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La tratta delle donne in Italia: la storia di Isoke Aikpitanyi
Donne Nigeriane


Isoke Aikpitanyi è una giovane ragazza nigeriana arrivata nel 2000 in Italia con il sogno di trovare un lavoro e una vita migliore. Tuttavia come troppo spesso accade le cose sono andate diversamente: resa schiava dalla mafia nigeriana e italiana, è costretta a prostituirsi..



Dopo essere riuscita a liberarsi dall'oppressione, ha scelto di aiutare le altre decine di migliaia di ragazze nigeriane schiavizzate in Italia avviando il progetto «La ragazza di Benin City», divenuto ormai un’associazione. Nel libro “Le ragazze di Benin City”, di cui è coautrice, racconta la disgrazia di 50 ragazze nigeriane che hanno subito le sue stesse violenze. Sentiamo la sua storia dalla stessa voce di Isoke.

D. Nelle interviste rilasciate, dici di aver lasciato la tua famiglia per fare loro un favore, dato l'alto numero di fratelli. Si tratta di una motivazione comune tra le giovani ragazze nigeriane? Perché si arriva a pagare anche 30mila euro per una destinazione sconosciuta?

R. Io sentivo di dover fare qualcosa per aiutare mia mamma, rimasta sola a preoccurarsi di tanti figli. Nella maggior parte dei casi, invece, la famiglia sacrifica una figlia, più o meno consapevole di cosa andrà a fare. Chiamatela povertà, ignoranza… ma così stanno le cose. Oggi si parla non di 30mila ma di 80mila euro. Nel 2000, quando nella trappola ci sono finita io, si parlava di 30 milioni di lire. Perchè si accetta? Anzitutto perchè l'Europa è un miraggio, un sogno, poi perchè nessuna ragazza capisce bene che cosa vogliono dire 30 o 80mila euro; o forse sono dollari? o naira (la moneta nigeriana)? Se fossero naira sarebbe certo una cifra ingente, ma sicuramente non allo stesso livello degli euro. In secondo luogo si fidano dei trafficanti, spesso amici di famiglia, e pensano davvero che il prezzo da pagare per il ‘riscatto’ non sia poi così alto.




D. Come arrivano in Africa le false notizie di “ottimi” posti di lavoro in Italia? Alcune ragazze sono mai riuscite a tornare a casa per raccontare la verità?

R. I trafficanti, detti italos, raggiungono città e villaggi, individuano ragazze e poi avvicinano le famiglie. Spesso sono le famiglie stesse che cercano gli italos. Molte ragazze poi tornano a casa, ma non con l'intenzione di viverci, e quando tornano non vogliono ammettere che la loro storia è stata così tanto drammatica: vogliono sembrare ricche. D'altra parte, se al loro ritorno non fossero ricche chi le perdonerebbe per essersi comportate in modo così indecente? In fondo tutti sanno qual è il loro destino, ma tutti fanno finta di nulla a patto che le ragazze inviino i soldi.

D. La Nigeria è un paese ricchissimo, tra i più ricchi del mondo grazie al petrolio. I proventi dell'esportazione costituiscono circa il 95% delle entrate fiscali. Tuttavia la popolazione vive in una povertà assoluta e continua a dedicarsi principalmente all'agricoltura. Cosa succede alle giovani ragazze quando si rendono conto del gap tra la ricchezza del loro paese e la povertà della loro vita quotidiana? Immagino che influisca profondamente anche la conoscenza, seppure superficiale, dello stile di vita dei bianchi…

R. Le ragazze cercano una opportunità per migliorare la qualità della loro vita poiché sembra loro che in Europa il benessere sia alla portata di tutti. Arrivate in Europa accettano qualsiasi compromesso, persino l'idea di doversi prostituire che, talvolta, qualcuno prospetta loro: il sogno è un sogno e tutte credono che quando arriveranno saranno così furbe e in gamba da prendere il meglio, non il peggio.

D. In Africa la donna svolge un ruolo centrale per la società: lavora, gestisce l'economia della casa e si occupa dell'educazione dei figli. Quello che forse manca è una vera consapevolezza di questo ruolo. Cosa succede quando, arrivate in Italia, le donne si accorgono di essere finite in trappola? C'è qualcuna che vorrebbe tornare indietro?



