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UncleTom
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INTERVISTA
Bauman: 'L'imbroglione Trump è un veleno, venduto come antidoto ai mali di oggi'
La riflessione del decano dei sociologi europei sul nuovo Presidente Usa. «Il rischio è che i tradizionali meccanismi di tutela democratica vengano sostituiti dall'agglutinamento del potere in modelli autoritari»
DI GIULIANO BATTISTON
11 novembre 2016


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Per Zygmunt Bauman, decano dei sociologi europei, tra i più autorevoli pensatori contemporanei, la vittoria elettorale di Donald Trump è un sintomo allarmante: riflette il divorzio ormai avvenuto tra potere e politica, da cui deriva un vuoto, un divario colmato da chi promette soluzioni facili e immediate a problemi complessi e sistemici, attingendo al ricco serbatoio della retorica populista.

Trump – spiega Bauman a l'Espresso – ha saputo giocare abilmente la carta dell'outsider e dell'uomo forte, combinando una politica identitaria discriminatoria e l'enfasi sulle ansie economiche dei cittadini americani, figlie del passaggio da un modello economico inclusivo a un modello che esclude, marginalizza e crea veri e propri esiliati. Trump si è presentato come l'antidoto alle incertezze del nostro tempo, ma è un veleno, sostiene Zygmunt Bauman, per il quale la vittoria dell'imprenditore statunitense lascia presagire il rischio che i tradizionali meccanismi di tutela democratica vengano sostituiti «dall'agglutinamento del potere in modelli autoritari o perfino autoritari».

Negli Stati Uniti e in Europa la reazione prevalente alla vittoria di Trump, perlomeno negli ambienti progressisti, è stata di stupore e paura. C'è chi ha parlato di «un grande pericolo», chi di «una sfida al modello democratico occidentale», chi di «una tragedia per la repubblica americana e per la Costituzione». Questi toni a tratti apocalittici le sembrano appropriati?
Le visioni apocalittiche spuntano fuori ogni volta che la gente entra nel “grande territorio sconosciuto”: quando si è certi che nulla, o molto poco continuerà a essere così come è stato, e non si ha alcun indizio su ciò che è destinato ad accadere o su ciò che probabilmente sostituirà quel che ci lasciamo alle spalle. Le reazioni alla vittoria di Trump hanno proliferato velocemente. La cosa sorprendente è che siano tutte consensuali: così come è successo nel caso del voto per la Brexit, si interpreta il voto per Trump come una protesta popolare contro l'establishment e l'elite politica del Paese nel suo complesso, nei confronti dei quali una larga parte della popolazione ha maturato una crescente frustrazione per aver disatteso le aspettative e non aver mantenuto le promesse fatte. Non sorprende che tali interpretazioni siano particolarmente diffuse tra coloro che hanno forti interessi acquisiti nel mantenimento dell'attuale establishment politico.

Mentre Trump ha giocato proprio la carta dell'outsider...
Non essendo parte di tale elite, non avendo ricoperto alcun incarico elettivo, provenendo “dal di fuori dell'establishment politico” ed essendo ai ferri corti perfino con il partito di cui era formalmente membro, Trump ha offerto un'occasione unica per una condanna, senza appelli, contro l'intero sistema politico. Lo stesso è successo nel caso del referendum britannico, quando tutti i principali partiti politici (dai conservatori al Labour e ai Liberals) si sono uniti nella richiesta di restare nell'Unione europea, così che ogni cittadino ha potuto usare il proprio voto per esprimere il disgusto per il sistema politico nella sua interezza. Un altro fattore, complementare, è stato la notevole brama della popolazione affinché l'infinita litigiosità parlamentare, inefficace e impotente, venisse VEDI ANCHE:
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Dalle 'donne sono cagne' a 'la pigrizia dei neri' Le 100 dichiarazioni peggiori di Donald Trump

E poi muri da erigere, dittatori da esaltare, immigrati da deportare, bufale da cavalcare. È giunto il momento di analizzare la credibilità di questo candidato attraverso le sue stesse parole. Perché sì, Donald Trump può diventare il nuovo presidente degli Stati Uniti d'America
sostituita dalla volontà indomita e inoppugnabile di “un uomo forte” (o di una donna forte), capace con la sua determinazione e con le sue doti personali di imporre in modo immediato, senza tentennamenti e temporeggiamenti, soluzioni veloci, scorciatoie, decisioni vere. Trump ha costruito abilmente la propria immagine pubblica come una persona ricca di quelle qualità che l'elettorato sognava. Quelli appena citati non sono gli unici fattori che hanno contribuito al trionfo di Trump, ma sono senz'altro cruciali. Al contrario, la trentennale appartenenza di Hillary Clinton all'establishment e la sua agenda politica frammentata e compromissoria hanno giocato contro la popolarità della sua candidatura.

Concorda con quanti si spingono a leggere la vittoria di Trump come una manifestazione della crisi del modello democratico occidentale?
Credo che stiamo assistendo all'accurato svisceramento dei principi della “democrazia”, che si presumeva fossero intoccabili. Non credo che il termine in sé verrà abbandonato, almeno come termine con cui descrivere un ideale politico, anche perché quel “significante”, come lo avrebbe definito Claude Levi-Strauss, ha assorbito ed è ancora capace di generare molti e differenti “significati”. C'è però una chiara possibilità che i tradizionali meccanismi di salvaguardia (come la divisione di Montesquieu del potere in tre ambiti autonomi, il legislativo, l'esecutivo e il giudiziario, o il sistema britannico di checks and balances) escano in qualche modo dal favore pubblico e vengano privati di significato, sostituiti in modo esplicito o di fatto dall'agglutinamento del potere in modelli autoritari o perfino dittatoriali. Le citazioni che lei ha riportato come reazioni alla vittoria di Trump indicano tutte una preoccupazione comune, sono sintomatiche di una tendenza crescente, che esiste: la tendenza a riportare – per così dire – il potere dalle nebulose vette elitarie dove è stato collocato o dove è stato trascinato verso “casa”. La tendenza dunque a riportare il potere all'interno di una comunicazione diretta tra l'uomo forte al vertice da una parte e dall'altra l'aggregazione dei suoi sostenitori e soggetti di potere, equipaggiati con i social network come strumenti di indottrinamento e di sondaggio delle opinioni.

Nel corso della campagna elettorale, Trump ha molto insistito sulle questioni razziali e sul nazionalismo più insulare e discriminatorio, ma non ha fatto appello solo a questi temi. Al di là degli attacchi sistematici verso i “diversi”, ha giocato la carta dell'incertezza economica di tutti quei cittadini americani che hanno la percezione di essere stati defraudati dai processi di globalizzazione. I due aspetti – l'ansia economica e l'ansia verso gli “altri” – sono legati? E come?

