quo vadis PD ????
Re: quo vadis PD ????
Matteo Renzi intervista all'Espresso: "Se Bersani fallisce, sono pronto a candidarmi"
Dire, L'Huffington Post | Pubblicato: 13/03/2013 16:39 CET | Aggiornato: 13/03/2013 18:05 CET
Salvatore della patria? "Mettiamola così: se ci fossero le condizioni ci starei. Insomma, pieno sostegno a Bersani, ma se il suo tentativo di formare un governo dovesse fallire, Matteo Renzi è pronto a candidarsi per la premiership in caso di nuove elezioni.
Dunque Renzi è pronto a fare il grande passo? "Pensavo di sì. Da quando ho letto che anche Fioroni mi appoggerebbe mi è venuto qualche dubbio...". Utilizza anche l'arma dell'ironia Matteo Renzi nella lunga intervista all'Espresso . http://espresso.repubblica.it/dettaglio ... to/2202395
In un articolo dell'Huffpost, pubblicato una settimana fa, già si parlava della partita elettorale che il sindaco di Firenze avrebbe tutta l'intenzione di giocare.
Il sindaco di Firenze, nell'intervista, spiega tra l'altro che sta preparando un "job act", un "innovativo" piano per il lavoro, da presentare a breve. Tra gli altri temi: i rapporti con Grillo, il finanziamento pubblico ai partiti, i conflitti con i dirigenti del Pd, le primarie, il nuovo Presidente della Repubblica.
Renzi sottolinea anche di non aver mai avuto intenzione di cambiare partito: "sono rimasto nel Pd e con Bersani non solo perché sono leale alla ditta, ma anche perché penso che per l'italia sia utile avere due grandi partiti: non possiamo continuare con l'idea che ognuno si fa il suo partitino".
Quanto alla segreteria è netto: "non sono minimamente interessato a capire cosa farò da grande...". A questo, scusi, non crede proprio nessuno. "Io voglio che ora facciamo sentire la nostra voce". Ok, ma faccia una previsione. "Non mi sostituisco al capo dello Stato.
Credo che sarà una legislatura breve, mi auguro che almeno si riesca a scrivere una buona legge elettorale. Il mio modello è il sindaco d'Italia. Solo da noi il vincitore è oggetto di interpretazione: se alla Sistina si votasse con il porcellum sarebbero eletti in quattro. E ora a venti giorni dal voto stiamo per infilarci nel rito nobile delle consultazioni. Ci mettono meno a fare il Papa che il Presidente della Camera!".
Dire, L'Huffington Post | Pubblicato: 13/03/2013 16:39 CET | Aggiornato: 13/03/2013 18:05 CET
Salvatore della patria? "Mettiamola così: se ci fossero le condizioni ci starei. Insomma, pieno sostegno a Bersani, ma se il suo tentativo di formare un governo dovesse fallire, Matteo Renzi è pronto a candidarsi per la premiership in caso di nuove elezioni.
Dunque Renzi è pronto a fare il grande passo? "Pensavo di sì. Da quando ho letto che anche Fioroni mi appoggerebbe mi è venuto qualche dubbio...". Utilizza anche l'arma dell'ironia Matteo Renzi nella lunga intervista all'Espresso . http://espresso.repubblica.it/dettaglio ... to/2202395
In un articolo dell'Huffpost, pubblicato una settimana fa, già si parlava della partita elettorale che il sindaco di Firenze avrebbe tutta l'intenzione di giocare.
Il sindaco di Firenze, nell'intervista, spiega tra l'altro che sta preparando un "job act", un "innovativo" piano per il lavoro, da presentare a breve. Tra gli altri temi: i rapporti con Grillo, il finanziamento pubblico ai partiti, i conflitti con i dirigenti del Pd, le primarie, il nuovo Presidente della Repubblica.
Renzi sottolinea anche di non aver mai avuto intenzione di cambiare partito: "sono rimasto nel Pd e con Bersani non solo perché sono leale alla ditta, ma anche perché penso che per l'italia sia utile avere due grandi partiti: non possiamo continuare con l'idea che ognuno si fa il suo partitino".
Quanto alla segreteria è netto: "non sono minimamente interessato a capire cosa farò da grande...". A questo, scusi, non crede proprio nessuno. "Io voglio che ora facciamo sentire la nostra voce". Ok, ma faccia una previsione. "Non mi sostituisco al capo dello Stato.
Credo che sarà una legislatura breve, mi auguro che almeno si riesca a scrivere una buona legge elettorale. Il mio modello è il sindaco d'Italia. Solo da noi il vincitore è oggetto di interpretazione: se alla Sistina si votasse con il porcellum sarebbero eletti in quattro. E ora a venti giorni dal voto stiamo per infilarci nel rito nobile delle consultazioni. Ci mettono meno a fare il Papa che il Presidente della Camera!".
Re: quo vadis PD ????
Se l'obbiettivo è quello di "ammorbidire" i grillini dando loro una poltrona, sono d'accordo con Renzi: penso sia una via sbagliata.
Di positivo vedo la messa fuori gioco del Pdl e di quanti (Monti) insistono per impresentabili governissimi di "larghe intese".
ELEZIONI POLITICHE 2013
14/03/2013 - RETROSCENA
Il Pd pronto a far guidare
la Camera al M5S
CARLO BERTINI
ROMA
La decisione formale arriverà stasera quando alla Camera si riunirà l’assemblea dei deputati per assumere una linea il più possibile unanime, ma da una serie di segnali incrociati, Bersani e lo stato maggiore del Pd sarebbero pronti ad una mossa di grande impatto: il via libera a votare un esponente del Movimento 5 Stelle per la presidenza di Montecitorio. E di questi segnali di disponibilità, pur sofferta, del Pd, uno dei più significativi sembra essere il passo indietro del candidato favorito dei Democratici, cioè Dario Franceschini, che ha fatto sapere di non essere disponibile ad assumere quel ruolo neanche nel caso che i grillini facessero marcia indietro rinunciando alla posizione apicale.
Con l’argomentazione, espressa pare in vari colloqui con i vertici del suo partito, che un conto sarebbe stato assumere questa responsabilità nell’ambito di un progetto complessivo di un’intera legislatura di tipo costituente, altra cosa il respiro che potrebbe avere in una condizione come quella uscita dalle urne, in cui l’incertezza regna sovrana e la durata della legislatura difficilmente sarà quella naturale. Ma non è l’unico indicatore che fa pendere la bilancia del Pd verso questa soluzione, che peraltro lascia perplesso un largo fronte trasversale alle diverse anime interne, con dubbi diffusi sui possibili rischi insiti in questa scelta tra gli stessi bersaniani, lettiani e franceschiniani, veltroniani e bindiani vari. Nel partito ormai il tam tam è questo e tutti si preparano ad avallare quella che viene indicata come la logica conseguenza della linea tenuta fin qui da Bersani, cioè predisporre tutte le condizioni per rendere più difficile ai grillini dire no ad un «governo del cambiamento».
Anche il plenipotenziario del segretario nella triade degli sherpa che porta avanti la tornata di contatti al Senato con le altre forze politiche, cioè Davide Zoggia, uscendo dall’incontro con i «montiani» perplessi sulle aperture ai grillini, fa notare: «Siccome noi abbiamo sempre detto che siamo per il cambiamento e visto che loro hanno un risultato numerico equivalente a quello del Pd, non sarebbe logico, a fronte di una disponibilità da parte dei 5Stelle, non votare un loro candidato...Detto questo, vedremo». I più decisi ad andare avanti su questa linea sembrano essere i «giovani turchi» e i bersaniani e il motivo è semplice: se il tentativo di formare un governo franasse, si dovrebbe votare a giugno con lo stesso Bersani in campo. Che potrebbe giocarsi una sorta di secondo tempo della partita, scaricando a quel punto la responsabilità di nuove elezioni su Grillo; con la tesi, molto utile secondo loro in campagna elettorale, che sarebbe finita così malgrado tutto fosse stato tentato e alla luce del sole, nel modo più corretto: votare un grillino nello scranno più alto della Camera, preparare un programma circostanziato in 8 punti, dire sì al taglio del finanziamento pubblico ai partiti...Insomma, una strategia che dovrebbe condurre alle urne al più presto senza frapporre tempo in mezzo per nuove primarie che potrebbero incoronare Renzi e stravolgere gli equilibri della sinistra. Quindi, alla Camera potrebbe finire con una votazione di un esponente grillino nello scranno più alto, di un vicepresidente sempre di area 5Stelle, due vicepresidenti del Pd e uno del Pdl.
