloso. La strada costiera, rimasta chiusa più di due anni per gli scontri tra milizie rivali, ora è di nuovo aperta, ma una delle tribù della zona, quella dei Warshafana, organizza check point improvvisati per rapire le persone - e naturalmente gli stranieri valgono di più.

Quando arriviamo al porto di Zawhia, intorno a noi il silenzio è irreale. Sul pontile ci sono una manciata di pescatori: puliscono le barche, rimettono in ordine le reti. Non c’è traccia della guardia costiera e non ci sono più i volti noti del contrabbando che qui era facile incontrare fino a poche settimane fa. Non c’è traccia nemmeno dei migranti africani, che prima affollavano il porto. Un uomo di Sabratha, città vicina e anch’essa tristemente nota per il traffico di uomini, sorride: «Se pensate che il traffico si sia davvero bloccato, siete solo illusi. I trafficanti si stanno solo riorganizzando. Molti di loro si stanno spostando nella zona di Garabulli, un centinaio di chilometri più a est. Alcuni stanno solo aspettando qualche settimana per riorganizzare i viaggi non più con i gommoni ma con le grandi navi di legno che contengono più migranti».

Lungo la strada che porta al centro di detenzione di Zawhia, l’autista ha mille occhi, si guarda intorno come se fossimo sempre sul punto di incontrare le bande armate. Che hanno le mani su qualsiasi cosa e gestiscono il centro di detenzione illegale della zona. Quello inaccessibile: sia ai giornalisti sia alla polizia sia alle organizzazioni umanitarie.


I lager libici dove vengono imprigionati i migranti
VEDI FOTO
http://espresso.repubblica.it/internazi ... =undefined


Nel centro di detenzione “ufficiale” sono rinchiuse circa 1.100 persone, quasi tutti uomini, divisi in gruppi da 100 o 200 persone per stanza. Una delle guardie apre il lucchetto della cella, e gli occhi dei ragazzi incrociano i nostri, in cerca di aiuto, in cerca di risposte. John è uno dei detenuti, viene dal Gambia. «Non viene mai nessuno qui, nemmeno le Ngo. Siamo completamente abbandonati. I libici ci trattano bene solo quando arriva qualche giornalista come voi, ma appena la porta alle vostre spalle si chiude noi torniamo ad essere meno che animali. E nessuno ci dice che ne sarà di noi, fino a quando staremo rinchiusi qui e perché». Accanto a lui c’è Alizar, 17 anni, eritreo, uno tra le centinaia di migliaia di minori che fuggono dai loro paesi da soli e restano incastrati nell’inferno libico. Alizar è orfano, non riesce a lasciare la Libia e comunque non potrebbe tornare nel suo Paese, perché in Eritrea la leva è obbligatoria anche per i ragazzi giovanissimi e lui ormai è un disertore. Se tornasse, sarebbe ucciso.

Lasciamo Zawhia alzando gli occhi verso la raffineria sullo sfondo, il fumo, la fiamma, che sono simboli della ricchezza del paese, verso un’altra prigione di migranti, quella di Surman. Da Zawhia dista pochi chilometri, ma bisogna percorrere strade secondarie per evitare check point e sottrarci alle milizie di zona: ce ne sono decine, specializzate nell’assaltare e rubare i mezzi blindati o nei rapimenti i locali. E poi ci sono le milizie islamiche: sono poche, nascoste, tuttavia molto pericolose.


Il centro di detenzione di Surman è un ammasso di cemento in mezzo al nulla. Dentro ci sono circa 250 tra donne e bambini. L’unica porta è chiusa a chiave da un lucchetto. In una stanza ci sono quattro donne stese a terra con quattro neonati: hanno tutte partorito nel centro di detenzione, nessuna di loro ha mai visto un dottore, nessuno le ha visitate, nessuno ha visitato i bambini. Non hanno niente: al posto dei pannolini usano delle coperte di lana, anche se è agosto, tenute addosso ai bimbi con dei pezzi di plastica.

