Ponti che crollano.

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paolo11
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Ponti che crollano.

Messaggio da paolo11 »

Cominciano ad essere troppi i ponti che crollano.Basta dare i lavori alla mafia.Cerchiamo ditte all'estero se qui in Italia deve passare tutto tramite mafia e burocrati.Ora i responsabili dei lavori devono andare in galera non con i 3 anni di abbuono ma almeno dieci anni di carcere.Cominciamo a modificare queste leggi fatte dat partiti che ci govennano da decenni, avendo distrutto questa povera Italia. BASTA.
ciao
Paolo11
UncleTom
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Re: Ponti che crollano.

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Basta dare i lavori alla mafia
paolo11


IN SENSO ASSOLUTO : SONO D'ACCORDO

IN SENSO RELATIVO(= PRATICO) : UN PO' MENO. MI CHIEDO E VI CHIEDO:

COME????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????
UncleTom
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Re: Ponti che crollano.

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INCHIESTA
Perché le strade italiane stanno crollando (e sì, c'entrano le tangenti sugli appalti)
Da nord a sud, l’era del cemento depotenziato in cambio di mazzette ai politici inizia a presentare il conto. Un esempio? Sulla rampa che ha ceduto a Fossano fu pagata una stecca di due miliardi di lire
DI GIANFRANCESCO TURANO
02 maggio 2017
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Il crollo del cavalcavia di Fossano
Il viadotto crollato a Fossano contiene il paradosso strutturale delle grandi opere italiane. La sua ragion d’essere come pretesto per distribuire mazzette e, in una parola, la sua inutilità hanno evitato che si perdessero vite umane.

Al chilometro 61,3 della statale 231 che collega Asti e Cuneo passano, secondo uno studio per il prolungamento della tangenziale, «circa 300 veicoli equivalenti per direzione nell’ora di punta». Fanno cinque macchine al minuto. Una ogni dodici secondi nel momento del traffico più asfissiante.

Per fortuna quando il viadotto si è inginocchiato, bella espressione tecnica per indicare il cedimento dei cavi di precompressione, erano da poco passate le 14.30 di martedì 18 aprile, il giorno dopo Pasquetta. Gli unici esseri viventi nei dintorni erano i carabinieri che avevano parcheggiato la loro Fiat sotto il ponte per procedere ai controlli stradali. Per fortuna erano distanti dal mostro di cemento.

Forse i militi saranno contenti di sapere che sarà un uomo dell’Arma, il generale Roberto Massi, nominato responsabile delle tutela aziendale dell’Anas il primo ottobre 2016, a guidare la commissione d’inchiesta interna ordinata dal numero uno della società pubblica, Gianni Vittorio Armani. Di sicuro saranno felici di averla scampata e di non essere entrati nell’elenco di vittime per crolli simili che hanno provocato due morti sull’A 14 il 10 marzo 2017 e un morto ad Annone in Brianza, sulla Milano-Lecco, il 28 ottobre 2016.

Mentre si celebrano i 25 anni da Tangentopoli , e chi sa che ci sarà da celebrare, l’età d’oro di cementi e acciai depotenziati in cambio dell’arricchimento dei politici inizia a presentare il conto. Non c’è bisogno di andare a caccia di simboli a ogni costo per rilevare che i lavori di Fossano, finanziati nel 1990 per 40 miliardi di lire nel quadro delle Colombiadi di Genova del 1992, sono entrati in esercizio a 500 anni dalla scoperta dell’America e sono coetanei di Mani Pulite. Non è una semplice coincidenza, come si vedrà.