Il trucco è stato proprio quello di connettere i due aspetti, di renderli inseparabilmente legati e di rafforzarli vicendevolmente. È ciò che è riuscito a fare Trump, un supremo imbroglione (anche se non è il solo nel panorama politico mondiale). Sono incline ad andare perfino oltre nell'analisi dell'uso che Trump ha fatto del matrimonio tra politica identitaria e ansia economica, perché credo che sia riuscito a condensare tutti gli aspetti e i settori dell'incertezza esistenziale che perseguita ciò che è rimasto della classe lavoratrice e della classe media, indottrinando coloro che soffrono con l'idea che l'espulsione degli stranieri, di quanti sono etnicamente diversi, degli stranieri appena arrivati rappresenti la tanto agognata “soluzione veloce” che li potrebbe ripagare in un colpo solo di tutta la loro ansia e incertezza.

Tra quanti hanno votato Trump, alcuni fanno parte della categoria degli “espulsi”: quei cittadini che facevano parte di un “contratto sociale” ma che ne sono stati espulsi forzatamente, insieme a quelli, giovani ma non solo, che non ne sono stati parte e non lo saranno mai in futuro. La vittoria di Trump rappresenta la fine del modello economico inclusivo, keynesiano, del dopoguerra, sostituito da un modello di segno opposto, che esclude?
Il passaggio da una visione del mondo, da una mentalità e da una politica economica che include a una che esclude non è affatto nuovo. È stato un passaggio strettamente sincronizzato con un altro salto qualitativo, quello da una società di produttori a una società di consumatori, che non sarebbe stato possibile senza la marginalizzazione, ovvero la creazione di una “sottoclasse” che non soltanto è degradata rispetto alla società delle classi, ma ne è stata del tutto esiliata, una categoria di “consumatori fallati” talmente esclusa da non poter essere riammessa. L'attuale tendenza verso la “securitizzazione” dei problemi sociali aggiunge acqua allo stesso mulino: rende le reti dell'esclusione ancora più ampie, mentre trasferisce coloro che finiscono in queste reti da una categoria che, per quanto inferiore, rimaneva di segno “positivo”, a una divisione che, per quanto morbida, rimane micidiale, sinistra e tossica.

In alcuni suoi libri, per esempio ne La solitudine del cittadino globale, lei analizza ciò che definisce come «la trinità malvagia», l'incertezza, l'insicurezza e la vulnerabilità, sentimenti prevalenti in un mondo in cui è avvenuto il divorzio tra potere e politica. È inevitabile che tale divorzio conduca all'uomo forte o al populismo?
Sì, tendo a credere che sia inevitabile. Il divorzio a cui fa riferimento lascia dietro di sé un divario – un divario che si sta spaventosamente allargando – dal quale emana la combinazione avvelenata della disperazione e della sfortuna. Gli strumenti ortodossi, che credevamo familiari e disponibili, per combattere e respingere efficacemente i problemi e le ansie che ci attanagliano sono ormai spuntati. Soprattutto, non si crede più che possano mantenere quanto promettono. Per una società nella quale sempre meno persone ricordano, di prima mano, cosa significasse vivere sotto un regime totalitario o dittatoriale, l'uomo forte – non ancora sperimentato - non sembra un veleno, ma un antidoto: per le sue presunte capacità di saper fare le cose, per le soluzioni veloci e istantanee, per gli effetti immediati che promette di portare come corredo alla sua nomina.

Beppe Grillo, il leader italiano del Movimento Cinque Stelle, ha sottolineato le similitudini tra le vittorie elettorali del suo partito e quella di Trump scrivendo che «sono quelli che osano, gli ostinati, i barbari, che porteranno avanti il mondo. E noi siamo i barbari!». È tempo che l'establishment faccia veramente i conti con i nuovi barbari?

In Europa, i vari Grillo sono molto numerosi. Per coloro per i quali la civiltà ha fallito, i barbari sono i salvatori. In alcuni casi è ciò che loro si sforzano in tutti i modi di far credere per convincere i creduloni che sia proprio così. In altri casi è ciò che desiderano ardentemente credere coloro che sono stati abbandonati e dimenticati nella distribuzione dei grandi doni della civiltà. Alcuni membri dell'establishment potrebbero essere impazienti di approfittare dell'occasione, dal momento che coloro che credono nella vita postuma a volte sono disposti a suicidarsi.
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INTERVISTA
Perché Donald Trump piace ai 5 Stelle
«Donald ha fatto un VDay pazzesco» dice Grillo, incurante delle accuse di chi gli dice di guardare a destra e saltare sul carro del vincitore. Il senatore M5S Nicola Morra spiega perché l'imprenditore in effetti fa simpatia e cos'ha in comune coi pentastellati
DI LUCA SAPPINO
09 novembre 2016
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Beppe Grillo ha registrato il video a notte fonda, ed è stato così uno dei primi leader politici a commentare il voto americano. «È pazzesco questa è la deflagrazione di un'epoca. È l'apocalisse dell'informazione, della tv, dei grandi giornali, degli intellettuali, dei giornalisti. Questo è un vaffanculo generale. Trump ha fatto un VDay pazzesco». Grillo quindi non festeggia tanto per Trump - anche se dal video trapela un certo entusiasmo - ma si mostra contento per la dinamica del voto Usa, che a lui ricorda l’ascesa italiana del Movimento 5 stelle.

Uscito il leader, dopo di lui, anche il ministro esteri ombra del Movimento, Alessandro Di Battista, è intervenuto per spiegare meglio il concetto. Di Battista comincia prendendosela con il governo italiano che, avendo improvvidamente sostenuto Clinton, ha esposto l’Italia a un imbarazzo. Poi se la prende con chi, «non potendo ammettere il proprio ennesimo fallimento, parla di "voto di rabbia"». «Costoro», dice Di Battista, che così si ricollega a Grillo, «odiano i cittadini che scelgono. Costoro pensano che la democrazia ci sia soltanto quando le scelte dei popoli coincidono con le loro».

Dietro al loro ragionamento c’è dunque l’idea che il Movimento, in Italia, sia un argine all’avanzata della destra. Il paragone però, come dimostrano le accuse subito arrivate dai dem e dalla sinistra, è scivoloso.

Non trova, onorevole Morra?
«No. Io però sono dell’avviso che, prima che della vittoria di Trump, si debba parlare della sconfitta dell’establishment e che tutti coloro che rispondono a certi poteri si dovrebbero oggi fare alcune domande. In particolare - ed è quello che spiega Beppe - si dovrebbero interrogare sulla loro capacità di comprendere la società e i cambiamenti che la attraversano».

I cambiamenti cioè i "Vaffa" vostri e di Donald Trump, come dice Grillo?
«I dati sull’affluenza dicono che Trump è riuscito più di Hillary a tenere i cittadini dentro il perimetro della democrazia rappresentativa. Trump ha parlato a tantissimi che altrimenti avrebbero scelto di non votare: è esattamente quello che ha fatto il Movimento 5 stelle e che ha stupito i più».

Trump ha fermato l’astensione e la destra. Anche voi, almeno all’inizio. A costo però, ad esempio, di qualche timidezza sui temi più scivolosi, come l’immigrazione...
«Io mi chiederei se più che fermare la destra, la nascita del Movimento 5 stelle, e poi il suo diffondersi come un virus, non abbia - come credo - impedito la rinascita della stella a cinque punte, e non abbia evitato che il malessere diffuso prendesse forme violente, già conosciute negli anni 70 e 80».

