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AUTOGESTIONE E DEMOCRAZIA ECONOMICA

Inviato: 19/04/2014, 13:10
da antonio77
l' introduzione di Brancaccio e Cavallo al manuale IL CAPITALE FINANZIARIO di HILFERING
il paragrafo 7 ed ultimo è fondamentale per capire la CRISI DELLA SINISTRA italiana ed europea.
la contrapposizione tra RIFORMISTI e RIVOLUZIONARI E IL RUOLO CENTRALE DELLA PIANIFICAZIONE ECONOMICA E DELLO STATO.
In questo contesto e solo in questo contesto rimane importante la capacità di costruire nuovi modelli di DEMOCRAZIA ECONOMICA .
Modelli NON alternativi alla PIANIFICAZIONE ECONOMICA ma INTEGRATIVI anche al RUOLO ECONOMICO DELLO STATO.
http://www.emilianobrancaccio.it/wp-con ... o-2011.pdf

in particolare si consiglia l' analisi politica di questo saggio, il paragrafo 7 ( ultimo).

questa cartella è a disposizione di coloro che vogliono riportare case history aziendali su AUTOGESTIONE, in Italia, in Europa e nel mondo a partire dall' ARGENTINA.

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Maflow, la fabbrica in fallimento
è stata salvata dai suoi lavoratori
Gli operai riuniti in cooperativa ora ricicleranno rifiuti high -tech. Il crac era arrivato dopo una serie di giochi finanziari finiti male. Da allora, prima la protesta poi l'autogestione. Per il momento 20 dipendenti riassunti su 320
di MATTEO PUCCIARELLI

Maflow, la fabbrica in fallimento è stata salvata dai suoi lavoratori La Maflow di Trezzano sul Naviglio
Ripartire, riutilizzare, riciclare, riappropriarsi. Sognando la rivincita.
È la storia dei lavoratori della Maflow, ex multinazionale con fabbrica a Trezzano sul Naviglio, messi in cassa integrazione nel 2010. Dopo aver occupato terreni e capannoni oggi si sono riorganizzati in una cooperativa.
L'hanno chiamata Ri-Maflow. Una vicenda che somiglia molto a quella della Innse di Lambrate e che mette insieme tutte le storture dell'economia moderna, in bilico tra lavoro e finanza; ma anche utopia e pragmatismo, perché di sfondo c'è l'ambizione di "riconquistare reddito e dignità dimostrando che la crisi può diventare un'opportunità per la socializzazione dei mezzi di produzione" spiega in termini un po' marxiani Luigi Malabarba, uno dei nuovi soci della società di mutuo soccorso.

L'azienda nasce nel 1973, si chiama Murray e fornisce elementi per impianti di servosterzo e tubi di freni, frizione, benzina delle automobili. Sono gli anni dello shock petrolifero, ma il mercato è comunque in espansione. La Murray cresce e si evolve, così entra nel campo della progettazione e costruzione di componenti per il condizionamento auto. Nel 2004 il ramo d'azienda automotive viene scorporato e ceduto a un fondo di private equity. Con il nome Maflow nel 2007 raggiunge il top: è una multinazionale a capitale italiano e può vantare 23 stabilimenti tra Europa, America e Asia. Rifornisce soprattutto un colosso come la Bmw.

Ci sarebbe da stare tranquilli - e infatti i 320 lavoratori di Trezzano lo erano - quando invece nel 2009 il Tribunale di Milano dichiara Maflow in stato di insolvenza. Trecento milioni di debito, risultato di operazioni finanziarie finite male. La Borsa che si mangia il lavoro. Dal 30 luglio 2009 la società è commissariata. Dopo la fase di amministrazione straordinaria arrivano i polacchi della Boryszew a metterci una pezza, e invece la cura si rivela peggio della malattia: assumono solo 80 dipendenti e dopo due anni vissuti a singhiozzo chiudono lo stabilimento una volta per tutte. È la morte della Maflow. Ed è lì che comincia la seconda vita dell'azienda. Parola d'ordine: autogestione.

Quando ormai era chiaro che l'avventura polacca stava volgendo al termine i lavoratori si sono auto-organizzati ripensando le strategie aziendali: passare dalle auto al riciclo dei rifiuti tecnologici. Intervengono sia il Centro per l'impiego sia Regione Lombardia, formando i cassintegrati in vista della nuova specializzazione. I 30mila metri quadrati della ex Maflow di Trezzano, di cui 14mila al coperto, adesso sono occupati dai lavoratori. Anche se la proprietà resta della Virum, costola di Unicredit. "Conviene anche alla banca affidarceli in comodato, altrimenti finirebbero abbandonati" dicono i lavoratori. Sono coperti in parte dalla cassa integrazione, non hanno affitto da pagare: l'impresa di ricominciare sembra ora possibile.

La cooperativa è stata fondata ufficialmente venerdì scorso e i primi 20 lavoratori si sono riassunti, con la speranza di crescere rapidamente. "È risarcimento sociale, la proprietà spetta
a chi ha prodotto la ricchezza" ragiona Malabarba. Un covo di pericolosi comunisti? Un operaio, Michele Morino, 43 anni e una figlia di 13, sorride: "Non ho mai frequentato ambienti rivoluzionari. Sono sempre stato un tipo mansueto e tra le righe. Qui di rivoluzionario c'è la normalità e la voglia di riprenderci il nostro futuro".
(05 marzo 2013) REPUBBLICA
http://video.repubblica.it/edizione/mil ... ef=HREC1-1

Re: AUTOGESTIONE E DEMOCRAZIA ECONOMICA

Inviato: 21/04/2014, 21:39
da antonio77
Questo sono gli ' APPUNTI DI VIAGGIO E DI RIFLESSIONE SUL FUTURO DI UN VIAGGIO IN BRASILE E IN ARGENTINA ' del compagno Luigi Fasce.

Come ci dice il compagno :

Il viaggio ha avuto tre scopi,
-turistico classico
-l'incontro vissuto con alcune realtà del Partito Socialista Argentino;
-l'immersione nelle esperienze delle “empresas recuparadas”.

Si tratta di un MIX conoscitivo e relazionale innovativo, oggi diremmo la politica tridimensionale.
in questo viaggio il compagno Luigi Fasce ha incontrato in argentina l' attuale ministro del lavoro Poletti, ma come è....... piccolo , piccolo il mondo !!!!!
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AUTOGESTIONE-COGESTIONE DELL'IMPRESA

TITOLO
Appunti di viaggio e riflessioni sul futuro 17 novembre – 6 dicembre Argentina, 7 dicembre 14 dicembre 2010 Brasile di Luigi Fasce)
DATA PUBBLICAZIONE
27/12/2010
LUOGO
Genova
Il viaggio ha avuto tre scopi,
-turistico classico
-l'incontro vissuto con alcune realtà del Partito Socialista Argentino;
-l'immersione nelle esperienze delle “empresas recuparadas”.

Il viaggio turistico
In Argentina, è cominciato con baricentro Buenos Aires e dintorni, con puntate a Tigre, Sant ‘Antonio, Rosario, La Plata, Colonia (Uruguai), e infine alle Cascate di Iguasu parte Argentina e poi parte Brasile.
In Brasile, Iguasu, Rio De Janeiro, Salvador, e San Paulo, ma solo per la partenza per l'Italia dall'aeroporto.
Il tutto nel periodo pre estivo con punte di caldo intorno ai 35 gradi. A Buenos Aires con vista sul mare, grigio, della Boca e d'intorni che in realtà è acqua dolce, fortemente inquinata, dell'imponente rio della Plata. In seguito visita alle imponenti cascate di Iguasu e infine e a Rio De Janeiro e Salvador con vista mare verde dell'oceano Atlantico e relativi bagni balneari di rito.
Allo splendido ambiente naturale si contrappone un ambiente sociale e politico abbastanza deprimente. Grandissime le disuguaglianze sociali. Povertà palpabile e scippi quotidiani. Assistenzialismo improduttivo. Stato sociale a minimi termini, con scuola pubblica poco adeguata e con ospedali pubblici inefficienti. Trasporti pubblici anche quelli cittadini gestiti da una moltitudine di privati. La rete ferroviaria inesistente pur in presenza di una estensione territoriale immensa. Tutto viaggia su gomma dal piccolo taxi (a Buenos Aires sono migliaia, una fiumana sempre in movimento, e a buon prezzo) ai camion obsoleti e per le lunghe distanze pullman di ogni genere dal più vetusto a quello può moderno. Come carburante benzina integrata da biometanolo ricavato da immense piantagioni di canna da zucchero, tutto terreno sottratto all'agricoltura. In sintesi quasi tutto è privatizzato economia e servizi pubblici.

L'incontro vissuto con la realtà del Partito Socialista Argentino
C'è stata l'occasione, peraltro annunciata fin da quando ero in Italia, di poter partecipare il giorno 20 novembre 2010 a Buenos Aires Sede Salon Versaille – Palais Rouge - Solguero 1433 alla “Conferencia politica nacional del Partido Socialista”. Evento notevole per la numerosissima partecipazione di iscritti e dirigenti proveniente da quasi l'intera Argentina che è grandissima come sappiamo è 9 volte l'Italia. E' stata annunciata la candidatura alla presidenza dell'Argentina alle elezioni dell'autunno 2011 di Hermes Binner, l'attuale presidente della Provincia di Santa Fè, in precedenza Sindaco di Rosario.
Binner come si evince dalla sua “Rasena Parlamentaria”è stato anche deputato nazionale dal 2005 al 2007. Ha introdotto la conferenza il senatore Ruben Giustiniani presidente del Partito Socialista Argentino, si sono succeduti moltissimi interventi di rappresentanti del partito delle diverse Province. Tra gli altri in audio-video c'è stato l'intervento di Pino Solanas, attualmente deputato nazionale, noto regista argentino che ha documentato con filmati vari la crisi Argentina e i percorsi di lotta dei lavoratori delle fabbriche occupate.
E' stata l'occasione di fraternizzare con moltissime compagne e compagni tra cui la rappresentante della provincia di Santa Fè Maria Elena Barbagelata e di Roberto Simiand Segretario politico della città di La Plata.
Il 4 dicembre verso la fine della permanenza a Buenos Aires abbiamo partecipato alla festa del circolo dei socialisti di La Plata incontrando diversi deputati, non solo socialisti ma di altri partiti alleati per le prossime elezioni presidenziali e in particolare il deputato Ricardo Cuccovillo.
In Argentina o trovi persone con cognome italiano, tanto delle Isole, tanto del sud, centro nord ovest-est, come abbiamo visto essere quello genovese di Barbagelata e campano di Cuccovillo o persone di tutti gli strati sociali che al 60% hanno almeno un ascendente italiano.
Senza sottacere i problemi per le alleanze – anche in questo caso c'è la rincorsa al centrodestra - per le elezioni alla presidenza dell'Argentina, un fatto positivo è certo, nella sinistra la centralità e la maggior consistenza numerica è quella del Partito socialista argentino che ovviamente fa parte dell'Internazionale Socialista.
Certo bisognerebbe sapere cosa sta facendo oggi l'Internazionale Socialista per contrastare l'attuale egemonia neoliberista-teocon globalizzata.
C'è da segnalare, grandezza territoriale a parte, la singolare analogia del presidente di Santa Fé, Hermes Binner con il nostro Nichi Vendola presidente della Puglia che sembrano possedere le stesse caratteristiche, onestà, capacità di governo, politiche progressiste e di solidarietà sociale.

L'immersione nelle esperienze delle “Empresas recuperadas”
(Alessandro Bagnulo)
Significa in sintesi un decennio di lotta dei lavoratori per la difesa del posto di lavoro che è iniziata con l'occupazione delle fabbriche, ma anche di piccole-medie imprese a causa della crisi Argentina del 2001 e che vede il coinvolgimento di circa 200 imprese (circa 10 mila occupati) con tipologia estremamente varia e di diverse dimensioni (tessili, frigoriferi, carne, latte, pasta, saponificio, motori, alberghiere, ristorazione, ecc. , per addivenire nel corso degli anni e fino all'attualità all'acquisizione legale dell'impresa sotto forma di cooperativa. Acquisizione legale consentita dalla legge nazionale n.19551 art.240 (in analogia, pare, alla nostra legge Marcora del 1985) e applicata in questi anni con particolare diligenza e supporto con programmi specifici dalla Provincia di Santa Fé. Il fenomeno in questione come già detto è stato determinato dalla spaventosa crisi economica dopo il 2001 e la lotta dei lavoratori è stato fatto sulla spinta della necessità assoluta di mantenere un posto di lavoro retribuito. Dunque per necessità virtù e non per presa di coscienza della propria condizione di lavoratori sfruttati. Comunque duecento di imprese salvate con i dieci mila lavoratori che hanno salvato il posto di lavoro e hanno mutato radicalmente le condizioni del proprio lavoro mi sembra un risultato notevole su una popolazione di circa 40 milioni ma concentrati in due o tre poli territoriali Buenos Aires, Plata, Santa Fé e solo in minima parte nell'immensa Patagonia che non si fa mancare una centrale Nucleare nonostante l'abbondanza di petrolio, biometanolo, e energia da fonte idroelettrica. Diversamente che dalla Mongolia dove in ogni “ger” (capanna) sperduta del deserto ha un pannello solare per fare funzionare lampada, tv e macchina da cucire, non ho visto un pannello solare in tutto il nostro scorrazzare tanto in Argentina tanto in Brasile, eppure il sole caliente, sebbene a sprazzi non manca. Ma neanche nelle favelas ci sono i pannelli solari, ci sono invece le parabole satellitari, le antenne televisive che, però, funzionano a energia elettrica scroccata dalla rete municipale. Certo né più né meno di certe parti di Italia. Interessante a mio avviso la comparazione tra il fenomeno “imprese recuperate” in Argentina con i salvataggi di imprese in Italia che hanno beneficiato della Legge Marcora.
(Vanda Spoto presidente della LegaCoop Campania - Dalla disoccupazione alla coop. La legge Marcora Va potenziata ? 20 gennaio 2010)
Per reperire questi dati statistici è bastato fare una ricerca su Google . Mentre ho ricavato i dati argentini dal capitolo sulle “Le imprese recuperate” del “Programma integrado de Cooperaciòn Técnica” scritto da Alessandro Bagnulo, capitolo che anche è una efficace chiara sintesi per orientarsi sul fenomeno e dalla eccellente ricerca di Carlo Lallo COOPERATIVE ARGENTINE: AUTOGESTIONE OPERAIA E FABBRICHE SENZA PADRONI Crisi e conflitti – periodico on line – 2007 che si può leggere per intero nel sito www.circolocalogerocapitini.it sotto argomento “autogestione e cogestione imprese”.
Ho avuto l'appoggio dell'Istituto di Cooperazione Economica Internazionale (ICEI) nella persona del suo presidente Alfredo Somoza, che già qui in Italia prima della partenza ha predisposto i contatti necessari con i suoi collaboratori della sede ICEI di Buenos Aires: Valentina Uccelli e Cristian Brisasco.
Ho avuto anche utili colloqui con la responsabile dell'ufficio di rappresentanza della Provincia di Santa Fè dr.ssa Barbagelata Maria già deputato al Parlamento nazionale e del dr. Gonzalo Toselli del Ministerio de la producion della Provincia di Santa Fé. Fondamentale il contatto con Alessandro Bagnulo provvidenzialmente indicato dall'ICEI di Buenos Aires. A suo dire ci sono stati in Italia una marea di articoli e anche di tesi di laurea dedicate al fenomeno dal 2001 ad oggi. Personalmente in Italia non ho riscontato tanto clamore, confesso di esserne venuto a conoscenza qualche anno dopo l'inizio delle occupazioni mediante presentazione di un filmato a Chiavari – Croce Verde - dedicato alla Zanon, fabbrica di piastrelle situata nel nord della Patagonia. Pare anche che si sia verificato un vero e proprio pellegrinaggio in Argentina di entusiasti del fenomeno “occupazione delle fabbriche”. Francamente gli echi e soprattutto l'azione politica in tal senso non li ho percepiti qui Italia. La mia ricognizione sul posto, a quasi 10 anni dall'inizio della lotta per il recupero delle imprese da parte dei lavoratori, è giunta oramai nella fase del raffreddamento dei facili entusiasmi che non intendo rinfocolare. Intendo invece verificare se queste realtà imprenditoriali gestite oramai in maniera consolidata possono essere di esempio per noi europei e in particolare per noi italiani attualmente e ancora per molto tempo sotto scacco dell'offensiva liberista che con leggi coattive ha blindato il sistema economico liberista globalizzato. In realtà in Argentina ci sono anche stati casi che dopo l'autogestione, parlo di piccole imprese, sono state rivendute a un padrone. Penso che la mentalità cooperativistica per una organizzazione aziendale per chi è stato semplice dipendente “sotto padrone” non sia cosa facile da acquisire. Mentre so per certo che in Argentina la cultura psicoanalitica è diffusa, ignoro se ci sia stata anche qualche esperienza di collaborazione di psicologi dell'organizzazione aziendale. Ecco perché per le realtà imprenditoriali che si sono consolidate sarebbe importante riuscire a capire cosa è realmente successo nel percorso che va dalla prima tappa dell'occupazione a quella finale della gestione legalizzata in cooperativa. Compito che può svolgere soltanto una istituzione importante come l'Università, Istituto di Ricerca, o magari la nostra Lega delle cooperative per verificare se i fattori di crisi sono stati di ordine giuridico, manageriale o psicologico e come sono stati risolti.