Due bambini sembrano denutriti. La scorsa settimana, ci dicono, è morta una donna che aveva partorito un mese prima: ora il suo corpo è nell’ospedale di zona e nessuno sa che farne. Oggi di suo figlio, Bright, si prende cura Happiness, una ragazza, anche lei nigeriana, che ha attraversato il deserto insieme alla mamma del bambino. «Mentre stava morendo le ho promesso che mi sarei occupata io di Bright, ma come posso fare?», ci dice Happiness con il bimbo in braccio. «Qui non c’è latte, non ci sono medici, non viene nessuno ad aiutarci». Un’altra donna ci dice di aver perso le tracce di suo marito, arrestato con lei sulle coste di Zawhia. Un’altra racconta di aver viaggiato da sola nel deserto: ricorda la sete feroce, e di aver bevuto la sua pipì per sopravvivere. E ricorda di aver visto, lungo il cammino, scheletri di chi al deserto non è sopravvissuto.
Questo è il destino cui sono condannati le centinaia di migliaia di migranti intrappolati in Libia.

In quasi tutti i centri di detenzione libici le organizzazioni umanitarie e i funzionari internazionali delle Nazioni Unite non possono arrivare per ragioni di sicurezza. Non arrivano dottori, non arrivano assistenti. Non arriva nessuno.

In una spiaggia lungo la costa tra Zawhia e Sabratha incontriamo un uomo che chiameremo Khaled: parla volentieri, qui lontano da orecchie indiscrete, ma preferisce non rivelare la sua identità per ragioni di sicurezza. «Tutto ha un prezzo qui in Libia, tutto si paga», dice. «I migranti erano un affare quando i trafficanti dovevano organizzare i gommoni per farli arrivare in Italia e sono un affare anche oggi che devono essere trattenuti qui con la forza. Parliamo di milioni di dollari. Secondo voi i trafficanti libici interrompono le partenze perché il ministero dell’interno italiano blocca le navi umanitarie lungo le coste? I trafficanti interrompono le partenze solo in cambio di soldi». Khaled riferisce poi di un incontro segreto tra alcuni uomini dell’intelligence italiana e i capi delle principali milizie di Zawhia e Sabratha: per la “sicurezza delle coste” le milizie avrebbero chiesto cinque milioni di dollari, e nella trattativa la milizia Anas Dabbashi, che già controlla la sicurezza del compound Mellitah Oil e Gas, avrebbe chiesto un hangar proprio a Mellitah dove basare il proprio quartier generale.

Altre fonti ben informate di Tripoli, riferiscono di numerosi incontri nella parte orientale della capitale libica tra i servizi italiani e le milizie che gestiscono la sicurezza della città, Nawasi e Tajouri. Le milizie avrebbero chiesto di garantire il blocco delle partenze, dietro il pagamento di una quota giornaliera a migrante.

La situazione economica nella Libia “di Serraj” del resto è al collasso. Un dollaro al cambio ufficiale vale un dinaro e mezzo, al mercato nero nove dinari, anche dieci. I libici non possono prelevare più di duecentocinquanta dinari ciascuno, al mese. Poco più di venticinque dollari. Anche le banche sono in mano alle milizie, sono le bande a decidere chi può avvicinarsi ai bancomat. Subito dopo la rivoluzione i nuovi deboli apparati statali avevano cercato di smobilitare e contemporaneamente premiare i combattenti che avevano rovesciato il regime: così anziché dissolversi le milizie hanno conquistato autonomia, potere e i soldi e le armi libiche sono diventate un piatto ricco, cui le bande più potenti hanno attinto indiscriminatamente.

Nella capitale, Tripoli, i gruppi armati si dividono tra chi sostiene e chi si oppone al governo di Sarraj. Tra i primi, le milizie più potenti sono le forze Rada, gruppo salafita di Abdel Rauf Kara, che ha il quartier generale nell’aeroporto di Mitiga, le milizie Nawasi che si occupano della sicurezza del primo ministro e la Brigata dei rivoluzionari di Tripoli, la più grande nella capitale, guidata da Haitham Tajouri. Questo Tajouri è un signore della guerra, ha interessi economici enormi in città, i libici raccontano che quasi tutte le filiali delle banche della capitale siano controllate dai suoi uomini.

Lo scorso maggio Tripoli è stata teatro di violenti scontri tra milizie rivali per il controllo del mercato nero della valuta. Negli scontri tra le brigate Nawasi, in possesso degli uffici della società Libyana (poste e telecomunicazioni) nella parte ovest della città, e la brigata Ghazewy, presente nella città vecchia è morta una donna e diversi sono stati i feriti.