Cosa permette il parallelo tra voi e Trump?
«Rispetto alla percezione - che conta molto alle elezioni - sicuramente Trump è stato percepito estraneo al potere, alle banche e alle lobby di Hillary, e vicino alla gente e al suo malessere».

Nicola Morra
Nicola Morra

Che poi è paradossale pensando che Trump è un esponente tipico dell’un per cento ricco a cui si imputano le crescenti disuguaglianze. No?
«Che sia milionario non conta: è stato avvertito come più autentico e questo basta. Ed è stato così anche perché Trump non si è curato né fidato dei media tradizionali. Guardi: Trump ha fatto ciò che aveva fatto Obama alla sua prima elezione, ha saltato le mediazioni. Solo che poi Obama si è dimenticato di esser stato il candidato della rete e, come tutti, si è illuso che bastasse massacrare Trump per vincere. Non è così: è più forte la diffidenza verso i media tradizionali».

Lei parla di un mondo senza mediazioni, come futuro obbligato. Per Grillo, poi, la vittoria di Trump «è l’apocalisse dell’informazione, della tv, dei grandi giornali, degli intellettuali, dei giornalisti». Ma l’informazione è anche quella che cavalca le paure, che gonfia gli effetti e i costi dell’immigrazione, che sono argomenti preziosi per i Trump del mondo. E quanto ad allarmismi non è che il web sia esente, anzi, a cominciare dai molti siti della vostra galassia…
«Il web è un moltiplicatore, un acceleratore che può esser positivo o no. La riflessione di Mentana sui webeti, ad esempio, è inappuntabile. Ma la nostra idea è che il web debba essere un amplificatore di contatti umani. Ormai dovrebber esser chiaro a tutti che le persone, nella democrazia ai tempi di internet, vogliono e cercano l’orizzontalità».

Di Battista ha detto che avrebbe votato Verdi, fosse stato cittadino americano. Lei?
«Io probabilmente non sarei andato a votare».

Lo pensa anche adesso che sa che ha vinto Trump?
«Sì, sarei stato tra i milioni di statunitensi che non votano. E non sarei andato anche in polemica con il sistema di voto, un sistema maggioritario che stravolge l’effettivo esito elettorale. I termini di voti assoluti, infatti, Clinton ne ha di più di Trump. Ma lei perde e vince il secondo. E a me, uno che viene dileggiato continuamente, preso di mira dai media, e pur tuttavia continuava a incalzare l’avversario, può farmi anche simpatia, ma le pare giusto?».

Quindi sarebbe rimasto a casa guardando con simpatia a Trump. Ma se il candidato dei Democratici fosse stato Sanders?
«Sarei andato a votare e avrei votato per lui. Ma non per nulla Sanders è stato fatto fuori dal suo stesso partito».

Se ci fosse stato Sanders lei non avrebbe guardato Trump con simpatia. Faccio allora un parallelo: se il Pd fosse più di sinistra o se a Grillo, nel 2009, fosse stato concesso di correre alle primarie, il Movimento non esisterebbe o lei almeno non ne farebbe parte?
«È probabile. Se il Pd si fosse aperto di più - non tanto se si fosse spostato a sinistra, non è quello il punto - noi probabilmente non ci saremmo».
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Bauman: addio umanità, schiavizzata da un’élite di parassiti


Scritto il 12/1/17 • nella Categoria: segnalazioni Condividi




«Le opere di Bauman, che, per quanto fortunate editorialmente, sono state cibo per pochi, purtroppo, sono un tesoro cui attingere per comprendere le ingiustizie del tempo presente, denunciarle, e se possibile, combatterle». Così Angelo d’Orsi ricorda su “Micromega”, all’indomani della sua scomparsa, il grande sociologo polacco Zigmunt Bauman, massone progressista e celebrato teorico della “società liquida”: «Il messaggio che ci affida è appunto di non smettere di scavare sotto la superficie luccicante del “mondo globale”, come ce lo raccontano media e intellettuali mainstream, che non solo hanno rinunciato al ruolo di “legislatori”, trasformandosi compiutamente in meri “interpreti”, ossia tecnici, ma sono diventati laudatores dei potenti». Nato a Poznan nel 1925, Bauman aveva attraversato il “tempo di ferro e di fuoco” dell’Europa fra le due guerre, «tra nazismo, stalinismo, cattolicesimo oltranzista, antisemitismo». Di origine ebraica, «si era allontanato dalla sua terra, per sottrarsi proprio a una delle tante ondate di furore antiebraico, che da sempre la animano». Era stato comunista militante, poi allontanatosi dal marxismo canonico, fino alla “scoperta” di un grande italiano, Antonio Gramsci, «che lo aveva aiutato a leggere il mondo con occhi nuovi», rispetto alla vulgata marxista-leninista e alle scienze sociali angloamericane.

Bauman aveva studiato sociologia a Varsavia, con maestri come Stanislaw Ossowski, prima di trasferirsi in Israele, all’università di Tel Aviv, e quindi a Leeds, in Inghilterra dove insegnò per decenni. «Sarebbe però riduttivo definirlo sociologo – scrive d’Orsi – sia per il tipo di sociologia da lui professata e praticata, poco accademica e nient’affatto canonica, sia per la vastità dello sguardo, la larghezza degli interessi, la molteplicità degli approcci». Filosofo, politologo, storico del tempo presente: uno studioso prolifico, autore di una cinquantina di opere, preziose per «l’osservazione critica della contemporaneità». Bauman si era occupato «in modo nient’affatto banale dell’Olocausto, messo in relazione alla modernità», in qualche modo riprendendo spunti di Max Horkheimer e Theodor Adorno, «puntando il dito contro l’ingegneria sociale e il predominio della tecnica (in questo vicino a Jürgen Habermas), che uccide la morale, contro l’elefantiasi burocratica che schiaccia gli individui senza aumentare l’efficienza del sistema sociale». In più, aggiunge d’Orsi, Bauman «aveva studiato la trasformazione degli intellettuali, passati da figure elevate, capaci di dettare l’agenda politica ai governanti, a meri tecnici amministratori del presente, al servizio del sistema». In altre parole: la degenerazione progressiva del potere.

Fra i tanti meriti di questo pensatore, Angelo d’Orsi segnala «la sua capacità di descrivere gli esiti della forsennata corsa senza meta della società post-moderna, attraverso un’acutissima analisi del nostro mondo», in cui «la globalizzazione delle ricchezze ha oscurato quella ben più mastodontica, gravissima, delle povertà». Studiando “le conseguenze sulle persone”, ridotte a “scarti”, «residui superflui che vanno conservati soltanto fin tanto che possono esser consumatori», Bauman ha svelato «il volto cupo e tragico dell’ultra-capitalismo, feroce espressione di creazione e gestione della disuguaglianza tra gli individui, dove all’arricchimento smodato dei pochi ha corrisposto il rapido, crescente impoverimento dei molti». Quell’uomo, continua d’Orsi, «ci ha aiutato a guardare dietro lo specchio ammiccante del post-moderno, sotto la vernice lucente dell’asserito arricchimento generalizzato e universale, dietro lo slogan della “fine della storia”, ossia della proclamata nuova generale armonia tra Stati e gruppi sociali», oltre alla quale «era apparso l’altro volto della globalizzazione, ossia una terribile guerra dei ricchi ai poveri, ennesima manifestazione della lotta di classe dall’alto».