Riflessioni di attualità e sul futuro
Questo ultimo argomento mi sembra particolarmente significativo per l'attuale momento in Europa e in particolare in Italia, sebbene non ci sia la deflagrante crisi finanziaria - economica vissuta in Argentina con gli effetti sociali devastanti (oramai quasi nell'oblio), perché stiamo attualmente subendo uno strisciante subdolo attacco all’occupazione con reiterati casi di delocalizzazioni con chiusura dell'impresa e licenziamento dei lavoratori (due ultimi esempi, quello recente dell'OMSA e quello ancora in corso di Gucci).
Ritengo particolarmente importante riportare all'attenzione della sinistra queste esperienze vissute prima drammaticamente e poi, attualmente oramai con qualche anno di rodaggio fatto, una realtà importante per la possibilità di reagire dal basso all'offensiva neoliberista che distrugge le imprese per aumentare a dismisura la rendita di capitale, anche quando queste sono ancora vitali e produttive, senza tenere in alcun conto della presenza dei lavoratori ridotti alla stregua di “macchinari obsoleti”, fardello antieconomico da sostituire con mirate delocalizzazioni delle imprese in Stati con manodopera costretta a all'estremo sfruttamento.
Non dimentichiamo certamente che queste condizioni di sfruttamento globalizzato dei lavoratori sono state rese possibili dalle politiche neoliberiste-teocon della destra mondiale, cominciate da Reagan-Thatcher ma sono state colpevolmente poi continuate in Europa da Blair-Schroeder-Prodi e sono tuttora coattive mediante accordi, ieri del trattato Maastrich oggi di quello di Lisbona, che consentono di dettare leggi liberiste in ogni angolo dell'Unione Europea.
Restiamo in ansiosa attesa che il Partito socialista Europeo riprenda la sua naturale vocazione socialdemocratica in economia di concreto contrasto a politiche tanto liberiste tanto conservatrici riproponendo da un lato supervisione e controllo dell'economia, intervento diretto in alcuni settori strategici dell'economia, ma anche per calmierare il mercato andato fuori controllo, il tutto peraltro previsto da ”Art. 41 della nostra Costituzione. L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.”, e da Art. 43. “A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale.”, dunque economia mista, difesa beni e servizi pubblici e stato sociale universali ma anche difesa e allargamento dei diritti delle libertà individuali strettamente intrecciati con l'economia reale.
Pare che non si voglia capire questo nesso e si insiste con la pura e semplice politica repressiva mediante le forze dell'ordine che in alcuni Paesi prevede anche l'impiego dell'esercito, e non si vuole procedere nell'unico modo possibile per stroncare l'illegale, criminale, mercato globalizzato delle droghe che consiste nel liberalizzate le droghe leggere e legalizzare medicalizzandole quelle pesanti. Ricordo a questo proposito un esempio estremamente significativo, il mercato monopolistico della cocaina lasciato in mano alle mafie ha un “fatturato” impressionante e riesce a condizionare, anzi sta progressivamente soppiantando l'economia sana, legale con quella illegale mafiosa. Non è certo con gli interventi di polizia che si può fermare questo illegale mercato ma ponendo fine all'epoca del proibizionismo di queste sostanze così come è stato fatto con l'alcool negli anni 30 negli USA: Solo così comincerà il graduale risanamento dell'economia in buona parte del mondo ed in particolare in Italia.
Augurabili ma di là da venire gli interventi a livello globale da parte di stati a conduzione governativa socialista, dall'internazionale socialista ma anche dall'internazionale sindacale presso : G8 e G20, ONU, WTO, FMI, Banca mondiale, ILO.
E' incredibile che i partiti della sinistra, in primo luogo quello socialista che fino agli anni 80 ha svolto una efficace azione di riformismo economico (difesa di IRI, ENI, nazionalizzazione dellenergia elettrica), sociale e libertario, ma questo vale anche per gli ex comunisti prima PDdS poi DS e infine, ma oramai fuori tempo massimo per fare qualcosa di sinistra, del PD , non abbiamo contrastato le direttive dell'Unione Europea e le leggi liberiste dei governi di centrosinistra mettendosi contro i D'Alema, Amato, Ciampi, Prodi. Vale la pena di ricordare che la fase italiana dell'ultimo Craxi è stata propedeutica al neoliberismo. Purtroppo questa è l'impietosa diagnosi da cui dobbiamo forzatamente ripartire. Dobbiamo sapere che è da questa base di devastazione economico-sociale che siamo costretti a ripartire con l'azione politica efficace di contrasto.
Pensare globale e agire localmente.
Dunque, per non aspettare annichiliti una tardiva azione politica da parte di PES e dell'Internazionale Socialista di forte contrasto a livello almeno europeo e mondiale, per non ritrovarci anche in Italia a fare le stesse esperienze dai lavoratori argentini dobbiamo attrezzarci da subito per mettere in atto una capillare azione di contrasto. Come ho già avuto modo di indicare nel mio articolo “ Il punto archimedico del riformismo socialista.” e precisamente al punto “Qui intendo concentrami sulla questione del capitale che detiene i mezzi di produzione di marxiana buona memoria e i modi di trasferire ai lavoratori il capitale.”
Si tratta di colpire i punti critici del capitalismo, per le grandi aziende erodere il potere del capitale pretendendo come in Germania la Cogestione (art.46 Costituzione Italiana) e per le medie e piccole imprese, considerato il boccone mangiabile, che il capitale-lavoro faccia a meno del capitale-denaro. Lo strumento adeguato, di cui sono venuto solo di recente a conoscenza già utilmente applicato in Italia, a mio avviso molto limitatamente, per bloccare d'ora in avanti ogni possibile delocalizzazione delle nostre medie e piccole imprese è Legge Marcora Legge 27 febbraio 1985, n. 49 - Provvedimenti per il credito alla cooperazione e misure urgenti a salvaguardia dei livelli di occupazione.
Legge varata come come prescritto dalla nostra Costituzione, di cui all'Art. 45 “La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l'incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità.”
Purtroppo anche l'originaria Legge Marcora sopra citata che già dagli anni 80 stava svolgendo una rilevante azione di salvataggio di piccole imprese italiane trasformandole in produttive cooperative è stata “riveduta e corretta” secondo le liberiste direttive europee restringendo le possibilità di aiuti pubblici alle imprese fallite che avevano la necessità di trasformarsi in cooperative . Secondo l'assioma liberista imposto dalla U.E. che non si può da parte dello Stato privilegiare nell' agone della competizione libera sui mercati alcuna impresa. Proprio nella fase storica in cui le agevolazioni erano più necessarie mantenere in vita le aziende in sofferenza prima che arrivasse la crisi finanziaria della fine del 2008 e attualmente ancora in corso con i fallimenti d'impresa e con l'andazzo incontrastato delle delocalizzazioni selvagge di imprese ancora sane.
Mentre fino agli anni novanta la legge Marcora ha consentito, come sopra indicato ma anche da testimonianza diretta fattami dell'allora presidente nazionale della Lega delle Cooperative Lanfranco Turci, il recupero in Italia di numerose realtà produttive.
Occorre riprendere il cammino interrotto come peraltro già perorato recentemente dalla presidente della Lega Coop Campania, a partire da proposte di legge e di programmi regionali che vadano a integrare in questo senso le politiche del lavoro.
Occorre produrre un formidabile sostegno a ogni organizzazione che ha adottato il principio di cooperazione, mondo dell'associazionismo in generale, terzo settore, ma primariamente la Lega delle Cooperative perché è in nel campo dell'impresa economica che dobbiamo sferrare la nostra offensiva contro l'impresa privata che ha adottato principio di competitività ad ogni costo, ma sostanzialmente a spese dei lavoratori. Occorre a mio avviso riformare in senso originario o addirittura implementare la “Nuova Legge Marcora”, ma per poterla utilmente cambiare occorre prima conoscere bene le modifiche apportate e verificarne i margini di utilizzo attuali. Dalla mia ricerca ho potuto sapere quanto segue: la "nuova legge Marcora" si compone di due titoli: il primo disciplina il fondo di rotazione per la promozione e lo sviluppo della cooperazione denominato Foncooper.
Il secondo titolo è relativo all’istituzione e al funzionamento del fondo speciale per gli interventi a salvaguardia dei livelli di occupazione.
Tale secondo strumento permette ai lavoratori provenienti da imprese che hanno cessato l’attività, di costituire cooperative di produzione e lavoro sociali beneficiando di una partecipazione minoritaria al capitale e di un finanziamento da parte di una finanziaria creata appositamente dalle Centrali Cooperative.”
Bisogna assolutamente verificare l'attuale efficacia per i necessari salvataggi che in Italia si renderanno sempre più frequenti da oggi in avanti. I contatti con rappresentanti della Lega Coop sono in corso, confido di riuscire a fare presto il punto sui risultati conseguiti recentemente in Italia dalla legge Marcora modificata: individuare quale agenzia governativa nazionale se ne occupa assieme al Cfi, predisporre il monitoraggio per rilevare se e quali Regioni hanno implementato la Legge Marcora legiferando in proposito e attuato programmi con i relativi stanziamenti di fondi da assegnare alle Province che hanno la delega per le politiche del lavoro. Poi su questo argomento chiedere anche ai soggetti istituzionali preposti secondo Costituzione (Governo nazionale, regionale e amministrazione provinciale e comunale) in concreto cosa stiano facendo. Penso che la Lega delle cooperative dovrebbe essere il principale protagonista e un fortissimo alleato per sollecitare le istituzioni all'applicazione della Legge Marcora a mettere in atto un programma straordinario per la difesa della media e piccola impresa in Italia. Penso che però dovrebbero essere coinvolte anche Confapi, CNA e in generale ogni soggetto economico organizzato, comprese le Camere di Commercio come pure le Fondazioni Bancarie, nel nostro caso La Fondazione CARIGE.
In fondo si tratta valorizzare la secolare esperienza della cooperazione in Italia, e iniziare una efficace azione politico-sociale di contrasto alle politiche liberiste (peraltro anticostituzionali) dei tagli agli incentivi pubblici (statali e regionali che siano) tagli meramente ideologici, ma tanto è, non c'è articolo del titolo terzo – parte economica della Costituzione che non sia stato proditoriamente sterilizzato dalla “mano visibilissima del mercato liberista” imposto agli Stati (sovrani ?) dalle multinazionali.
All'efferato nemico neoliberista contrario a permettere di avere la possibilità di agevolare la costituzione di imprese cooperative – peraltro in adempimento della Costituzione - sopraggiunto dopo il 2000 bisogna aggiungere le forti resistenze generali di ordine ideologico ma anche di ordine psicologico che hanno ostacolato lo sviluppo delle imprese di lavoro cooperativistico. Il paradossale combinato disposto di ideologia comunista, parte maggioritaria della sinistra fino agli anni '90 e di riottosità individuale a prendersi la responsabilità di gestire in senso cooperativistico una impresa hanno creato un sottofondo culturale ostile, l'attuale deleterio pensiero individualista di cui si comincia a vedere i negativi effetti sociali, familiari. Il gravissimo sintomo individuale di questi effetti sono i ricorrenti suicidi tanto di piccoli imprenditori tanto di singoli lavoratori rimasti disoccupati.
E' causa di questa cultura l'analoga ostilità nei confronti della cogestione delle grandi fabbriche private anch'essa prevista dalla costituzione di cui a “Art. 46.
Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende.”
Bisogna riprendere lena per rimettere in agenda questi due obiettivi, peraltro come ben chiarito, decisamente sanciti dalla Costituzione Italiana.
Oggi in verità molti della sinistra anche di cultura comunista si stanno facendo difensori della Costituzione, mi dicono che Bertinotti – di recente qui a Genova mentre ero in Argentina a un convegno di SEL si è speso in questo senso. Il fortunoso casuale incontro del 3 dicembre 2010 a Rosario nella Provincia di Santa Fé con il presidente della Lega Coop Italiana Giuliano Poletti e di Massimiliano Smeriglio dell'ufficio di presidenza nazionale di SEL colà convenuti per un convegno con José Abelli e numerosi dirigenti argentini del "Movimento imprese recuperate” (con i quali abbiamo pranzato mia moglie ed io al Ristorante La Parrillia del Centro”, una delle tante imprese recuperate), così come da annuncio del 22 dicembre 2010 per cui ,sono tutti segnali che fanno ben sperare per la ripresa di questa lotta, ma che va incrementata quotidianamente con una convinta azione capillare. Bisogna riprendere il cammino interrotto dai tempi – sembrano passati secoli - di “Marghera contro Cernobbio” quando nella V^ edizione del Forum di Sbilanciamoci! Marghera, 6-9 settembre 2007 “L’IMPRESA DI UN’ECONOMIA DIVERSA Globale e locale per un modello di sviluppo dal basso, sostenibile e partecipato.” ancora si discettava ad alto livello governativo sull'argomento e vedeva presenti personaggi significativi, tra i tanti, Susan George (Vice presidente di Attac), Josè Abelli (Fondatore "Movimento imprese recuperate”, Argentina) Luciano Gallino (Presidente Fondazione responsabilità sociale di impresa), Marco Revelli (Università di Torino), Gianni Rinaldini (Segretario generale della FIOM), Paolo Ferrero (Ministro della Solidarietà Sociale), Fabio Mussi (Ministro dell’Università e della Ricerca), Alfonso Pecoraro Scanio (Ministro dell'Ambiente), Patrizia Sentinelli (Vice Ministra agli Affari Esteri), Luisa Morgantini (Vice Presidente del Parlamento Europeo), Paolo Cento, Sottosegretario al Ministero dell’Economia, Alfonso Gianni, Sottosegretario allo Sviluppo Economico.
Confido che il concetto “licenziare i padroni !” si faccia ora concreto programma della sinistra in Italia e poco importa se gli sbocchi avranno diverse forme di autogestione come già si intravede dall'esperienza Argentina (vedasi “Un'altra fabbrica è possibile di Claudio Tognonato - il manifesto del 21/04/2007 - Il nuovo modello argentino delle «fabbriche recuperate», che si oppone al neoliberismo in nome della solidarietà, si estende in altri paesi latinoamericani. E cerca accordi economici internazionali. Un incontro con Josè Abelli”), quello che è il denominatore comune delle “imprese recuperate” è mettere fuori dall'impresa produttiva il capitalista-padrone, tanto del capitale familiare in mano a pochi tanto del capitale disperso nel mondo finanziario gestito da rapaci manager.