In attesa che la Procura di Cuneo guidata da Francesca Nanni e che gli ingegneri dell’Anas Achille Devitofranceschi e Massimo Simonini spieghino perché il viadotto è crollato, qualche fatto certo si può elencare.
Numero uno: il viadotto di Fossano era stato controllato dai tecnici dell’Anas la stessa mattina in cui è crollato. Il cemento era perfetto e non mostrava quei segni di infiltrazione che possono erodere la tenuta dei cavi nascosti all’interno della struttura. Del resto, l’opera era giovane. Non c’era motivo per cui l’Anas dovesse inserirla nell’elenco della manutenzione straordinaria sulla quale insiste molto la gestione attuale per disposizione del ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio.
Numero due: l’asse stradale è rimasto sottoutilizzato perché è privo di svincoli e di collegamenti con i tracciati vicini.
Numero tre: le ipotesi sulle ragioni del crollo, in questa fase, si limitano a un errore della progettazione oppure al cedimento dei cavi interni.
Numero quattro: fra il 1990 e il 1991 sull’opera sono stati pagati 2 miliardi di lire in tangenti, pari al 5 per cento dell’importo della commessa, all’allora ministro dei Lavori Pubblici e consigliere di amministrazione dell’Anas, il democristiano Giovanni Prandini.
Numero cinque: a pagare è stata l’impresa capogruppo dell’appalto, l’Itinera costruzioni generali di Marcellino Gavio, che ha versato la tangente attraverso il direttore generale dell’Anas, e fedelissimo di Prandini, Antonio Crespo.

Stabilire una relazione diretta causa-effetto fra la corruzione umana e la corruzione dell’acciaio è, al momento, improprio. Bisognerà che i tecnici, quelli dell’Anas e quelli del tribunale, completino il lavoro.

Dall’interno della società si parla di mesi, forse un anno. Ma dipende. Com’è accaduto con lo smottamento del viadotto Scorciavacche sulla Palermo-Agrigento a capodanno del 2015, la magistratura ha la precedenza.
In questo momento, l’Anas ha subito il sequestro di tutto il materiale relativo alla commessa. Fonti della società dicono di non potere ricostruire chi sia stato a progettare l’opera e chi fosse in associazione di impresa con Itinera per la realizzazione dell’appalto da 40 miliardi di lire. Men che meno si sa chi siano stati i fornitori dei materiali, a maggior gloria della trasparenza.

L’Espresso ha chiesto lumi all’attuale guida del gruppo di Castelnuovo Scrivia (Alessandria), Beniamino Gavio, figlio di Marcellino. «Stiamo ricostruendo i passaggi della vicenda ma non è semplice. Dopo venticinque anni non c’è più nessuno dell’epoca ancora in azienda», dice Gavio da San Paolo del Brasile dove sta proseguendo la sua campagna di acquisizioni autostradali iniziata con Ecorodovias a dicembre 2015.

Il traffico di mazzette è cambiato, come il modo di versarle. Dalle valigette ai politici si è passati a consulenze, prestanomi e affidamento lavori. Un nuovo sistema basato su triangolazioni e più difficile da smantellare
La perizia interna del gruppo Gavio per adesso ha messo in evidenza che il primo lotto della statale fu completato nel 1993. In seguito c’è stata una sospensione dell’opera, dovuta alla mancanza di finanziamenti da parte dello Stato. Dopo un lungo periodo in cui i viadotti di Fossano sono rimasti sospesi nel nulla, alla fine degli anni Novanta è stato terminato anche il secondo lotto. Se si accertasse che il danno infrastrutturale è stato provocato dall’interruzione dei lavori, si potrebbe configurare una corresponsabilità fra la stazione appaltante (Anas) e l’impresa appaltatrice.

L’incertezza del quadro generale non depone a favore di una rapida soluzione del caso. Del resto, anche nel caso dello Scorciavacche, dov’è intervenuta la Procura di Termini Imerese, a oltre due anni dall’incidente non esiste un’attribuzione di responsabilità certa fra Anas e le imprese che hanno realizzato i lavori.

Per il crollo di Annone, sabato 29 aprile c’è stata una marcia per ricordare la tragedia ma dopo sei mesi ancora non sono stati divulgati i risultati della perizia disposta dal tribunale.
Il crollo del cavalcavia di Annone...
Il crollo del cavalcavia di Annone Brianza nel lecchese

Per il viadotto di Fossano l’iter non potrà essere tanto diverso. La commissione guidata dal generale Massi, ex comandante provinciale dell’Arma a Torino e direttore degli affari generali al ministero dello Sviluppo dal 2009 al 2011 su chiamata di Claudio Scajola, avrà parecchio materiale da analizzare.