Ha guardato, Bauman, alle “Vite di scarto” (altra sua opera), generate incessantemente «dall’infernale “megamacchina” del “finanzcapitalismo”», scrive sempre d’Orsi, citando un’espressione di un altro grande scomparso, Luciano Gallino. Il nuovo, grande problema denunciato da Bauman è il “capitalismo parassitario”: «Quella che chiamava “omogeneizzazione” forzosa delle persone (un concetto che richiama la pasoliniana “omologazione”), era l’altro volto della società anomica, che distrugge legami, elimina connessioni, scioglie il senso stesso della convivenza». Volumi, saggi, articoli, conferenze: «E’ come se quest’uomo mite e affabile avesse voluto tendere una mano a tutti coloro che dal processo di mostruosa produzione di denaro attraverso denaro, erano esclusi; quasi a voler “salvare”, con le sue parole, gli schiacciati dai potentati economici, a voler dar voce a quanti, in una “Società sotto assedio” (ancora un suo titolo), dominata dalla paura, dal rancore, dall’ostilità, vedevano e vedono le proprie vite disintegrate».

I “Danni collaterali”, elencati in uno dei suoi ultimi libri, «sono in realtà l’essenza di questa società, che egli ha definito, felicemente, “liquida”, con una trovata che è poi divenuta formula, ripetuta, un po’ stucchevolmente, negli ultimi anni, applicata a tutti gli ambiti del vivere in comune», scrive ancora Angelo d’Orsi, nel suo intervento su “Micromega”. «Liquida è questa nostra società, che ha perso il senso della comunità, priva di collanti al di là del profitto e del consumo: una società il cui imperativo, posto in essere dai ricchi contro i poveri, dai potenti contro gli umili, è ridotto alla triade “Produci/Consuma/Crepa”». Di conseguenza, diventano tristemente “liquidi” anche «i rapporti umani», così come la cultura. In altre parole: «Liquido tutto il nostro mondo, che sta crollando mentre noi fingiamo di non accorgercene».
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3 ore fa
51
La Borsa crede a Marchionne
"Niente trucchi su emissioni"


Luca Romano



E IO CREDO A BABBO NATALE, ALLA BEFANA, E AGLI ASINI CHE VOLANO.
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India: laboratorio mondiale per la demonetizzazione forzata

Scritto il 23/1/17 • nella Categoria: segnalazioni Condividi



Oltre mezzo miliardo di indiani costretti ad aprirsi un conto in banca, quindi a far guadagnare le banche e a farsi controllare, al centesimo. Tutto questo da que mesi a questa parte, con l’improvvisa soppressione del cash a favore della moneta elettronica. «Pensavo che un esperimento del genere compiuto nel corpo vivo di una nazione di 1.276 milioni di abitanti, con oltre 3 milioni di chilometri quadrati, con la bomba atomica e situata in una posizione strategica (sia geopoliticamente che economicamente e finanziariamente), avrebbe richiamato l’interesse di qualche guru dell’economia, specialmente di sinistra», scrive Piero Pagliani. «Invece niente», nessuno si è accorto dell’enormità che sta avvenendo. In compenso, il magnate statunitense Steve Forbes ha definito la “demonetizzazione” indiana «nauseante e immorale, una rapina di massa», paragonandola alla politica di sterilizzazione forzata voluta da Indira Gandhi. Tutto è partito l’8 novembre scorso, quando il governo nazionalista indù retto da Narendra Modi ha dichiarato fuori corso tutte le banconote da 500 e 1.000 rupie (ovvero 7 e, rispettivamente, 14 euro). «Questo è equivalso a mettere fuori corso circa l’80% del denaro circolante».

Gli indiani, ricorda Pagliani su “Megachip”, avevano due settimane di tempo per cambiare le loro banconote ormai “illegali” con quelle da 500 e 2.000 rupie, «facendo esasperanti code agli sportelli bancari dove sono morte decine di persone per infarto o collasso, o prelevare ai bancomat». Prelievi comunque limuitati, «solo fino a uno striminzito tetto massimo di 2.000 rupie, poi elevato a 4.000», cioè 55 euro. Pagliani denuncia «gli effetti di questa violenta demonetizzazione sui milioni di piccoli operatori economici che costituiscono il fitto tessuto economico indiano». Considera l’operazione «un enorme regalo alle banche che ha aspetti di sadismo sociale in una nazione di milioni di piccoli operatori economici». Si parla infatti di «centinaia e centinaia di milioni di persone danneggiate e a volte minacciate fin nella loro esistenza fisica e in quella dei loro familiari». In pratica, almeno 800 milioni di persone «gettate nella difficoltà e a volte nella disperazione», che oltretutto «sono solo un’avanguardia, una prima tranche». Infatti, «la mossa di Narendra Modi è un esperimento in grandissimo stile di un piano ben più generale portato avanti da potenti interessi radicati negli Stati Uniti e con vaste diramazioni internazionali».

L’operazione, continua Pagliani, «è parte della politica di partnership strategica tra Usa e India, fortemente voluta dal presidente uscente Barack Obama». Più precisamente, «costituisce uno dei protocolli di cooperazione firmati tra il ministero indiano delle finanze e l’agenzia governativa statunitense Usaid». La manovra, aggiunge Pagliani, fa capo alle linee di azione della “Better Than Cash Alliance”, di cui fanno parte Mastercard, Visa, la Fondazione Ford e la Fondazione Gates, che agiscono anche individualmente, ad esempio proprio nell’iniziativa che ha colpito l’India. Non a caso Bill Gates era in visita in quel paese proprio in quei giorni e rilasciava dichiarazioni di sostegno alla demonetizzazione: «La moneta di plastica è il futuro in India». Ma uno dei padrini nascosti di questa manovra, spiega Pagliani, è Raghuram Rajan, governatore della Reserve Bank indiana fino a due mesi prima dell’annuncio a sorpresa che ha scioccato gli indiani. «Questo signore ha un passato come economista capo all’Fmi, è professore di economia all’Università di Chicago (culla accademica del neoliberismo) ed è membro del Gruppo dei Trenta» dove, spiega Norbert Haering, «rappresentanti di alto livello delle maggiori istituzioni commerciali finanziarie a livello mondiale condividono opinioni e piani coi presidenti delle più importanti banche centrali, a porte chiuse e senza nessun verbale».

