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IL NO HA UN VOTO IN MENO



Morta Tina Anselmi: prima donna ministro

È morta nella notte all'età di 89 anni Tina Anselmi. Da partigiana a ministro


Luisa De Montis - Mar, 01/11/2016 - 09:34
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È morta nella notte all'età di 89 anni Tina Anselmi.
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L'AVVERSARIA DI CUI TI POTEVI FIDARE

I COLLEGHI MASCHI DEL PARLAMENTO NON ERANO DOTATI DEL CORAGGIO DI TINA ANSELMI






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IL RITRATTO
Addio Tina Anselmi, la donna che fece tremare i piccoli uomini del potere
Persona di eccezionale coraggio e di straordinaria normalità, si è scontrata contro i poteri occulti che negli anni Settanta avevano invaso le istituzioni. Per l'ex partigiana una sfida più rischiosa di quella con il fascismo
DI MARCO DAMILANO
01 novembre 2016


Non l'avevano mai dimenticata. I vertici del Paese, colpevolmente, sì. Loro, Licio Gelli e i suoi amici, no. Non la dimenticavano e la odiavano come la loro peggiore nemica. Lo si capì nel 2004 quando il ministero delle Pari Opportunità commissionò a Pialuisa Bianco un dizionario biografico delle donne italiane. Alla voce Anselmi Tina si leggevano parole come queste: « Moralismo giacobino, istinto punitivo... I 120 volumi degli atti della Commissione, che stroncò Licio Gelli e i suoi amici, gli interminabili fogli dell'Anselmi's list, infatti, cacciavano streghe e acchiappavano fantasmi». E ancora: «improbabile guerriera. Furbizia contadina». Così un governo aveva ben pensato di ricordare la prima donna ad aver occupato l'incarico di ministro in Italia. Ad aver commissionato il testo era stata la responsabile delle Pari Opportunità Stefania Prestigiacomo. Il presidente del Consiglio era quel Silvio Berlusconi che faceva parte degli «amici di Gelli», tessera numero 1816 della loggia massonica P2, gruppo 17, settore editoria.

Non avevano mai dimenticato lei e i quasi tre anni, dall'ottobre 1981 al maggio 1984, in cui Tina Anselmi aveva presieduto la Commissione parlamentare di inchiesta sulla P2. Una sfilata ininterrotta di ministri, generali, ambasciatori, segretari di partito, direttori di giornale, banchieri, magistrati. Si giustificavano: «Enrico Manca: nel 1980 il 4 aprile entro come ministro del Commercio estero nel governo Cossiga. A fine aprile conosco Gelli a un ricevimento all'ambasciata argentina. Visita di Maurizio Costanzo, che disse di essere massone, e a nome di Gelli mi chiese se ero disponibile a aderire alla massoneria. Quando mi vidi negli elenchi di Gelli telefonai a Costanzo, ma questi mi confermò di aver telefonato a Gelli la non disponibilità...». «Bisignani (Luigi) pagato da Gelli, è ancora in rapporto con Gelli...». Apparivano untuosi, viscidi come il loro capo, di fronte a quella donna che li interrogava.

Una donna contro i poteri occulti che negli anni Settanta avevano invaso le istituzioni come cellule tumorali che avvelenano un corpo sano. Di eccezionale coraggio. E di straordinaria normalità. «Tina, nome di battaglia Gabriella, anni diciasette, giovane, come tante, nella Resistenza. Non ho mai pensato che noi ragazze e ragazzi che scegliemmo di batterci contro il nazifascismo fossimo eccezionali, ed è questo che vorrei raccontare: la nostra normalità....». Comincia così la sua autobiografia, "Storia di una passione politica" (Sperling & Kupfer), curata da Anna Vinci e pubblicata dieci anni fa. Una ragazzona del profondo Veneto, campionessa di giavellotto e pallacanestro a livello regionale, «in un tempo in cui lo sport era un'attività prevalentemente maschile», a 17 anni era entrata nella Resistenza dopo un colloquio con un'amica che aveva il fidanzato partigiano, «una ragazzina passata direttamente dalla vita in famiglia alla lotta armata». Aveva scelto il nome Gabriella come l'arcangelo Gabriele, il messaggero dell'annunciazione: staffetta partigiana, cento chilometri al giorno in bicicletta, la fame e la paura.
Non aveva mai dismesso l'abito della resistente.Neppure quando, dopo la guerra, aveva cominciato a praticare un altro sport tutto maschile, la politica. Militante dell'Azione cattolica, amica e discepola di Aldo Moro, l'unica ammessa dalla famiglia in casa durante i 55 giorni del sequestro del leader dc, eletta deputata nel 1968, prima donna a essere nominata ministro, nel 1976, a 49 anni, nel terzo governo Andreotti, ministro del Lavoro e poi ministro della Sanità. Una donna in politica che portava uno spirito inedito nelle stanze del governo: spiritosa, anti-retorica, il contrario esatto di certi successivi modelli narcisisti e tutti auto-riferiti, una che di sé scriveva, con semplicità: «La ventata di leggerezza che nella mia infanzia ha spazzato tante volte via la malinconia mi accompagnerà fino alla fine, e avrà sempre per me l'odore del cocomero di nonna Maria e del panetto con l'uva di nonno Ferruccio». Ingenua, eppure consapevole di tutte le sottigliezze della politica. Esponente di quella generazione che aveva ricostruito l'Italia e che alla politica attribuiva primato e nobiltà, non in nome di una parte ma di tutti.