Flashback su Tangentopoli
Nell’epopea di Mani Pulite la statale 231 di Santa Vittoria è una nota a margine dentro l’ampio paragrafo delle tangenti sui lavori pubblici, sul ministero guidato dal bresciano Prandini e sull’Anas che ancora era saldamente nel controllo della holding pubblica Iri, guidata dall’andreottiano di ferro Franco Nobili.

Crespo è fra i primi indagati dell’allora ente per le strade. Dopo una breve latitanza a Parigi, a marzo del 1993 si consegna al pool di magistrati romani (Giancarlo Armati, Sante Spinaci, Giorgio Castellucci e Cesare Martellino) che indagano sugli appalti delle Colombiadi e dei mondiali di calcio di Italia ’90. Gli interrogatori di Crespo sono un atto di accusa a Prandini e, nell’estate successiva, si trasformano nella domanda di autorizzazione a procedere nei confronti dell’ex ministro, del deputato dc Francesco Cafarelli, dello stesso Crespo e di un giovane consigliere del Comune di Roma, destinato a una bella carriera. È Lorenzo Cesa, prandiniano in una capitale dove dominano i colonnelli del Divo Giulio, personaggi a forti tinte con soprannomi da Romanzo Criminale: “lo squalo” Vittorio Sbardella e “il biondo” Giorgio Moschetti.

Il 27 luglio il collegio del tribunale di Roma presieduto da Ivo Greco concede l’autorizzazione a procedere nei confronti di Prandini, Cafarelli, Cesa e Crespo con questa motivazione: “si può concludere che il ministro Prandini con il concorso di alti dirigenti dell’Anas abbia ideato, organizzato ed attuato un vero e proprio sistema concussorio nel conferimento degli appalti Anas”.

L’elenco comprende 17 episodi. Il più noto è quello della cessione dell’hotel Rosa Camuna di Borno, di proprietà del ministro e della sua famiglia, venduto al costruttore Antonio Baldi con la mediazione di Cesa per 7 miliardi di lire. Per Baldi era un “prezzo esorbitante”. Ma l’imprenditore si era sentito rispondere che “se voleva i lavori dell’Anas, quello e non altro doveva essere il prezzo”.

Il costruttore, che aveva bisogno assoluto di rimpinguare il portafoglio ordini della sua società (Baldi-Carriero), aveva acquistato l’albergo in Val Camonica a marzo del 1990. Prandini era stato di parola. Nei due anni successivi l’impresa di Baldi aveva ottenuto lavori in affidamento per 670 miliardi di lire.

In quanto alla tangenziale di Fossano, la procedura era stata la stessa. L’Itinera di Marcellino Gavio aveva ottenuto l’assegnazione dei lavori dall’Anas il 26 luglio 1990 insieme a un pacchetto di altre opere legate alle Colombiadi. La contropartita, come si legge nei documenti giudiziari dell’epoca, era consistita nella somma di “circa 2 miliardi di lire in contanti in più riprese, richiesta e ricevuta dal Crespo per conto del ministro Prandini, con la minaccia di non affidare i lavori alla suddetta impresa, cagionando al medesimo Gavio un danno patrimoniale di rilevante entità”.

Per l’imprenditore alessandrino, scomparso nel novembre 2009, la fase terminale della Prima Repubblica è coincisa con gli anni della grande espansione. Partito insieme al fratello Pietro da una semplice impresa di trasporti che prelevava la ghiaia sul letto del Po per fornirla alle imprese edili, Gavio era diventato lui stesso costruttore acquisendo Itinera negli anni Sessanta e si era ingrandito prima su base locale, poi su base nazionale grazie ai suoi appoggi politici a 360 gradi, dalla Dc al Pci.