Re: AUTOGESTIONE E DEMOCRAZIA ECONOMICA

Inviato: 25/04/2014, 19:56
da antonio77
AUTOGESTIONE-COGESTIONE DELL'IMPRESA
( DA CIRCOLO CALOGERO E CAPITINI - GENOVA)

TITOLO
LE COOPERATIVE ARGENTINE: AUTOGESTIONE OPERAIA E FABBRICHE SENZA PADRONI CARLO LALLO
DATA PUBBLICAZIONE
26/12/2010
LUOGO
Genova
CARLO LALLO
LE COOPERATIVE ARGENTINE: AUTOGESTIONE OPERAIA
E FABBRICHE SENZA PADRONI
1. - Premessa.
2. - Il MNER e il MNFRT: il neocooperativismo.
3. - Statalizzazione senza indennizzo: il modello “Bajo control obrero”.
4. - Differenze e punti in comune principali tra le
tre posizioni del neocooperativismo: tabella riassuntiva.

1. Premessa
Il movimento neocooperativistico argentino nasce all’indomani del drammatico “crash” del sistema economico argentino determinato dalle politiche liberiste messe in
campo dal governo Menem sotto dettatura dell’FMI negli anni ‘90, e della conseguente dissoluzione del tessuto sociopolitico che ha interessato l’Argentina in un periodo di interregno durato per ben due anni tra il 2001 e il 2003. I prodromi di questo movimento
cominciano a manifestarsi già nel 1996 con i primi fenomeni delle imprese recuperate, quando alcuni collettivi di lavoratori decisero di occupare le fabbriche fallite e riattivare i macchinari ricominciando la produzione sotto autogestione operaia e sfidando i tabù basilari dell’economia capitalista. È stato così infranto il tabù culturale del valore assoluto della proprietà privata, della “superiorità” e della “necessarietà”
dell’imprenditore e dei rapporti economici di forza in generale. L’impresa fallita che viene chiusa dall’imprenditore non rappresenta affatto la fine della lotta e il licenziamento dei lavoratori: semmai l’inizio della lotta e il licenziamento del padrone.
Un fenomeno simile al fallimento “a domino” delle imprese argentine, d’altronde, è rintracciabile ogni giorno in Europa con le minacce di delocalizzazione verso Paesi più
“produttivi” (cioè privi di diritti e dignità per la classe lavoratrice), ma i lavoratori e una buona parte della società argentina non si sono più sottoposti al ricatto secolare del padronato. Affermare che si sono infranti importanti tabù della vecchia società e che si è
affermata nei fatti una “verità” antisistemica non vuol dire però che si è trasformata la società. In primo luogo la maggior parte del popolo argentino non si sente coinvolto nel processo, il che spiega il rapido riassorbimento dei cacerolazos, e non tutti quelli
coinvolti hanno preso effettivamente coscienza di cosa stanno costruendo: non stiamo analizzando la conclusione definita di un percorso ma l’inizio di un processo socioeconomico totalmente nuovo di cui possiamo azzardare la possibili traiettorie ad appena sette anni dal suo inizio, partendo dall’osservazione delle effettive trasformazioni nei processi e nei rapporti di produzione nelle singole imprese recuperate.
Le prime esperienze di questo fenomeno sono rintracciabili tra il 1996 e il 1998 negli impianti della fabbrica di frigoriferi industriali “Yaguané S.A.” nei pressi di La
Matanza e dell’impresa metallurgica “IMPA” a Buenos Aires, accanto ai quali si sarebbero presto unite la sartoria industriale “Brukman”, la fabbrica di ceramiche
“Zanón” nel Neuquén e l’impresa metallurgica Unión y Fuerza.
Quando nel 2001 la paralisi dell’intero sistema produttivo interno argentino fu completa, molti collettivi di
lavoratori seguirono l’esempio dei pionieri della fine degli anni ’90. Nell’aprile del 2001 presso l’IMPA nacque il Movimento Nacional de Empresas Recuperadas (MNER), con l’obiettivo di organizzare le varie entità e portare avanti la lotta comune di espropriazione, avente come principali rappresentanti Eduardo Morúa, che aveva
guidato il recupero dell’IMPA, José Abelli, rappresentante delle cooperative sorte a Santa Fe e Luis Caro, avvocato vicino alla Federación de Cooperativas de Trabajo
(FEECOTRA).
È in questo momento che le imprese recuperate scelgono di dotarsi della struttura cooperativistica come modello giuridico con cui presentarsi nelle lotte legali
per l’esproprio della fabbrica. La scelta del modello giuridico cooperativistico, vista da molti lavoratori inizialmente come una soluzione di convenienza temporanea, non ha mai voluto dire però appiattirsi sul modello di struttura cooperativistica tradizionale, dal
momento che le imprese recuperate hanno creato modelli di governo e di gestione interna socialmente molto più avanzati ed economicamente molto più innovativi delle
cooperative tradizionali, e che una parte di esse non ha mai accettato il cooperativismo come una situazione permanente. Si è trattato di una contaminazione reciproca tra cooperativismo e imprese recuperate che ha dato vita al movimento neocooperativistico.
Un’altra organizzazione che ha coadiuvato e lavoratori disoccupati durante il processo di recupero delle loro fabbriche e li ha indirizzati verso il modello cooperativo è stata la CTA, sindacato movimentista innovatore vicino alle lotte dei piqueteros e delle fabbriche recuperate. Oltre ai lavoratori delle fabbriche, cominciano ad avvicinarsi al movimento delle imprese recuperate anche i lavoratori dei supermercati, gli agricoltori
che non possono più pagare l’affitto della terra e devono essere sfrattati, e in genere i lavoratori del terzo settore: è in questo primo periodo che il MNER conia il motto “Occupar, Resistir, Producir”.
Tra il 2001 e il 2003 quasi il 60% delle imprese fallite
vengono occupate dai lavoratori e riattivate con “espropriazioni di fatto”(Julian Rebón,2004).
Il processo di riattivazione della fabbrica viene spesso aiutato dalle altre fabbriche recuperate organizzate (dal MNER o dal MNFRT), dalle banche di credito
cooperativo e dall’indotto della fabbrica stessa.
I fornitori concedono alle fabbriche a credito e senza interesse alcuni stock di materie prime in cambio dell’accordo di continuare a comprare re le materie prime dal quel fornitore anche successivamente,mentre, sia grazie ai prestiti ottenuti dal Banco Cooperativo o dal Governo (sotto Kirchner) sia lavorando senza stipendio i primi tempi, la cooperativa può riparare o sostituire i macchinari e pagare i servizi necessari (energia elettrica, acqua, gas), servizi che talvolta sono forniti da altre cooperative in un sistema a rete a costi irrisori. Anche il
quartiere gioca un ruolo importante nella riattivazione della fabbrica, educato dalle asambleas populares, sostenendo fisicamente ed economicamente la lotta dei lavoratori,diventando a sua volta indotto della fabbrica.
Il fenomeno coinvolge la totalità del Paese, trovando la maggior concentrazione nell’area di Buenos Aires, quella più popolata ed industrializzata, con il 55% dei casi
registrati, ma altri episodi sono riscontrati nelle province di Santa Fe, Córdoba, Entre Ríos, Jujuy, La Pampa, Mendoza, Neuquén, Río Negro e Tierra del Fuego (Saavedra,
2003).
Con l’ingrandirsi del fenomeno si verificano le prime divisioni in seno al movimento, la più importante riguarda la scissione dal MNER del MNFRT (Movimento Nacional Fabricas Recuperadas per Trabajadores) realizzata dall’avvocato Luis Caro che ha poi assorbito la FEECOTRA.
I settori produttivi coinvolti dal processo di riappropriazione delle fabbriche da parte dei lavoratori sono molto disparati, vanno dall’alimentazione all’alberghiero,dall’informatica all’edilizia, dimostrando il carattere estremamente adattabile del fenomeno.
I caratteri comuni di tutte queste unità produttive sono l’assenza di padroni,la comunione tra tutti i soci-lavoratori del mezzo di produzione, la solidarietà tra
compagni di lavoro e un modello di direzione democratico-assembleare.
Non esistono dati completi sull’entità del fenomeno ma è possibile farsi un idea attraverso alcuni censimenti realizzati da studiosi dell’Università di Buenos Aires come
Julian Rebón o da altri. Quello che presentiamo di seguito è una elaborazione con numero di imprese, totale lavoratori e media lavoratori per impresa realizzato a partire
dal censimento realizzato dal sito www.lavaca.org, su 155 imprese recuperate, curato dal gruppo editore della “guida alle imprese recuperate Sin Patrón” nel 2004.

Settore N° Imprese
del settore
Totale
lavoratori impiegati
Media
lavoratori impiegati
per impresa
Alimentazione 27 1419 53
Componenti per
automobili 9 271 30
Calzature e
abbigliamento sportivo 3 459 153
Edilizia 9 708 79
Cosmetica 1 36 36
Conceria 1 28 28
Educazione 5 119 24
Elettricità 1 20 20
Gastronomia 2 25 13
Grafica 9 187 21
Idrocarburi 6 102 17
Alberghiero 3 107 36
Informatica 6 77 13
Meccanica 1 15 15
Metalmeccanica 2 15 8
Metallurgia 29 1538 53
Minerario 1 6 6
Immobiliario 1 14 14
Navale 1 36 36
Cartoleria 2 40 20
Cartificio 2 115 58
Giornalismo 3 103 34
Materie
Plastiche 3 82 27
Salute 9 468 52
Sanitario 2 38 19
Servizi per
l’edilizia 1 250 250
Tessile 8 514 64
Trasporti 8 1180 148
TOTALE 155 7972 51
Fonte: elaborazione su censimento dal sito www.lavaca.org



INSERIRE TABELLA




Poiché ci troviamo di fronte ad un movimento nato da semplici esigenze materiali che debordano con la loro onda oltre i tabù e le sovrastrutture della società
precedente è ovvio trovarsi di fronte ad una realtà frastagliata.
Non esiste un modello unico ma diversi modelli, tutti alternativi e nuovi rispetto all’economia liberista, ma
differenti tra loro per rapporto socio/lavoratore, per struttura direzionale interna, per coscienza sociale e orientamento politico: la teoria nasce dall’azione.
2. Il MNER e il MNFRT: il neocooperativismo
Gli indici fondamentali con i quali si opererà l’analisi delle strutture produttive delle nuove cooperative argentine saranno fondamentalmente quattro:
1) Il rapporto tra la figura del socio e quella del lavoratore
2) La struttura di direzione della cooperativa e la democrazia interna
3) La “coscienza sociale” (inteso come livello di trasformazione dell’identità individuale e
collettiva dei soci della cooperativa)
4) L’orientamento politico (inteso come rapporto con l’esterno: lo Stato, i partiti, i movimenti, la società)

La principale discriminante rimane comunque, a mio avviso, la divisione fisica tra la figura del lavoratore e quella del socio della cooperativa, per cui possiamo avere
tre diverse possibilità:
il socio-lavoratore,
il socio non lavoratore e
il lavoratore non socio (salariato).

A seconda di quali figure sono permesse e quali sono maggioritarie nelle cooperative in esame è possibile valutare il potenziale innovatore sociale, politico ed
economico di questo movimento.
Secondo gli indici che abbiamo dato a questa indagine, possiamo distinguere due differenti posizioni all’interno del movimento delle imprese recuperate: quella del
MNER e del MNFRT da una parte, e quella delle Fasinpat (Fabricas sin Patrones)dall’altra.
Tra il MNER e il MNFRT, oggi possiamo contare circa 300 cooperative nate dalmovimento delle imprese recuperate, sparse per tutto il Paese, per un totale di circa
20.000 soci-lavoratori ed un fatturato di più di 200 milioni di euro.
Il MNER è stata la prima organizzazione delle imprese recuperate ed ha subito al proprio interno trasformazioni e scissioni. Inizialmente era l’unica organizzazione e
raggruppava in sé tutte le imprese recuperate con le più variegate posizioni sia sull’impianto giuridico da darsi, sia su quello organizzativo che politico. Il MNER non
ha mai avuto fino al 2006 una posizione univoca sull’assetto definitivo giuridico delle
imprese recuperate, né sull’assetto organizzativo. Questo magmatismo ha permesso una sostanziale libertà di organizzazione in ogni singola impresa recuperata ed ha
concentrato le forze sulla lotta imminente di espropriazione di fatto delle fabbriche ed
avvio delle stesse. Tuttavia le imprese recuperate si andavano lentamente differenziando al loro interno a seconda dello scopo che il collettivo dei lavoratori si era posto.
La prima scissione formale si è avuta con la fuoriuscita di Luis Caro dal MNER intorno al 2003, in polemica con la gestione di Eduardo Morúa appoggiato da José Abelli, ed andò
a fondare con circa una cinquantina di imprese recuperate il MNFRT (Movimiento Nacional de Fabricas Recuperadas por los Trabajadores). La divergenza tra la visione di
Caro e di Morúa era determinata dallo scopo finale da dare al movimento.
Secondo Caro bisognava interpretare il cambiamento dei tempi, comprendere che il fenomeno tumultuoso degli anni 1999-2002 era in via di esaurimento e che bisognava dotarsi di una strumentazione legislativa in grado di legittimare l’esproprio delle fabbriche e stabilizzare gli espropri già effettuati. Questa ricerca di una dimensione legale passava
necessariamente per la scelta di trasformarsi definitivamente in un movimento cooperativistico profondamente rinnovato.
Morúa, forse temendo di perdere alcune fabbriche costringendole ad abbracciare lo schema cooperativistico, non voleva vedere nel cooperativismo lo scopo finale della battaglia, lasciando sostanzialmente aperta la porta alla nazionalizzazione senza indennizzo per l’ex-padrone.
In questo periodo, tra l’altro, il MNER è influenzato dalle idee prodotte da uno dei collettivi più avanzati dal
punto di vista sociale, quello della Zanón, fabbrica di ceramiche del Nequén, che elaborerà più tardi il concetto di “Fabrica Bajo Control Obrero”, distanziandosi
anch’essa dal MNER. L’opzione di Caro comportava tra l’altro una certa uniformazione nelle strutture organizzative delle imprese recuperate, il che sarebbe risultato abbastanza difficile dal momento che molti lavoratori non si riconoscevano né nel modello
cooperativistico né in quello Bajo Control Obrero (Sotto Controllo Operaio).
Questa iniziale divisione fa allontanare le lotte del MNFRT da quelle del MNER.
Luis Caro e il MNFRT cercheranno di fare pressioni sui politici per modificare la legge e la costituzione facendo approvare ad ogni parlamento provinciale per ogni
singola cooperativa una “legge di espropriazione” che garantisse definitivamente la proprietà della fabbrica ai lavoratori riuniti in cooperativa in cambio della rinuncia agli stipendi arretrati e alla liquidazione da parte degli stessi che andavano a coprire i debiti dell’impresa. La battaglia per la “Legge di Espropriazione Nazionale” che faciliterebbe l’espropriazione da parte delle cooperative di lavoro delle fabbriche fallite (o di ogni
altra unità produttiva abbandonata dall’imprenditore) diventa il cavallo da battaglia del MNFRT che nel frattempo fa approvare attraverso un intenso lavoro di pressione
popolare e lobbyng interna tutta una serie di leggi di espropriazione ad hoc per ogni impresa recuperata, legittimando definitivamente gli espropri già effettuati ed
impedendo il ritorno del padrone.
Il MNER di Morúa non ha voluto invece inserirsi più di tanto nel dibattito legislativo perché sospettoso del modello cooperativistico come fine oltre che come
mezzo. Anche le imprese recuperate del MNER adottavano infatti il cooperativismo come modello giuridico ma non lo ritenevano in grado di risolvere il problema: la
nazionalizzazione senza indennizzo restava per molti un approdo più sicuro dell’incertezza della cooperativa. La cooperativa infatti non assicura un salario costante
e sicuro come invece potrebbe fare la nazionalizzazione sotto gestione operaia.
Questa posizione attendista ha portato il MNER ad essere molto più impegnato sul piano della lotta di piazza per il riconoscimento dei salari e delle liquidazioni non
corrisposte che non sul piano della produzione e della sua organizzazione, il che gli è valso come indice di maggiore “radicalità” nello scenario del movimento delle imprese
recuperate. Lo scontro continuo con lo Stato è inevitabile se si richiede la nazionalizzazione e non si vuole diventare una cooperativa indipendente fino in fondo.
La stabilizzazione della situazione politica argentina con la vittoria alle elezioni di Nestór Kirchner ha messo il MNER di fronte ad una scelta non più rinviabile. Morúa ha perso sempre più terreno nei confronti di Abelli, cooperativista più convinto, che ha indirizzato il MNER verso l’orizzonte cooperativo, realizzando il FACTA (Federación Argentina de Cooperativas y de Trabajadores en Autogestiòn, riavvicinando MNER e MNFRT sul piano programmatico e assottigliando di molto le differenze strutturali tra i diversi modelli di cooperativa, anche se non su quello politico, essendosi ormai cristallizzate due direzioni sociali e due tipi di organizzazione diverse.
L’analisi delle due organizzazione vede un MNFRT molto omogeneo al suo interno, composto da cooperative di lavoro con lo stesso statuto e sostanzialmente la
stessa organizzazione interna, mentre il MNER mantiene al proprio interno una certa differenziazione, per cui ogni cooperativa fa storia a sé, pur riconoscendo quattro
sostanziali caratteristiche comuni tra loro e con le cooperative del MNFRT:
1) La cooperativa come organizzazione giuridica e modello di valori (quindi il
rifiuto esplicito di un ritorno all’ottica imprenditoriale/capitalista/liberista)
2) L’orizzontalismo assembleare dei processi decisionali
3) Una retribuzione il più possibile egualitaria.
4) La Proprietà Collettiva del mezzo di produzione
Detiene la Proprietà Collettiva del mezzo di produzione
Assemblea dei soci-lavoratori
(Composta da tutti i lavoratori della cooperativa)
Dirigenza eletta
“esecutrice”
Decisione
Lavoro
umano
Beni sul
mercato
Ricchezza
Macchine/Natura