R. Indietro non si torna, la ragazze che arrivano non sono niente, sono merce di proprietà della mafia nigeriana e delle maman che le hanno comperate o le gestiscono per conto di terzi. Sono clandestine, spesso analfabete, spesso minorenni, si trovano in un paese nel quale non conoscono nessuno, e non conoscono la lingua per farsi sentire. E le cose non cambiano, da circa vent'anni il governo italiano finanzia progetti contro la tratta e a sostegno delle vittime, ma i risultati non si vedono: solo una su dieci riesce a uscire da quella trappola.

D. Parliamo di te: come sei riuscita a liberarti dal giro della tratta? Quali sono gli obiettivi che tu e il tuo compagno Claudio Magnabosco vi siete proposti attraverso il progetto “La ragazza di Benin City”?

R. Io ho detto basta, ho cercato l'aiuto di servizi sociali accreditati e finanziati e inizialmente sono stata respinta perchè non sapevo neppure chi e che cosa denunciare. Da sola ho affrontato i trafficanti che mi hanno quasi uccisa. Sono scappata, ho trovato un rifugio da Claudio e da allora, insieme, cerchiamo di dare una risposta a chi non la trova, in modo autofinanziato e indipendente da leggi, associazioni, enti e istituzioni. Da allora abbiamo dato sostegno a casa nostra a più di cento ragazze. In rete, con altre ex vittime o con persone che come noi offrono accoglienza, ne abbiamo sostenute migliaia.




D. Il libro “Le ragazze di Benin City”, scritto insieme alla giornalista di Panorama Laura Maragnani, racconta l'esperienza drammatica di 50 donne nigeriane attratte in Italia con l'inganno e poi costrette a prostituirsi per ripagare l'ingente debito contratto. Si tratta solo una minuscola parte delle migliaia di ragazze africane che arrivano nel nostro bel paese. Il libro ha avuto un enorme successo, tanto che è stato creato anche un premio “La ragazza di Benin City” che ogni anno verrà attribuito ad un personaggio che abbia contribuito a creare una cultura della solidarietà relativamente al problema della schiavitù e della condizione della donna. Ti ritieni soddisfatta del risultato raggiunto?

R. Il libro, pubblicato nel 2007, parla in primo luogo di me e delle prime 50 ragazze che hanno ricevuto aiuto. Nel 2011 ho scritto un altro libro: "500 storie vere", in cui parlo di 500 ragazze, racconto la loro storia, i loro drammi e le mancate risposte alle loro richieste e ai loro diritti. Non sono soddisfatta, resta ancora troppo da fare e mi manca soprattutto l'ascolto da parte di istituzioni e associazioni. Spesso sono invitata ad eventi e manifestazioni organizzate da associazioni di sostegno, tuttavia se da un lato io rappresento l'esempio tangibile della possibilità di uscire dalla tratta, dall'altro a volte il supporto delle associazioni non è sufficiente.



D. Chi ti ha ostacolato maggiormente in questo cammino che hai deciso di intraprendere? E chi, dall'altra parte, ti ha maggiormente sostenuta?

R. Mi ostacolano le leggi, l'articolo 18 della Bossi-Fini ad esempio non è la migliore legge europea contro il traffico delle donne, come tutti credono, ma anzi è il principale ostacolo all'uscita dalla tratta soprattutto per le ragazze nigeriane. Dall'altro lato mi sostengono il mio compagno, la rete di donne che lottano contro le violenze al genere femminile, quelle che combattono per la loro dignità, e infine anche i maschi che stanno mettendo finalmente in discussione le loro responsabilità rispetto alle violenze della tratta. Mi ostacola il fatto che ho fatto di questo impegno una “missione” e non ho un lavoro, ho lasciato quello che avevo per dedicarmi interamente al sostegno di mie sorelle vittime di questa tragedia...