Tutti condannati e tutti assolti
Gli anni dell’appalto di Fossano sono quelli in cui Gavio, che si è affidato alla Mediobanca di Enrico Cuccia, inizia a fare incetta di concessioni autostradali, prima rilevando la Torino-Milano dalla Fiat, poi con la Milano-Serravalle, il tracciato più vicino a casa, con il terzo valico dell’alta velocità Milano-Genova e con il nuovo progetto affidato dall’Anas della Asti-Cuneo. Insieme ai pedaggi il gruppo alessandrino acquista da Salvatore Ligresti anche l’impresa padovana Grassetto che poi assorbirà Itinera costruzioni generali, da non confondere con l’Itinera che ancora oggi è in attività.

Durante Tangentopoli, non sempre Gavio e i suoi sono stati considerati semplici vittime o concussi, come si diceva nelle cronache giudiziarie del tempo. Il manager operativo di Gavio, Bruno Binasco, è stato più volte arrestato soprattutto per i suoi rapporti con l’area delle cooperative rosse e con il funzionario del Pci Primo Greganti, passato alla storia come “il compagno G”.

Lo stesso fondatore del gruppo, raccolto sotto la holding Argo Finanziaria, è stato latitante a Montecarlo per alcuni mesi dall’agosto 1992. Ma nessuno lo ha risarcito delle tangenti pagate per le Colombiadi, come nessuno ha risarcito il contribuente.

Il processo sui 35 miliardi di lire di tangenti Anas su 750 miliardi di lavori si è concluso in modo trionfale per gli imputati. Dopo le condanne in primo grado a Prandini, Crespo, Cesa, nel giugno 2003 la corte d’appello di Roma ha annullato la sentenza e rimandato gli atti alla Procura della repubblica in base a un verdetto con valore retroattivo della Corte costituzionale dove si stabiliva che il tribunale dei ministri non poteva fungere da pubblica accusa e da gip contemporaneamente.

Nel 2005 il gip di Roma ha dichiarato il non luogo a procedere definitivo perché gli atti erano inutilizzabili. Nello stesso anno è sopraggiunta la prescrizione grazie ai nuovi criteri fissati dal governo Berlusconi che, in quella fase, aveva come alleato di governo l’Udc dell’europarlamentare Cesa, eletto segretario nazionale proprio nel 2005.

Incidenti e fusioni
Benché l’attuale dirigenza dell’Anas non abbia responsabilità nelle vicende del crollo di Fossano, l’incidente non poteva avvenire in un momento peggiore. La società pubblica, dopo anni di annunci a vuoto, si sta concentrando sulla fusione con le Ferrovie dello Stato che era uno degli obiettivi strategici fissati dall’allora premier Matteo Renzi ad Armani, all’atto della nomina due anni fa. La fusione mira a portare l’Anas, in quanto controllata da un’azienda di diritto privato, fuori dal perimetro dell’amministrazione pubblica per recuperare uno 0,3 per cento nel rapporto deficit-pil.

L’operazione, in sé tutt’altro che semplice, potrebbe risentire delle pressioni degli amministratori locali che, a partire dal governatore piemontese Sergio Chiamparino, hanno invocato controlli in serie sulle infrastrutture, anche quelle più recenti. Né si vede per quale motivo i controlli straordinari sull’ordinario dovrebbero essere limitati al Piemonte e non estesi al resto dell’Italia.

Intensificare le verifiche significa una sola cosa: aumento dei costi. Dal punto di vista delle Fs, la fusione con l’Anas, che a differenza delle Ferrovie ha ricavi modesti, è già abbastanza mal vista in termini di impatto sul bilancio. L’effetto impiombamento contabile, che finora è stato il maggiore responsabile della mancata fusione, è stato oggetto di lunghe trattative in sede ministeriale.