La parte superiore del grafico precedente schematizza la struttura organizzativa delle nuove cooperative, mentre la parte inferiore ne schematizza la struttura produttiva
derivante dall’impostazione organizzativa.
La differenza con la struttura cooperativistica tradizionale è palese.
Vediamo di seguito le principali differenze e i principali punti strutturali in comune tra le cooperative del MNFRT e quelle del MNER:
MNER
Struttura
Orizzontale
MNFRT
Orizzontale

Criterio salariale
MNER
Differente per categoria
MNFRT
Uguale per categoria

Dirigenza
MNER
Eletta, revocabile e rinnovabile
MNER
Eletta, revocabile e a turnazione

Controllo sulla
Dirigenza
MNER
Orizzontale
MNFRT
Orizzontale

Processo decisionale
MNER
Democratico-Assembleare
MNFRT
Democratico-Assembleare

Ruoli
MNER
Fissi
MNFRT
Interscambiabili

Proprietà
MNER
Collettiva dei soci
MNFRT
Collettiva dei soci

Variabile economica
dipendente
MNER
Capitale
MNFRT
Capitale

Variabile economica
indipendente
MNER
Lavoro
MNFRT
Lavoro

Intensità Relazionale
con la comunità
MNER
Alta
MNFRT
Bassa

Fonte: elaborazione propria sui documenti ufficiali del MNER e del MNFRT
La differenze più importanti riguardano la dirigenza della cooperativa che risulta “a turnazione” nelle cooperative del MNFRT, per impedire la divisione tra i lavoratori manuali e quelli intellettuali. Questa struttura dirigenziale garantisce a tutti il diritto e il dovere di amministrare la cooperativa secondo una strategia che mira non solo a spezzare la divisione tra proprietà e lavoro, ma anche tra amministratori e lavoratori, impedendo la formazione di una “casta dirigente”. Il MNER privilegia invece l’aspetto funzionale derivante dalla migliore preparazione di una classe dirigente esperta o
comunque non prevedendo una turnazione obbligatoria nei ruoli di responsabilità amministrativa. Anche se i salari delle cooperative del MNER non sono perfettamente uguali tra i lavoratori delle diverse categorie (principalmente tra ruoli manuali e intellettuali o di responsabilità amministrativa), le differenze non oscillano mai oltre i
300 pesos, pari a circa 75 euro e sono comunque sempre votate in assemblea.
Nonostante questo i salari dei lavoratori delle cooperative che hanno superato il periodo di avviamento sono mediamente il 20% più elevati della media dei corrispettivi nelle
imprese capitaliste (Rebón, 2005).
Un’altra differenza riguarda l’intensità delle relazioni delle due organizzazioni con il quartiere sotto il profilo della collaborazione culturale e sociale. Il MNER risulta
molto più “impegnato nel sociale” rispetto al MNFRT, e promuove tutta una serie di iniziative sociali di comune accordo con le organizzazioni di quartiere, o con
organizzazioni politiche di sinistra e sindacali.

Entrambi i modelli di governo risultano comunque profondamente diversi sia dalle imprese capitaliste, sia dalle cooperative tradizionali. In tutti i due i modelli di governo non sembra possibile l’installarsi di una dirigenza distaccata dalla massa dei soci, poiché il carattere meramente “esecutorio” del reparto amministrativo fa ricadere la responsabilità delle decisioni sempre sull’assemblea dei soci, responsabilizzando ogni singolo socio e impedendo derive “dirigistiche” o “manageriali” che potrebbero perseguire l’interesse individuale anzicchè quello collettivo.
La proprietà collettiva della fabbrica/albergo/ospedale e la prassi della democrazia di gestione hanno trasformato lentamente anche la cultura dei lavoratori e
fornito la classe lavoratrice coinvolta in questo processo di una nuova identità.
La figura del lavoratore salariato non esiste più perché sostituita da quella del socio-lavoratore che non è né un dipendente, né un capitalista, ma un compagno di lotta
e di lavoro. Dopotutto anche la nuova cooperativa è al di là degli schemi classici: non è né pubblica, pur perseguendo scopi sociali classici del pubblico, né privata, pur muovendosi sul mercato come entità privata, ma proprietà collettiva di chi ci lavora. Ilavoratori tra loro si chiamano compagni ma non vogliono avere tra i piedi i partiti di sinistra di cui temono la strumentalizzazione politica (soprattutto il MNFRT) e che vedono sostanzialmente parte del vecchio mondo e dei vecchi schemi fallimentari. Nelle cooperative si forma una nuova ideologia economica e politica che nasce dalla prassi
quotidiana del lavoro collettivo in fabbrica o in qualunque unità produttiva.
«Le fabbriche recuperate non hanno come obiettivo quello di creare una economia sociale alternativa al mercato, le fabbriche competono sul mercato e si alimentano dal mercato. Tuttavia le fabbriche recuperate non sono capitaliste, perché l’obiettivo non è massimizzare il profitto, ma il benessere dei lavoratori. […] è il mercato che diventa l’economia sociale» (Una nueva cultura productiva, Luis Caro, 2005). “…i lavoratori sono competitivi perché mantengono e migliorano la qualità, non hanno il costo dell’imprenditore e possono offrire un prezzo migliore. Qualità e prezzo sono elementi che qualunque commerciante tiene in considerazione per decidere da chi comprare. Non abbiamo bisogno di capitale per cominciare il ciclo economico, il capitale smette di essere Dio e si privilegia il lavoro. In queste fabbriche i lavoratori hanno optato per organizzarsi in cooperativa di lavoro, ma con modalità particolari, che hanno fatto tesoro delle cattive esperienze delle cooperative tradizionali […] Si raggiungono tre importanti obiettivi di unità, solidarietà e armonia, tutti i soci sono uguali e percepiscono lo stesso salario, non si accettano classi dirigenti, la dirigenza esiste ma è realizzata dai lavoratori. Tutte le decisioni sono realizzate in assemblea, è una democrazia quasi diretta, i lavoratori prendono le decisioni in assemblee ampie e
partecipative. Il consiglio di amministrazione si sottomette alla volontà dell’assemblea ed è organo esecutivo delle decisioni della stessa. L’assemblea può revocare o confermare in qualsiasi momento il mandato conferito al consiglio di ammininistrazione. […] Non siamo condizionati dal capitale, non facciamo credito, né
accettiamo prestiti di nessun tipo, il capitale iniziale lo produciamo con il lavoro. […]
Per tanto tempo abbiamo vissuto in relazione di dipendenza, ora cominciamo un processo di liberazione interiore individuale e collettiva con i nostri compagni di lavoro.
[…] Porre il lucro come motore dell’economia condusse l’Argentina alla sua più grande contraddizione, che nel Paese delle vacche e dei campi i bambini morivano di fame.
Bisogna porre al centro le necessità del popolo per progettare l’economia e la sua produzione. I lavoratori stanno dimostrando in tutto il Paese che è possibile recuperare migliaia di posti di lavoro” (Cómo los Trabajadores recuperan puestos de trabajo, Luis
Caro, 2003)
«… recuperare significa che gli operai prendono in mano la gestione della loro attività. È una forma di autogestione nuova, dettata dal momento storico in cui si
produce e dalla contrapposizione al modello neoliberista. Noi diciamo che per generare ricchezza non è necessario lo sfruttamento, il lavoro nero, il lavoro minorile, il taglio
sistematico del costo del lavoro. La ricchezza generata da una attività può trovare forme di distribuzione diverse da quelle attuali. L’esperienza argentina dimostra che sì, è
necessario ridurre i costi: ma non il costo del lavoro, bensì quello degli imprenditori.»
(Un’altra fabbrica è possibile, José Abelli, 2007)
«Siamo troppo poveri, non possiamo più permetterci gli imprenditori» (un operaio delle imprese recuperate, documentario del MNER, 2005)
«Decidiamo che qui, oggi, si comincia una rivoluzione morale e culturale con l’autogestione e la cooperazione dei lavoratori.
I lavoratori, così marginalizzati e castigati in questo Paese, prendono per le corna il toro della crisi. Il potere, la volontà di potere dei lavoratori autorganizzati trionfa […]. Il nuovo potere popolare trionfa sugli
interessi degli pseudopadroni e degli pseudoimprenditori, sfruttatori, macellai, mediocri e codardamente violenti – tale è la violenza del denaro –. Questi sono i piccoli e grandi ‘Omar Chabán’ del ‘capitalismo nazionale’. Sono i Chaban, i Samid, i Yabrán, i Taselli, etc, dello ‘sviluppo regionale’ e molti di quelli si presentano a noi come degli Oskar Schindler dell’economia nazionale. Tutti loro, presto o tardi, subiranno la condanna sociale, morale e talvolta quella legale. È questa la ‘borghesia nazionale’ di cui tanto parlarono il peronismo e l’economia dello sviluppo, no? Con loro abbiamo mai avuto una redistribuzione della ricchezza?» (Algunas ideas para el debate sobre la autogestión obrera, la autonomía social y la emancipación, Relazione finale del convegno promosso dal MNFRT e altre organizzazioni, 2005)
L’elaborazione di un nuovo sistema di valori culturali comuni che vanno dal rifiuto del capitalismo e dei capitalisti, alla solidarietà operaia, alla trasformazione del lavoratore salariato in socio della cooperativa e «insieme ai suoi compagni, artefice del proprio destino» (Luis Caro, 2005), stentano ancora oggi a organizzarsi in una ideologia organica. Non stiamo assistendo ad un remake della coscienza di classe operaia stile europeo-novecentesco, quanto alla nascita di una nuova coscienza di classe, della classe lavoratrice intesa in senso lato, dotata di una nuova cultura che non comprende più nel proprio mondo l’esistenza della figura della proprietà distinta dal lavoro.
La struttura organizzativa e la cultura produttiva nascono e si sviluppano a partire dalla proprietà collettiva del mezzo di produzione da parte dei soli
lavoratori, che rappresenta la struttura economica imprescindibile sulla quale si basano tutte le nuove cooperative argentine. La conseguenza economica principale di questa struttura produttiva è il ribaltamento del conflitto Capitale/Lavoro, con il lavoro che diventa la variabile indipendente del modello, unico fattore produttivo da remunerare. I lavoratori argentini dimostrano praticamente che si può fare a meno degli imprenditori e
che il mondo che viene fuori è molto migliore di quello che si lasciano alle spalle: nessuna teoria economica può smentire l’evidenza della realtà.
Più crescita economica, più democrazia, più posti di lavoro, più uguaglianza economica, sociale, politica sono fatti certificati da tutti gli istituti di ricerca economica internazionali. È addirittura recente la notizia che l’aumento del consumo di energia elettrica ha creato alcuni problemi di approvvigionamento perché la rete e le centrali non hanno mai sopportato una richiesta così elevata: nemmeno due anni fa, nell’argentina liberista, i figli dei lavoratori dovevano studiare al lume di candela.
L’altro elemento sociologico di estrema importanza è che la struttura produttiva delle nuove cooperative è in grado di operare una trasformazione culturale nei lavoratori che vi si trovano inseriti: lavoratori inizialmente peronisti e non socialisti si sono trovati a sostenere un modello etico di fatto socialista (Rebón, 2005).
In questo caso quindi, a differenza delle cooperative tradizionali, non è la conformazione sociologica di partenza a permettere l’esistenza delle stesse e a impedirne la deriva imprenditoriale, ma l’esatto contrario: l’esistenza delle cooperative forma una cultura etica nuova, contraria al capitalismo liberista, pur partendo inizialmente da un contesto sociale sfavorevole. Il carattere “trasformatore” delle cooperative è senz’altro l’aspetto più interessante da un punto di vista scientifico su cui abbiamo ancora poche informazioni trovandoci all’inizio del fenomeno, che è stato sommariamente indagato da Julián Rebón nell’inchiesta sociologica “Trabajando sin Patrón. Las empresas recuperadas y la producción”, realizzata nel settembre del 2005.
Dall’indagine di Rebón risulta infatti che solo il 36% dei lavoratori ritiene giusta una certa differenziazione nei salari tra le diverse categorie, mentre il 49% ritiene che i salari debbano essere tutti uguali indipendentemente da orario di lavoro e dalla categoria, mentre un 15% pensa a differenziazioni in base alle ore di lavoro o in base alla massima «a ognuno secondo le proprie necessità, da ognuno secondo le proprie capacità» ricavando senza saperlo una vecchia massima marxista.
Una problematica tutta nuova derivante dalla struttura di queste cooperative è introdotta dall’assunzione di nuovi lavoratori. Poiché il mezzo di produzione è proprietà collettiva dei soci-lavoratori riuniti in cooperativa si pone il problema delle modalità di assunzione di nuovi lavoratori che non hanno partecipato ai momenti iniziali della lotta.
Molti lavoratori considerano infatti il “lavoro recuperato” come un bene da passare ai propri figli, inoltre l’identità e la cultura si sono sviluppati all’interno di questi collettivi attraverso la lotta comune che ha visto un momento iniziale di enorme difficoltà, in cui i lavoratori hanno rinunciato anche al proprio salario pur di costruire la cooperativa.
Si profila il rischio di una differenziazione tra i soci iniziali e i nuovi arrivati che non sono considerati “degni” di entrare nella cooperativa come soci e quindi come parte integrante della struttura sopra descritta, attraverso un processo di sociocentrismo (Rebón, 2005).
Le soluzioni escogitate risultano come sempre differenti e ancora in via di definizione. Tutte hanno come obiettivo, tuttavia, l’integrazione del nuovo lavoratore nella cooperativa come socio. I modelli sono sostanzialmente due. Il primo modello prevede un periodo iniziale (da 3 a 6 mesi) in cui il lavoratore viene assunto dalla cooperativa con un contratto di lavoro dipendente (quindi senza l’ingresso nell’assemblea dei soci) e con un salario inferiore a quello normalmente riconosciuto al socio. Al termine di questo periodo il lavoratore guadagna il diritto di entrare nella cooperativa come socio, anche se può optare per rimanere ancora lavoratore dipendente.
Questo modello interpreta il periodo di “salariato” come strumento per il lavoratore di guadagnarsi il diritto ad entrare nella proprietà collettiva della cooperativa. Una volta entrato nella cooperativa come socio, il lavoratore diventa esattamente uguale agli altri, sia in termini di reddito che di responsabilità.
L’altro modello prevede il mantenimento di una percentuale dei voti dell’assemblea dei soci in mano ai soci iniziali e un’altra accessibile ai nuovi che vengono integrati con questo status immediatamente nella cooperativa. Di solito la percentuale riservata ai soci iniziali è di circa il 75% ell’assemblea. Le motivazioni che spingono ad adottare questo modello sono le paura dei soci iniziali che si smarrisca il carattere iniziale della cooperativa con l’ingresso di nuovi lavoratori.
La situazione è ancora in evoluzione e i due modelli non sono nemmeno distinti e delineati, anche perché un’ingrandimento considerevole di queste cooperative è cominciato da solo tre anni.