Quando nel 1981 il Parlamento votò l'istituzione di una commissione di inchiesta sulla loggia di Gelli sembrava destinata a una luminosa seconda parte della carriera politica nelle istituzioni: presidente della Camera o del Senato. Invece il suo sì alla richiesta di guidare la commissione, arrivata da Nilde Iotti presidente della Camera, le cambiò la vita.

L'incontro e lo scontro con il volto oscuro del potere.Quella coltre di mistero, fango, sporcizia, ricatto che inquinava, e inquina ancora, la vita pubblica italiana. Per l'ex partigiana una sfida più rischiosa di quella con il fascismo perché più sottile, con le parti in gioco non dichiarate. La Anselmi ha raccontato giorno per giorno quegli anni nelle pagine di diario pubblicate da Chiarelettere nel 2011. La pedinarono («esco da Palazzo San Macuto e mi accorgo di essere pedinata fino a casa da un uomo di statura piuttosto bassa, robusta, dell'età di quaranta, quarantacinque anni», annota all'una e un quarto di notte l'8 febbraio 1983), indagarono su di lei («Il giorno 7 gennaio 1985 sono venuti da me Lo Presti di Treviso e un suo collaboratore. Si sono dichiarati di professione agenti investigativi privati. Mi hanno raccontato di essere stati incaricati di indagare su di me, sui miei beni, sui miei parenti, per avere elementi contro di me. Hanno rifiutato di collaborare»), fu lasciata sola dagli uomini del suo partito, la Democrazia cristiana. «Lei ritiene di non poter fare nulla per impedire che materiale giudiziario venga sfruttato contro di me. Lei aveva tutti gli strumenti per bloccare un'operazione infame. Non li vuole usare», le scriveva Flaminio Piccoli, presidente della Dc.

Dai socialisti: «Formica (Psi) mi ha detto ieri che la commissione P2 va chiusa e basta». E dall'opposizione comunista: «Non mi pare che il Pci voglia andare fino in fondo. Il gruppo pare abbandonato a se stesso. La stessa richiesta loro di non approfondire il filone servizi segreti fa pensare che temano delle verità che emergono dal periodo della solidarietà. Ipotesi: ruolo di Andreotti che li ha traditi? O coinvolgimento di qualche loro uomo?». «Nulla si può escludere, neppure che Tina Anselmi sia una calunniatrice», scrisse infine Gelli al presidente della Repubblica eletto nel 1985, Francesco Cossiga.

In tanti pensavano a lei per il Quirinale, in realtà. E poi nel 1992, quando il suo nome risuonò più volte nell'aula di Montecitorio durante le votazioni per il presidente della Repubblica e il settimanale di Michele Serra "Cuore" l'aveva candidata ufficialmente, e non c'era nessun intento satirico. E invece dopo la commissione la sua carriera politica di fatto terminò. Come aveva previsto un suo grande amico, partigiano come lei, Sandro Pertini. «Con Pertini parlano spesso del mio coraggio. Sanno che sono sola in questo compito», appuntava il 20 settembre 1983. E il 10 maggio 1984, alla chiusura dei lavori: «Visita a Pertini. Mi ringrazia per quello che ho fatto per il paese e per l'Italia. Mi conferma la sua stima e la sua amicizia, per il coraggio che ho. Annota che nel Palazzo non si avrà la volontà di andare a fondo e di accogliere la mia relazione».