Al Senato, invece, dove l’assemblea Pd è convocata alle 18, la situazione è, se possibile, più complessa e dovrebbe portare, con tutti i condizionali del caso, a votare un candidato del Pd alla presidenza, e il nome più gettonato è quello di Anna Finocchiaro: che alcuni dicono potrebbe ricevere pure un mandato esplorativo come seconda carica dello Stato, per provare a formare un governo se il piano A di Bersani dovesse incepparsi. Insomma una candidatura che col passar delle ore diventa sempre più forte, visto che la subordinata di una presidenza affidata ad un esponente di Scelta Civica, lo stesso Monti o Mario Mauro, sembra tramontata dopo che ieri è sceso il gelo con i diretti interessati. Al Senato, in un incontro di un’ora con gli sherpa del Pd, Zanda, Zoggia e Calipari, la delegazione montiana guidata da Andrea Olivero non ha fatto altro che ripetere, con parole diverse, quanto in sostanza uscito dal vertice con Monti della mattina: una chiusura netta ad un governo Pd-5Stelle e il rilancio di una prospettiva di larghe intese per le riforme. Non proprio un buon viatico per ottenere una presidenza in un clima del genere.
http://www.lastampa.it/2013/03/14/itali ... agina.html
Di positivo vedo la messa fuori gioco del Pdl e di quanti (Monti) insistono per impresentabili governissimi di "larghe intese".
ELEZIONI POLITICHE 2013
14/03/2013 - RETROSCENA
Il Pd pronto a far guidare
la Camera al M5S
CARLO BERTINI
ROMA
La decisione formale arriverà stasera quando alla Camera si riunirà l’assemblea dei deputati per assumere una linea il più possibile unanime, ma da una serie di segnali incrociati, Bersani e lo stato maggiore del Pd sarebbero pronti ad una mossa di grande impatto: il via libera a votare un esponente del Movimento 5 Stelle per la presidenza di Montecitorio. E di questi segnali di disponibilità, pur sofferta, del Pd, uno dei più significativi sembra essere il passo indietro del candidato favorito dei Democratici, cioè Dario Franceschini, che ha fatto sapere di non essere disponibile ad assumere quel ruolo neanche nel caso che i grillini facessero marcia indietro rinunciando alla posizione apicale.
Con l’argomentazione, espressa pare in vari colloqui con i vertici del suo partito, che un conto sarebbe stato assumere questa responsabilità nell’ambito di un progetto complessivo di un’intera legislatura di tipo costituente, altra cosa il respiro che potrebbe avere in una condizione come quella uscita dalle urne, in cui l’incertezza regna sovrana e la durata della legislatura difficilmente sarà quella naturale. Ma non è l’unico indicatore che fa pendere la bilancia del Pd verso questa soluzione, che peraltro lascia perplesso un largo fronte trasversale alle diverse anime interne, con dubbi diffusi sui possibili rischi insiti in questa scelta tra gli stessi bersaniani, lettiani e franceschiniani, veltroniani e bindiani vari. Nel partito ormai il tam tam è questo e tutti si preparano ad avallare quella che viene indicata come la logica conseguenza della linea tenuta fin qui da Bersani, cioè predisporre tutte le condizioni per rendere più difficile ai grillini dire no ad un «governo del cambiamento».
Anche il plenipotenziario del segretario nella triade degli sherpa che porta avanti la tornata di contatti al Senato con le altre forze politiche, cioè Davide Zoggia, uscendo dall’incontro con i «montiani» perplessi sulle aperture ai grillini, fa notare: «Siccome noi abbiamo sempre detto che siamo per il cambiamento e visto che loro hanno un risultato numerico equivalente a quello del Pd, non sarebbe logico, a fronte di una disponibilità da parte dei 5Stelle, non votare un loro candidato...Detto questo, vedremo». I più decisi ad andare avanti su questa linea sembrano essere i «giovani turchi» e i bersaniani e il motivo è semplice: se il tentativo di formare un governo franasse, si dovrebbe votare a giugno con lo stesso Bersani in campo. Che potrebbe giocarsi una sorta di secondo tempo della partita, scaricando a quel punto la responsabilità di nuove elezioni su Grillo; con la tesi, molto utile secondo loro in campagna elettorale, che sarebbe finita così malgrado tutto fosse stato tentato e alla luce del sole, nel modo più corretto: votare un grillino nello scranno più alto della Camera, preparare un programma circostanziato in 8 punti, dire sì al taglio del finanziamento pubblico ai partiti...Insomma, una strategia che dovrebbe condurre alle urne al più presto senza frapporre tempo in mezzo per nuove primarie che potrebbero incoronare Renzi e stravolgere gli equilibri della sinistra. Quindi, alla Camera potrebbe finire con una votazione di un esponente grillino nello scranno più alto, di un vicepresidente sempre di area 5Stelle, due vicepresidenti del Pd e uno del Pdl.
Al Senato, invece, dove l’assemblea Pd è convocata alle 18, la situazione è, se possibile, più complessa e dovrebbe portare, con tutti i condizionali del caso, a votare un candidato del Pd alla presidenza, e il nome più gettonato è quello di Anna Finocchiaro: che alcuni dicono potrebbe ricevere pure un mandato esplorativo come seconda carica dello Stato, per provare a formare un governo se il piano A di Bersani dovesse incepparsi. Insomma una candidatura che col passar delle ore diventa sempre più forte, visto che la subordinata di una presidenza affidata ad un esponente di Scelta Civica, lo stesso Monti o Mario Mauro, sembra tramontata dopo che ieri è sceso il gelo con i diretti interessati. Al Senato, in un incontro di un’ora con gli sherpa del Pd, Zanda, Zoggia e Calipari, la delegazione montiana guidata da Andrea Olivero non ha fatto altro che ripetere, con parole diverse, quanto in sostanza uscito dal vertice con Monti della mattina: una chiusura netta ad un governo Pd-5Stelle e il rilancio di una prospettiva di larghe intese per le riforme. Non proprio un buon viatico per ottenere una presidenza in un clima del genere.
http://www.lastampa.it/2013/03/14/itali ... agina.html
Re: quo vadis PD ????
Bari. Blasi ha chiesto ai suoi di sospendere l'adesione alla Giunta fino ad una discussione nel partito. Vendola minaccia di andar via
BARI – Lo strappo è ormai avvenuto. Il Pd non accetta il rimpasto operato dal presidente della Regione Nichi Vendola. Non accetta, soprattutto, di aver perso la vicepresidenza ma nemmeno l'entrata in Giunta dei montiani.
Il segretario regionale del Partito democratico Sergio Blasi ha chiesto ai "suoi" cinque di sospendere l'adesione alla compagine di governo del leader di Sel prima di una discussione collegiale nel partito.
E Vendola, in serata, ha spiegato le sue scelte, rivolgendosi direttamente agli esponenti del Pd. Aggiungendo poi di essere pronto a dimettersi, se non dovessero essere comprese ed accettate.
"Ho esercitato le mie prerogative – ha dichiarato il governatore -, consapevole che non si trattava di operare un semplice ritocco, ma di mettere in campo una vera innovazione. Ogni cambiamento comporta fibrillazioni e scosse di assestamento e dunque non mi pare di registrare alcun fatto inedito quando dai partiti e dal quadro politico giungono segnali di disagio o asperità polemiche. Del resto io ho posto preventivamente, a chiunque mi chiedeva anche con toni perentori di restare in Puglia, la questione di un cambio di passo, di un rafforzamento della mia squadra di governo: una necessità dettata dal rapido deterioramento della condizione socio-economica del nostro Paese e in particolare dell'intero Mezzogiorno. Io capisco fino in fondo le ragioni dei partiti ma i partiti devono capire che alla crisi che viviamo non si può replicare mettendo avanti gli equilibri interni e le mediazioni estenuanti sulle persone. La mia bussola è sempre stata la Puglia: intendo continuare su questo sentiero. Voglio inoltre precisare che non vi è alcuna convergenza politica con l'area cosiddetta montiana, che in Consiglio Regionale non è neppure costituita. Ho colloquiato in questi mesi con diversi consiglieri regionali in fuga dal centro-destra, da loro ho accettato suggerimenti e proposte, ho guadagnato la loro fiducia. In particolare ho avuto modo di apprezzare la competenza tecnica, il decoro comportamentale e la passione civile del giovane Leonardo Di Gioia, il quale mi ha recentemente comunicato l'intenzione di aderire alla mia maggioranza senza nulla chiedere in cambio. Penso che aprirsi a competenze ed esperienze diverse, tanto più in tempi di urla e di fanatismo, sia una via necessaria. E dunque si riparte".