3. Statalizzazione senza indennizzo: il modello “Bajo control obrero”
Fasinpat è l’abbreviazione di Fábrica sin Patrones, ed è il nome che i lavoratori della fabbrica ceramista Zanón hanno dato alla propria cooperativa. Il collettivo della Zanón è il punto di riferimento di quel movimento di imprese recuperate che hanno aderito al modello bajo control obrero, perseguendo la nazionalizzazione sotto gestione operaia, e allontanandosi sia dal MNFRT che dal MNER. Non esistono statistiche affidabili sul numero di fabbriche i cui collettivi appoggino il modello bajo control obrero, perchè non esiste una organizzazione che raggruppi queste imprese recuperate.
La Zanón stessa ha dovuto dotarsi delle forma giuridica cooperativista per
motivi di pura convenienza, al fine di utilizzare l’innovazione normativa ottenuta dal MNFRT e dal MNER e impedire lo sgombero forzato da parte della polizia.
Secondo i lavoratori della Zanón la cooperativa non è la soluzione definitiva al problema e hanno elaborato il concetto di “espropriazione nazionale” come punto d’arrivo finale della propria lotta. L’espropriazione nazionale che intendono i lavoratori della Zanón è però ben diversa da quella sostenuta nella “Legge di Espropriazione Nazionale” portata avanti dal MNFRT e dal MNER. Il modello bajo control obrero rifiuta la proprietà collettiva dei lavoratori e propende direttamente per la proprietà collettiva comunitaria nazionale. Il mezzo di produzione non è quindi proprietà privata dei lavoratori che vi lavorano, ma è di tutto il popolo, “Zanón es del Pueblo” è il motto degli operai della fabbrica. La statalizzazione sotto controllo operaio è difesa,
oltre che dalle fabbriche bajo control obrero, da diversi partiti di sinistra tra cui il Partido de Trabajadores por el Socialismo (PTS), il Movimento Socialista de los Trabajadores (MST) e la Union Socialista de los Trabajadores. Essi criticano la soluzione cooperativistica e la proprietà collettiva dei lavoratori per due ragioni principali.
1) Sostengono che questa forma di proprietà è in definitiva una forma
specifica di proprietà privata camuffata e inserita in un sistema di mercato che ne modificherà senz’altro le strutture a lungo andare. Pertanto, non potrà sfuggire alla logica capitalista e finirà per consolidare l’attuale sistema economico-sociale.
2) Le cooperative non saranno in grado di affrontare la concorrenza
capitalista globale giocando secondo le regole del mercato.
Il modello bajo control obrero prevede invece l’espropriazione popolare e la
statalizzazione sotto controllo operaio delle imprese occupate, senza indennizzo per il capitale e rinnegando i debiti dell’ex-padrone. Lo Stato (anche periferico), come organizzazione democratica generale della comunità, deve provvedere agli investimenti tecnologici, a tutto quanto occorra per il funzionamento dell’impresa e ad indirizzare la
produzione verso i bisogni sociali. Gli operai della fabbrica gestiscono l’unità
produttiva in senso democratico per conto della proprietà comunitaria (che appartiene all’intero popolo-comunità) del mezzo di produzione.
Una posizione ancora diversa da rilevare è quella del P.O. (Partido Obrero) che prevede la nazionalizzazione senza indennizzo e il controllo operaio, ma senza statalizzazione. La nazionalizzazione dovrebbe avvenire attraverso la creazione di una organizzazione comunitaria alternativa allo Stato, che dovrebbe fungere da centrale organizzativa dei lavoratori delle imprese autogestite, sul modello delle Asambleas Populares.
Ci troviamo quindi di fronte alla scissione tra il modello dell’autogestione e
quello del cooperativismo, tra la proprietà e il controllo dell’unità produttiva.
La gestione della fabbrica vagheggiata dal modello bajo control obrero somiglia molto al modello consiliare proposto dai movimenti rivoluzionari del secolo scorso, soprattutto marxisti. L’organizzazione interna della fabbrica è molto simile al MNFRT, con una direzione assembleare, stipendi uguali per tutti, turnazione dei ruoli amministrativi.
L’evoluzione delle fabbriche bajo control obrero risulta però profondamente
differente sia dal punto di vista dell’orientamento politico che dal punto di vista della coscienza sociale, a causa della fondamentale divisione nella struttura produttiva tra proprietà e gestione del mezzo di produzione. Dichiarandosi “al servizio della comunità” la fabbrica Zanón ha effettuato numerose donazioni alla cittadinanza di Nequén, tra cui la più straordinaria ha portato alla costruzione di un moderno centro medico nell’umile quartiere di Nueva España, limitrofo agli stabilimenti; la campagna
di donazioni ha rafforzato il carattere solidaristico tra fabbrica e comunità locale, la quale da una parte ha sostenuto la lotta dei lavoratori autogestiti, dall’altra ha goduto del loro incondizionato appoggio in tutte le iniziative sociali. L’affinità con i partiti della sinistra socialista argentina ha portato la Zanón a radicalizzare lo scontro politico con il governo a tutti i livelli, ma questo ha anche permesso una straordinaria evoluzione culturale e identitaria del collettivo che oggi, senza dubbio, rappresenta il più avanzato
dal punto di vista sociale. Il collettivo della Zanón mette continuamente in discussone tutta una serie di sovrastrutture sociali in modo esplicito, cosa che nelle cooperative del MNER e del MNFRT avviene solo implicitamente.
«Lo scontro politico è soprattutto con il governo provinciale e il suo braccio
operativo: la polizia. In passato ed ancora oggi gli operai e le loro famiglie sono stati vittima di persecuzioni, portate avanti con minacce di morte e pestaggi. La risposta dei lavoratori è sempre stata decisa. Durante la mia permanenza, in seguito all’aggressione della polizia locale ai danni di due operai, la produzione è stata prontamente fermata e gli operai si sono riversati in massa nelle strade di Nequén. Hanno così improvvisato
una marcia che li ha portati, insieme a cittadini di ogni provenienza, tra cui Lolín e Inés, rappresentanti dell’Associazione delle Madri di Plaza de Mayo di Nequén, dalla casa del Governatore provinciale alla sede del terzo Commissariato di polizia, protagonista,in quella come in altre occasioni, delle vessazioni nei confronti dei ceramisti». (Una fabbrica senza padroni, Ilaria Leccardi, 2006).
La produzione dei beni passa esplicitamente in secondo piano rispetto ad altri
bisogni sociali, quali la vivibilità e la democrazia: il mezzo di produzione serve
principalmente per mantenere in vita il lavoratore piuttosto che per produrre beni da inserire nel mercato. Nonostante questo il bene in sé non perde di valore ma lo acquista dal punto di vista del soddisfacimento di un benessere sociale, più che nella determinazione del prezzo di mercato (Zanón bajo control obrero, documentario, 2004).
Il lavoro smette di essere solo sforzo produttivo e diventa esplicitamente mezzo di affermazione e lotta politica. È significativo anche il rinnovo delle linee produttive delle ceramiche, per il quale sono stati scelti nomi “politici”, come Obrero, o Hebe (dal nome della presidentessa dell’Associazione delle Madri di Plaza de Mayo, Hebe De Bonafini), Kalfukurá (dal nome della comunità mapuche che fornisce l’argilla alla fabbrica).
La tipologia strutturale della fabbrica bajo control obrero permette tra l’altro di
superare le problematiche derivanti dall’assunzione di nuovi lavoratori. Laddove risulta problematico l’inserimento dei nuovi lavoratori nell’assemblea dei soci-lavoratori delle cooperative a proprietà collettiva dei lavoratori, sia nel
MNFRT che nel MNER, a causa appunto dell’ingresso nella proprietà collettiva, questo non può accadere nelle fabbriche bajo control obrero semplicemente perché non esiste alcuna proprietà collettiva dei lavoratori. In una ottica di proprietà collettiva comunitaria, il disoccupato di Nequén è proprietario della Zanón tanto quanto il lavoratore. La maggior parte dei nuovi assunti nella Zanón provengono infatti dalle fila dei disoccupati organizzati che, come tutta la comunità, hanno sempre difeso i ceramisti della Zanón dagli attacchi del governo provinciale. Il comportamento del collettivo della Zanón si differenzia nettamente in questo modo dalle cooperative del MNFRT e del MNER, come si può osservare dall’indagine del Rebón.
Il sociocentrismo, come creazione di una “casta dei primi soci” della cooperativa sembra essere un rischio che grava sullo sviluppo delle nuove cooperative argentine con la struttura della proprietà collettiva dei lavoratori.
Il punto di forza dei collettivi bajo control obrero, sia dal punto vista pratico che ideale, è l’appoggio sociale della comunità con la quale sono collegati come con “un supporto vitale”, ma questo è anche il loro punto debole.
Come le cooperative tradizionali, anche se certamente su un piano estremamente differente, le imprese recuperate bajo control obrero risentono direttamente della conformazione sociologica preesistente e quindi dei suoi mutamenti. Se la società dovesse subire una trasformazione esogena sotto la pressione della globalizzazione, le imprese bajo control obrero potrebbero essere marginalizzate socialmente ed economicamente o potrebbero scomparire così come sono scomparse le comuni europee
degli anni ’60-’70.
Un’altra possibilità potrebbe prevedere una lenta contaminazione tra tutti i modelli neocooperativistici che abbiamo analizzato finora, possibilità in fondo realistica, dato l’elevato senso di solidarietà che accomuna tutto il movimento cooperativistico argentino inteso in senso lato.
Orientamento dei lavoratori sulle categorie da
privilegiare per nuove assunzioni
0 10 20 30 40
Familiari dei soci
Ex-lavoratori dell'impresa
Disoccupati in generale
Per metodo meritocratico
Disoccupati che hanno
appoggiato la lotta
Percentuale
Buenos Aires
Zanón

4. Differenze e punti in comune principali tra le tre posizioni del
neocooperativismo

TABELLA RIASSUNTIVA
MNER
Struttura
Orizzontale

MNFRT
Orizzontale

Bajo control obrero
Orizzontale

Criterio salariale

MNER
Differente per
categoria

DMNER
Uguale per categoria

Bajo control obrero
Uguale per categoria

Dirigenza
MNR
Eletta, revocabile e
rinnovabile

DMNER
Eletta, revocabile e
a turnazione

Bajo control obrero Eletta, revocabile e a turnazione


Controllo sulla
Dirigenza
MNR
Orizzontale

DMNER
Orizzontale
Bajo control obrero
Orizzontale

Processo
decisionale
MNR
Democratico-Assembleare

DMNER
Democratico-Assembleare

Bajo control obrero
Democratico-Assembleare

Ruoli
MNR
Fissi
DMNER
Interscambiabili
Bajo control obrero
Interscambiabili

Proprietà
MNR
Collettiva dei soci

DMNER
Collettiva dei soci

Bajo control obrero
Comunitaria

Variabile
economica
dipendente
MNR
Capitale
DMNER
Capitale
Bajo control obrero
Capitale

Variabile
economica
indipendente
MNR
Lavoro
DMNER
Lavoro
Bajo control obrero
Lavoro

Intensità
Relazionale con la
comunità

MNR
Alta
DMNER
Bassa
Bajo control obrero
Altissima

Nuove assunzioni
Meccanismi di
distinzione tra soci
vecchi e nuovi
lavoratori

MNR
Meccanismi di
distinzione tra soci
vecchi e nuovi
lavoratori

DMNER Nessuna distinzione
vecchi e nuovi
lavoratori

Bajo control obrero
Nessuna distinzione
tra vecchi e nuovi
lavoratori


Conformazione del
movimento
MNR
Disomogenea
DMNER
Omogenea
Bajo control obrero Nessuna organizzazione
strutturata
Rapporto con la
politica

MNER
tradizionale
Impegno politico
autonomo al fianco
dei movimenti
anticapitalisti

MNFRT
Diffidenza, utilizzo
pragmatico per il
raggiungimento
degli scopi

Bajo control obrero Simbiosi con i partiti della sinistra socialista

Bibliografia:
- Potere e contropotere. Protesta sociale e forme di potere alternativo (1990-
2004); Guillermo Almeyra; Datanews; 2004
- Cooperativas de trabajo y empresas recuperadas, María del Pilar Orgaz;
IFICOTRA Córdoba; 2005
- Como los Trabajadores recuperan puestos de trabajo; Luis Alberto Caro;
www.fabricasrecuperadas.org; 2003
- Una nueva cultura productiva; Luis Alberto Caro;
www.fabricasrecuperadas.org; 2004
- Cómo es la Organización Interna de cada Fábrica? El caso de las fábricas
recuperadas por los trabajadores; Javier Ona; www.fabricasrecuperadas.org; 2003
- La Expropiación de plantas fabriles es una salida viable; Luis Caro;
www.fabricasrecuperadas.org; 2006
- Viabilidad Económica en Fábricas Recuperadas. Trabajo de campo sobre
fábricas recuperadas; Nicolás Klimberg; www.fabricasrecuperadas.org; 2005
- Nuovo movimento operaio e l’occupazione delle fabbriche in Argentina;
Pablo Ghigliani; www.proteo.rdcub.it; 2003
- Propuesta para refundar la Nación; AA.VV; IMFC; 2005
- Marchando sin patrón; Agencia Lavaca; 2005
- Una fabbrica senza padroni; Ilaria Leccardi; Latinoamerica; 2006
- Empresas Recuperadas; Julián Rebón, Ignacio Saavedra; Capital Intelectual, 2005
- Trabajando sin patrón. Las empresas recuperadas y la producción,
Universidad de Buenos Aires, 2005
- Algunas ideas para el debate sobre la autogestión obrera, la autonomía social y la emancipación; Mauricio Castaldo; MNFRT; 2005
- Un’altra fabbrica è possibile; intervista a José Abelli, il manifesto; 2007
Documentari
- The Take; Avi Lewis, Naomi Klein; 2004
- Zanón bajo control obrero; collettivo lavoratori della Zanón;2006
- F.A.C.T.A.; MNER; 2007
- B.A.U.E.N. en difenda de la autogestión obrera; Collettivo dei lavoratori della B.A.U.E.N.; 2007
- El Diario Cooperariva; Collettivo dei lavoratori del Diario Cooperativa; 2005
Siti d’interesse
- www.fabricasrecuperadas.org
- www.obrerosdezanon.org
- www. anter.org. ar
- www. revolutionvideo.org
- www. rebon.com.ar
- www.uba.ar
- www.sitiocooperativo.com.ar
- www.proteo.rdcub.it
- www.inaes.gov.ar
- www.lavaca.org

Re: AUTOGESTIONE E DEMOCRAZIA ECONOMICA

Inviato: 10/05/2014, 20:20
da antonio77
La crisi della sinistra in Italia e in Europa ha le sue radici nello scontro tra Carlo Marx e Michail Bakunin, già allora il grande teorico Marx dimostrò che lui era furbetto almeno quanto il boy scout di gelli.
Trasferi la direzione della prima internazionale in america, e bakunin passò anni a girare l' europa in cerca della ...prima internazionale.
Poi ricevette un tw da parte di carlo marx , #michailstaisereno.
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la scelta di aprire questa discussione con il saggio di BRANCACCIO E CAVALLO ci dice che a nostro avviso la storia ha dato ragione a Carlo Marx.
Ma la scelta di molti operai e di molti lavoratori di rispondere alla crisi economica e alla globalizzazione con l' AUTOGESTIONE è la dimostrazione in un contesto diverso che Bakunin e i socialisti utopisti e i fabiani hanno avuto grandi intuizioni storiche.
L' IMPRESA NON è UN BENE COMUNE MA E' UN BENE COLLETTIVO, e dentro il conflitto deve essere luogo di PARTECIPAZIONE DI TUTTI I STAKEHOLDERS in primo luogo i lavoratori ma anche management e fornitori.