di Claudia Zichi su www.laperfettaletizia.com/
mariok

Re: Le storie e lo specchio

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LA COLPA DI EVA E' STATA QUELLA DI VOLER CONOSCERE , SPERIMENTARE, INDAGARE CON LE PROPRIE FORZE LE LEGGI CHE REGOLANO L'UNIVERSO , LA TERRA , IL PROPRIO CORPO , DI RIFIUTARE L'INSEGNAMENTO CALATO DALL'ALTO; IN POCHE PAROLE RAPPRESENTA LA CURIOSITA' DELLA SCIENZA CONTRO LA PASSIVA ACCETTAZIONE DELLA FEDE. ( MARGHERITA HACK )
mariok

Re: Le storie e lo specchio

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Bosnia: Lo stupro etnico e l’annientamento di genere

Genocidio, pulizia etnica, stupro etnico: parole spesso usate a casaccio che hanno subito nel corso del tempo modifiche nel significato e nell’utilizzo giuridico. Le guerre jugoslave d’inizio anni Novanta furono un banco di prova in tal senso e le sentenze che, negli anni successivi al termine del conflitto, sono state emesse dal Tribunale penale internazionale dell’Aja per l’ex Jugoslavia (ICTY), hanno contribuito allaridefinizione di questi termini.

Un posto particolare spetta allo stupro cosiddetto etnico, uno degli strumenti di terrore più largamente utilizzati nelle guerre jugoslave. Il ricorso alla violenza sessuale non è certo una novità: fino alla Seconda guerra mondiale lo stupro era utilizzato come mezzo di umiliazione o vendetta sul nemico ma in Bosnia orientale, con l’aggressione delle truppe serbo-bosniache alle comunità civili di fede musulmana tra l’aprile e il novembre del 1992, qualcosa è cambiato. Lo stupro è diventato “di massa” allo scopo di colpire la capacità riproduttiva del gruppo etnico nemico. Come? Attraverso il trauma della violenza e dell’aborto che ne è la conseguenza più ovvia e diffusa.



Non ci sono dati certi sul numero di vittime anche perché, alla violenza, segue spesso l’omicidio della vittima. Il valore dello stupro etnico, però, è quello di lasciare vivanella comunità la ferita della violenza (e quindi la vittima). Inoltre, come dimostrato dalle molte testimonianze raccolte dall’ICTY, l’idea degli aggressori era quella diincidere, attraverso lo stupro, sulla composizione etnica futura della comunità aggredita. Aggressori e aggrediti, infatti, avevano (e hanno) in comune un’idea patriarcale della società che vede il nascituro come “figlio dell’uomo” e quindi – nel nostro caso – dell’aggressore. A testimonianza di ciò ci sono i numerosi casi di donne stuprate e poi detenute fino a che non fosse più possibile abortire.

Le donne vittime di stupro, nella società musulmana, sono poi vittime anche dellamarginalizzazione sociale: un isolamento che depaupera ulteriormente la società aggredita delle sue possibilità riproduttive.



Tutti questi elementi testimoniano come lo stupro cosiddetto etnico sia stato, nella ex Jugoslavia, oggetto di pianificazione e non già, come nelle guerre passate, estemporaneo veicolo di vendetta. Proprio la pianificazione è diventata uno degli elementi costitutivi dello “stupro etnico”, reato che (grazie all’operato dell’ICTY) è stato innalzato da “atto lesivo del pudore della donna” a “crimine contro l’umanità“.

I fatti di Bosnia, oltre alla ridefinizione dello stupro di guerra, hanno portato anche auna revisione del concetto giuridico di genocidio. L’esercito serbo-bosniaco fu, come è noto, responsabile del massacro di ottomila uomini nell’enclave di Srebrenica. Uomini, non donne. In quell’occasione gli uomini furono separati dalle donne, trasportati fuori città e uccisi nella convinzione di cancellare in tal modo la presenza dell’intera comunità bosgnacca. Alla base di questa convinzione stava la cultura patriarcale che vede nell’uomo il continuatore della gens. Con la sentenza del 2004 nota come sentenza Krstic’ il ICTY ha introdotto l’idea di genocidio anche in una sola regione e anche in presenza dell’annientamento di un solo genere*.