"Se il Pd – ha aggiunto - ritiene che questa giunta sia una menomazione delle prerogative del partito di maggioranza relativa e propone di limitare l'autonomia del presidente della giunta, poco male: al Pd toccherà trovarsi non solo un nuovo governo, ma soprattutto un nuovo presidente. Le mie dimissioni sono a disposizione".
BARI – Lo strappo è ormai avvenuto. Il Pd non accetta il rimpasto operato dal presidente della Regione Nichi Vendola. Non accetta, soprattutto, di aver perso la vicepresidenza ma nemmeno l'entrata in Giunta dei montiani.
Il segretario regionale del Partito democratico Sergio Blasi ha chiesto ai "suoi" cinque di sospendere l'adesione alla compagine di governo del leader di Sel prima di una discussione collegiale nel partito.
E Vendola, in serata, ha spiegato le sue scelte, rivolgendosi direttamente agli esponenti del Pd. Aggiungendo poi di essere pronto a dimettersi, se non dovessero essere comprese ed accettate.
"Ho esercitato le mie prerogative – ha dichiarato il governatore -, consapevole che non si trattava di operare un semplice ritocco, ma di mettere in campo una vera innovazione. Ogni cambiamento comporta fibrillazioni e scosse di assestamento e dunque non mi pare di registrare alcun fatto inedito quando dai partiti e dal quadro politico giungono segnali di disagio o asperità polemiche. Del resto io ho posto preventivamente, a chiunque mi chiedeva anche con toni perentori di restare in Puglia, la questione di un cambio di passo, di un rafforzamento della mia squadra di governo: una necessità dettata dal rapido deterioramento della condizione socio-economica del nostro Paese e in particolare dell'intero Mezzogiorno. Io capisco fino in fondo le ragioni dei partiti ma i partiti devono capire che alla crisi che viviamo non si può replicare mettendo avanti gli equilibri interni e le mediazioni estenuanti sulle persone. La mia bussola è sempre stata la Puglia: intendo continuare su questo sentiero. Voglio inoltre precisare che non vi è alcuna convergenza politica con l'area cosiddetta montiana, che in Consiglio Regionale non è neppure costituita. Ho colloquiato in questi mesi con diversi consiglieri regionali in fuga dal centro-destra, da loro ho accettato suggerimenti e proposte, ho guadagnato la loro fiducia. In particolare ho avuto modo di apprezzare la competenza tecnica, il decoro comportamentale e la passione civile del giovane Leonardo Di Gioia, il quale mi ha recentemente comunicato l'intenzione di aderire alla mia maggioranza senza nulla chiedere in cambio. Penso che aprirsi a competenze ed esperienze diverse, tanto più in tempi di urla e di fanatismo, sia una via necessaria. E dunque si riparte".
"Se il Pd – ha aggiunto - ritiene che questa giunta sia una menomazione delle prerogative del partito di maggioranza relativa e propone di limitare l'autonomia del presidente della giunta, poco male: al Pd toccherà trovarsi non solo un nuovo governo, ma soprattutto un nuovo presidente. Le mie dimissioni sono a disposizione".
Re: quo vadis PD ????
Forse perché Bersani è ancora prigioniero della vecchia guardia.E trovo singolare che il Pd non riesca a comunicare che i suoi nuovi parlamentari, giovani e donne, sono più interessanti del fenomeno di colore dei deputati di 5 Stelle. Sono quasi tutti bersaniani: perché non li valorizzano? Sono migliori del Pd che va in televisione
"Io sono pronto"
14 Marzo 2013 16:32
DI MARCO DAMILANO
su L'Espresso
«Sarà una legislatura breve. Ma spero possa almeno fare una riforma elettorale perché i cittadini scelgano il prossimo Sindaco d'Italia. E se ci saranno le condizioni, mi candiderò». Parla l'ex sfidante di Bersani
Sulla scrivania del suo ufficio a Palazzo Vecchio, accanto alla stanza di Leone X, Matteo Renzi gioca con i pennarelli e sfoglia le foto dei cardinali in conclave. E' reduce da una discussione in famiglia sul nuovo papa, il sindaco di Firenze, cattolico praticante, lo vorrebbe aperto sulle questioni etiche, un papa "rottamatore". Ma in politica depone la sua antica bandiera: «Rottamazione non comunica speranza. Ora è il momento di dire un'altra parola: lavoro. E' meno sexy, ma incrocia la vita degli italiani. Insieme a una radicale riforma della politica». Renzi si butta a sinistra, in vista della futura corsa elettorale. Che il sindaco vede sempre più vicina.
Cosa rischia l'Italia in queste settimane?
«C'è un clima pericoloso. Da giorni discutiamo dei presidenti delle Camere, intanto lo spread con la Spagna si riduce, se la Pubblica amministrazione non paga i debiti ci saranno 300-500 mila disoccupati in più nei prossimi mesi. E la politica sottovaluta l'emergenza. La notizia della settimana è Bridgestone che chiude a Bari, non Grillo che chiude a Bersani. Si può fare con un mese di ritardo un governo che affronti la crisi. Oppure nominare in 48 ore un governo che vivacchia. Il punto è: un governo per fare cosa?».
Cosa metterebbe nell'agenda Renzi?
«Al primo posto, il lavoro. Ci sono tre milioni di disoccupati, il 40 per cento di giovani. Sto preparando un Job Act: un piano per il lavoro. Sarà innovativo. Noi ci siamo divisi tra la Cgil e Ichino e abbiamo dimenticato cose molto concrete: 20 mila cantieri fermi, lo 0,7 per cento del Pil, bloccati dal patto di stabilità, lo ricorda il presidente dell'Anci Graziano Del Rio. Investimenti sull'innovazione digitale, sull'agroalimentare, progetti per gli investitori stranieri. Al Job Act stanno lavorando imprenditori, docenti, manager, neo-parlamentari: un volume corposo, lo presenteremo tra aprile e maggio...».
Che caso: giusto in tempo per la campagna elettorale!
«Io spero che sia in tempo per un governo che queste cose le faccia. Partendo dalle esperienze di chi vive in queste realtà, non dal pensiero di un funzionario di partito chiuso in un centro studi che immagina come deve funzionare il mondo. La sfida del Pd è questa: essere il partito del lavoro».
Bersani ha fatto tutta la campagna elettorale sul lavoro. Risultato: i disoccupati ma anche gli operai hanno votato per Grillo.
«Non si vince con il programma, ma con la speranza. Molti dicono: al Pd è mancata la tecnologia di Grillo. Non è vero, è mancata la passione che una parte di quel mondo esprime. Abbiamo parlato molto di giaguari da smacchiare e poco di asili nido. Otto milioni di cittadini non hanno votato Grillo perché avevano letto il libro di Casaleggio sulla guerra mondiale, ma perché trasmette un cambiamento. E trovo singolare che il Pd non riesca a comunicare che i suoi nuovi parlamentari, giovani e donne, sono più interessanti del fenomeno di colore dei deputati di 5 Stelle. Sono quasi tutti bersaniani: perché non li valorizzano? Sono migliori del Pd che va in televisione».
Sul tentativo di Bersani di fare un governo lei si mostra più che scettico: è ancora l'uomo giusto per gestire questa fase?
«Prendo atto della strategia di Bersani di aprire a Grillo. Gli ho detto: in bocca al lupo, faccio il tifo per te. Ma mi sembra improbabile che ci riesca. O Grillo cambia idea o noi cambiamo strategia».
In che direzione?
«Ah no, le formule non mi riguardano. Faccia Bersani. Accanto al lavoro serve una riforma della politica che comprenda la nuova legge elettorale, la riduzione dei parlamentari, l'abolizione delle province e del finanziamento dei partiti».