Il problema maggiore, ossia il contenzioso da 9 miliardi di euro dell’Anas con le imprese, sembrava essere stato superato con una megasanatoria da 700 milioni di euro complessivi gestita riesumando il vecchio criterio dell’accordo bonario, un sistema che ha creato un’emorragia finanziaria colossale da parte dello Stato in favore delle imprese.

Ma, a parte il danno all’immagine presentato dal viadotto piemontese afflosciato sull’asfalto sottostante, nell’insieme è improbabile che l’incidente rimetta in discussione la nuova conglomerata Fs-Anas. Purtroppo è altrettanto difficile che si possano effettuare i controlli necessari sulle opere ereditate dall’età di Tangentopoli, ammesso che Tangentopoli si possa inquadrare fra un inizio e, soprattutto, una fine. Proverbialmente, è come cercare un ago nel pagliaio, anche se di aghi sembrano essercene parecchi.

In quanto a rimettere in piedi il viadotto di Fossano non c’è fretta. Tanto non ci passava nessuno neanche prima.
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Re: Ponti che crollano.

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LA LUNGA AGONIA DI UNA REPUBBLICA NATA DALLA RESISTENZA AL FASCISMO

Quando il nuovo fascismo sarà alle porte ricordiamoci di chi gliele avrà fatte trovare aperte”.
Roberto Saviano





mag 2017 17:59

BUON COMPLEANNO, TANGENTOPOLI!


- PERCHÉ LE STRADE ITALIANE STANNO CROLLANDO? PERCHÉ SONO PASSATI 25-40 ANNI DALLE OPERE PUBBLICHE INNAFFIATE DA TANGENTI E COSTRUITE CON CEMENTO SCADENTE. CHE ORA PRESENTANO IL CONTO


- L'ULTIMO ESEMPIO? IL VIADOTTO CROLLATO A FOSSANO, PER CUI LA BUONANIMA DI MARCELLINO GAVIO PAGÒ 2 MILIARDI DI MAZZETTE


vedi foto:
http://www.dagospia.com/rubrica-3/polit ... 147281.htm


Estratto dell'articolo di Gianfrancesco Turano per http://espresso.repubblica.it/inchieste ... =HEF_RULLO



Il viadotto crollato a Fossano contiene il paradosso strutturale delle grandi opere italiane. La sua ragion d’essere come pretesto per distribuire mazzette e, in una parola, la sua inutilità hanno evitato che si perdessero vite umane.

Al chilometro 61,3 della statale 231 che collega Asti e Cuneo passano, secondo uno studio per il prolungamento della tangenziale, «circa 300 veicoli equivalenti per direzione nell’ora di punta». Fanno cinque macchine al minuto. Una ogni dodici secondi nel momento del traffico più asfissiante.

Per fortuna quando il viadotto si è inginocchiato, bella espressione tecnica per indicare il cedimento dei cavi di precompressione, erano da poco passate le 14.30 di martedì 18 aprile, il giorno dopo Pasquetta. Gli unici esseri viventi nei dintorni erano i carabinieri che avevano parcheggiato la loro Fiat sotto il ponte per procedere ai controlli stradali. Per fortuna erano distanti dal mostro di cemento.


Forse i militi saranno contenti di sapere che sarà un uomo dell’Arma, il generale Roberto Massi, nominato responsabile delle tutela aziendale dell’Anas il primo ottobre 2016, a guidare la commissione d’inchiesta interna ordinata dal numero uno della società pubblica, Gianni Vittorio Armani. Di sicuro saranno felici di averla scampata e di non essere entrati nell’elenco di vittime per crolli simili che hanno provocato due morti sull’A 14 il 10 marzo 2017 e un morto ad Annone in Brianza, sulla Milano-Lecco, il 28 ottobre 2016.

Mentre si celebrano i 25 anni da Tangentopoli , e chi sa che ci sarà da celebrare, l’età d’oro di cementi e acciai depotenziati in cambio dell’arricchimento dei politici inizia a presentare il conto. Non c’è bisogno di andare a caccia di simboli a ogni costo per rilevare che i lavori di Fossano, finanziati nel 1990 per 40 miliardi di lire nel quadro delle Colombiadi di Genova del 1992, sono entrati in esercizio a 500 anni dalla scoperta dell’America e sono coetanei di Mani Pulite. Non è una semplice coincidenza, come si vedrà.