«Se la loggia P2 è stata politica sommersa, essa è contro tutti noi che sediamo in questo emiciclo. Questo è il sistema democratico che in questi quaranta anni abbiamo voluto e costruito con il nostro quotidiano impegno: non può esservi posto per nicchie nascoste o burattinai di sorta», aveva concluso il suo compito il 9 gennaio 1986, presentando nell'aula della Camera il lavoro della commissione. Sono passati trent'anni, non è andato via questo odore di stantio che si avverte in molti, troppi passaggi politici e economici. Ma neppure passerà il ricordo di Tina Anselmi. La ragazza della Repubblica che non hai smesso di sorridere nei momenti più difficili. La donna che fece tremare i piccoli uomini del potere. È lei, non i traditori dello Stato che lo hanno usurpato, a meritare a pieno diritto il titolo di patriota.
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UN PAESE SENZA SPERANZA, DOVE GLI IMBECILLI EMERGONO IN ABBONDANZA.


2 NOV 2016 13:08
FACCI E IL CONTRO-COCCODRILLO DI TINA ANSELMI: “ERA OSTILE ALLA FEMMINILITÀ CHE PER RIPICCA L’HA ABBANDONATA ANZITEMPO; SCIALBA NEL VESTIRE, BRUTTARELLA DA LASCIAR CREDERE CHE DEI MERITI DOVESSE AVERLI PER FORZA. MORALISTOIDE, IMPASTATA DI RETORICA PARTIGIANO-SINDACALISTA. ERA UN SANTINO DA PARABREZZA NELL'ITALIETTA DA STRAPAESE”


2 - MORTA LA ANSELMI LA MINISTRO-DONNA DA DIMENTICARE
Filippo Facci per “Libero Quotidiano”



Tina Anselmi - spiegato a un ragazzino o a un bamboccione - era la Rosy Bindi della Prima Repubblica, con tutte le fondamentali differenze che spesso ci fanno rimpiangere la Prima e guardare con sufficienza la Seconda. Entrambe, la Anselmi e la Bindi, hanno avuto dei ruoli non per le caratteristiche che avevano ma per quelle che mancavano: per quella medietà grigia e contegnosa, cioè, che in Italia lascia passare indisturbati mentre gli altri si azzuffano e si dividono.

Poi, nel ping pong bipolare, ogni tanto sono finite anche loro, ma sempre facendo più che altro un gran fumo. Comunque: entrambe venete, entrambe democristiane, entrambe ostili a una femminilità che per ripicca le ha abbandonate anzitempo; entrambe un po' suocere e un po' perpetue del prete, scialbe soprattutto nel vestire, abbastanza bruttarelle da lasciar credere che dei meriti dovessero averli per forza: insomma il contrario di oggi, costretti come siamo a guardare con sospetto delle signore magari bravissime ma che hanno l'handicap di essere belle e agghindate da strafighe.


Entrambe, poi, sono state ministre (la Anselmi è stata la prima della storia d'Italia) ed entrambe, quando sulla difensiva, sono parse intrise di un'arroganza legnosa che ha rappresentato un loro limite. Naturalmente, nella più seriosa Prima Repubblica, una Tina Anselmi doveva avere un curriculum ben più solido di una qualsiasi Bindi. Non era fragile neppure fisicamente, essendo stata un ex campionessa di giavellotto e pallacanestro perlomeno a livello regionale, questo in un periodo in cui non solo la politica era un'attività prevalentemente maschile.

Ragazzona provinciale, staffetta partigiana col nome di Gabriella, figlia di un aiuto-farmacista, socialista, anzi comunista, anzi cattocomunista, anzi democristiana, quindi insegnante, sindacalista, deputata nel 1968, infine primo ministro donna in 115 anni di storia (al ministero del Lavoro, nel 1976) peraltro su nomina di Giulio Andreotti. Un archetipo: matriarcale e concreta, dispersiva e consociativa, identitaria e casalinga, rassicurante e furba, moralistoide e icona dell’Anpi, impastata di retorica partigiano-sindacalista con parlata stampata a memoria.


Nell'insieme, perfetta. Un santino da parabrezza nell'Italietta da strapaese: «La ventata di leggerezza che nella mia infanzia ha spazzato tante volte via la malinconia - ha scritto di sè - mi accompagnerà fino alla fine, e avrà sempre per me l'odore del cocomero di nonna Maria e del panetto con l'uva di nonno Ferruccio».