L’intenzione serba, in parte realizzata, era quindi quella di eliminare la comunità musulmana dalla Bosnia orientale sia uccidendo gli uomini -padri dei figli- sia violentando le donne -in modo da far nascere figli serbi, spaccando la comunità nemica, e inibendo ulteriori procreazioni. Il buon esito di questa pulizia etnica di genere è amaramente comprovata dal numero di bosniaci musulmani rientrati nelle loro case al termine della guerra: secondo l’Unhcr sarebbero 1.028.970, vale a dire la metà rispetto a quanti lasciarono le loro case terrorizzati dagli eventi bellici.



Di Matteo Zola su http://eastjournal.net

* si veda “La guerra ai civili in Bosnia Erzegovina“, di Luisa Chiodi e Andrea Rossini, DEP, 2011
mariok

Re: Le storie e lo specchio

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Massacro in Siria: "Donne e bimbi torturati"

"Molti cadaveri presentano segni di torture, alcune persone sono state bruciate vive, altre sono state sgozzate", ha detto l’attivista Omar Homsi. "I corpi - ha aggiunto - appartengono a 28 donne, 23 bambini e sei uomini". La strage risalirebbe a ieri sera e sarebbe stata compiuta nel quartiere di Karam al-Zeitoun.
ANNAN: STOP IMMEDIATO ALLE MORTI - In Siria “la morte di civili deve fermarsi adesso”. Lo ha dichiarato ad Ankara l’emissario internazionale per la Siria, Kofi Annan, dopo i colloqui a Damasco con il presidente Bashar al Assad. “La morte di civili deve fermarsi adesso. La comunità internazionale deve inviare un messaggio chiaro (al regime siriano) che questa situazione è inaccettabile”, ha detto l’emissario delle Nazioni Unite e della Lega araba per la Siria in una breve dichiarazione all’aeroporto di Ankara, trasmessa dal canale allnews Ntv.



L'AVVISO DELL'ONU AD ASSAD - Il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, ha chiesto al presidente siriano, Bashar al-Assad, di rispondere “con rapidità e nei prossimi giorni” alle proposte che gli ha presentato l’inviato del Palazzo di Vetro e della Lega Araba per la Siria, Kofi Annan. Intervenendo alla seduta del Consiglio di sicurezza dell’Onu sulla Primavera araba, Ban ha esortato Assad a fermare la violenza, a permettere l’accesso dei convogli umanitari e ad avviare il dialogo con le opposizioni mentre ha chiesto al Consiglio di Sicurezza di mostrarsi “solidamente unito” per chiedere la cessazione della violenza e appoggiare il ruolo di Annan nell’aiutare la Siria a uscire da una “situazione catastrofica”.
“Sommo la mia voce a quella di Annan ed esorto Assad ad agire con rapidità, nei prossimi giorni, in risposta alle proposte che gli ha presentato l’inviato speciale congiunto”, ha detto il massimo responsabile dell’Onu nel dibattito organizzato in Consiglio di Sicurezza sulla Primavera araba. Secondo Ban, Annan ha avuto “un dibattito franco e completo con Assad” e gli ha chiesto di compiere “passi immediati per mettere fine alla violenza e agli abusi, rispondere alla crisi umanitaria e avviare un processo pacifico e senza esclusioni che risponda alle aspirazioni del suo popolo”.



In un anno di proteste e repressioni, il Consiglio di Sicurezza è stato incapace di approvare una risoluzione in risposta alla situazione, principalmente per l’opposizione di Russia e Cina, opposizione che ha portato Mosca e Pechino a vietare due risoluzioni di condanna presentate ad ottobre e febbraio. Ban ha sottolineato che “in questo momento cruciale, è essenziale che il Consiglio parli con una voce sola” e si è augurato che il Consiglio “trovi la strada che gli permetta di raggiungere una risoluzione di consenso che mandi un segnale di ferma determinazione”.
Il segretario generale dell’Onu ha parlato davanti ai ministri degli Esteri che partecipavano al dibattito che si è centrato sulla Siria. Vi partecipano, tra gli altri, il segretario di Stato, Hillary Clinton, il ministro degli Esteri russo, Serghei Lavrov, e i titolari degli Esteri francese, Alain Juppè, e britannico, William Hague, oltre a vari rappresentanti di Paesi arabi.