Le milizie non dominano solo la vita economica del paese: ne determinano anche la vita politica. Lo scorso maggio la brigata Nawasi ha attaccato il ministero degli esteri del governo Sarraj, accusando il ministro Mohamed Taher Sayala di aver rilasciato una dichiarazione troppo amichevole nei confronti del nemico Haftar. Sempre gli uomini della brigata Nawasi meno di un mese fa hanno fatto irruzione nell’ufficio del capo della sicurezza della Guardia Costiera Libica, Tareq Shanboor, accusato di aver criticato le decisioni italiane in Libia.

Shanboor stava lavorando come ogni giorno, quando una decina di uomini armati è entrata nel suo ufficio dicendo: vattene per sempre e senza ribellarti, da oggi l’ufficio sarà gestito sotto la nostra autorità.
Hisham - un impiegato di una banca di Tripoli - ci spiega che ha impedito alla figlia maggiore di andare all’università: ha paura che gli uomini delle milizie la rapiscano. Solo a giugno e nella capitale i rapimenti sono stati più di cento, quasi duecento le rapine a mano armata. «Non guardate questa città da lontano, come fosse una cartolina», ci dice Hisham. «Se la guardate da lontano la vita sembra scorrere normalmente, ma qui la sicurezza è un miraggio, viviamo nel terrore, siamo tutti sotto il ricatto delle milizie. Tutti, cittadini e governo. La rivoluzione è stata una bolla, un’illusione. Il prezzo del pane e della frutta è cinque volte quello di pochi mesi fa, la gente non sa più cosa vendere. Ormai tutto è in mano a bande armate».

Questa è la Libia in cui l’Europa e l’Italia cercano di bloccare i migranti. «I trafficanti fermeranno le partenze per un mese, forse due. Hanno chiesto soldi, ne chiederanno ancora. È il prezzo che i vostri paesi pagano per non accogliere migranti», ci dice il nostro accompagnatore Mahmoud, mentre guarda il mare. E a voce bassa aggiunge che al posto di Gheddafi, ora ci sono centinaia di piccoli Gheddafi. Durante il regime del dittatore la vita era come anestetizzata, senza gioia e senza odore. Oggi, invece, nel regime delle milizie, la vita puzza e basta.
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• migranti
• Libia
© Riproduzione riservata 08 settembre 2017


vedi anche:

"Volete che interrompiamo i traffici? Pagateci". La partita dei migranti si gioca sui soldi
Dopo gli accordi raggiunti da Gentiloni e Minniti con i sindaci libici, l'ondata di migranti sembra essersi arrestata. Ma l'economia del sud della Libia si fonda sui traffici di esseri umani. Sei anni dopo la caduta di Gheddafi, si fa urgente la necessità di ricostruire il Paese il momento di ricostruire il paese. E anche l'Ue sembra ormai pronta ad intervenire


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Il comandante della Divisione delle Schutzstaffel, degli STRUMPTRUPPEN, stamani nel foglio della propaganda della Divisione, si pronunciava così:


Lo ius soli esce dalla porta e rientra dalla finestra
Al governo meglio Bingo Bongo
Gli italiani temono gli immigrati e non ne vogliono più ma per il Pd la priorità è dare la cittadinanza agli stranieri
A questo punto conviene consegnare Palazzo Chigi direttamente ai clandestini: almeno ne guadagniamo in chiarezza

Altri tre casi di africani affetti da malaria. E a Roma la Raggi salva le zanzare, non i malati



Gli Schutzstaffel, all’interno degli STRUMPTRUPPEN, si distinguono per esternare un carico interno di odio di grado superiore a quello già rilevante dei loro colleghi.

Il problema è serio e complesso, ma l’odio espresso così manifestamente in abbondanza, non produce assolutamente niente.

Può servire solo a ripetere l’avvento dello Zio Adolf, come nel 1933 per ampliare il programma di sterminio in Africa, oggi già esistente.


E’una propaganda che fa presa su una cittadinanza con il cervello a scartamento ridotto, di un’ignoranza abissale sul fenomeno, con filosofia di vita basata sull’egoismo spinto.


Sentita ieri mattina da una donna che ha dichiarato di essere over ’70:
“ I mussulmani mi fanno paura e quindi voto Salvini”
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Re: Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzion

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OVRA IN AZIONE




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Quello che er sor conte Paolo ha evitato di dire è che siamo di fronte alla seconda Shoah

………sono carceri in cui non sono garantiti i più elementari diritti umani e i migranti sono sottoposti a torture e stupri…….