Raghuram Rajan è considerato un possibile successore di Christine Lagarde alla guida dell’Fmi: «Si sta conquistando il merito sul campo». Aggiunge Pagliani: «Se consideriamo il tessuto produttivo e commerciale indiano, il fatto che il 97% delle transazioni sono eseguite in contante e che solo il 55% degli indiani ha un conto in banca (e ci sono aree dove le banche sono lontanissime fisicamente) e che quei conti sono pochissimo movimentati, si capisce la misura del disastro indotto-voluto da questa manovra». Un disastro mistificato da slogan come “inclusione finanziaria” e “inclusione digitale”. «Insomma, il solito “nuovo che avanza”, il progresso, come ai tempi di Enrico VIII ed Elisabetta I lo erano le “enclosure” che gettavano nella miseria e nella disperazione i contadini inglesi che potevano solo andare a mendicare nelle città per farsi impiccare a schiere per via delle draconiane leggi contro l’accattonaggio e il vagabondaggio». Karl Marx sosteneva che la cosiddetta “accumulazione originaria” del capitale si ripete ciclicamente, come al solito «grondante sangue e sporcizia dalla testa ai piedi, da ogni poro». Il perspicace “Hindustan Times titolava”: «Modi è come la regina Antonietta che diceva: Se non avete il pane mangiate le brioches».

Quali sono i vantaggi che le élite mondializzate intendono trarre dalla demonetizzazione forzata che per ora vediamo all’opera in India? Almeno tre. Il primo: «Ogni cittadino, almeno nelle intenzioni, sarà costretto a imprestare il grosso del denaro che possiede e che guadagna alle banche. Semplicemente perché per poter usare la “moneta di plastica” deve avere un conto in banca, e ogni volta che versa sul conto in banca fa un prestito alla banca stessa. Un drenaggio di ricchezza verso i soliti noti che già posseggono la quasi totalità del pianeta Terra». Secondo, la tracciabilità: «Ovvero il controllo capillare. Praticamente su tutto. Un potere immenso di sorveglianza». Terzo vantaggio, per l’élite finanziaria: «Il controllo tecnico-politico delle transazioni e quindi delle grandi istituzioni finanziarie e di conseguenza un controllo politico dei governi che fanno loro riferimento». In fondo, conclude Pagliani, a Maria Antonietta «tagliarono la testa per molto meno».
UncleTom
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Re: News dal mondo

Messaggio da UncleTom »

23 gen 2017 12:37

SEGNI DEL PROGRESSO: TORNA LA TERZA CLASSE!

- SUGLI AEREI AMERICANI, MA PRESTO ANCHE EUROPEI, CI SARÀ LA ‘BASIC ECONOMY’: IMBARCATI PER ULTIMO, SENZA SCEGLIERE IL POSTO, SENZA SPAZIO NELLA CAPPELLIERA PER IL BAGAGLIO A MANO (SOLO QUELLO CHE ENTRA TRA I PIEDI), NIENTE CIBO NÉ BEVANDE

- E SI PAGHERA' FINO ALLA METÀ DELLA CLASSE ECONOMICA




Leonard Berberi per il Corriere della Sera


Volare in terza classe: debutta la tariffa basic (a partire dagli Stati Uniti): costerà la metà della classe economy. Il passeggero si imbarcherà per ultimo e anche cibo e bevande saranno extra.

Dipende dal punto di vista. Per le compagnie aeree è un' opzione per il passeggero che vuole spendere poco. Per gli esperti è una dichiarazione di guerra alle low cost nel loro punto forte, quello delle tariffe. Per i passeggeri rischia di essere un grattacapo ulteriore, dal momento che devono fare attenzione a quello che comprano. Perché la cifra è sì più bassa. Ma l' elenco delle cose non incluse nel biglietto è così lungo che se non si fa attenzione si rischia di pagare molto di più.


Di sicuro, c' è che i più grandi vettori del mondo hanno deciso di introdurre la «terza classe». Ovvero, a voler essere più precisi, la classe al di sotto dell' Economica. Prima è stata Delta Air Lines (quasi 184 milioni di passeggeri nel 2016), poi United (143 milioni) e pochi giorni fa American Airlines (circa 199 milioni). La chiamano «Basic Economy» e inizierà nelle prossime settimane, all' inizio per i voli interni agli Usa, poi per quelli internazionali. Il vantaggio, sostengono le aziende, è che con la nuova tariffa il biglietto costerà molto di meno. Anche la metà di quello della normale Economy.


Però c' è anche un rovescio della medaglia: meno paghi e meno opzioni hai a bordo. Per esempio, con United e American Airlines il passeggero «basic» s' imbarcherà per ultimo e non potrà usare nemmeno la cappelliera sopra per il bagaglio a mano, che dovrà essere così piccolo da stare nello spazio sotto al sedile.



Vietato scegliere il posto, con il rischio - altissimo - che venga assegnato quello centrale, più scomodo. E la (quasi) certezza che le famiglie vengano divise, con figli da una parte, di fianco a sconosciuti, e genitori dall' altra (anche se American Airlines chiarisce che «cercheranno di farli sedere insieme», almeno se la prole ha fino a 13 anni). E ancora: niente upgrade, niente rimborso o modifica. Ovviamente anche cibo e bevande sono extra.

Insomma, si tratta di un ulteriore «spezzettamento» del servizio offerto in volo che alle compagnie, calcola IdeaWorks, ha portato 36 miliardi di euro nel 2015 di «ancillary revenue», ricavi diversi dalla vendita dei biglietti. «Penso che la "Basic Economy" sarà introdotta anche da diverse compagnie nel resto del mondo», spiega al Corriere Edward Russell, esperto finanziario che segue il settore per la società Flightglobal. «Air Canada e la sudamericana Latam stanno già facendo qualcosa di simile».



Del resto i viaggiatori a basso costo hanno sfondato quota un miliardo nel 2016, calcola l' Icao, l' ente dell' Onu per l' aviazione civile, e le compagnie «tradizionali» cercano di intaccare quel tesoretto che ha portato l' irlandese Ryanair a trasportare 117 milioni di passeggeri e a diventare la prima compagnia in Europa, battendo colossi come Lufthansa, British Airways e Air France.

Sui social molti sospettano - e qualche analista concorda - che l' introduzione della «Basic Economy» servirà ai vettori a comparire pure più in alto nei motori di ricerca dei voli. Per David Koenig dell' Associated Press assistiamo all' introduzione di un «sistema di caste a 35 mila piedi di quota», mentre per l' Economist chi vola si divide ormai tra chi ha tanto, chi ha qualcosa, chi ha poco e chi non ha proprio nulla. È intervenuto pure il senatore democratico di New York Charles Schumer che ieri ai vettori ha chiesto di fare un passo indietro. Almeno sul bagaglio a mano.

In realtà c' è poco da lamentarsi. Pur di pagare di meno i passeggeri negli anni hanno «ceduto» qualcosa sul fronte della comodità. «Gli americani hanno dimostrato che il loro primo obiettivo è quello di trovare il biglietto più conveniente e la "Basic" sarà un' opzione in più», prevede Russell.