In attesa che la Procura di Cuneo guidata da Francesca Nanni e che gli ingegneri dell’Anas Achille Devitofranceschi e Massimo Simonini spieghino perché il viadotto è crollato, qualche fatto certo si può elencare.


Numero uno: il viadotto di Fossano era stato controllato dai tecnici dell’Anas la stessa mattina in cui è crollato. Il cemento era perfetto e non mostrava quei segni di infiltrazione che possono erodere la tenuta dei cavi nascosti all’interno della struttura. Del resto, l’opera era giovane. Non c’era motivo per cui l’Anas dovesse inserirla nell’elenco della manutenzione straordinaria sulla quale insiste molto la gestione attuale per disposizione del ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio.


Numero due: l’asse stradale è rimasto sottoutilizzato perché è privo di svincoli e di collegamenti con i tracciati vicini.


Numero tre: le ipotesi sulle ragioni del crollo, in questa fase, si limitano a un errore della progettazione oppure al cedimento dei cavi interni.


Numero quattro: fra il 1990 e il 1991 sull’opera sono stati pagati 2 miliardi di lire in tangenti, pari al 5 per cento dell’importo della commessa, all’allora ministro dei Lavori Pubblici e consigliere di amministrazione dell’Anas, il democristiano Giovanni Prandini.

Numero cinque: a pagare è stata l’impresa capogruppo dell’appalto, l’Itinera costruzioni generali di Marcellino Gavio, che ha versato la tangente attraverso il direttore generale dell’Anas, e fedelissimo di Prandini, Antonio Crespo.


Stabilire una relazione diretta causa-effetto fra la corruzione umana e la corruzione dell’acciaio è, al momento, improprio. Bisognerà che i tecnici, quelli dell’Anas e quelli del tribunale, completino il lavoro.


Dall’interno della società si parla di mesi, forse un anno. Ma dipende. Com’è accaduto con lo smottamento del viadotto Scorciavacche sulla Palermo-Agrigento a capodanno del 2015, la magistratura ha la precedenza.

In questo momento, l’Anas ha subito il sequestro di tutto il materiale relativo alla commessa. Fonti della società dicono di non potere ricostruire chi sia stato a progettare l’opera e chi fosse in associazione di impresa con Itinera per la realizzazione dell’appalto da 40 miliardi di lire. Men che meno si sa chi siano stati i fornitori dei materiali, a maggior gloria della trasparenza.


L’Espresso ha chiesto lumi all’attuale guida del gruppo di Castelnuovo Scrivia (Alessandria), Beniamino Gavio, figlio di Marcellino. «Stiamo ricostruendo i passaggi della vicenda ma non è semplice. Dopo venticinque anni non c’è più nessuno dell’epoca ancora in azienda», dice Gavio da San Paolo del Brasile dove sta proseguendo la sua campagna di acquisizioni autostradali iniziata con Ecorodovias a dicembre 2015.

Il traffico di mazzette è cambiato, come il modo di versarle. Dalle valigette ai politici si è passati a consulenze, prestanomi e affidamento lavori. Un nuovo sistema basato su triangolazioni e più difficile da smantellare

La perizia interna del gruppo Gavio per adesso ha messo in evidenza che il primo lotto della statale fu completato nel 1993. In seguito c’è stata una sospensione dell’opera, dovuta alla mancanza di finanziamenti da parte dello Stato. Dopo un lungo periodo in cui i viadotti di Fossano sono rimasti sospesi nel nulla, alla fine degli anni Novanta è stato terminato anche il secondo lotto. Se si accertasse che il danno infrastrutturale è stato provocato dall’interruzione dei lavori, si potrebbe configurare una corresponsabilità fra la stazione appaltante (Anas) e l’impresa appaltatrice.