Questo intervento ormai storico del prof. Rodotà costruisce un perimetro dinamico e quindi dialettico al concetto ma cosa sono questi beni comuni ?

la definizione di bene comune è urgente per la gestione di alcune comunità e mi riferisco ai comuni di milano, roma, napoli e parma.

Dopo aver definito il BENE COMUNE le comunità e i comuni devono chiedersi è adesso cosa facciamo di questi beni comuni, .......AUTOGESTIONE.

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Il valore dei Beni comuni (di Stefano Rodotà)

Si può dire che il 2011 sia stato l´anno (anche) dei beni comuni. Espressione, questa, fino a poco tempo fa assente nella discussione pubblica, del tutto priva d´interesse per la politica, anche se il premio Nobel per l´economia era stato assegnato nel 2009 a Elinor Ostrom proprio per i suoi studi in questa materia. Poi, quasi all´improvviso, l´Italia ha cominciato ad essere percorsa da quella che Franco Cassano aveva chiamato la “ragionevole follia dei beni comuni”. E questo è avvenuto perché la forza delle cose ha imposto un mutamento dell´agenda politica con il referendum sull´acqua come “bene comune”. Da quel momento in poi è stato tutto un succedersi di iniziative concrete e di riflessioni teoriche, che hanno portato alla scoperta di un mondo nuovo e all´estensione di quel riferimento ai casi più disparati. Si parla di beni comuni per l´acqua e per la conoscenza, per la Rai e per il teatro Valle occupato, per l´impresa, e via elencando. Nelle pagine culturali di un quotidiano campeggiava qualche mese fa un titolo perentorio: “I poeti sono un bene comune”.
L´inflazione non è un pericolo soltanto in economia. Si impone, quindi, un bisogno di distinzione e di chiarimento, proprio per impedire che un uso inflattivo dell´espressione la depotenzi. Se la categoria dei beni comuni rimane nebulosa, e in essa si include tutto e il contrario di tutto, se ad essa viene affidata una sorta di palingenesi sociale, allora può ben accadere che perda la capacità di individuare proprio le situazioni nelle quali la qualità “comune” di un bene può sprigionare tutta la sua forza. E tuttavia è cosa buona che questo continuo germogliare di ipotesi mantenga viva l´attenzione per una questione alla quale è affidato un passaggio d´epoca. Giustamente Roberto Esposito sottolinea come questa sia una via da percorrere per sottrarsi alla tirannia di quella che Walter Benjamin ha chiamato la “teologia economica”.
Ciò di cui si parla, infatti, è un nuovo rapporto tra mondo delle persone e mondo dei beni, da tempo sostanzialmente affidato alla logica del mercato, dunque alla mediazione della proprietà, pubblica o privata che fosse. Ora l´accento non è più posto sul soggetto proprietario, ma sulla funzione che un bene deve svolgere nella società. Partendo da questa premessa, si è data una prima definizione dei beni comuni: sono quelli funzionali all´esercizio di diritti fondamentali e al libero sviluppo della personalità, che devono essere salvaguardati sottraendoli alla logica distruttiva del breve periodo, proiettando la loro tutela nel mondo più lontano, abitato dalle generazioni future.
L´aggancio ai diritti fondamentali è essenziale, e ci porta oltre un riferimento generico alla persona. In un bel saggio, Luca Nivarra ha messo in evidenza come la prospettiva dei beni comuni sia quella che consente di contrastare una logica di mercato che vuole “appropriarsi di beni destinati al soddisfacimento di bisogni primari e diffusi, ad una fruizione collettiva”. Proprio la dimensione collettiva scardina la dicotomia pubblico-privato, intorno alla quale si è venuta organizzando nella modernità la dimensione proprietaria. Compare una dimensione diversa, che ci porta al di là dell´individualismo proprietario e della tradizionale gestione pubblica dei beni. Non un´altra forma di proprietà, dunque, ma «l´opposto della proprietà», com´è stato detto icasticamente negli Stati Uniti fin dal 2003. Di questa prospettiva vi è traccia nella nostra Costituzione che, all´articolo 43, prevede la possibilità di affidare, oltre che ad enti pubblici, a “comunità di lavoratori o di utenti” la gestione di servizi essenziali, fonti di energia, situazioni di monopolio. Il punto chiave, di conseguenza, non è più quello dell´ “appartenenza” del bene, ma quello della sua gestione, che deve garantire l´accesso al bene e vedere la partecipazione di soggetti interessati.
I beni comuni sono “a titolarità diffusa”, appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere ad essi e nessuno può vantare pretese esclusive. Devono essere amministrati muovendo dal principio di solidarietà. Indisponibili per il mercato, i beni comuni si presentano così come strumento essenziale perché i diritti di cittadinanza, quelli che appartengono a tutti in quanto persone, possano essere effettivamente esercitati. Al tempo stesso, però, la costruzione dei beni comuni come categoria autonoma, distinta dalle storiche visioni della proprietà, esige analisi che partano proprio dal collegamento tra specifici beni e specifici diritti, individuando le modalità secondo cui quel “patrimonio comune” si articola e si differenzia al suo interno.
Se, ad esempio, si considera la conoscenza in Rete, uno dei temi centrali nella discussione, ci si avvede subito della sua specificità. Luciano Gallino ne ha giustamente parlato come di un bene pubblico globale. Ma proprio questa sua globalità rende problematico, o improponibile, uno schema istituzionale di gestione che faccia capo ad una comunità di utenti, cosa necessaria e possibile in altri casi. Come si estrae questa comunità dai miliardi di soggetti che costituiscono il popolo di Internet? Di nuovo una sfida alle categorie abituali. La tutela della conoscenza in Rete non passa attraverso l´individuazione di un gestore, ma attraverso la definizione delle condizioni d´uso del bene, che deve essere direttamente accessibile da tutti gli interessati, sia pure con i temperamenti minimi resi necessari dalle diverse modalità con cui la conoscenza viene prodotta. Qui, dunque, non opera il modello partecipativo e, al tempo stesso, la possibilità di fruire del bene non esige politiche redistributive di risorse perché le persone possano usarlo. È il modo stesso in cui il bene viene “costruito” a renderlo accessibile a tutti gli interessati.
Ben diverso è il caso dell´impresa, di cui pure si discute. Qui è grande il rischio della confusione. Sappiamo da tempo che l´impresa è una “costellazione di interessi” e che sono stati costruiti modelli istituzionali volti a dar voce a tutti. Ma la partecipazione, anche nelle forme più intense di cogestione, non mette tutti i soggetti sullo stesso piano, né elimina il fatto che il punto di partenza è costituito da conflitti, non da convergenza di interessi. Parlare di bene comune è fuorviante.
L´opera di distinzione, definizione, costruzione di modelli istituzionali differenziati anche se unificati dal fine, è dunque solo all´inizio. Ma non rimane nel cielo della teoria. Proprio l´osservazione della realtà italiana ci offre esempi del modo in cui la logica dei beni comuni cominci a produrre effetti istituzionali. Il comune di Napoli ha istituito un assessorato per i beni comuni; la Regione Puglia ha approvato una legge, pur assai controversa, sull´acqua pubblica; la Regione Piemonte ne ha approvata una sugli open data, sull´accesso alle proprie informazioni; in Senato sono stati presentati due disegni di legge sui beni comuni e vi sono proposte regionali, come in Sicilia. Si sta costruendo una rete dei comuni ed una larga coalizione sociale lavora ad una Carta europea.
Quel che unifica queste iniziative è la loro origine nell´azione di gruppi e movimenti in grado di mobilitare i cittadini e di dare continuità alla loro presenza. Una novità politica che i partiti soffrono, o avversano. Ancora inconsapevoli, dunque, del fatto che non siamo di fronte ad una questione marginale o settoriale, ma ad una diversa idea della politica e delle sue forme, capace non solo di dare voce alle persone, ma di costruire soggettività politiche, di redistribuire poteri. È un tema “costituzionale”, almeno per tutti quelli che, volgendo lo sguardo sul mondo, colgono l´insostenibilità crescente degli assetti ciecamente affidati alla legge “naturale” dei mercati.

Da La Repubblica del 05/01/2012.

Re: AUTOGESTIONE E DEMOCRAZIA ECONOMICA

Inviato: 05/07/2014, 23:43
da antonio77
Questo è un esempio di possibile uscita dalla crisi con la costituzione di una cooperativa.
aver venduto una azienda storica come ideal standard ad un fondo d' investimento americano è stata una follia, e adesso tutti ma in particolare i lavoratori ne pagano le conseguenze.
i fondi d' investimento americani hanno per loro natura attività speculativa in quanto hanno come riferimento i rendimenti azionari su base trimestrale, i report sono addirittura mensili.
non sono cattivi , quello è il loro lavoro.
il lavoro cooperativo è un altra cosa ha una visione di lungo periodo.
rimane nelle cooperative il problema della capitalizzazione, da qui il famigerato decreto poletti sui contratti a termine.
molte cooperative cercano di superare la debolezza dello stato patrimoniale con la forza dei contratti di lavoro usa e getta.
per evitare questo ci vuole un nuovo sindacato specializzato e culturalmente preparato per la gestione complessa delle cooperative e del lavoro cooperativo.
rimane un dubbio perchè nella romagna delle cooperative non si è fatto nulla per le operaie della omsa di faenza ? ove il progetto industriale di lavoro cooperativo era relativamente semplice ??
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Ideal Standard, salta trattativa con Bpi.
A Orcenico 450 verso il licenziamento
Bpi Italia, che intendeva costituire una cooperativa di lavoratori che avrebbe rilevato la fabbrica, ha lasciato il tavolo ritenendo irricevibili le condizioni poste dal colosso dei sanitari e delle rubinetterie di proprietà del fondo statunitense Bain Capital. Che ha lasciato Unindustria Pordenone "per gravi e insanabili divergenze". Il 18 luglio, a meno di svolte dell'ultimo minuto, i lavoratori dello storico insediamento industriale friulano saranno licenziati. La prossima settimana nuova riunione al ministero dello Sviluppo

di Redazione Il Fatto Quotidiano | 5 luglio 2014

A giugno l’accordo con Bpi Italia sembrava a portata di mano. Al ministero dello Sviluppo era stato firmato un accordo che prevedeva la fine della procedura di mobilità per i 450 dipendenti dello stabilimento Ideal Standard di Orcenico di Zoppola (Pordenone) e il ricorso alla cassa integrazione in deroga fino a dicembre. Ma negli ultimi tre giorni la situazione è precipitata. E, a meno di colpi di scena, il 18 luglio i lavoratori dello storico insediamento industriale friulano saranno licenziati. Venerdì infatti i manager del colosso dei sanitari e delle rubinetterie, di proprietà del fondo statunitense Bain Capital, hanno annunciato l’uscita dall’Unione industriali di Pordenone per “gravi e insanabili divergenze tra la multinazionale e i vertici dell’associazione”. La territoriale dal canto suo ha dato l’aut aut alla società sulla necessità di rispettare i patti. Il presidente Michelangelo Agrusti ha definito ”imbarazzante” il fatto che il gruppo abbia “ricambiato la disponibilità del governo a collocare Ideal Standard in una short list di cassa in deroga sino a dicembre con un atteggiamento sprezzante nei confronti di Pordenone, delle sue istituzioni e di quelle nazionali”. Davanti al nuovo scenario, anche Bpi ha lasciato il tavolo. Il gruppo specializzato in riorganizzazioni aziendali, che intendeva costituire una cooperativa di operai che avrebbe poi rilevato lo stabilimento (un’operazione conosciuta come “workers buyout”), ritiene irricevibili le condizioni poste da Ideal Standard per chiudere la mobilità.

L’esito peggiore possibile, insomma, dopo mesi di trattative, intese dietrofront tra proprietà, fondo e sindacati, con Unindustria e la Regione Friuli Venezia Giulia a fare da mediatori in una partita a scacchi spesso giocata sui tavoli del Mise. Dove per la prossima settimana è stata convocata una nuova riunione. Mentre per lunedì i lavoratori hanno convocato un’assemblea in fabbrica e da martedì, in mancanza di novità positive, intendono occupare lo stabilimento. Tra le cause che avrebbero portato a questa conclusione, secondo Agrusti, anche il tentativo di trovare accordi separati per i tre stabilimenti italiani del gruppo: “Con queste premesse non credo che a Trichiana (Belluno) e a Roccasecca (Frosinone) possano dormire sonni tranquilli. O almeno, non per molto”.

Re: AUTOGESTIONE E DEMOCRAZIA ECONOMICA

Inviato: 23/07/2014, 12:52
da antonio77
L'accordo su Ideal Standard salva 399 posti di lavoro

Via libera alla cassa integrazione e agli incentivi per gli esodi volontari. L'azienda disponibile a cedere parte degli impianti insieme ad alcuni marchi e commesse per permettere le reindustrializzazione della zona
Lo leggo dopo
L'accordo su Ideal Standard salva 399 posti di lavoro
TAG ideal standard, cassa integrazione, lavoro
MILANO - Una lunga trattativa, caratterizzata dall'alternarsi di notizie contrastanti, poi in tarda serata l'accordo che mette in salvo 399 posti di lavoro. Per la vertenza Ideal Standard la chiusura positiva è arrivata ieri al Ministero del Lavoro e per le famiglie dei lavoratori impiegati nello stabilimento di Orcenico di Zoppola (Pordenone) è arrivato il sollievo.

L'accordo prevede la cassa integrazione in deroga con decorrenza 1 giugno-31 ottobre, mentre il Governo ha manifestato la disponibilità a prolungarla fino al 31 dicembre in presenza di "significativi passi avanti" nel subentro di nuovi soggetti nella gestione della stabilimento. Tra le misure che saranno adottate, c'è la chiusura della procedura di mobilità con esodo volontario incentivato.

Ai lavoratori che faranno parte del percorso di mobilità volontaria l'azienda riconosce una somma "a scalare" legata al tempo di permanenza in azienda fino ad un massimo di 30 mila euro per ciascun lavoratore. Confermati anche gli accordi sottoscritti al Mise lo scorso maggio sui processi di reindustrializzazione e attivazione di nuove attività.

"Questo è un grande risultato - ha commentato Franco Rizzo, segretario regionale Fvg della Cisl Chimici - e lo si deve a sindacati e istituzioni che sono stati uniti e compatti fino alla fine". Anche Ideal Standard ha espresso in una nota "soddisfazione il raggiungimento di un accordo con le parti sociali, dopo mesi dedicati a individuare una soluzione
in grado di mitigare l'impatto sul territorio della scelta dolorosa e necessaria di chiudere lo stabilimento di Orcenico, nei quali ha speso oltre 20 milioni di euro".