Che sia tradizionale o «senza fronzoli», insomma, l' importante è pagare poco. Anche a costo di viaggiare un po' più scomodi. O di muoversi senza valigia.
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Re: News dal mondo

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Regeni, il video mai visto dell’incontro con il sindacalista che lo denunciò

La Stampa
2 ore fa

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Una tv egiziana ha trasmesso un video, chiaramente girato all’insaputa del ricercatore friulano, in cui si vede Giulio Regeni parlare con il presidente del sindacato dei venditori ambulanti egiziani, Mohamed Abdallah. Nel dialogo trasmesso dall’emittente «Sada El Balad», l’uomo chiede denaro per curare la propria moglie malata di cancro: Regeni rifiuta di darlo ma prospetta la possibilità di finanziare la raccolta di «informazioni» sul sindacato e i suoi «bisogni».

Il video, rilanciato ora su Youtube, ma trasmesso in mattinata in esclusiva dal Messagero.it, mostra il volto di Regeni, di cui si sente la voce parlare in buon arabo e rispondere a un uomo che parla egiziano e che evidentemente tiene un telefonino seminascosto. «Primo video di Regeni con il presidente del sindacato dei venditori ambulanti», è scritto in sovrimpressione.

Il sindacalista, fra l’altro, dice «mia moglie ha il cancro e deve subire un’operazione e io devo cercare denaro, non importa dove». Regeni risponde: «il denaro non è mio. Non posso usare soldi per nessun motivo perchè sono un accademico». Ad Abdallah che insiste, il ricercatore replica che soldi «arrivano attraverso la Gran Bretagna e il centro egiziano che lo dà agli ambulanti».

«Bisogna cercare di avere idee e ottenere informazioni prima del mese di marzo», dice fra l’altro Regeni nel video di 3:47’. Alla domanda «che tipo di informazioni vuoi?», il ricercatore risponde: «qual è la cosa più importante per te per quanto riguarda il sindacato e quali sono i bisogni del sindacato». «Voglio idee a partire da tale questione, la più importante per noi, e si potranno sviluppare le idee», dice ancora Regeni.


Video:

Il mistero egiziano della morte di Giulio Regeni

http://www.msn.com/it-it/notizie/italia ... spartanntp
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Re: News dal mondo

Messaggio da UncleTom »

23 gen 2017 17:13

BENVENUTI NELLA "MEDIOCRAZIA"!

- IL FILOSOFO DENEAULT: “NON C’E’ PIÙ DIFFERENZA TRA TRUMP E TSIPRAS. ORMAI SI APPLICA UN SOLO PROGRAMMA: PIÙ CAPITALI PER LE MULTINAZIONALI E I PARADISI FISCALI, MENO DIRITTI E SOLDI PER I LAVORATORI. E QUESTE SCELTE VENGONO PRESENTATE COME RAGIONEVOLI. L'ALTERNATIVA? UN RITORNO A METODI DI GOVERNO BRUTALI”




Anais Ginori per il Venerdì-la Repubblica

«Non c' è stata nessuna presa della Bastiglia, niente di paragonabile all' incendio del Reichstag, e l' incrociatore Aurora non ha ancora sparato un solo colpo di cannone. Eppure di fatto l' assalto è avvenuto, ed è stato coronato dal successo: i mediocri hanno preso il potere».

Il filosofo canadese Alain Deneault non pensava di avere così tanto successo quando ha pubblicato il suo saggio sulla rivoluzione silenziosa che ci ha fatto precipitare nel regno del conformismo. Il suo La Mediocrazia, pubblicato ora anche in Italia, ha provocato una presa di coscienza tra molti lettori. «Evidentemente ho captato qualcosa, un malessere, che era nell' aria» commenta Deneault seduto in un caffè dal design retrò. «Nell' America del Nord persino i caffé sono tutti così omologati» confessa il filosofo cinquantenne che insegna sia a Montreal che a Parigi ed ha già pubblicato numerosi studi sui paradisi fiscali.


In quale momento storico ha inizio la Mediocrazia?

«È interessante vedere quando nasce la parola. Una prima descrizione degli esseri mediocri è fatta da Jean de La Bruyère nel Settecento. Nella sua galleria di caratteri descrive Celso, un uomo che ha scarsi meriti e non possiede abilità particolari ma riesce a farsi strada tra i potenti grazie alla conoscenza di intrighi e pettegolezzi.

Nell'Ottocento il mediocre ha nuove pretese: non è solo in cerca di favoritismi e compiacenze, ma tenta di essere protagonista nel mondo politico, culturale, scientifico. È in quel momento che appare il termine mediocrazia. Ne parla ad esempio il poeta Louis Bouilhet citato da Gustave Flaubert, denunciando la "cancrena" della società».



Il mediocre è un uomo senza qualità?

«Non per forza. Mediocre è chi tende alla media, vuole uniformarsi a uno standard sociale. In breve: è il conformismo. Robert Musil diceva: "Se la stupidità non somigliasse così tanto al progresso, al talento, alla speranza o al miglioramento, nessuno vorrebbe essere stupido". Esistono mediocri di talento. Un tecnico delle luci di una tv commerciale può essere bravo e dedito quanto uno del Piccolo di Milano. Anzi, spesso serve ancor più impegno, dedizione. La Mediocrazia riconosce alcuni meriti, ma solo alcuni».

È un golpe invisibile, senza dover sparare un colpo.

«L'ingranaggio sociale si è attivato con la prima rivoluzione industriale. Karl Marx l'aveva intuito. Il capitale ha reso i lavoratori insensibili al contenuto stesso del lavoro. La mediocrazia è l'ordine in funzione del quale i mestieri cedono il posto a una serie di funzioni, le pratiche a precise tecniche, la competenza all'esecuzione pura e semplice. Il lavoro diventa solo un mezzo di sostentamento, con una progressiva perdita di soggettività. Una situazione che provoca malessere sociale».

Negli anni Ottanta la fine ideologie e il trionfo del neoliberismo segnano una nuova svolta: è così?

«Già prima, nel Dopoguerra, si sviluppa il concetto di governance con la comparsa di grande aziende e multinazionali, poi mutuato da alcuni leader politici come Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Nella governance la misura dell' efficacia è la salute del settore economico e finanziario. Così muore la politica, cancellata dai diktat manageriali. Basta osservare il linguaggio nel dibattito pubblico.

Non parliamo più di popolo ma di società civile, i cittadini diventano partner, riprendendo appunto un lessico del settore privato anche nella politica e le relazioni sociali. E oggi vediamo Emmanuel Macron che si vanta di essere pragmatico, sentiamo parlare di realismo da parte di Manuel Valls. Nel 2012 François Hollande si è fatto addirittura eleggere con lo slogan di "Presidente normale"».


Perché ha deciso di scrivere un libro su questo tema?

«Abbiamo davanti problemi troppo gravi: il riscaldamento climatico, l'inquinamento atmosferico, il crollo delle istituzioni pubbliche. Ci sono tante e tali minacce che non possiamo accontentarci di affidare il potere a capetti senza visione e senza convinzioni. Siamo a una svolta, un momento in cui la gente soffre nel doversi piegare a norme sbagliate.