SI E’ “DIMENTICATO” DI DIRE CHE LA POLIZIA RIEMPIE LE FOSSE COMUNI COME
A BUCHENWALD, AUSCHWITZ, MAUTHAUSEN.



IlFattoQuotidiano.it / Politica


Migranti, Gentiloni: “In Libia condizioni dei diritti umani scandalose”. Ma diceva: “Abbiamo ridotto flussi con umanità”
di F. Q. | 20 settembre 2017

Politica
A New York per l'Assemblea generale dell'Onu, il presidente del Consiglio ha ammesso che molti dei centri di detenzione nei quali vengono tenuti i migranti fermati dalle milizie libiche per conto dell'Italia sono carceri in cui non sono garantiti i più elementari diritti umani. Una presa di coscienza tardiva, quella del premier, che solo il 2 settembre diceva il contrario per esaltare i risultati raggiunti dal ministro Minniti
di F. Q. | 20 settembre 2017
13
• 355


Più informazioni su: Diritti Umani, Libia, Migranti, Trattato Italia-Libia
“Le condizioni di rifugiati e migranti in Libia hanno bisogno di essere sorvegliate e migliorate, sui diritti umani sono in alcuni casi vergognose e scandalose“. A New York per l’Assemblea generale dell’Onu, Paolo Gentiloni ammette anche se a scoppio ritardato l’esistenza del problema: molti dei centri di detenzione nei quali vengono tenuti i migranti fermati dalle milizie libiche per conto dell’Italia sono carceri in cui non sono garantiti i più elementari diritti umani e i migranti sono sottoposti a torture e stupri. L’obiettivo, ha proseguito Gentiloni parlando con i cronisti in attesa dell’intervento previsto per le 20 ore italiane, è “proporre, sollecitare l’Onu a tornare in Libia, ce n’è bisogno per il processo pace e per la questione migratoria perché le condizioni dei rifugiati in Libia hanno bisogno di essere sorvegliate e migliorate sul fronte dei diritti umani. E nessuno meglio dell’Onu ci può aiutare”.
Una presa di coscienza tardiva, quella del presidente del Consiglio, che solo il 2 settembre, esaltando i risultati raggiunti dal ministero dell’Interno assicurava: “Abbiamo dimostrato che possiamo ridurre i flussi migratori senza rinunciare ai principi di umanità e di solidarietà“. “Noi – aggiungeva Gentiloni – stiamo continuando e continueremo a difendere l’onore dell’Europa e contemporaneamente abbiamo ottenuto risultati notevoli nella riduzione di sbarchi affidati ai trafficanti di essere umani e di vittime”. I flussi migratori sono stati arginati – almeno per qualche settimana, visto che nell’ultimo weekend gli sbarchi sono ripresi – ma l’onore dell’Europa non è stato propriamente salvato, visto che da settimane organizzazioni internazionali come l’Unhcr e l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, oltre a numerosi reportage giornalistici, segnalano che in molti dei 34 “centri di accoglienza” gestiti dalle milizie libiche che fanno capo al governo di Fayez Al Sarraj i migranti fermati sono tenuti come bestie.
“Entriamo più volte alla settimana in una ventina di centri per organizzare ritorni umanitari – raccontava già agli inizi di agosto il direttore dell’Ufficio di coordinamento per il Mediterraneo dell’Oim Federico Soda – nei campi vige l’arbitrio, alcuni migranti ci dicono di essere stati picchiati per soldi, altri di aver subito torture o abusi sessuali”. Nei campi “ci sono decine di uomini, donne, bambini, mamme che partoriscono da sole: tutti insieme, alcuni sulle poche brandine e altri in terra. Non c’è ventilazione, la luce filtra da finestre molto piccole, i bagni sono pochi e gli escrementi sono ovunque”. Finora il governo aveva deciso di chiudere entrambi gli occhi, ora arriva una prima ammissione.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/09 ... a/3868167/
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Re: Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzion

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Intanto in Germania ...

dal www.ilfattoquotidiano.it

Così la Germania trasforma i rifugiati in risorsa. “Creiamo manodopera qualificata: quello di cui abbiamo bisogno”

MONDO
REPORTAGE - Viaggio a Coblenza, dove i partiti populisti europei hanno tenuto una convention contro la politica delle porte aperte voluta dalla Merkel. Dalle parole di volontari e siriani fuggiti dalla guerra, i dettagli del piano di inserimento di Berlino nel mondo del lavoro teutonico. Il fondatore di una cooperativa sociale a ilfatto.it: "Se uno straniero faceva il falegname nel suo Paese gli viene chiesto se vuole fare l'Ausbildung (un percorso formativo di lavoro, ndr) per esercitare lo stesso mestiere qui con un'azienda. Così viene formato e si crea manodopera qualificata: quella di cui noi abbiamo bisogno"
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Re: Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzion

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Non avevo mai aperto, in precedenza, questa pagina di Wikipedia.