Grillo chiede a Bersani di non accettare i rimborsi elettorali, in Rete gira l'apposito modulo: Bersani dovrebbe firmarlo?
«Più inseguiamo Grillo più gioca la sua partita. Bersani dovrebbe abolire il finanziamento, non firmare il foglio di Grillo che sarebbe un nuovo cedimento. Non servirà a fare la pace con Grillo, ma almeno faremo la pace con gli italiani. La mia proposta di abolizione aiuta Bersani...».
Di MARCO DAMILANO
su L'Espresso
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Re: quo vadis PD ????
Corriere 14.3.13
Quella trattativa che indebolisce il Pd
di Antonio Polito
Se l'intento di Bersani era quello di mettere con le spalle al muro Grillo, bisogna dire che sta ottenendo l'effetto contrario. È piuttosto il Pd che ogni giorno cede un altro po' di terreno al Movimento 5 Stelle, perdendo al tempo stesso qualcosa della sua credibilità di forza di governo.
Non è solo la forma: il segretario del Pd è già costretto a dialogare con Celentano, speriamo non debba farlo prima o poi pure con il nipote e il commercialista di Grillo, rispettivamente vicepresidente e segretario del partito con cui si vuole alleare. È anche questione di sostanza. Ieri, per esempio, è ufficialmente entrato nella trattativa politica per la formazione di una maggioranza parlamentare il tema dell'arresto di Silvio Berlusconi.
Prima il leader dei grillini al Senato, Vito Crimi, e a ruota il braccio destro di Bersani, Maurizio Migliavacca, hanno fatto sapere che i loro gruppi voteranno sì a un'eventuale richiesta di custodia cautelare per l'ex premier. Si badi bene: nessuna Procura l'ha chiesta, almeno finora. Però già si sa che Pd e M5S la voterebbero. Che cos'è? Il nono punto di un programma di governo? Dopo la marcia dei parlamentari pdl sul Tribunale di Milano, un altro piccolo grande passo verso l'imbarbarimento dello Stato di diritto.
Altro esempio: il finanziamento pubblico. Lì il gioco di Grillo non è stato neanche difficile. Siccome Bersani insiste tanto nel proporre un fidanzamento, lui gli ha chiesto in dote i 48 milioni che spetterebbero al Pd per queste elezioni. Comincia a rinunciare a quelli — lo ha provocato — e poi ne parliamo. Naturalmente Grillo sa benissimo che il Pd non vuole, e forse non può, rinunciare a quei soldi. Ma quando tutto sarà finito, gli elettori ricorderanno questo no di Bersani molto più degli otto sì che ha proposto.
Ancora: prima delle elezioni Bersani ha fatto il giro delle capitali europee per assicurare che il Pd è una forza europeista, che non tradirebbe gli impegni presi, che non lascerebbe sprofondare il Paese nel baratro dell'insolvenza. Ma un suo governo dovrebbe tener fede alla parola alleandosi con chi ancora ieri ha dichiarato che «l'Italia è una patata bollente già fuori dall'euro», e anzi propone un referendum (inammissibile per la nostra Costituzione) per uscirne.
Il prezzo di questa presunta trattativa tra Pd e M5S, insomma, sembra pagarlo molto più il Pd. Se il premio finale fosse il governo, si potrebbe anche capire il sacrificio.
Ma se così non sarà, e tutto lo lascia credere, perché mai i Democratici si sono infilati in queste forche caudine?
In molti cominciano a chiederselo nel partito, e qualcuno comincia a chiederlo anche a voce alta.
Il sospetto è che Grillo sia usato ormai solo al fine di una lotta interna: per stabilire chi sarà il candidato premier nel caso si vada subito al voto, se Bersani che lo corteggia o Renzi che lo fronteggia.
Il problema è che tornare subito alle urne non sarebbe solo un brutto colpo alla governabilità del Paese; potrebbe esserlo anche per il Pd.
Nel migliore dei casi, infatti, quel partito può ambire a confermare il risultato di febbraio, arrivando primo alla Camera; ma la maggioranza al Senato resterebbe un miraggio.
D'altra parte alla roulette russa del Porcellum potrebbero arrivare primi anche Grillo o Berlusconi, bastano poche centinaia di migliaia di voti in più. E in quel caso la sinistra perderebbe, oltre a tutto il resto, anche duecento parlamentari, perché chi arriva secondo scende da 340 seggi a 140.
Questi ragionamenti sono ben presenti a molti nel Pd. Il fronte di coloro che non vogliono tornare alle urne è più ampio di quanto sembri, ma è frammentato; e soprattutto è paralizzato dalla virulenza che ha assunto di nuovo (forse non casualmente) la guerra tra Berlusconi e i tribunali.
Hanno paura di incorrere nella scomunica di quel potente partito extraparlamentare che, in nome della morale, ha ormai subordinato ogni salvezza comune alla perdizione del nemico. Tutto sembra dunque inesorabilmente avvitarsi verso il disastro. Eppure, avrebbe detto Abramo Lincoln, «una volta deciso che una cosa può e deve essere fatta, bisogna solo trovare il modo». Anche lui era un presidente della Repubblica.
Quella trattativa che indebolisce il Pd
di Antonio Polito
Se l'intento di Bersani era quello di mettere con le spalle al muro Grillo, bisogna dire che sta ottenendo l'effetto contrario. È piuttosto il Pd che ogni giorno cede un altro po' di terreno al Movimento 5 Stelle, perdendo al tempo stesso qualcosa della sua credibilità di forza di governo.
Non è solo la forma: il segretario del Pd è già costretto a dialogare con Celentano, speriamo non debba farlo prima o poi pure con il nipote e il commercialista di Grillo, rispettivamente vicepresidente e segretario del partito con cui si vuole alleare. È anche questione di sostanza. Ieri, per esempio, è ufficialmente entrato nella trattativa politica per la formazione di una maggioranza parlamentare il tema dell'arresto di Silvio Berlusconi.
Prima il leader dei grillini al Senato, Vito Crimi, e a ruota il braccio destro di Bersani, Maurizio Migliavacca, hanno fatto sapere che i loro gruppi voteranno sì a un'eventuale richiesta di custodia cautelare per l'ex premier. Si badi bene: nessuna Procura l'ha chiesta, almeno finora. Però già si sa che Pd e M5S la voterebbero. Che cos'è? Il nono punto di un programma di governo? Dopo la marcia dei parlamentari pdl sul Tribunale di Milano, un altro piccolo grande passo verso l'imbarbarimento dello Stato di diritto.
Altro esempio: il finanziamento pubblico. Lì il gioco di Grillo non è stato neanche difficile. Siccome Bersani insiste tanto nel proporre un fidanzamento, lui gli ha chiesto in dote i 48 milioni che spetterebbero al Pd per queste elezioni. Comincia a rinunciare a quelli — lo ha provocato — e poi ne parliamo. Naturalmente Grillo sa benissimo che il Pd non vuole, e forse non può, rinunciare a quei soldi. Ma quando tutto sarà finito, gli elettori ricorderanno questo no di Bersani molto più degli otto sì che ha proposto.
Ancora: prima delle elezioni Bersani ha fatto il giro delle capitali europee per assicurare che il Pd è una forza europeista, che non tradirebbe gli impegni presi, che non lascerebbe sprofondare il Paese nel baratro dell'insolvenza. Ma un suo governo dovrebbe tener fede alla parola alleandosi con chi ancora ieri ha dichiarato che «l'Italia è una patata bollente già fuori dall'euro», e anzi propone un referendum (inammissibile per la nostra Costituzione) per uscirne.
Il prezzo di questa presunta trattativa tra Pd e M5S, insomma, sembra pagarlo molto più il Pd. Se il premio finale fosse il governo, si potrebbe anche capire il sacrificio.
Ma se così non sarà, e tutto lo lascia credere, perché mai i Democratici si sono infilati in queste forche caudine?
In molti cominciano a chiederselo nel partito, e qualcuno comincia a chiederlo anche a voce alta.
Il sospetto è che Grillo sia usato ormai solo al fine di una lotta interna: per stabilire chi sarà il candidato premier nel caso si vada subito al voto, se Bersani che lo corteggia o Renzi che lo fronteggia.