L’incertezza del quadro generale non depone a favore di una rapida soluzione del caso. Del resto, anche nel caso dello Scorciavacche, dov’è intervenuta la Procura di Termini Imerese, a oltre due anni dall’incidente non esiste un’attribuzione di responsabilità certa fra Anas e le imprese che hanno realizzato i lavori.

Per il crollo di Annone, sabato 29 aprile c’è stata una marcia per ricordare la tragedia ma dopo sei mesi ancora non sono stati divulgati i risultati della perizia disposta dal tribunale.
UncleTom
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Re: Ponti che crollano.

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Crollano i ponti, l’Italia dell’euro non ha i soldi per ripararli


Scritto il 27/5/17 • nella Categoria: segnalazioni Condividi




Tra le tante cose che crollano, nell’Italia ridotta in bolletta dal “patto di stabilità” imposto dall’Eurozona, ci sono anche i ponti. Nel 2015, ricorda il “Fatto Quotidiano”, toccò al viadotto Scorciavacche sulla Palermo-Agrigento, poi al ponte Himera sulla A19 e ancora ai cavalcavia di Annone in provincia di Lecco e a quello di Camerano vicino ad Ancona, venuto giù pochi mesi fa causando la morte di due coniugi. Fino al viadotto “La Reale” della tangenziale di Fossano, crollato lo scorso 18 aprile e per il quale sono sotto inchiesta 8 persone. In alcuni casi, ammette il presidente dell’Anas, Gianni Vittorio Armani, il cattivo stato di manutenzione è la concausa del crollo. «Pesano anche i vizi in fase di costruzione, gli errori di cantiere e, nel caso di Annone, i ripetuti trasporti eccezionali con carichi molto superiori alla portata della struttura», scrive Andrea Tundo sul “Fatto”. «Ma la manutenzione insufficiente un ruolo lo ha. Soprattutto perché i soldi per farla non bastano: servirebbero 2,5 miliardi l’anno, ma gli ultimi stanziamenti si fermano a 1,1 miliardi l’anno fino al 2019. Questo in un paese in cui, secondo gli esperti, la maggior parte dei ponti sta per arrivare alla fine del suo ciclo di “vita in sicurezza”».

Lo stesso Armani riconosce che al primo posto tra le “priorità aziendali” dell’ente nazionale strade c’è il recupero del «rilevante gap manutentivo accumulato negli anni». Ma per gli oltre 26.000 chilometri di strade gestite dall’Anas (con un totale di 11.744 viadotti) servono molti soldi. E nonostante il sensibile aumento degli stanziamenti nel 2016 e un piano per il futuro che si preannuncia ancora più corposo, i fondi continuano a non bastare. L’Italia spende assai meno di quanto sarebbe necessario: «C’è ancora una distanza molto elevata tra il fabbisogno e quanto abbiamo a disposizione per la manutenzione straordinaria», conferma al “Fatto” l’ingegnere Fulvio Soccodato, responsabile dell’assetto rete di Anas: «Rileviamo un fabbisogno medio di 2,5 miliardi all’anno per la messa in sicurezza e il miglioramento della rete stradale, mentre il nuovo piano degli investimenti ne ha stanziati 1,1 l’anno per il triennio 2017-19». Una cifra «due anni fa inimmaginabile», ma che «non basta per coprire le necessità». Inoltre occorrono «imprese preparate, una normativa che ci aiuta e un know-how che va costruito anche nel mondo accademico, visto che le università insegnano a costruire i ponti, non a ripararli».