CLINTON: "DA CONDANNARE IL CINISMO DI ASSAD" - Con "cinismo" il presidente siriano Bashar al Assad ha accolto l’inviato dell’Onu e Lega Araba Kofi Annan mentre in diverse citta’ del Paese ‘’continuavano i massacri’’ da parte delle forze governative, ha affermato il segretario di Stato Usa Hillary Clinton parlando al Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Di diverso avviso il ministro degli Esteri russo, Serghei Lavrov, che invece ha condannato i tentativi di cambiare governi, dalla Libia alla Siria, “ingannando” l’opinione pubblica internazionale e “manipolando” il Consiglio di sicurezza dell’Onu. Intervenendo davanti al Consiglio, nel Palazzo di Vetro, il capo della diplomazia russa ha spiegato che le sanzioni unilaterali, i tentativi di “cambiare regime” e l’incoraggiamento all’opposizione siriana “sono ricette pericolose di ingegneria geopolitica che possono solo portare a un allargamento del conflitto”.

Fonte : http://qn.quotidiano.net
mariok

Re: Le storie e lo specchio

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Viaggio dentro i Cie tra pestaggi, psicofarmaci e strani suicidi

Da Milano a Trapani decine di casi. La commissione diritti umani del Senato richiama la tortura. L'Onu condanna la detenzione di un anno e mezzo. Dentro ci finiscono anche minori. - di Raffaella Cosentino

ROMA - Pestaggi non denunciati per paura, armadietti delle infermerie pieni di psicofarmaci, ‘terapie’ a base di sedativi. E' questa la realtà che emerge dai Cie: teoricamente centri di identificazione e di espulsione, nei fatti funzionano come carceri per sans papiers, in cui si finisce senza avere commesso reati ma solo per un illecito amministrativo.

Ne abbiamo visitati quattro, su dodici attivi: Roma, Lamezia Terme e due a Trapani. Dovrebbe essere solo una detenzione amministrativa per chi non ha il permesso di soggiorno. La fuga non è un'evasione. Ma dalla scorsa estate si può stare rinchiusi fino a un anno e mezzo soltanto per l’identificazione ai fini del rimpatrio. Questo rende gli ‘ospiti’ del centro dei reclusi a tutti gli effetti, dietro sbarre alte sette metri e filo spinato, sorvegliati 24 ore al giorno da militari e agenti. «Le condizioni nelle quali sono detenuti molti migranti irregolari nei Cie sono molto spesso peggiori di quelle delle carceri» si legge nell’ultimo rapporto della commissione Diritti Umani del Senato. La commissione richiama la tortura, lamentando il fatto che non esista questo tipo di reato nel codice penale italiano. Anche l’Onu, per bocca del comitato antidiscriminazioni razziali, esprime preoccupazione per i 18 mesi di detenzione.

Durante un'ispezione nel Cie di Santa Maria Capua Vetere (Ce) i senatori hanno trovato i reclusi con gli arti fratturati dopo una rivolta «e non tutti, come viene sostenuto, a causa del fallito tentativo di fuga, ma anche - e questo è stato accertato almeno in un caso - a causa dell'investimento da parte di un mezzo delle forze dell'ordine. Per alcuni giorni dopo la ribellione gli immigrati hanno avuto difficoltà addirittura ad espletare le loro necessità fisiologiche e sono stati costretti ad utilizzare delle bottigliette». Abdou Said, un egiziano di 25 anni, si è suicidato a Roma l’8 marzo dopo essere uscito dal Cie di Ponte Galeria, dove è stato per più di sei mesi. Lavorava in Libia ed era scappato dalla guerra la scorsa estate. Anche nella sua storia c’è una fuga fallita. Secondo un ex trattenuto che l’ha conosciuto nel centro, Said sarebbe stato percosso dagli agenti e avrebbe assunto a lungo psicofarmaci fino a diventare «come matto».