Il problema è che tornare subito alle urne non sarebbe solo un brutto colpo alla governabilità del Paese; potrebbe esserlo anche per il Pd.
Nel migliore dei casi, infatti, quel partito può ambire a confermare il risultato di febbraio, arrivando primo alla Camera; ma la maggioranza al Senato resterebbe un miraggio.
D'altra parte alla roulette russa del Porcellum potrebbero arrivare primi anche Grillo o Berlusconi, bastano poche centinaia di migliaia di voti in più. E in quel caso la sinistra perderebbe, oltre a tutto il resto, anche duecento parlamentari, perché chi arriva secondo scende da 340 seggi a 140.
Questi ragionamenti sono ben presenti a molti nel Pd. Il fronte di coloro che non vogliono tornare alle urne è più ampio di quanto sembri, ma è frammentato; e soprattutto è paralizzato dalla virulenza che ha assunto di nuovo (forse non casualmente) la guerra tra Berlusconi e i tribunali.
Hanno paura di incorrere nella scomunica di quel potente partito extraparlamentare che, in nome della morale, ha ormai subordinato ogni salvezza comune alla perdizione del nemico. Tutto sembra dunque inesorabilmente avvitarsi verso il disastro. Eppure, avrebbe detto Abramo Lincoln, «una volta deciso che una cosa può e deve essere fatta, bisogna solo trovare il modo». Anche lui era un presidente della Repubblica.
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Re: quo vadis PD ????
Forse l'età, forse altro, ma Macaluso, come molti altri che insistono a parlare di sinistra, non si è ancora reso conto che la sinistra rappresentativa non esiste più.
l’Unità 14.3.13
Lo strappo di Berlusconi, gli errori di una certa sinistra
di Emanuele Macaluso
NON SO QUANTE PERSONE, CHE HANNO UNA STORIA E UNA CULTURA POLITICA CHE HA COME RIFERIMENTO LA COSTITUZIONE, si rendano conto che il 55% degli italiani, nelle recenti elezioni, ha votato il partito personale di Berlusconi e il partito personale Grillo-Casaleggio. Un voto a due formazioni che, con intendimenti diversi, vogliono mettere in mora l’assetto costituzionale che per sessantacinque anni ha retto la Repubblica italiana.
Il fatto da sottolineare è che i due partiti personali non hanno, come l’aveva De Gaulle, un progetto costituzionale alternativo a quello esistente. L’obiettivo è sfasciare quel che c’è senza costruire nulla. Questo intendimento è più netto nell’opera del partito personale di Grillo e Casaleggio.
Il problema che, a mio avviso, ha di fronte chi guida il centrosinistra non è quello di verificare, con la mediazione di Celentano, quali sono i punti programmatici su cui è possibile convergere e fare un governo. Il punto è: verificare quale assetto dare alla democrazia italiana. La buonanima di Gramsci diceva che un partito, se non ha un progetto politico-costituzionale, non è un partito. E questo progetto oggi dovrà essere tutt’uno con l’assetto politico costituzionale da dare all’Europa.
Non sono, queste, discussioni astratte, ma il concreto della politica. E per restare in quel concreto occorre fare i conti con le forze che l’elettorato ha messo in campo. E i conti, in questa fase, si possono fare affrontando i nodi ingarbugliati per far funzionare il Parlamento eletto dagli italiani e dare un governo (anche se non avrà lunga vita) al Paese.
Ebbene, chi segue la cronaca politica ha capito che la posizione assunta dal presidente della Repubblica, dopo l’indegna sceneggiata recitata dai parlamentari del Pdl invadendo, a Milano, il Palazzo di Giustizia, è volta a rendere praticabile uno spazio minimo su cui svolgere le operazioni politiche necessarie per eleggere i presidenti delle Camere, forse un governo, obbligatoriamente il nuovo inquilino del Quirinale.
Ieri mattina, leggendo i giornali, non mi ha certo stupito quel che scriveva il Fatto che, sul tema, cuoce e ricuoce la solita sbobba travagliesca, ma quel che si poteva leggere nell’editoriale di Repubblica firmato da Massimo Giannini.
Il quale ha questo incipit: «C’è rimasto solo un faro, a illuminare questa lunga notte della Repubblica. Negli ultimi giorni del suo settennato, Giorgio Napolitano deve guidare il Paese fuori dalla crisi. Il peso di questa consapevolezza ispira ogni riga del comunicato con il quale il Capo dello Stato invita la politica e la magistratura a ritrovare il senso della comune responsabilità istituzionale, in uno dei tornanti più critici della storia repubblicana».
Ben detto. Poi scrive: «Ma questa volta l’appello del Colle, insieme alla condivisione istituzionale, riflette una sproporzione politica».
Francamente non capisco come si concilia la «condivisione istituzionale» con la «sproporzione politica». Giannini scrive: «Il presidente della Repubblica, sia pur respingendo l’aberrante ipotesi del complotto delle toghe rosse evocato dal Cavaliere, giudica comprensibile la preoccupazione del Pdl di «vedere garantito che il suo leader possa partecipare adeguatamente alla complessa fase politico-istituzionale già in pieno svolgimento».
«Comprensibile», caro Giannini non significa «condivisibile» ma prendere atto di un fatto da altri determinato. È uno stato di necessità istituzionale: il partito personale di Berlusconi è un’anomalia politica, purtroppo sancita dal 30% dei votanti.
Giannini ricorda quali sono le scadenze istituzionali dei prossimi giorni.
E aggiunge: «Ma il messaggio implicito ai giudici che stanno indagando o processando Berlusconi è il seguente: fate in modo che gli appuntamenti giudiziari che lo riguardano non intralcino o non si sovrappongono con queste scadenze, dal buon esito dei quali dipendono le sorti politiche della nazione».
Interpretazione, a mio giudizio, corretta. Non è istituzionalmente e politicamente sensato trovare questo spazio?
No, dice finalmente Giannini, si tratta di un «Lodo Alfano provvisorio» (falso) e rincara la dose.
Il Pdl avrebbe raggiunto il suo scopo: «Assicurare un improprio salvacondotto» a Berlusconi.
«Salvacondotto?» Ma non è stato lo stesso Giannini a dirci che si tratta solo di organizzare gli appuntamenti giudiziari in modo che non si sovrappongono a quelli politici? Il tutto sino alla elezione del nuovo presidente della Repubblica.
Come si fa a cambiare le carte messe in tavola con lo stesso articolo? Paura di andare controvento? Ma se un grande giornale democratico cui fa riferimento la sinistra semina questo vento non si può poi stupirsi se la stessa sinistra raccoglie tempeste.
l’Unità 14.3.13
Lo strappo di Berlusconi, gli errori di una certa sinistra
di Emanuele Macaluso
NON SO QUANTE PERSONE, CHE HANNO UNA STORIA E UNA CULTURA POLITICA CHE HA COME RIFERIMENTO LA COSTITUZIONE, si rendano conto che il 55% degli italiani, nelle recenti elezioni, ha votato il partito personale di Berlusconi e il partito personale Grillo-Casaleggio. Un voto a due formazioni che, con intendimenti diversi, vogliono mettere in mora l’assetto costituzionale che per sessantacinque anni ha retto la Repubblica italiana.
Il fatto da sottolineare è che i due partiti personali non hanno, come l’aveva De Gaulle, un progetto costituzionale alternativo a quello esistente. L’obiettivo è sfasciare quel che c’è senza costruire nulla. Questo intendimento è più netto nell’opera del partito personale di Grillo e Casaleggio.
Il problema che, a mio avviso, ha di fronte chi guida il centrosinistra non è quello di verificare, con la mediazione di Celentano, quali sono i punti programmatici su cui è possibile convergere e fare un governo. Il punto è: verificare quale assetto dare alla democrazia italiana. La buonanima di Gramsci diceva che un partito, se non ha un progetto politico-costituzionale, non è un partito. E questo progetto oggi dovrà essere tutt’uno con l’assetto politico costituzionale da dare all’Europa.
Non sono, queste, discussioni astratte, ma il concreto della politica. E per restare in quel concreto occorre fare i conti con le forze che l’elettorato ha messo in campo. E i conti, in questa fase, si possono fare affrontando i nodi ingarbugliati per far funzionare il Parlamento eletto dagli italiani e dare un governo (anche se non avrà lunga vita) al Paese.