L’Italia, aggiunge il “Fatto”, si sta avvicinando a un punto di rottura: «Buona parte della rete infrastrutturale di valenza nazionale è infatti stata concepita tra gli anni Settanta e Ottanta e il ritardo accumulato nella manutenzione non è smaltibile in breve tempo». Lo stesso Soccodato parla di «gap ventennale» che, nonostante il piano pluriennale degli investimenti preveda un recupero dell’arretrato, «è impossibile da smaltire in tre anni», anche se stanno aumentando gli interventi per individuare le criticità sulle quali intervenire. In altre parole, si cerca di uscire dalla fase di emergenza per entrare in quella di prevenzione: negli ultimi anni sono stati “risistemati” 600 ponti. Interpellato sempre dal “Fatto”, il professor Pier Giorgio Malerba, docente del Politecnico di Milano, riassume così la questione: «Tutte le opere hanno un ciclo di vita. Quello dei ponti viene generalmente definito in 100 anni, se soggetti a regolari attività di ispezione e manutenzione. Di fatto, nei maggiori paesi industrializzati si è rilevato che, a causa dell’esposizione agli agenti atmosferici, dell’aumento dei transiti e di manutenzioni carenti o inefficaci, la vita media in piena sicurezza è di circa 60 anni. Questo non vuol dire che al 61esimo anno il ponte crolla, ma che è meno affidabile».

La maggior parte dei ponti italiani, continua Malerba, è stata costruita negli anni Settanta: quindi hanno raggiunto un’età critica, «che induce ad attente ispezioni e alle manutenzioni che si rendessero necessarie». Peccato però che negli anni Settanta l’Italia abbia potuto sviluppare enormemente le proprie infrastrutture ricorrendo in modo strategico alla spesa pubblica, grazie alla propria sovranità monetaria: operazione oggi proibitiva, con i vincoli sul deficit imposti da Bruxelles e addirittura l’introduzione nella Costituzione di una “follia” come il pareggio di bilancio, voluto dal governo Monti con il pieno appoggio del Pd bersaniano e di Berlusconi. Tra le dolenti note, quindi, oltre alle “buche nelle strade” che i Comuni non hanno più le risorse finanziarie per riparare, si aggiunge anche l’emergenza-ponti: mentre quelli ferroviari e autostradali sono oggetto di ispezioni e manutenzioni dallo standard che il professor Malerba definisce «molto elevato», il problema maggiore riguarda i ponti “sorvegliati” da Province e Comuni: «Non hanno i soldi, né il personale per queste attività. In molti casi non si dispone neppure di un catalogo aggiornato delle opere. Ancora una volta è un problema di fondi, ma è anche dimostrato che, per ponti di collegamento importanti, la perdita economica dovuta all’interruzione dei transiti di alcuni mesi può superare il costo del ponte stesso».

Nei risvolti della pericolosa politica di rigore c’è dunque anche il problema della sicurezza, che si ripercuote sui cittadini, e non solo. In prima linea ci sono anche le aziende, che negli appalti sono colpite dall’imposizione di ribassi d’asta sempre più forti. «C’è chi, anche tra gli stessi costruttori, ha fatto un passo indietro», racconta sempre Tundo, sul “Fatto”. «È il caso di Massimo Ferrarese che con la sua Prefabbricati Pugliesi continua ad operare in altri settori, ma non partecipa più alle gare d’appalto per la costruzione di ponti e viadotti». Spiega l’imprenditore: «Non si può pensare di affidare lavori pubblici con il 40% di ribasso d’asta, perché questo determina un effetto a cascata su tutta la filiera, dall’impresa appaltante ai subappaltatori, fino ai fornitori». Ferrarese è stato anche presidente della Provincia di Brindisi e attualmente presiede Invimit, società di gestione del risparmio del ministero dell’economia. Protesta: «Così ci sono imprese che non svolgono i lavori come dovrebbero. Non si può lesinare sui materiali, io non l’ho mai fatto e non sono disponibile a fare cose del genere, ecco perché non costruisco più ponti con le mie aziende». Concorda il professor Malerba, pensando ai recenti crolli: «Il discorso del massimo ribasso è reale. Il costo va pensato sul ciclo di vita: se si spende bene prima, si risparmia dopo per la manutenzione». Mancano gli euro, i ponti crollano. Ma intanto si continuano a tener vivi super-cantieri faraonici, come quello per l’inutile ferrovia Tav Torino-Lione.
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