Ora è chiaro che un personaggio così, al di là dei coccodrilli preparati da tempo, diventa l'ideale per registrare anche degli epitaffi ben differenziati. Uno riguarda il periodo in cui guidò la Commissione parlamentare di inchiesta sulla P2 (ottobre 1981-maggio 1984) che in pratica si tradusse in una sfilata ininterrotta di ministri, generali, ambasciatori, segretari di partito, direttori di giornale, banchieri e magistrati: l'ex insegnante Anselmi ritrovò la bacchetta e divenne un'improbabile donna contro i poteri occulti, già oggetto di minacce, pedinamenti e manovre sottotraccia.

Divenne la Giovanna D'Arco di un neo Comitato di Liberazione Nazionale in un periodo di delirio giornalistico e civile, ovviamente isolata nel suo partito e tuttavia guardata con un filo di diffidenza anche da parte comunista. Furono più che altro i giornali a dipingerla così, al di là delle intenzioni di lei.



La Anselmi elaborò una poderosa relazione finale che restò, tuttavia, come un monumento di inconsistenza e di cultura del sospetto: vi si leggeva che la P2 aveva costituito «motivo di pericolo per la compiuta realizzazione del sistema democratico» e che, ancora, le liste erano incomplete, la Loggia era responsabile di intere stragi «in termini non giudiziari ma storico-politici», in pratica - traduzione nostra - che la P2 si era comportata come una moderna lobby di potere.

A ridimensionare il gran fumo della Commissione provvidero le successive inchieste giudiziarie: e la conclusione di varie sentenze fu che la Loggia P2 non cospirò contro lo Stato, punto. Anche personaggi come il radicale Massimo Teodori (presente ai lavori della Commissione) bollarono la Loggia come una patacca che celava soltanto la faccia nascosta della partitocrazia, mentre Indro Montanelli ne parlò più che altro come di una malfamata «cricca di affaristi». Tutto l'affare si risolse semmai con un gigantesco regolamento di conti in campo soprattutto editoriale, come ben sanno dalle parti del Corriere della Sera, ex Rizzoli.


Una gran fetta di Italia progressista, tuttavia, ormai considerava la Anselmi come la "non" politica perfetta, la moglie ideale del suo amico partigiano Sandro Pertini, il nonno della Repubblica. Per il Quirinale pensarono anche a lei: nel 1992 poteva essere un'alternativa a Oscar Luigi Scalfaro (la sua versione maschile) e il settimanale satirico Cuore, non da solo, fece una campagna serissima in suo favore.


In realtà la stessa Anselmi si giudicava una signora che aveva già dato e che poteva discretamente levare le tende: in questo fu il contrario di Rosy Bindi, viceversa incollata alla poltrona per più legislature contro ogni rottamazione nuovista. La Anselmi fu relegata in commissioni un po' vacue (sulle violenze italiane in Somalia e sui beni sequestrati agli italiani ebraici durante la Guerra) e divenne buona per premi e commemorazioni: da madrina del sito internet di Walter Veltroni a tributaria di un francobollo per l'anniversario della sua nomina a ministro.


La morale è che si salvò dalla retorica protestataria della casta e dei vitalizi nonostante figurasse a pieno titolo - assieme ad altri ministri - tra i distruttori della previdenza italiana, per dirne una. Si dimentica spesso che Tina Anselmi è stata la prima donna alla guida delle pensioni italiane e che in questo anticipò Elsa Fornero. Da una parte.

Dall'altra, qualsiasi ragazzino o bamboccione oggi potrebbe rimproverarle d'aver versato solo 362 mila euro di contributi e tuttavia di aver già incassato 1,6 milioni di euro (dati risalenti all' anno scorso) grazie a un vitalizio di 5.966 euro mensili. La Anselmi si è defilata per tempo, e ha fatto bene. Resta l'icona che era. Le urla e il parolaio della Seconda Repubblica l'ha lasciato tutto per noi.
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il manifesto 2.11.16
Un’amica e una compagna
Tina Anselmi partigiana
di Luciana Castellina