Ebbene, chi segue la cronaca politica ha capito che la posizione assunta dal presidente della Repubblica, dopo l’indegna sceneggiata recitata dai parlamentari del Pdl invadendo, a Milano, il Palazzo di Giustizia, è volta a rendere praticabile uno spazio minimo su cui svolgere le operazioni politiche necessarie per eleggere i presidenti delle Camere, forse un governo, obbligatoriamente il nuovo inquilino del Quirinale.
Ieri mattina, leggendo i giornali, non mi ha certo stupito quel che scriveva il Fatto che, sul tema, cuoce e ricuoce la solita sbobba travagliesca, ma quel che si poteva leggere nell’editoriale di Repubblica firmato da Massimo Giannini.
Il quale ha questo incipit: «C’è rimasto solo un faro, a illuminare questa lunga notte della Repubblica. Negli ultimi giorni del suo settennato, Giorgio Napolitano deve guidare il Paese fuori dalla crisi. Il peso di questa consapevolezza ispira ogni riga del comunicato con il quale il Capo dello Stato invita la politica e la magistratura a ritrovare il senso della comune responsabilità istituzionale, in uno dei tornanti più critici della storia repubblicana».
Ben detto. Poi scrive: «Ma questa volta l’appello del Colle, insieme alla condivisione istituzionale, riflette una sproporzione politica».
Francamente non capisco come si concilia la «condivisione istituzionale» con la «sproporzione politica». Giannini scrive: «Il presidente della Repubblica, sia pur respingendo l’aberrante ipotesi del complotto delle toghe rosse evocato dal Cavaliere, giudica comprensibile la preoccupazione del Pdl di «vedere garantito che il suo leader possa partecipare adeguatamente alla complessa fase politico-istituzionale già in pieno svolgimento».
«Comprensibile», caro Giannini non significa «condivisibile» ma prendere atto di un fatto da altri determinato. È uno stato di necessità istituzionale: il partito personale di Berlusconi è un’anomalia politica, purtroppo sancita dal 30% dei votanti.
Giannini ricorda quali sono le scadenze istituzionali dei prossimi giorni.
E aggiunge: «Ma il messaggio implicito ai giudici che stanno indagando o processando Berlusconi è il seguente: fate in modo che gli appuntamenti giudiziari che lo riguardano non intralcino o non si sovrappongono con queste scadenze, dal buon esito dei quali dipendono le sorti politiche della nazione».
Interpretazione, a mio giudizio, corretta. Non è istituzionalmente e politicamente sensato trovare questo spazio?
No, dice finalmente Giannini, si tratta di un «Lodo Alfano provvisorio» (falso) e rincara la dose.
Il Pdl avrebbe raggiunto il suo scopo: «Assicurare un improprio salvacondotto» a Berlusconi.
«Salvacondotto?» Ma non è stato lo stesso Giannini a dirci che si tratta solo di organizzare gli appuntamenti giudiziari in modo che non si sovrappongono a quelli politici? Il tutto sino alla elezione del nuovo presidente della Repubblica.
Come si fa a cambiare le carte messe in tavola con lo stesso articolo? Paura di andare controvento? Ma se un grande giornale democratico cui fa riferimento la sinistra semina questo vento non si può poi stupirsi se la stessa sinistra raccoglie tempeste.
Re: quo vadis PD ????
articolo di Polito/ corriere
come si divertono a sparare sulla croce rossa ...
anche il masochismo del pd ha un limite .
come si divertono a sparare sulla croce rossa ...
che acume , aspettavamo lui che ci illuminasse, no ci saremmo mai arrivati ....Il prezzo di questa presunta trattativa tra Pd e M5S, insomma, sembra pagarlo molto più il Pd.
BOOOM .... questi sono contorsionismi mentali.Il sospetto è che Grillo sia usato ormai solo al fine di una lotta interna: per stabilire chi sarà il candidato premier nel caso si vada subito al voto, se Bersani che lo corteggia o Renzi che lo fronteggia.
anche il masochismo del pd ha un limite .
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Re: quo vadis PD ????
Per alcuni giornalisti, il giornalismo è l’arte di ingarbugliare le carte.
Emanuele Macaluso a 89 anni non ha ancora capito che quando, prima Angelino Alfano dichiara che si rivolgeranno “alla saggezza del presidente”, e il piduista Cicchitto dopo l’incontro con Napolitano cita la “saggezza del presidente”, la puzza di marcio si sente lontano 100 miglia.
Dopo vent’anni di berslusconismo non si è reso conto che quando i berluscones parlano di saggezza presidenziale è perché indurranno o hanno indotto la presidenza della Repubblica a piegarsi ai loro interessi, o meglio, agli interessi della mummia cinese in decomposizione.
Lo hanno sempre fatto, basta un minimo senso d’osservazione.
Quando non ettengono il dovuto, le piccole camice nere dell’Asilo Mariuccia usano puntualmente tutti gli improperi arcinoti.
Forse nei prossimi 40 anni Macaluso riuscirà a capire come funziona l’ambaradan.
Emanuele Macaluso a 89 anni non ha ancora capito che quando, prima Angelino Alfano dichiara che si rivolgeranno “alla saggezza del presidente”, e il piduista Cicchitto dopo l’incontro con Napolitano cita la “saggezza del presidente”, la puzza di marcio si sente lontano 100 miglia.
Dopo vent’anni di berslusconismo non si è reso conto che quando i berluscones parlano di saggezza presidenziale è perché indurranno o hanno indotto la presidenza della Repubblica a piegarsi ai loro interessi, o meglio, agli interessi della mummia cinese in decomposizione.
Lo hanno sempre fatto, basta un minimo senso d’osservazione.
Quando non ettengono il dovuto, le piccole camice nere dell’Asilo Mariuccia usano puntualmente tutti gli improperi arcinoti.
Forse nei prossimi 40 anni Macaluso riuscirà a capire come funziona l’ambaradan.
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Re: quo vadis PD ????
l’Unità 14.3.13
Renzi: «Legislatura breve. Sono pronto a candidarmi»
Il sindaco di Firenze rompe gli indugi, garantisce sostegno al tentativo di Bersani, ma in caso di elezioni annuncia che ci sarà
di Vladimiro Frulletti
FIRENZE «Se ci fossero le condizioni ci starei». Epurata dall’inevitabile forma ipotetica, la frase che Renzi ha rilasciato all’Espresso (l’intervista sarà domani in edicola) è una decisione oramai chiara: il sindaco di Firenze è a tutti gli effetti in campo. Pronto in caso di elezioni a candidarsi premier. Ovviamente non è che le sue intenzioni non fossero già chiare. Nessuno, all’indomani del voto che ha disegnato un Parlamento ad altissimo livello di ingovernabilità, ha mai dubitato che Renzi fosse diventato uno dei possibili candidati alla futura premiership. Anzi forse il più indicato dopo l’insuccesso del Pd e la performance di Grillo. Opinione coltivata non solo dai suoi sostenitori, ma anche da più d’uno dei suoi avversari: «Renzi è il futuro, ora tocca a lui» è il refrain più gettonato.
Ma, appunto, il tutto coniugato al futuro. Per il presente immediato c’è Bersani e il suo tentativo di costruire un governo di cambiamento contando sul sostegno dei parlamentari 5Stelle. E quindi più che le parole di Renzi, ora conta il momento in cui ha deciso di alzare la mano e dire «ci sono, sono pronto». Una tempistica che stride con la volontà dichiarata di non puntare a intralciare il tentativo di Bersani. Un concetto che più volte ha espresso non solo pubblicamente, ma anche in privato coi suoi collaboratori: «Pierluigi mi ha spiegato la sua linea, non è la mia, ma lo sostengo». Niente bastone fra le ruote insomma. Non a caso martedì mattina pochi minuti dopo aver finito l’intervista con l’Espresso Renzi s’è messo al computer per scrivere sulla sua pagina Facebook che con la sua proposta di abolire il finanziamento pubblico ai partiti non aveva alcuna intenzione di sabotare il tentativo di Bersani. E che anzi non era tempo di polemiche e che l’Italia aveva bisogno di un governo il prima possibile. E del resto a tutti Renzi ripete che lui fa «il tifo» per Bersani. Ma questo non gli impedisce di coltivare più di un dubbio sul fatto che il segretario Pd riesca nell’impresa. E al giornalista che gli chiede se Bersani ce la farà o ci sarà un altro governo o si andrà alle elezioni, Renzi risponde che non vuole sostituirsi al capo
dello Stato, ma che crede che «sarà una legislatura breve». Il suo auspicio è che almeno riesca a cambiare la legge elettorale che lui vorrebbe come quella dei sindaci cosicché il giorno dopo il voto si sa chi ha vinto e chi governerà. «Solo da noi fa notare il vincitore è oggetto di interpretazione: se alla Sistina si votasse con il Porcellum sarebbero eletti in quattro».