Soddisfatta anche la Cgil secondo cui si è tenuta aperta una prospettiva di reindustrializzazione per lo stabilimento di Orcenico di Zoppola". La multinazionale, infatti, fa sapere il sindacato, "dopo resistenze inaccettabili, si è mostrata disponibile a cedere, a condizioni favorevoli, parte degli impianti insieme ad alcuni marchi e commesse".

Re: AUTOGESTIONE E DEMOCRAZIA ECONOMICA

Inviato: 01/10/2014, 14:44
da antonio77
Sei in: »Messina »Messina
MESSINA
"Birra Messina",
più che un'idea

29/03/2014
Tra i piani dei 16 soci del birrificio Messina anche quello di rilevare la vecchia denominazione. Stamani, in quello che sarà presto lo stabilimento per la produzione, la visita del senatore Giuseppe Lumia."Birra Messina",
più che un'idea
Si sono riaperti i capannoni per una visita che gli ex lavoratori Triscele rimasti senza occupazione dopo la chiusura dello stabilimento di via Bonino, hanno gradito molto. Erano tutti presenti nel posto dove presto saranno sistemati gli impianti di produzione di una birra che queste persone negli anni hanno imparato a fare nel modo migliore. Apprezzata dai messinesi e non solo, ed ora riproposta. Più buona di prima, se possibile. Al senatore Lumia, alla presenza del direttore dell’area industriale di Larderia, i soci della cooperativa hanno anche illustrato il progetto di uno dei due capannoni loro affidati. Quello dove si produrrà la birra, mentre un altro, proprio di fronte, sarà adibito alla logistica e alla commercializzazione. Durante la prossima settimana sarà formalizzata la cessione di queste aree, potrà quindi iniziare la ristrutturazione per la quale alcune ditte sono già state incaricate. Sarà poi la volta della collocazione dei macchinari per la produzione prevista durante i mesi estivi per poi iniziare la lavorazione entro ottobre al massimo. La grande novità, potrebbe essere rappresentata dal marchio. C’è la possibilità di recuperare quello storico: “Birra Messina”. Se ce lo cedono a titolo gratuito ce lo prendiamo ha detto stamani il presidente della cooperativa Mimmo Sorrenti. Importante anche l’apporto della fondazione di comunità di Messina rappresentata oggi da Gaetano Giunta. Da questa arriveranno oltre 100 mila euro che vanno a completare quel milione di euro necessario per avviare l’attività. 300 mila euro sono i risparmi dei 16 soci, 400 mila arriveranno dalle piattaforme nazionale ed europea delle cooperative e circa 200 mila quelli che saranno disponibili con l’accensione di un mutuo con il fondo artigianato.
(da Gazzetta del Sud)

Re: AUTOGESTIONE E DEMOCRAZIA ECONOMICA

Inviato: 25/12/2014, 17:44
da antonio77
MA È PROPRIO VERO CHE SENZA PADRONI NON SI PUÒ RECUPERARE UN’AZIENDA?
25 dicembre 2014
Rimaflow
L’autogestione da parte dei lavoratori delle fabbriche dismesse e fallite come risposta alla crisi e alla cancellazione dei diritti essenziali del reddito e del lavoro.

Fonte: communianet.org

15.680 euro! Ora la produzione può ripartire. Senza padroni.
Oggi, 23 dicembre, la Campagna “RiMaflow vuole vivere” ha raggiunto 15.680 euro, superando l’obiettivo: noi lavoratori e lavoratrici della fabbrica recuperata e autogestita RiMaflow di Trezzano sul Naviglio potremo così acquistare il compressore necessario per potervi agganciare i macchinari e far ripartire la produzione. Senza padroni.
Un grande ringraziamento a tutti i nodi della Rete Communia e alle tante realtà politico-sociali che hanno organizzato iniziative in tutta Italia (e anche all’estero!) per promuovere la sottoscrizione e il progetto di autogestione. Un grande ringraziamento a tutte le personalità ‘combattenti’ che hanno lanciato l’Appello internazionale per RiMaflow promosso da Evo Morales, Joao Pedro Stedile, Ken Loach, Frei Betto, Themba Chauke, Andrés Ruggeri e dalle Empresas recuperadas argentine. Tutti e tutte voi siete oggi insieme a noi ‘i padroni comuni’ di queste infrastrutture!
I costi degli allacciamenti elettrici per il Capannone ‘C’ dove si svolgerà l’attività di produzione, per la messa a norma degli impianti e per la sicurezza andranno sicuramente oltre gli altri 15.000 euro che stiamo man mano cercando di mettere da parte con il nostro lavoro volontario. Ogni altro contributo sarà quindi sempre ben accetto.
Ma non è di soli contributi economici che RiMaflow potrà vivere. Solo se altre realtà produttive, di fabbrica o anche di riappropriazione di terre o nel settore dei servizi svilupperanno analoghe iniziative di autogestione anche il nostro progetto sarà realmente sostenibile. Da soli non ce la potremo fare. Da soli non potremo ottenere che l’occupazione di un luogo di lavoro per la sua rimessa in funzione senza padrone possa essere riconosciuto come diritto di chi ci lavora: questo potrà essere solo il risultato di un forte conflitto sociale generalizzato nel paese e anche a livello europeo per un cambiamento radicale dei rapporti di forza contro l’1% degli sfruttatori, per riprendere il felice slogan degli Indignados e di Occupy Wall Street.
E’ questa per noi l’autogestione conflittuale che abbiamo voluto presentare nella prefazione all’edizione italiana del libro di Andrés Ruggeri “Le fabbriche recuperate. Dalla Zanon alla RiMaflow: un’esperienza concreta contro la crisi”.
Nei prossimi giorni faremo un bilancio più preciso della Campagna, che comunque vedrà ancora alcune iniziative a inizio 2015 e che si salderà con la mobilitazione No Expo, contro cioè un modello economico e sociale devastante che dovremo tutte e tutti quanti insieme sconfiggere.
Un abbraccio e un augurio di buone feste da tutti i lavoratori e da tutte le lavoratrici di RiMaflow

Re: AUTOGESTIONE E DEMOCRAZIA ECONOMICA

Inviato: 18/01/2016, 20:10
da antonio77
un case aziendale mezzogiorno d Italia e settore commercio distribuzione
l supermarket lo gestisco io

La storia. A Pozzallo e Scicli, in provincia di Ragusa, alcuni lavoratori hanno ripreso in mano i punti vendita alimentari che la Coop aveva dismesso, licenziando tutti. Hanno riportato i contratti ai livelli retributivi pre-crisi, restaurato i locali e riposizionato lo sguardo sul territorio e i suoi prodotti. Un’economia del sud che vince con i «workers’ buyout»

Raccolta nei supermercati
© Stefano Montesi
Andrea Capocci

Edizione del
17.01.2016

Il supermercato dovrebbe essere chiuso da due ore ma dentro è ancora pieno di gente. Saranno i forzati del Capodanno 2016 – mancano solo tre giorni – chini sui carrelli pieni di torroni e spumante? Macché: lo spumante è già servito, nei bicchieri di plastica di signore che brindano e ridono. Scherzano anche i lavoratori, nonostante l’orario: strano. Sembra una sagra, invece è l’inaugurazione di un nuovo supermercato a Scicli, in provincia di Ragusa, la punta più a sud dell’Italia. Il giorno dopo si replica a Pozzallo, quindici chilometri più in là: apre un supermercato e fa festa il paese. Sono forestiero, capisco che deve trattarsi di due supermercati particolari.

In fila alla cassa, chiedo. «Ha riaperto la Coop», mi dicono. Sull’insegna c’è un altro logo. «Sì, questi erano i lavoratori della Coop, che due mesi fa ha chiuso il punto vendita e li ha licenziati. Loro hanno riaperto il supermercato e gli hanno cambiato nome». Leggo sullo scontrino: «Cooperativa Giorgio La Pira».

Che c’entra il sindaco di Firenze?

Torno a Pozzallo il giorno dopo, per farmi spiegare. Fabio Portelli, il presidente della «Giorgio La Pira», mi invita al bar. La storia è lunga. «Noi eravamo la cooperativa Primo Maggio, la prima della zona, fondata nel 1977. Di punti vendita ne avevamo quindici». E poi? «La crisi, non gravissima, ci ha portato definitivamente nelle braccia della Coop, il più grande gruppo di distribuzione italiano, a cui eravamo già legati. Nel 2012 firmammo un accordo con la loro filiale siciliana. Ci apprezzavano, volevano investire nei nostri supermercati e superare la crisi. Decidemmo di fidarci. Rilevarono i supermercati della Cooperativa Primo Maggio, chiedendo sacrifici che sarebbero stati temporanei. Molti di noi passarono al part-time, che vuol dire 7–800 euro di stipendio. Il lavoro è salvo, ci dicemmo, e la società ha le spalle forti».

La gestione Coop, invece, è un fallimento. Le perdite aumentano. A fine 2014, Coop Sicilia decide di chiudere i supermercati di Scicli e Pozzallo e gli altri della zona. Si dedicheranno solo agli ipermercati nei grandi centri commerciali. «Per noi — dice Portelli — l’unica alternativa al licenziamento era trasferirci a Palermo, a 300 chilometri da qui. Per 700 euro al mese, è impensabile». Inizia la battaglia contro la Coop. A sinistra è una lite in famiglia. La senatrice Padua del Pd, una pediatra rispettata da queste parti, sta coi lavoratori. Il presidente della Coop Sicilia è Gianluca Faraone, fratello del renzianissimo sottosegretario all’Istruzione. La Cgil si schiera con i lavoratori.

A ottobre 2015, i lavoratori occupano il consiglio comunale. Con la mediazione del prefetto, riescono a tenere aperti i supermercati fino a novembre 2015. Il sette del mese la saracinesca chiude definitivamente. Portelli e i suoi, però, non si rassegnano alla disoccupazione e ai lavoretti in nero. Se la Coop vuole andarsene da Scicli e Pozzallo, peggio per lei.

I concittadini li sostengono. Viene fondata la Società Cooperativa e le danno il nome del più illustre cittadino di Pozzallo, che fece carriera a Firenze come «sindaco santo», o «comunista bianco». Riportano i contratti ai livelli retributivi pre-crisi. I punti-vendita li prendono loro. La Coop glieli lascia volentieri. «Così non dovevano nemmeno pagare lo smantellamento dei locali», spiega Portelli. «Da cassieri e banchisti ci siamo trasformati in carpentieri, imbianchini, elettricisti. In un mese, abbiamo riaperto i supermercati e adesso li gestiamo noi, a modo nostro».

È avvenuto in molte fabbriche in Argentina, dopo la crisi del 2001. Il fenomeno delle «imprese recuperate» ora si diffonde anche in Europa. Nel suo libro-inchiesta Lavorare senza padroni.

Storie di operai che fanno rinascere imprese (Baldini&Castoldi), Angelo Mastrandrea racconta tante vicende simili da Italia, Francia, Grecia. Aziende che producono acciaio o thé, officine ferroviarie, società farmaceutiche, persino emittenti televisive salvate dai lavoratori. Tecnicamente, si chiamano workers’ buyout. In Argentina hanno risparmiato quarantamila posti di lavoro in 270 aziende, dal 2001. In Italia i numeri sono più piccoli, ma la crisi è arrivata dopo. Le aziende rilevate dai dipendenti qui sono una settantina. La maggior parte sono al nord, dove domina la manifattura e gli operai monopolizzano competenze preziose. Succede anche al sud. A Messina, 16 ex-dipendenti dello storico birrificio cittadino hanno preso in mano lo stabilimento acquisito dalla Heineken e poi dismesso.

Ma nel commercio avviene di rado. Tra i workers’ buyout italiani c’è un solo caso analogo a quello di Scicli e Pozzallo, e guarda caso è un supermercato di Palermo, il Centro Olimpo. Nel sud la crisi si chiama soprattutto «mafia». Gran parte delle imprese recuperate dai lavoratori meridionali erano state confiscate ai boss.

Per questo, la storia di Scicli e Pozzallo è singolare. La provincia di Ragusa ha il reddito pro-capite più alto a sud di Roma. La crisi non è arrivata con la mafia, ma con gli investimenti di un florido marchio del nord. I lavoratori senza padroni qui non sono operai di mestiere, ma commessi, magazzinieri, cassieri. Secondo le teorie del marketing, nella grande distribuzione la professionalità individuale conta poco. Il profitto viene da economie di scala, ottimizzazione delle scorte e della logistica, profilazione digitale della clientela. Eppure, proprio quel modello manageriale ha fallito.

Al banco della carne, ad esempio, con la riapertura è tornato il macellaio. «Quando c’era la Coop, la carne si vendeva già tagliata e imballata. I loro consulenti dicevano che così aumenta la produttività. Va bene per il nord, forse, dove hanno tutti fretta. Qui fino a ieri eravamo contadini. Ci piace che un macellaio racconti quello che compriamo. E al banco è tornata la fila», dice Portelli. Anche il responsabile del controllo di gestione della «La Pira», Giovanni Inghilterra, ci crede sul serio. Lui viene dalla cooperativa Primo Maggio ma era al sicuro nell’amministrazione della Coop Sicilia. Gli algoritmi degli esperti lo convincevano poco; una realtà più piccola, che conosce meglio il territorio, già di più. Così ha disertato, e ora è dall’altra parte della barricata.

Il paradosso è tutto qui. Il sud immobile, refrattario alla modernizzazione che cala dall’alto è solo un’immagine vista al cannocchiale: è rovesciata. Da vicino e a occhio nudo, sembra più rigida la grande impresa con le sue strategie. La flessibilità, il sacrificio, il radicamento appartengono ai lavoratori più che al management. D’altronde, la realtà appare spesso capovolta, da queste parti.

I migranti sbarcano a Pozzallo, ma il loro viaggio è appena iniziato. Medici Senza Frontiere, per dare l’allarme e aiutarli, deve abbandonarli (speriamo per poco) al malandato centro di accoglienza governativo. Nel punto più basso dell’Europa, c’è chi tiene la testa alta.
http://ilmanifesto.info/il-supermarket-lo-gestisco-io/

Re: AUTOGESTIONE E DEMOCRAZIA ECONOMICA

Inviato: 27/12/2019, 14:02
da antonio77
Il SISTEMA ITALIA .
Ormai si delinea nel mondo un solo driver di sviluppo politico, economico e sociale.
Finito il neoliberismo , finito nel dramma ridicolo il blairismo, siamo al CONFRONTO SCONTRO tra il SISTEMA COSTITUZIONALE ITALIA da una parte e il PARTITO COMUNISTA CINESE dall' altra.
non ci sono modelli sociali alternativi a questi 2 .
Stati Uniti e Russia sono testimoni ora del modello Cina ora del modello Italia.
La Germania
a)con 48.000 miliardi di euro di derivati Finanziari della deutch bank , ( il pil italiano è di 1.800 miliardi di euro ) (fonte Giovanna Graccco: Derivati finanziari, salvare il sistema per non cambiarlo )
b) il SURPLUS BILANCIA COMMERCIALE dovuta ad una svalutazione ...dell' Euro in Germania.
c) la liquidità esasperata in Germania dovuta alla BCE (vedi thomas-fazi-ue-draghi-ha-salvato-i-banchieri-non-i-lavoratori. sinistra in rete
d) Il dumping sociale della Germania verso l' Italia con il piano Hartz di Schroder , in particolare nel settore agricolo.
e la Francia ormai verso la rivolta sociale della COMUNE DI PARIGI ,
sono ormai modelli residuali .
Importante è l' appoggio che la gran Bretagna , meglio l' INGHILTERRA sta dando al SISTEMA ITALIA, per il momento nel settore sanità.