Le nostre società sono piene di persone che finiscono in depressione, vanno avanti con gli psicofarmaci. Ci sentiamo oppressi da strutture sociali vessatorie, alienanti. Siamo sottoposti a una dittatura soft della norma, dello standard unico. E se non ci adeguiamo veniamo rigettati, espulsi. In sintesi: la governance è la teoria, la mediocrazia è la modalità. E l'estremo centro è l'ideologia».

L'estremo centro? Che intende?

«La mediocrazia fa sì che non ci sia più molta differenza tra Donald Trump e Alexis Tsipras. In ogni caso si applica un solo programma: sempre più capitali per le multinazionali e i paradisi fiscali, meno diritti per i lavoratori, meno soldi per il servizio pubblico. Queste scelte vengono presentate come ineluttabili e soprattutto come ragionevoli.

Chi non si vuole allineare viene trattato da irragionevole, pericoloso, non realista. L'estremo centro cancella la distinzione tra destra e sinistra, si presenta come visione unica ed esclusiva, esprimendo intolleranza per tutto ciò che tenta di rappresentare un'alternativa. E non può essere messo in discussione anche se è distruttore dal punto di vista ambientale, socialmente iniquo e intellettualmente imperialista».

Non esiste nessuna alternativa, come diceva Thatcher?

«L'alternativa che si profila in questo momento all'estremo centro è il ritorno a metodi di governo violenti, brutali, una sorta di ritorno alle origini dello Stato primitivo. E quello che vediamo con i vari Trump, Le Pen. È una differenza di tono, di immagine. In Canada abbiamo avuto come premier Stephen Harper, che era più a destra di certi Repubblicani americani, e ora abbiamo il giovane liberal Justin Trudeau. Ma è un cambio apparente. Uno è arrabbiato, l' altro sorride sempre. Alla fine il programma, e gli interessi rappresentati, sono gli stessi».

Lei denuncia l'ascesa degli "esperti" nel mondo accademico e nei media. Cosa rimprovera loro esattamente?

«L'esperto è una figura centrale della mediocrazia: si sottomette alle logiche della governance, sta al gioco, non provoca mai scandalo, insegue obiettivi. È la morte dell'intellettuale, come lo descrive Edward Saïd in un saggio, Dire la verità. Intellettuali e potere. Si tratta di un sofista contemporaneo, retribuito per pensare in una certa maniera, che lavora per consolidare poteri accademici, scientifici, culturali.

I veri intellettuali seguono interessi propri, curiosità non dettate a comando, possono uscire dal gioco. Un giovane ricercatore universitario ha davanti a sé un bivio. Se vuole essere semplicemente un esperto ha buone possibilità di fare carriera, ottenere una cattedra, finanziamenti.


Se ha il coraggio di restare un intellettuale puro avrà un futuro molto più incerto. Magari non finirà assassinato come Rosa Luxembourg o incarcerato come Antonio Gramsci, ma non è più certo di poter diventare un professore come Saïd o Noam Chomsky. Ha buone chances di restare precario tutta la vita».



Quali sono le reazioni possibili per combattere la mediocrazia?

«Nel libro ho elencato almeno cinque modi. C'è chi rifiuta le facezie e le aberrazioni della società contemporanea e si mette in disparte: è l'uomo che dorme, come diceva Georges Perec. Esiste il mediocre per difetto, che subisce tutte le menzogne, soffre in silenzio ma si consola quando vince la sua squadra del cuore o può progettare una vacanza al mare.



Nonostante mille difetti queste insurrezioni tentano di sovvertire le fondamenta delle istituzioni mediocratiche. E magari altri mediocri, fiutando il vento, potrebbero allora decidere di unirsi a loro per conformismo. È già successo. L' abbiamo visto negli anni Sessanta e Settanta, quando molte persone sono diventate fintamente di sinistra»
La vera piaga è il mediocre zelante, maestro del compromesso: il presente gli somiglia, il futuro gli appartiene. Poi c'è il mediocre per necessità, consapevole della situazione ma che tiene famiglia, non può permettersi il lusso di uscire dai ranghi. E infine ci sono i fustigatori della mediocrazia: sono pochi, ma possono tentare di allearsi con i mediocri in disparte e quelli per necessità. La loro unione può portare alla nascita di movimenti come Occupy o le Primavere arabe.
iospero
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Re: News dal mondo

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India: laboratorio mondiale per la demonetizzazione forzata

Scritto il 23/1/17 • nella Categoria: segnalazioni Condividi



Oltre mezzo miliardo di indiani costretti ad aprirsi un conto in banca, quindi a far guadagnare le banche e a farsi controllare, al centesimo. Tutto questo da que mesi a questa parte, con l’improvvisa soppressione del cash a favore della moneta elettronica. «Pensavo che un esperimento del genere compiuto nel corpo vivo di una nazione di 1.276 milioni di abitanti, con oltre 3 milioni di chilometri quadrati, con la bomba atomica e situata in una posizione strategica (sia geopoliticamente che economicamente e finanziariamente), avrebbe richiamato l’interesse di qualche guru dell’economia, specialmente di sinistra», scrive Piero Pagliani. «Invece niente», nessuno si è accorto dell’enormità che sta avvenendo. In compenso, il magnate statunitense Steve Forbes ha definito la “demonetizzazione” indiana «nauseante e immorale, una rapina di massa», paragonandola alla politica di sterilizzazione forzata voluta da Indira Gandhi. Tutto è partito l’8 novembre scorso, quando il governo nazionalista indù retto da Narendra Modi ha dichiarato fuori corso tutte le banconote da 500 e 1.000 rupie (ovvero 7 e, rispettivamente, 14 euro). «Questo è equivalso a mettere fuori corso circa l’80% del denaro circolante».

Gli indiani, ricorda Pagliani su “Megachip”, avevano due settimane di tempo per cambiare le loro banconote ormai “illegali” con quelle da 500 e 2.000 rupie, «facendo esasperanti code agli sportelli bancari dove sono morte decine di persone per infarto o collasso, o prelevare ai bancomat». Prelievi comunque limuitati, «solo fino a uno striminzito tetto massimo di 2.000 rupie, poi elevato a 4.000», cioè 55 euro. Pagliani denuncia «gli effetti di questa violenta demonetizzazione sui milioni di piccoli operatori economici che costituiscono il fitto tessuto economico indiano». Considera l’operazione «un enorme regalo alle banche che ha aspetti di sadismo sociale in una nazione di milioni di piccoli operatori economici». Si parla infatti di «centinaia e centinaia di milioni di persone danneggiate e a volte minacciate fin nella loro esistenza fisica e in quella dei loro familiari». In pratica, almeno 800 milioni di persone «gettate nella difficoltà e a volte nella disperazione», che oltretutto «sono solo un’avanguardia, una prima tranche». Infatti, «la mossa di Narendra Modi è un esperimento in grandissimo stile di un piano ben più generale portato avanti da potenti interessi radicati negli Stati Uniti e con vaste diramazioni internazionali».