Se poi si va al voto spiega che si candiderà anche se prova a nascondersi dietro la battuta che qualche dubbio gli è venuto «da quando ho letto che anche Fioroni mi appoggerebbe» («Non dire gatto se non l’hai nel sacco» la replica dell’ex ministro). Ed è un percorso che farà, assicura, nel e col Pd. Nessuna intenzione di mettere su un nuovo «partitino» con Monti e i centristi. «Sono rimasto nel Pd e con Bersani non solo perché sono leale alla ditta dice , ma anche perché penso che per l’Italia sia utile avere due grandi partiti: non possiamo continuare con l’idea che ognuno si fa il suo partitino». Il che presuppone anche l’eventuale scalata al Pd attraverso il congresso e quindi la corsa per la segreteria se fosse indispensabile per conquistare la candidatura a premier (come sta scritto nello Statuto del Pd). Certo questo vale se le elezioni ci saranno verso ottobre. Se si voterà fra un anno e mezzo o due è da escludere che Renzi possa pensare a fare il segretario Pd. Rimarrebbe a Palazzo Vecchio (si vota il prossimo anno) e da lì tenterebbe la corsa delle primarie per la premiership. Se poi si voterà già a giugno lui in campo c’è già, ma l’eventuale candidatura dovrà avvenire con le primarie (esclude qualsiasi indicazione dall’alto: «non mi faccio cooptare»). Intanto butta giù un po’ di programma: al primo posto il lavoro. Sta preparando un «job act» (piano per il lavoro) per «dare risposte vere» ai 3 milioni di disoccupati di cui il 40% sono giovani.
il Fatto 14.3.13
Bersani nel bunker, Renzi “pronto per la premiership”
Il segretario in contrapposizione sempre più aperta con il Colle
di Wanda Marra
Bersani e i suoi alzano un altro po’ il tiro contro Napolitano, Renzi ribadisce che lui vuole fare il premier (e pure presto), le trattative per le presidenze delle Camere sono appese ai grillini che non decidono. Se in Vaticano la fumata è bianca, i fumi dalle parti del Nazareno sono sempre più grigi.
Ieri Maurizio Migliavacca, che non è solo il coordinatore della segreteria Pd, ma uno dei più fidati collaboratori di Bersani, a SkyTg24 ha rilasciato una dichiarazione su Berlusconi in rotta di collisione con quanto detto dal Presidente della Repubblica. Gli chiedono: il Pd voterebbe in Senato per l’arresto di Silvio Berlusconi? E lui risponde: “Se gli atti sulle accuse di corruzione per la vicenda De Gregorio fossero fondati penso proprio di sì”. E: “Dovremmo vedere le carte. Noi abbiamo un atteggiamento rispettoso di atti della magistratura che fossero corretti”.
NAPOLITANO dopo la marcia del Pdl al Tribunale di Milano, pur criticandola, aveva cercato di abbassare i toni e aveva richiamato soprattutto i magistrati: “Aberranti i sospetti su manovre, ma a leader Pdl va garantita agibilità politica”. Arrivando solo il giorno dopo, l’affermazione di Migliavacca va letta come l’ennesima prova della determinazione di Bersani a perseguire quella che ha individuato come la sua strada, senza farsi influenzare da perplessità e preferenze del Colle: vuole l’incarico per andare a Palazzo Chigi. Punto. E dunque, Migliavacca da una parte implicitamente ribadisce il no a qualsiasi forma d’intesa con Berlusconi, dall’altra contraddice apertamente il Capo dello Stato. “Capita”, spiegano i vicinissimi del segretario, non senza soddisfazione. I quali come exit strategy vedono un voto in estate, se il piano del governo con Grillo fallisse. Possibilmente con lo stesso Bersani candidato. Un’ipotesi che piace praticamente solo al bunker del segretario, mentre il resto del partito lavora per altro. Mentre Bersani affina la sua strategia verso la leadership, Renzi decide di mettere la sua candidatura sul tavolo. Pronto a correre per la premiership si dice in un’intervista all’Espresso. Se alla fine salta tutto e si va alle elezioni Renzi si candida a premier o no? Gli è stato chiesto. E lui, seppure alleggerendo con una battuta, risponde chiarissimo: “Pensavo di sì. Da quando ho letto che anche Fioroni mi appoggerebbe mi è venuto qualche dubbio... ”, dice. Ma poi: “Mettiamola così: se ci fossero le condizioni ci starei”. E così il cerchio si chiude, dopo una settimana di escalation. Prima, l’abbandono della direzione senza prendere la parola, poi l’intervista a Fabio Fazio in cui di fatto tacciava di “scilipotismo” il tentativo di Bersani di agganciare politicamente i grillini, definiva le riunioni di partito “terapie di gruppo” e sferrava l’attacco vero e proprio: “Aboliamo il finanziamento ai partiti”. Qualcosa che lui può dire e il segretario no, visto quello che costa il Pd. Tant’è vero che poi filtrano sul Corriere della Sera dossier da lui costruiti sui dipendenti democratici. Nessuna smentita ufficiale. “Una battaglia a viso aperto”, protestano dallo staff del Sindaco. Mentre uno studio più o meno preciso sui conti del Nazareno arriva su Dagospia. Infine, ieri l’anticipazione dell’Espresso. Renzi ha capito che è venuto il momento di scendere in campo prima che qualcuno possa mettere in discussione la sua candidatura. Il percorso da lui preferito sarebbe arrivare al voto a ottobre, con una nuova legge elettorale e il tempo di fare le primarie. Senza però entrare nella battaglia per la segreteria, che non solo non gli interessa, ma sarebbe persa.
MENTRE tra i Democratici manovre e contromanovre si sprecano, ieri Monti ha fatto la riunione di Scelta Civiva in cui ha detto di no al governo Grillo, esprimendosi a favore di un esecutivo di larghe intese. I pontieri Pd – Zoggia, Calipari e Zanda – in missione per cercare di trovare un’intesa sulle presidenze delle Camere hanno coerentemente registrato la contrarietà pure a darne una ai Cinque Stelle. Ancora tutto in alto mare: l’M5S ieri avrebbe dovuto tirare fuori i suoi nomi. Non l’ha fatto. Così dalle parti del Pd stanno ancora appesi. Dario Franceschini, che si vedeva già alla guida di Montecitorio, non ci ha ancora rinunciato. Nel frattempo Boccia si è spinto a dare del “fascistoide” a Grillo.
Renzi: «Legislatura breve. Sono pronto a candidarmi»
Il sindaco di Firenze rompe gli indugi, garantisce sostegno al tentativo di Bersani, ma in caso di elezioni annuncia che ci sarà
di Vladimiro Frulletti
FIRENZE «Se ci fossero le condizioni ci starei». Epurata dall’inevitabile forma ipotetica, la frase che Renzi ha rilasciato all’Espresso (l’intervista sarà domani in edicola) è una decisione oramai chiara: il sindaco di Firenze è a tutti gli effetti in campo. Pronto in caso di elezioni a candidarsi premier. Ovviamente non è che le sue intenzioni non fossero già chiare. Nessuno, all’indomani del voto che ha disegnato un Parlamento ad altissimo livello di ingovernabilità, ha mai dubitato che Renzi fosse diventato uno dei possibili candidati alla futura premiership. Anzi forse il più indicato dopo l’insuccesso del Pd e la performance di Grillo. Opinione coltivata non solo dai suoi sostenitori, ma anche da più d’uno dei suoi avversari: «Renzi è il futuro, ora tocca a lui» è il refrain più gettonato.