I fondamentali del SISTEMA ITALIA.
1) La Costituzione Italiana.
2) I Quaderni del Carcere di Antonio Gramsci.
3) Capitale senza Padroni di Rudolf Meidner-
4) L' Agathopia di James Meade.

Il contesto di riferimento è il COMPLESSO articolo 41 della Costituzione Italiana, con i modelli INTEGRATI,
a) PIANIFICAZIONE ECONOMICA
b) PROGRAMMAZIONE ECONOMICA.
c) MODELLO ECONOMIA SOCIALE DI MERCATO.

A questo enorme modello di KNOWLEDGE SOCIAL MANAGEMENT , sotto la direzione di un CERVELLO SOCIALE dinamico e innovativo
cosa contrappone il MODELLO PARTITO COMUNISTA CINESE ?

' ANDATE E ARRICCHITEVI ' Deng Xiaoping, e la ' via cinese al socialismo'.
Ancora : 'non importa se il gatto è nero o bianco, finché acchiappa il topo'.
E' evidente che la via italiana al socialismo è una via complessa , plurale, progettuale.
La via cinese al socialismo è frutto di un economicismo unidirezionale , in grave difficoltà rispetto al progetto socialista, comunista e umanistico quasi religioso di Gramsci.
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Per quanto riguarda il reddito di cittadinanza e la contrapposizione ad un PIANO PER IL LAVORO,
Questa contrapposizione non esiste.

Il reddito di cittadinanza in italia è una misura di PRONTO INTERVENTO per la povertà.
Siamo lontani IN ITALIA da una problematica lavoristica , riguarda persone che non hanno la possibilità di soddisfare i bisogni primari casa , cibo eccetera.
Il sociologo Gallino scriveva che il costo di un Reddito di cittadinanza universale e un Piano del lavoro sono simili e quindi è preferibile un PIANO DEL LAVORO.
La questione principale non è il costo ma la COMPLESSITA' della programmazione di un PIANO DEL LAVORO che non siano esperienze marginali e secondarie come i LAVORI SOCIALMENTE UTILI.
Un piano del lavoro necessità di una MAPPATURA DEI BISOGNI PRIMARI e NECESSARI.
Inoltre richiede un procedi di pianificazione con strumenti di elaborazione economica quali le tavole di input e output dell' economista russo americano LEONTIEF.
I processi di elaborazione dei progetti richiedono tempi molto lunghi, mentre il REDDITO DI CITTADINANZA richiede una norma giuridica.
Quindi sia per il fatto che la popolazione tra Reddito di Cittadinanza in italia e piano per il lavoro è molto diversa, sia per la diversità tra i 2 istituti non vi è alcuna trade off tra reddito di cittadinanza e Piano per il Lavoro.

Inseriamo qui il saggio del Dott. Renato Costanzo Gatti, un economista di ECONOMIA POLITICA uno dei pochi rimasti in Italia.
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RISCOPRIAMO L’AGATHOTOPIA
On 26 Dicembre 2019 By SocialismoItaliano1892

James Meade (1907-1995)

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio |

Premessa

Si parla molto in questi tempi di reddito di cittadinanza, di salario garantito, di lavoro di cittadinanza, come riconoscimento di un problema di povertà dilagante e disoccupazione ancora alta, a dieci anni ormai dallo scoppio della crisi.

E’ disarmante che si parli di questi argomenti senza mai interrogarsi sulle cause della crisi del 2007 che partendo dal mondo del capitalismo finanziario si è scaricato sugli stati causando le crisi del debito pubblico, dando il via a periodi di recessione più o meno lunghi e differenziati dalla reattività dei vari paesi, comunque traducendosi poi in disoccupazione a doppia cifra con punte incredibili in Italia e Spagna (e non si può fare a meno di considerare la ricaduta dal capitalismo finanziario, che causa come ultimo risultato la disoccupazione di milioni di persone, come un classico esempio di lotta di classe).

Di fronte a tanto sfacelo arrivano proposte che vorrebbero attutire i disagi di disoccupati, esodati, poveri, emarginati con una filosofia che va dal pietoso assistenzialismo ad una versione aggiornata del welfare. Proposte che, nella loro condivisibile ambizione di venir in aiuto dei meno fortunati, trovano, a mio parere, un limite di analisi e quindi di conseguente propositività.

Infatti quelle proposte non prendono atto che la crisi che stiamo attraversando è una crisi di sistema, una crisi di gravità tale da dover essere affrontata con visione ampia e sistemica e non con i pannicelli caldi.

Se poi pensiamo che con la rivoluzione 4.0 è iniziata la diffusione di un nuovo modo di produzione caratterizzato da uno sviluppo enorme nella tecnologia: con le macchine che si parlano fra di loro (IOT M2M), con i big data, con le stampanti 3d, con la robotizzazione, ci rendiamo conto che questo nuovo modo di produrre comporta la necessità di affrontare il problema della disoccupazione tecnologica derivante dalla sostituzione del lavoro con macchine sempre più intelligenti (IA) capaci di autoistruirsi e di automodificare il loro agire, in modo globale, sistemico, rivoluzionario; occorre cioè inventrsi un nuovo modello redistributivo completamente innovativo e radicale.

Le proposte oggi in discussione non sono per nulla all’altezza del tema che stiamo affrontando, altezza e profondità di pensiero che troviamo invece nel libro di James Meade “AGATHOTOPIA”.

L’INCIPIT

Il libro si apre con una visione che spiega le finalità dello stesso, la ricerca di proposte efficaci, efficienti e possibili.

“ Recentemente ho preso il mare per visitare l’isola di Utopia che, mi è stato detto, costituisce un Luogo Perfetto dove vivere. Purtroppo non ho potuto trovare questa terra in Nessun Posto. Tuttavia, sulla strada del ritorno, casualmente mi accadde di vedere la vicina isola di Agathotopia, i cui abitanti non rivendicano certo la perfezione dei loro ordinamenti sociali, ma asseriscono che la loro contrada è un Buon Posto dove vivere”.

I due perni sui quali si regge il lavoro di Meade sono: da una parte la convinzione che il liberismo puro non è in grado di risolvere i disequilibri ma soprattutto non è in grado di combattere la disoccupazione e l’ineguaglianza, dall’altra la diffidenza verso i sistemi con economia pianificata con tratti di burocratismo e limitazione alla creatività.

Questi due perni sono gli stessi del suo maestro Keynes, ma Meade si contraddistingue per proporre una teoria di mutamento generale dell’economia che in Keynes non c’è ed una sottolineatura della convinzione che per perseguire un mondo più egualitario non è più sufficiente agire sui flussi di reddito, ma occorre agire sugli assetti proprietari, convinzione più radicale dell’indicazione di una certa socializzazione pur presente in Keynes.

Il libro fu presentato nel marzo del 1988 a Roma al convegno della Lega Nazionale delle Cooperative, allora diretta da Lanfranco Turci cui parteciparono sia lo stesso Meade che Achille Occhetto. Il convegno dibatteva la possibilità di introdurre nuovo capitale azionario nelle società cooperative e quindi aprire le stesse a nuovi soci apportatori di capitale oltre che di lavoro. Più in generale si discutevano gli articoli 45 e seguenti della nostra Costituzione.

La proposta di mutamento generale dell’economia presente nell’ Agathotopia nasce dalla sintesi, fatta in questo testo, di proposte già formulate ed analizzate in altri suoi testi, e rappresenta la vera diversità con le discussioni di questi giorni su reddito di cittadinanza et similia, proprio per la sua struttura radicale, di mutamento generale, di preparazione scientifica e di completezza storico politica.

GLI ORDINAMENTI SOCIALI DEGLI AGATHOTOPIANI

Gli ordinamenti organicamente proposti da Meade seguono tre filoni complementari:

• La cogestione

• Il Welfare

• La socializzazione.

LA COGESTIONE

L’impresa più caratteristica dell’economia agathotopiana, accanto alla vecchia impresa capitalista e a imprese cooperative, è la Società di Lavoro-Capitale dove i portatori di capitale detengono Certificati Azionari del Capitale e i lavoratori detengono Certificati Azionari del Lavoro. A parte l’origine dei titoli azionari, entrambi i tipi danno uguali diritti in termini di dividendo e di voto in Consiglio di Amministrazione, composto, quest’ultimo, da un numero uguale di detentori di Capitale e Lavoratori, con la consapevolezza che una miglior conduzione dell’impresa porta uguali vantaggi, in termini di dividendo, per entrambi i tipi di detentori di Certificati Azionari, a tal punto che si è convinti che “tutte le decisioni abbisognino dell’approvazione dei rappresentanti sia dei lavoratori che dei detentori del capitale”.

La caratteristica di questa proposta è l’ampliamento della guida dell’impresa e la possibilità di retribuire a mezzo del dividendo, nella stessa misura lavoratori e capitalisti; daltro campo vi è da parte dei lavoratori l’esposizione ad un maggior rischio in caso di insuccesso aziendale, viene perciò a cadere la certezza di un salario fisso, sostituito da una ripartizione degli utili, quando ce ne fossero. Per questa ragione in questo tipo di impresa non tutti i lavoratori sono lavoratori soci, ma solo quelli che se la sentono di essere corresponsabilizzati e di rischiare, mentre altri lavoratori che non se la sentono di correre rischi possono essere assunti a salario fisso come nelle attuali imprese capitalistiche.

La proposta, che ricorda quella di Weitzman, è poi arricchita con approfondimenti in particolare per la gestione del pensionamento che fa perdere il diritto a detenere i Certificati Azionari del Lavoro. Ma viene pure contemplata la possibilità che il lavoratore acquisti Certificati Azionari del Capitale anche di imprese diverse da quella in cui si presta la propria attività lavorativa, rendendo più articolata la gestione tra Capitale e Lavoro, finalizzata ad una maggior collaborazione e corresponsabilità, minor conflittualità e una tendenza a ridurre le disuguaglianze reddituali e di status.

In conclusione:

1 – Le partnerships potrebbero incentivare notevolmente la cooperazione tra lavoro e capitale nella gestione più efficiente e proficua dell’impresa concorrenziale;

2 – inoltre potrebbero determinare una forte espansione della domanda di mano d’opera e, di conseguenza, una riduzione della disoccupazione, successivamente al superamento rappresentato da una rigorosa applicazione del principio della parità di salario a parità di lavoro;

3 – l’adozione del sistema delle partnerships non comporterebbe un automatico, sostanziale miglioramento della distribuzione del reddito tra lavoro e capitale;

4 – l’adesione dei lavoratori a questo sistema potrebbe venire seriamente ostacolata dalle possibili conseguenze dell’assunzione di rischio”

In considerazione dei punti 3 e 4 si rendono necessari, nell’isola di Agathotopia, altri ordinamenti sociali.

IL WELFARE

Poiché il sistema cogestionale non riesce a garantire in pieno un processo di equalizzazione dei redditi e causa ostilità nei lavoratori che non se la sentono di assumersi dei rischi, gli agathotopiani hanno studiato una serie di contributi da distribuire tra i meno fortunati, contributi finanziati da un sistema fiscale adeguato.

Gli ordinamenti sociali previsti nell’isola sono una specie di reddito di cittadinanza che nell’isola viene chiamato Dividendo Sociale.

Esso vede parecchie configurazioni, ma la finale è un importo fisso uguale per tutti esentasse.

La forma di finanziamento di questo Dividendo Sociale sono i trasferimenti di ricchezza ereditaria ovvero le donazioni inter vivos, e una imposizione progressiva sui redditi.

Notiamo che, coerentemente con quanto sostenuto dal Meade appare una incisiva tassazione sui trasferimenti di ricchezza per via ereditaria o donazioni inter vivos; oltre a ricordarci l’impostazione einaudiana dell’eguaglianza dei punti di partenza, osserviamo che l’impostazione del modello redistributivo si allarga dai flussi di reddito per intaccare gli assetti proprietari.

Nel sistema così disegnato “il cittadino avrebbe a sua disposizione quattro fonti di reddito:

1 – Il Dividendo Sociale che rappresenterebbe un introito stabile ed esente da imposte;

2 – La remunerazione dei Certificati Azionari di Capitale;

3 – L’eventuale quota della retribuzione del lavoro che venga percepita sotto forma di salario fisso;

4 – L’ammontare totale o parziale della remunerazione derivante dalla partecipazione ai profitti d’impresa con i Certificati Azionari del Lavoro.

LA SOCIALIZZAZIONE

“Lo Stato di Agathotopia è proprietario di circa il 50% delle ricchezze della società e utilizza il ricavo derivante dalla remunerazione del capitale per concorrere al finanziamento del Dividendo Sociale”.

Questo ordinamento è il più rivoluzionario tra quelli realizzati sull’isola di Agathotipia; la proprietà è dello Stato che non gestisce in modo diretto le imprese che possiede, per non intralciare la libera concorrenza, ma ne gode i Dividendi di Capitale, procurandosi rilevanti risorse per finanziare il Dividendo Sociale. E’ con questa proposta che Meade realizza la sua affermazione per cui per mettere a punto un sistema il più possibile egualitario, non basta più agire solo sui flussi di reddito ma occorre rivedere e redistribuire gli assetti proprietari.

Il percorso è stato lungo e travagliato; si è realizzato attraverso misure fiscali che hanno penalizzato fiscalmente quanto viene ritenuto socialmente indesiderabile, piuttosto che dare sovvenzioni su ciò che si ritiene desiderabile; si è tassata fortemente la pubblicità ritenuta un danno sociale e uno spreco di risorse, un mezzo con cui i produttori cercano di sottrarsi a vicenda la clientela senza alcun vantaggio reale per il consumatore; si sono ulteriormente elevate le tassazioni su eredità e donazioni inter vivos; tutte misure che dopo anni hanno portato a questa trasformazione del Debito Pubblico in Credito Nazionale.

CONCLUSIONI

L’isola di Agathotopia, nonostante gli sforzi di James Meade, nonostante evitasse gli estremismi liberistici o quelli di una burocrazia pianificatrice, non ha trovato chi nel nostro mondo cercasse di imitarla.

L’Agathotopia di Meade, nonostante fosse realizzabile e perseguibile, anche o proprio perché non richiedeva la perfezione, si è trasformata in una Piccola Utopia.

Ma la rilettura di quel testo, letto da molti militanti comunisti che nel 1988 cercavano una “terza via”, da molti economisti ormai disabituati a disegnare modifiche globali dell’economia pragmaticamente legati all’esistente, proibendosi così di sognare, ci dà una indicazione sulla grande rivoluzione nel modo di produzione in atto sotto il nome di industria 4.0.

La completa robotizzazione della produzione farebbe scomparire la classe operaia ed il lavoro dipendente così come farebbe scomparire il capitalismo così come lo conosciamo.

La piena proprietà privata dei mezzi di produzione, dei robots, darebbe ai detentori non il plusvalore, che non esisterebbe più, ma il potere dispotico di decidere nella redistribuzione della ricchezza prodotta: chi può consumare, quando può consumare, quanto può consumare, cosa può consumare. Un neo-schiavismo che solo la socializzazione dei mezzi di produzione può evitare affiancando al nuovo modo di produrre un nuovo modo di distribuire.

Una risposta globale, quella dell’isola di Agathotopia, che fa impallidire le proposte minimaliste fatte dai nostri politici e dai nostri economisti in questi giorni.

Non possiamo immaginarci, oggi, se e in che modo, in una economia completamente robotizzata, si possano generere delle crisi, comunque il sistema agathotopiano che esclude l’intervento dello stato per correggere o reindirizzare la produzione del PIL in caso di crisi, ovvero per indirizzare lo sviluppo delle ricerche e dei nuovi prodotti (escludiamo che il mondo si congeli sulle produzioni esistenti) sia da migliorare prevedendo un maggior ruolo decisorio nelle scelte economiche, pur con lo stesso spirito costruttivo dimostrato dal Meade..