Durante una nostra visita a Ponte Galeria, avvenuta prima del suicidio, il direttore del centro, Giuseppe Di Sangiuliano, bollava come «leggende» gli abusi di psicofarmaci. Serena Lauri, legale del giovane suicida, racconta: «Non so cosa sia successo esattamente, aveva riportato dei danni a seguito di una caduta durante la fuga». L’avvocato ha notato «un cambiamento impressionante nei lineamenti e nella mente». Lauri ricorda Said come «un ragazzo completamente diverso, appena entrato a Ponte Galeria era quasi arrogante, dopo questo episodio aveva lo sguardo fisso e l’espressione da persona indifesa». Ma non c’erano state denunce. Secondo il legale «i reclusi hanno paura perché si confrontano ogni giorno con i poliziotti».

Ilaria Scovazzi, responsabile Immigrazione di Arci Lombardia, durante una visita nel centro di via Corelli un anno fa ha visto con i suoi occhi un cinese con il segno di una manganellata sulla schiena. Nel Cie milanese «i letti sono cementati al pavimento, gli armadi sono nicchie ricavate nel muro, l’unico arredo sono i materassi, per cui tutte le rivolte consistono nel bruciare dei materassi» spiega Mauro Straini, legale che difende sei immigrati accusati di devastazione per una sommossa dello scorso gennaio. Il ministero dell’Interno e la presidenza del Consiglio sono stati citati in giudizio al tribunale di Bari dagli avvocati Luigi Paccione e Alessio Carlucci, che considerano il Cie «un carcere extra ordinem, non dichiarato, in cui numerosi cittadini provenienti da paesi extraeuropei sono detenuti senza aver mai commesso reati punibili con la reclusione». La causa si basa su due perizie tecniche, di cui una del Comune, che documentano violazioni della dignità umana. «Noi abbiamo provato che nel Cie è in atto una detenzione carceraria, questo viola la legge» dice Paccione. «I prigionieri non possono accendere da soli la luce perché l’interruttore è comandato dall’esterno e neppure scegliere il programma tv da vedere. Hanno bagni alla turca “raccapriccianti” e alloggi “inabitabili”». Un ex recluso tunisino in una lettera denuncia l’esistenza di celle di isolamento e abusi di sedativi. «Ci caricano di calmanti e anestetici – scrive - in modo che rimani drogato e senza che te ne rendi conto non dai fastidio».

Dentro i Cie finiscono anche minori stranieri soli. Sei erano nel centro “Milo” di Trapani. Altri sono in quello di Brindisi, dove li ha rintracciati Save The Children. L’Ong opera nel progetto Praesidium del Viminale, assieme all’Alto commissariato Onu per i rifugiati, la Croce Rossa e l’Oim. Accertata la minore età, i ragazzi vengono rilasciati ma intanto hanno vissuto per molti giorni l’esperienza della reclusione nel Cie, dove sono frequenti gli atti di autolesionismo e le rivolte finalizzate alla fuga, poi represse con la forza. «Le organizzazioni del Praesidium svolgono anche attività di monitoraggio e verifica delle condizioni all’interno dei centri. Da quest’anno abbiamo esteso il progetto a tutti i centri del territorio nazionale» spiega al Corriere.it il prefetto Angela Pria, a capo del dipartimento Libertà civili e Immigrazione del ministero dell’Interno. Sugli abusi documentati con la nostra inchiesta, Pria replica che «vengono effettuati monitoraggi sullo svolgimento della vita all’interno dei Cie, quindi se queste denunce ci sono state, verranno fatti gli accertamenti necessari». Il prefetto nega che i centri di identificazione e di espulsione siano strutture di detenzione carceraria. «Non sono paragonabili alle carceri – afferma - I servizi che devono essere garantiti nei Cie riguardano l’assistenza alla persona come la mediazione linguistico - culturale, l’informazione sulla normativa sull’immigrazione, il sostegno socio-psicologico. Poi abbiamo servizi di assistenza sanitaria e mi pare che il servizio lo mostri in maniera evidente». Sul caso di Bari, Pria spiega che «i Cie non sono un’invenzione di oggi, sono la trasformazione dei precedenti Cpt, sui quali la commissione De Mistura diede indicazioni per il loro miglioramento. Il nostro impegno è diretto a una manutenzione e un adeguamento costante. Interveniamo tempestivamente su richiesta delle prefetture. Su Bari c’è un giudizio pendente, l’udienza ci sarà il prossimo mese di luglio. Già da tempo abbiamo accreditato tutte le risorse necessarie per poter ristrutturare i vari danneggiamenti che ci sono stati. Questo perché i Cie vengono costantemente danneggiati».