Il contenuto è lungo da riportare, quindi, riporto solo l’inizio e la fine.

Chi volesse saperne di più può leggere in
:

https://it.wikipedia.org/wiki/Inferno




Inferno
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

https://it.wikipedia.org/wiki/Inferno


Inferno è il termine con il quale si è soliti indicare il luogo di punizione e di disperazione che, secondo molte religioni, attende, dopo la morte, le anime degli uomini che hanno scelto in vita di compiere il male.
Il termine "inferno" deriva dal latino infernu(m) quindi da inferus(infer) nel significato di "sotterraneo", quindi correlato al sanscrito adhara, gotico under, avestico aẟara, quindi dall'indeuropeo *ndhero col significato di "sotto" (da cui l'inglese under, il tedesco unter, l'italiano inferiore o anche infra). La presenza della f, presente solo nel latino e nei termini da questo direttamente derivati, è per influenza dialettale osca dalla quale i Romani ereditavano la credenza che l'entrata nell'"inferus" (qui inteso come il mondo di "sotto", dove "sono" i morti) si collocasse nei pressi di Cuma.
Il termine "inferno" viene tuttavia comunemente relazionato alla nozione propria di alcune religioni, come le religioni abramitiche, ovvero al luogo di "punizione" e di "disperazione". Diversamente, il termine "inferi" indica comunemente quel luogo, come l'Ade greco, ove si collocano le ombre dei morti.

^^^^^^

Nella satira[modifica | modifica wikitesto]
L'inferno è anche frequente oggetto di satira, considerato spesso negli ambienti non religiosi come uno spauracchio usato dalle caste sacerdotali religiose per tenere in stato di sudditanza i fedeli.
(romanesco)

« Sonetto 1253. Er bùscio de la chiave
L'inferno è un'invenzion de preti e ffrati
pe ttirà nne la rete li merlotti,
ma nnò cquelli che ssò spreggiudicati. »
« Sonetto 1253. Il buco della chiave

L'inferno è un'invenzion di preti e frati (IT)

per tirar nella rete i sempliciotti,
ma non quelli che son spregiudicati. »
(Giuseppe Gioacchino Belli, sonetto n. 1253, Er bùscio de la chiave, 29 aprile 1834



La goccia che ha fatto traboccare il vaso è questa:


Cronaca | Di F. Q.
Milano, torturava i profughi in Libia
Chiesto ergastolo per 22enne somalo
riconosciuto dai migranti in Centrale

•i racconti delle vittime: “quasi ogni notte veniva a violentarmi”

^^^^^

IlFattoQuotidiano.it / Cronaca

“Un sadico che si divertiva a torturare e uccidere profughi in Libia”, pm Milano chiede ergastolo per 22enne somalo
di F. Q. | 27 settembre 2017

Cronaca
L'uomo è stato riconosciuto da alcune delle sue vittime davanti alla stazione centrale del capoluogo lombardo. Diciassette profughi hanno testimoniato contro di lui. Il pm Marcello Tatangelo davanti alla Corte d'Assise: "Si è fatto prendere da delirio di onnipotenza per avere nelle sue mani la vita di centinaia di persone"
di F. Q. | 27 settembre 2017
10
• 595



Più informazioni su: Ergastolo, Migranti, Milano, Torture
“È un sadico, uno che si diverte a torturare e a uccidere“. Osman Matammud è stato incastrato dalle sue stesse vittime, incontrate per caso a Milano, nel centro di accoglienza di via Sammartini. Il 22enne di origini somale è accusato di essere uno degli aguzzini del campo di Bani Walid, in Libia, un centro illegale in cui si ammassavano i profughi provenienti da tutto il continente africano che speravano di imbarcarsi verso l’Europa. Per Matammud il pm ha chiesto l’ergastolo. Le accuse nei suoi confronti sono sequestro di persona a scopo di estorsione, omicidio e violenza sessuale.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/09 ... o/3881099/


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