Ma, appunto, il tutto coniugato al futuro. Per il presente immediato c’è Bersani e il suo tentativo di costruire un governo di cambiamento contando sul sostegno dei parlamentari 5Stelle. E quindi più che le parole di Renzi, ora conta il momento in cui ha deciso di alzare la mano e dire «ci sono, sono pronto». Una tempistica che stride con la volontà dichiarata di non puntare a intralciare il tentativo di Bersani. Un concetto che più volte ha espresso non solo pubblicamente, ma anche in privato coi suoi collaboratori: «Pierluigi mi ha spiegato la sua linea, non è la mia, ma lo sostengo». Niente bastone fra le ruote insomma. Non a caso martedì mattina pochi minuti dopo aver finito l’intervista con l’Espresso Renzi s’è messo al computer per scrivere sulla sua pagina Facebook che con la sua proposta di abolire il finanziamento pubblico ai partiti non aveva alcuna intenzione di sabotare il tentativo di Bersani. E che anzi non era tempo di polemiche e che l’Italia aveva bisogno di un governo il prima possibile. E del resto a tutti Renzi ripete che lui fa «il tifo» per Bersani. Ma questo non gli impedisce di coltivare più di un dubbio sul fatto che il segretario Pd riesca nell’impresa. E al giornalista che gli chiede se Bersani ce la farà o ci sarà un altro governo o si andrà alle elezioni, Renzi risponde che non vuole sostituirsi al capo
dello Stato, ma che crede che «sarà una legislatura breve». Il suo auspicio è che almeno riesca a cambiare la legge elettorale che lui vorrebbe come quella dei sindaci cosicché il giorno dopo il voto si sa chi ha vinto e chi governerà. «Solo da noi fa notare il vincitore è oggetto di interpretazione: se alla Sistina si votasse con il Porcellum sarebbero eletti in quattro».
Se poi si va al voto spiega che si candiderà anche se prova a nascondersi dietro la battuta che qualche dubbio gli è venuto «da quando ho letto che anche Fioroni mi appoggerebbe» («Non dire gatto se non l’hai nel sacco» la replica dell’ex ministro). Ed è un percorso che farà, assicura, nel e col Pd. Nessuna intenzione di mettere su un nuovo «partitino» con Monti e i centristi. «Sono rimasto nel Pd e con Bersani non solo perché sono leale alla ditta dice , ma anche perché penso che per l’Italia sia utile avere due grandi partiti: non possiamo continuare con l’idea che ognuno si fa il suo partitino». Il che presuppone anche l’eventuale scalata al Pd attraverso il congresso e quindi la corsa per la segreteria se fosse indispensabile per conquistare la candidatura a premier (come sta scritto nello Statuto del Pd). Certo questo vale se le elezioni ci saranno verso ottobre. Se si voterà fra un anno e mezzo o due è da escludere che Renzi possa pensare a fare il segretario Pd. Rimarrebbe a Palazzo Vecchio (si vota il prossimo anno) e da lì tenterebbe la corsa delle primarie per la premiership. Se poi si voterà già a giugno lui in campo c’è già, ma l’eventuale candidatura dovrà avvenire con le primarie (esclude qualsiasi indicazione dall’alto: «non mi faccio cooptare»). Intanto butta giù un po’ di programma: al primo posto il lavoro. Sta preparando un «job act» (piano per il lavoro) per «dare risposte vere» ai 3 milioni di disoccupati di cui il 40% sono giovani.
il Fatto 14.3.13
Bersani nel bunker, Renzi “pronto per la premiership”
Il segretario in contrapposizione sempre più aperta con il Colle
di Wanda Marra
Bersani e i suoi alzano un altro po’ il tiro contro Napolitano, Renzi ribadisce che lui vuole fare il premier (e pure presto), le trattative per le presidenze delle Camere sono appese ai grillini che non decidono. Se in Vaticano la fumata è bianca, i fumi dalle parti del Nazareno sono sempre più grigi.
Ieri Maurizio Migliavacca, che non è solo il coordinatore della segreteria Pd, ma uno dei più fidati collaboratori di Bersani, a SkyTg24 ha rilasciato una dichiarazione su Berlusconi in rotta di collisione con quanto detto dal Presidente della Repubblica. Gli chiedono: il Pd voterebbe in Senato per l’arresto di Silvio Berlusconi? E lui risponde: “Se gli atti sulle accuse di corruzione per la vicenda De Gregorio fossero fondati penso proprio di sì”. E: “Dovremmo vedere le carte. Noi abbiamo un atteggiamento rispettoso di atti della magistratura che fossero corretti”.
NAPOLITANO dopo la marcia del Pdl al Tribunale di Milano, pur criticandola, aveva cercato di abbassare i toni e aveva richiamato soprattutto i magistrati: “Aberranti i sospetti su manovre, ma a leader Pdl va garantita agibilità politica”. Arrivando solo il giorno dopo, l’affermazione di Migliavacca va letta come l’ennesima prova della determinazione di Bersani a perseguire quella che ha individuato come la sua strada, senza farsi influenzare da perplessità e preferenze del Colle: vuole l’incarico per andare a Palazzo Chigi. Punto. E dunque, Migliavacca da una parte implicitamente ribadisce il no a qualsiasi forma d’intesa con Berlusconi, dall’altra contraddice apertamente il Capo dello Stato. “Capita”, spiegano i vicinissimi del segretario, non senza soddisfazione. I quali come exit strategy vedono un voto in estate, se il piano del governo con Grillo fallisse. Possibilmente con lo stesso Bersani candidato. Un’ipotesi che piace praticamente solo al bunker del segretario, mentre il resto del partito lavora per altro. Mentre Bersani affina la sua strategia verso la leadership, Renzi decide di mettere la sua candidatura sul tavolo. Pronto a correre per la premiership si dice in un’intervista all’Espresso. Se alla fine salta tutto e si va alle elezioni Renzi si candida a premier o no? Gli è stato chiesto. E lui, seppure alleggerendo con una battuta, risponde chiarissimo: “Pensavo di sì. Da quando ho letto che anche Fioroni mi appoggerebbe mi è venuto qualche dubbio... ”, dice. Ma poi: “Mettiamola così: se ci fossero le condizioni ci starei”. E così il cerchio si chiude, dopo una settimana di escalation. Prima, l’abbandono della direzione senza prendere la parola, poi l’intervista a Fabio Fazio in cui di fatto tacciava di “scilipotismo” il tentativo di Bersani di agganciare politicamente i grillini, definiva le riunioni di partito “terapie di gruppo” e sferrava l’attacco vero e proprio: “Aboliamo il finanziamento ai partiti”. Qualcosa che lui può dire e il segretario no, visto quello che costa il Pd. Tant’è vero che poi filtrano sul Corriere della Sera dossier da lui costruiti sui dipendenti democratici. Nessuna smentita ufficiale. “Una battaglia a viso aperto”, protestano dallo staff del Sindaco. Mentre uno studio più o meno preciso sui conti del Nazareno arriva su Dagospia. Infine, ieri l’anticipazione dell’Espresso. Renzi ha capito che è venuto il momento di scendere in campo prima che qualcuno possa mettere in discussione la sua candidatura. Il percorso da lui preferito sarebbe arrivare al voto a ottobre, con una nuova legge elettorale e il tempo di fare le primarie. Senza però entrare nella battaglia per la segreteria, che non solo non gli interessa, ma sarebbe persa.
MENTRE tra i Democratici manovre e contromanovre si sprecano, ieri Monti ha fatto la riunione di Scelta Civiva in cui ha detto di no al governo Grillo, esprimendosi a favore di un esecutivo di larghe intese. I pontieri Pd – Zoggia, Calipari e Zanda – in missione per cercare di trovare un’intesa sulle presidenze delle Camere hanno coerentemente registrato la contrarietà pure a darne una ai Cinque Stelle. Ancora tutto in alto mare: l’M5S ieri avrebbe dovuto tirare fuori i suoi nomi. Non l’ha fatto. Così dalle parti del Pd stanno ancora appesi. Dario Franceschini, che si vedeva già alla guida di Montecitorio, non ci ha ancora rinunciato. Nel frattempo Boccia si è spinto a dare del “fascistoide” a Grillo.
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Re: quo vadis PD ????
Il top dei top della sfiga per gli italiani sarebbe l’accoppiata del duca conte Dalemoni al Colle, e il nuovo berlusconcino gigliato a Palazzo Chigi.
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