Raffaella Cosentino
10 aprile 2012 (modifica il 11 aprile 2012)

http://www.corriere.it/inchieste/viaggi ... 8107.shtml
mariok

Re: Le storie e lo specchio

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Arrigoni

Io resto umana: noi Arrigoni saremo sempre così

Intervista a Egidia Beretta, la madre: nonostante la tragedia nulla è cambiato rispetto i miei convincimenti.
Credo nella pace e nella giustizia.

Gianni Cipriani

venerdì 13 aprile 2012 14:15


Vorrei chiederle, proprio ad un anno dalla morte di suo figlio, cosa significa per lei oggi l'impegno per la pace e per la fratellanza dei popoli? Come vive queste idealità?

Non è cambiato. Questo impegno personale lo avevo anche pubblicamente sottoscritto nel 2004 quando vinsi le elezioni a sindaco. Non ne parlai per farmi bella: ho sempre ritenuto fondamentale lavorare per la pace. Per la pace e per la giustizia. Dissi che la giustizia è madre e sorella della pace. Senza la giustizia non ci può essere pace. Io sono rimasta come allora, come sono sempre stata. Certamente con la morte di Vittorio tutto ciò è diventato ancora più importante per me. Ma nulla è cambiato rispetto i miei convincimenti di tutta una vita.

Il motto di Vittorio era "restiamo umani" ed anche con questo motto noi abbiamo scelto di ricordarlo. Lei, per usare quell'espressione, è riuscita a restare umana, a non perdere l'orizzonte dell'umanità, nonostante la sua personale tragedia di madre?

Può forse sembrare strano, ma non mi è diventato più difficile restare umana dopo quello che è successo un anno fa. Perché anche io, come Vittorio, penso che l'essere umani e poi rimanerlo dovrebbe essere qualcosa di insito nella mente e nel cuore degli uomini. Il dramma che ho vissuto non mi ha fatta allontanare da questo convincimento. Io sono restata umana come ho sempre fatto. Forse questa espressione di Vittorio ha sempre colpito più gli altri, al di fuori della nostra famiglia, più che noi. Si stupivano nel sentirlo ripetere, quasi come un'ossessione, queste due parole. Sembrava strano che lui riuscisse ancora a pronunciarle durante Piombo Fuso ad esempio. Di questo mi meravigliavo anch'io e molte volte glielo chiedevo. Ma lui mi rispondeva che è proprio in questi momenti in cui l'umanità è schiacciata e quasi soppressa che uno deve sforzarsi di conservarla dentro di sé.

Ha mai pensato a coloro che hanno ucciso Vik? Lei considera quei carnefici degli assassini, oppure in qualche modo essi stessi vittime di un sistema sociale, culturale, religioso? Persone che si sono abbeverate di odio e solo odio potevano esprimere?

E' una domanda difficile. Ma per me sono degli assassini. Possono essere stati spinti a farlo? Forse ci sono state delle concause, ma la loro azione è stata comunque frutto di una libera scelta. Credo che queste persone che hanno fatto del male a Vittorio siano state guidate dai loro principi e dalle loro convinzioni. Forse si sono fatti irretire da qualcuno che magari aveva loro presentato la cosa come un'azione spettacolare. Ma non li vedo vittime di nulla, ma persone che sapevano quello che facevano. Tanto è vero che uno di questi giovani si era fatto amico di Vittorio frequentando la stessa palestra e quindi era cosciente di quello che stava facendo. Sarà stato un salafita ma era uno di quelli che frequentava Vittorio, che conosceva il suo lavoro, il suo impegno. Quindi penso che sia stata, magari nell'incoscienza, una scelta voluta. Sono assassini. Non li giustifico né do loro delle attenuanti.

Vittorio che vive a Gaza, si impegna per la causa palestinese e viene ucciso proprio da coloro che cercava di aiutare. Come leggere questa enorme contraddizione?