Un’epoca in cui l’organizzazione giovanile democristiana era fortemente influenzata dalla sua corrente di sinistra e fra noi giovani comunisti e loro ci si annusava sospettosi ma anche interessati. Ho ancora fra le foto che conservo in un pannello sulla mia scrivania quella di una cena – a Trento – in occasione del loro congresso cui io avevo assistito come «ospite» per conto della nostra federazione. Siamo ambedue giovanissime, Tina solo due anni più di me, abbastanza per aver partecipato in prima persona alla Resistenza nel suo trevigiano, con il nome di battaglia Gabriella. Entrò nelle sue file – mi raccontò – dopo aver assistito all’ assassinio di 31 partigiani. Diventammo quasi amiche, io credo che ci siamo sentite in qualche modo «compagne», se a questa parola si dà il significato dovuto e che tutt’ora io le do: non la comune appartenenza ad una organizzazione, ma a un comune sentire. Perché così è stato con Tina.
Un giorno la invitai a pranzo a casa e la presentai a mia figlia che aveva pochissimi anni. Quando le dissi che era democristiana Lucrezia mi guardò inorridita: dei democristiani lei aveva sempre sentito dire il peggio e non capiva come fosse possibile che una di loro mettesse piede a casa nostra e conversasse con me come una persona normale. Io e Tina, dello sguardo scandalizzato e perplesso di mia figlia ridemmo di cuore, Lucrezia rimase invece a lungo diffidente.
Poi lei diventò deputata, mentre io rimasi a lungo militante delle organizzazioni povere della sinistra: la Fgci, l’Udi, poi il manifesto. La cosa aveva riflessi ferroviari: la incontravo spesso, nel mio girovagare, alla stazione di Padova e lei mi diceva: «Vien, vien, che tiro zo un leto». E così venivo ospitata nel suo vagon-lit , evitando lo scomodissimo sedile dello scompartimento cui il mio biglietto mi destinava.
Non voglio dire qui che tutti i dc erano come Tina. Purtroppo no. Lei è stata una persona davvero speciale, ma che aveva comunque un tratto analogo a quello di un settore di quel maledetto partito che tanto abbiamo – e giustamente – combattuto. Una sua ala popolare e in qualche modo anticapitalista. No, non ho certo nostalgia della Dc, né del compromesso storico, che purtroppo fu un’intesa con ben altra Dc. (Ma forse anche voi lettori vi ricorderete che Luigi Pintor per molti anni metteva sempre un postscriptum ai suoi editoriali, per dire, sconsolato: «Moriremo democristiani». All’ultimo, ricordo, aveva aggiunto: «Magari»). Anche se i miei ricordi personali di Tina sono precedenti al suo ingresso nei governi Andreotti, vorrei aggiungere che sono stata molto contenta quando è diventata ministro. Come capo del dicastero della sanità, Tina contribuì infatti non poco a dare esito positivo alla lunga lotta per l’istituzione in Italia del Servizio sanitario nazionale. Se posso aggiungere una considerazione che si riferisce ad una questione politica calda, il referendum costituzionale (cosa che di solito non si fa nel contesto di una commemorazione funebre) vorrei aggiungere che quella vittoria popolare, fu possibile, come altre in quegli anni – statuto dei lavoratori, divorzio, aborto, ecc. – perché c’erano spazi per l’espressione dei conflitti e canali affinché trovassero riflesso nelle istituzioni. La forza dell’opposizione sociale, accompagnata alla presenza di una forte minoranza in parlamento a quella strettamente legata ai movimenti di lotta, consentì quella dialettica democratica che sfociò in compromessi anche molto avanzati (e che non a caso oggi siamo qui a difendere coi denti). Alla democrazia – e dunque alla società – non serve un esecutivo reso efficiente dall’assenza di intralci – ma un conflitto tanto forte da imporre un dialogo. Certo il dialogo con Tina è stato altra cosa che quello con Andreotti. Ma lei era una «compagna».
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Repubblica 2.11.16
L’integrità scomoda di Tina Anselmi
La Commissione sulla P2 le costò l’isolamento e l’ostracismo da parte del suo partito per l’inflessibilità con cui la condusse
di Chiara Saraceno