L’operazione, continua Pagliani, «è parte della politica di partnership strategica tra Usa e India, fortemente voluta dal presidente uscente Barack Obama». Più precisamente, «costituisce uno dei protocolli di cooperazione firmati tra il ministero indiano delle finanze e l’agenzia governativa statunitense Usaid». La manovra, aggiunge Pagliani, fa capo alle linee di azione della “Better Than Cash Alliance”, di cui fanno parte Mastercard, Visa, la Fondazione Ford e la Fondazione Gates, che agiscono anche individualmente, ad esempio proprio nell’iniziativa che ha colpito l’India. Non a caso Bill Gates era in visita in quel paese proprio in quei giorni e rilasciava dichiarazioni di sostegno alla demonetizzazione: «La moneta di plastica è il futuro in India». Ma uno dei padrini nascosti di questa manovra, spiega Pagliani, è Raghuram Rajan, governatore della Reserve Bank indiana fino a due mesi prima dell’annuncio a sorpresa che ha scioccato gli indiani. «Questo signore ha un passato come economista capo all’Fmi, è professore di economia all’Università di Chicago (culla accademica del neoliberismo) ed è membro del Gruppo dei Trenta» dove, spiega Norbert Haering, «rappresentanti di alto livello delle maggiori istituzioni commerciali finanziarie a livello mondiale condividono opinioni e piani coi presidenti delle più importanti banche centrali, a porte chiuse e senza nessun verbale».

Raghuram Rajan è considerato un possibile successore di Christine Lagarde alla guida dell’Fmi: «Si sta conquistando il merito sul campo». Aggiunge Pagliani: «Se consideriamo il tessuto produttivo e commerciale indiano, il fatto che il 97% delle transazioni sono eseguite in contante e che solo il 55% degli indiani ha un conto in banca (e ci sono aree dove le banche sono lontanissime fisicamente) e che quei conti sono pochissimo movimentati, si capisce la misura del disastro indotto-voluto da questa manovra». Un disastro mistificato da slogan come “inclusione finanziaria” e “inclusione digitale”. «Insomma, il solito “nuovo che avanza”, il progresso, come ai tempi di Enrico VIII ed Elisabetta I lo erano le “enclosure” che gettavano nella miseria e nella disperazione i contadini inglesi che potevano solo andare a mendicare nelle città per farsi impiccare a schiere per via delle draconiane leggi contro l’accattonaggio e il vagabondaggio». Karl Marx sosteneva che la cosiddetta “accumulazione originaria” del capitale si ripete ciclicamente, come al solito «grondante sangue e sporcizia dalla testa ai piedi, da ogni poro». Il perspicace “Hindustan Times titolava”: «Modi è come la regina Antonietta che diceva: Se non avete il pane mangiate le brioches».

Quali sono i vantaggi che le élite mondializzate intendono trarre dalla demonetizzazione forzata che per ora vediamo all’opera in India? Almeno tre. Il primo: «Ogni cittadino, almeno nelle intenzioni, sarà costretto a imprestare il grosso del denaro che possiede e che guadagna alle banche. Semplicemente perché per poter usare la “moneta di plastica” deve avere un conto in banca, e ogni volta che versa sul conto in banca fa un prestito alla banca stessa. Un drenaggio di ricchezza verso i soliti noti che già posseggono la quasi totalità del pianeta Terra». Secondo, la tracciabilità: «Ovvero il controllo capillare. Praticamente su tutto. Un potere immenso di sorveglianza». Terzo vantaggio, per l’élite finanziaria: «Il controllo tecnico-politico delle transazioni e quindi delle grandi istituzioni finanziarie e di conseguenza un controllo politico dei governi che fanno loro riferimento». In fondo, conclude Pagliani, a Maria Antonietta «tagliarono la testa per molto meno».

Non mi è chiaro se le banche sono pubbliche e quindi a CONTROLLO STATALE, poi dipende se c'è uno stato democratico o a controllo USA.
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Da Fellini alle bombe riminesi, i dossier segreti della Cia
4/30

Il Resto del Carlino
LORENZO MUCCIOLI5 ore fa

Rimini, 29 gennaio 2017 - Federico Fellini monitorato dai servizi segreti americani. E’ uno dei capitoli più sorprendenti emersi nei 12 milioni di documenti che la Cia ha recentemente desecretato e reso disponibili sul suo sito internet. Basta un semplice click per avere accesso a decine di rapporti di intelligence redatti a cavallo tra il 1945 e il crollo del Muro di Berlino. Alcuni riguardano Rimini e, come nel caso di Fellini, il suo cittadino più illustre. Storie che ci riportano al periodo della Guerra Fredda.
Navigando sul portale si scoprono numerose menzioni ad uno dei riminesi più famosi di sempre: Federico Fellini. Il nome del regista compare in una relazione datata agosto 1975 sulla situazione politica-economica dell’America Latina. La Cia segnala la presenza del regista a un convegno su esoterismo e spiritualismo, in programma a Bogotà, la capitale della Colombia. È noto che il tema del paranormale esercitasse un grande fascino sull’autore di Amarcord. Al congresso parteciperanno anche il Premio Nobel Gabriel García Márquez, il mentalista Uri Geller e l’antropologo Carlos Castaneda.
La Cia fa notare che «l’occultismo ha radici profonde nella cultura latino americana, ed investe anche alcuni aspetti della vita politica». Un altro documento, in questo caso risalente al maggio del 1984, parla invece dell’indagine sulla misteriosa fuga di un gerarca nazista, Walter Rauff. Arrestato dal controspionaggio americano nel 1945, l’ufficiale sarebbe stato rinchiuso nel Centro di detenzione delle Forze Alleate di Rimini, dal quale sarebbe inspiegabilmente scappato nel dicembre dell’anno successivo. Dopo aver raggiunto Roma, ed essere rimasto in clandestinità per un intero anno, Rauff sarebbe quindi riuscito a raggiungere il Cile. Della vicenda si occupò anche un articolo del Washington Post, allegato al rapporto della Cia.
Digitando ‘Rimini’ nel motore di ricerca, ci si imbatte in una nota confidenziale del 9 febbraio 1949. In essa si fa riferimento all’acquisto di decine di ‘Mas’, motoscafi armati siluranti, e di ‘Mtm’, i cosìddetti barchini esplosivi, da parte di alcuni riminesi titolari di aziende nautiche. I mezzi d’assalto, utilizzati dalla Marina Italiana durante la Seconda guerra mondiale, al termine del conflitto sarebbero stati presi in carico dall’Arar (Azienda rilievo alienazione residuati), finendo solo in un secondo momento a Rimini, e più precisamente nella zona del porto. Difficile che dire che fine abbiano fatto.
Non mancano i riferimenti alla base aeronautica di Miramare. «A Rimini – si legge nel rapporto, che riprende un articolo dell’Espresso – sono presenti alcuni aerei in costante stato di allerta, con a bordo bombe nucleari pronte a essere sganciate». Nella base sono inoltre presenti «gli aeroplani F104 dell’Aeronautica militare, i famosi Starfighters, capaci di trasportare bombe nucleari per un peso di 1.500 chili».
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