ORA che Tina Anselmi è morta tutti si ricordano di lei e ne esaltano la figura politica ed umana, il ruolo importante che ha avuto nella costruzione della democrazia italiana fin dalla sua origine, con la Resistenza, e successivamente con il lavoro nel sindacato e poi, da politica e ministra, con il sostegno attivo alla parità tra le donne e gli uomini, al diritto alla salute tramite l’istituzione del servizio sanitario nazionale. E, ancora, come presidente della Commissione di indagine sulla P2, che le costò l’isolamento e poi l’ostracismo da parte del suo partito per l’inflessibile integrità con cui la condusse e la tenacia con cui continuò a chiedere che se ne traessero le conseguenze sul piano giudiziario e politico. Quell’ostracismo che prima la fece emarginare dalla politica e poi è diventato un lungo oblio.
Per molti, troppi anni ci si è dimenticati di lei, ben prima che la malattia la costringesse a chiudere i suoi ponti con il mondo. È vero che ad ogni elezione presidenziale, a partire dal 1992, qualche gruppo della società civile ha fatto il suo nome come possibile candidata. Ma è sempre rimasta una cosa puramente simbolica, senza alcuna eco, e tanto meno sostegno, non solo nei partiti, a partire dal suo e dai suoi colleghi di un tempo tuttora ben insediati nei gangli del potere, ma anche nei giornali e nei media e in parte anche nel movimento delle donne.
Non veniva neppure nominata quando si evocava ritualmente quel gruppo di persone che si amava definire “riserva della nazione” — tutti rigorosamente del sesso “giusto”, anche se non tutti avevano e hanno un curriculum umano e politico dello suo spessore. Non l’hanno fatta neppure senatrice a vita, cosa che io, che non sono mai stata democristiana, trovo personalmente non solo una ingiustizia, ma uno scandalo nei confronti di una persona alla quale la democrazia italiana è molto debitrice e che avrebbe più che meritato di occupare un ruolo designato per chi ha “illustrato la patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”. Non l’avrà illustrato in campo scientifico, artistico o letterario, ma sociale sicuramente sì. Non ci hanno pensato né Ciampi né Napolitano, i due presidenti che avrebbero potuto farlo e dai quali ci si sarebbe aspettati la sensibilità necessaria per deciderlo. Rimane il sospetto che non lo abbiano fatto perché era non solo una donna, caratteristica che nel nostro Paese continua ad essere una debolezza quando si tratta di trovare figure rappresentative, ma perché la sua storia politica, proprio per le sue caratteristiche di autonomia e integrità, la rendeva scomoda. Meglio lasciarla nell’oblio.
La sua rimozione dalla narrazione pubblica è talmente riuscita che, quando Elsa Fornero venne designata ministra del Lavoro nel governo Monti, molti, anche nei media, parlarono di prima donna a capo di quel dicastero, dimenticando che c’era stata, molti anni prima, appunto Anselmi, in un periodo altrettanto difficile e quando non era affatto scontato per una donna trattare da pari a pari con i colleghi di governo, con i rappresentanti sindacali e delle imprese.
La riparazione, parziale, a questo lungo oblio è avvenuta solo pochi mesi fa, quando le è stato dedicato un francobollo. Chissà che cosa avrebbe detto, quando era ancora lucida e piena di ironia, di questa monumentalizzazione ex post e quando ormai era fuori gioco, lei che ancora pochi anni fa aveva ammonito: «Lo ripeto sempre, a cominciare dalle mie nipotine, che nessuna vittoria è irreversibile. Dopo aver vinto possiamo anche perdere. Negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta noi donne impegnate in politica e nei movimenti femminili e femministi, noi parlamentari con responsabilità nei partiti e nel governo eravamo ancora pioniere. Questa parola fa pensare che in seguito saremmo diventate più numerose e avremmo contato di più. Purtroppo, certe speranze sembrano non aver dato i frutti che avevano in serbo».
Aggiungo che per lei «contare di più» non significava solo “esserci”, ma lavorare per migliorare la qualità sia della vita delle persone sia della democrazia.
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MORTO A 91 ANNI UMBERTO VERONESI
Ha rivoluzionato la medicina oncologica

Ex ministro della Sanità, fondatore dell’Istituto europeo di oncologia, è deceduto nella sua casa di Milano
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Scienza
Quando aiutò a diffondere la quadrantectomia negli anni ’70, dimostrò che c’era un altro modo per aiutare nella malattia le donne colpite da tumore al seno. Il mondo della ricerca e non solo deve dire addio a Umberto Veronesi. L’oncologo è morto nella sua casa milanese. Nato a Milano 91 anni fa, concentrò i propri studi in campo oncologico e nel 1975 divenne direttore dell’Istituto nazionale dei tumori, lasciato poi per fondare l’Istituto europeo di oncologia
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