Non ho mai creduto che coloro i quali hanno ucciso Vittorio fossero coloro i quali lui stava aiutando. Perché non sarebbero arrivati a questo. Vittorio era molto amato. No, non condivido che si dica che è stato ucciso dalle stesse persone che stava aiutando. Le persone che lui stava aiutando mai si sarebbero comportate così. Aiutava gente comune, pescatori, contadini, giovani. I suoi assassini non lo conoscevano da questo punto di vista.

Dopo la morte di Vittorio voi come famiglia sceglieste di riportarlo a casa facendolo passare nel valico di Rafah e non attraverso Israele. All'epoca se ne parlò molto, ci furono polemiche. Non ha mai avuto ripensamenti da allora?

Per me è stata una decisione così lineare e inevitabile, che mi stupisco di coloro che si stupiscono. Noi non potevamo fare altrimenti. Ricordo benissimo mio marito, il papà di Vittorio che è morto a dicembre, che disse lapidariamente: Israele non l'ha voluto da vivo, non l'avrà neanche da morto. Vittorio avrebbe dovuto transitare dall'aeroporto Ben Gurion dove era stato incarcerato, picchiato, ferito. Lui era entrato a Gaza dall'Egitto, da Rafah. Era giusto che uscisse da Rafah. Se avessimo fatto diversamente Vittorio sarebbe stato moralmente offeso. Certo sarebbe stata la via più comoda. Non le dico la fatica per convincere anche la prefettura di Lecco, quando mi dissero che era troppo complicato. Poi ci siamo riusciti tra mille difficoltà. Comunque non la vedo come una scelta di odio o di rancore verso Israele ma una linearità di comportamento. Non sarei stata tranquilla con la mia coscienza. Per questo abbiamo voluto che uscisse da Rafah. Potrei poi dire che è stato trattato come un pacco postale, ma è un discorso che ancora mi addolora e non mi vorrei addentrare...

Un anno fa la morte. Nei prossimi giorni si parlerà molto di Vittorio Arrigoni. Ne parleranno e leggeranno coloro che già conoscevano la sua storia. Altri magari potranno avvicinarsi a Vik per la prima volta. Qual è per lei la chiave più giusta per ricordare suo figlio?

La chiave giusta può essere quella di ricordarlo come una persona che ha fatto una scelta radicale. Ma non per velleità di protagonismo. Lui credeva veramente che la giustizia, la libertà, i diritti umani, il diritto a vivere e a sopravvivere come nella Striscia fossero fondamentali. E quando ha avuto l'occasione di occuparsi di questi problemi lui si è dedicato anima e corpo. Quando vado nelle scuole a parlare con i ragazzi io dico loro: Vittorio non deve diventare un mito o un simbolo. Potrebbe diventare un riferimento quando ciascuno di noi si troverà a fare delle scelte della propria vita. Mettere davanti al nostro naturale egoismo quella capacità di sognare, di intraverere l'utopia anche quando sembra molto lontana. La capacità di indignarsi di fronte all'ingiustizia e trovare il coraggio di fare qualcosa. Direi anche la voglia e la volontà di informarsi. Di andare a fondo, di non accontentarsi mai. Di prendersi a cuore un popolo o una situazione, o persone, siano in Italia, in Palestina o ovunque. Conoscere per potere essere in grado di agire. Ecco, mi piacerebbe che Vittorio fosse un punto di riferimento per coloro che non vogliono restare addormentati, che non vogliono subire le notizie. Ma che vogliono svegliarsi e agire.

A lei, come madre, come piace farcelo ricordare?

Ricordo i tanti momenti che abbiamo passato assieme, la sua irruenza, la sua ricerca della propria strada. E poi lo ricordo anche nei momenti affettuosi. Con lui si scherzava, mi prendeva anche in giro. Ci raccontavamo le cose, ci sostenevamo a vicenda. Per me Vittorio è ancora al mio lato, non è una frase fatta. Quando devo parlare di lui mi metto una mano sulla testa e sento la sua voce che dice: non dire stupidate mamma, pensa alle parole che stai per pronunciare... il dolore è grandissimo. Mi manca la sua presenza. Alcuni per rincuorarmi dicevano: fai finta che sia rimasto a Gaza. Ma lì c'era la gioia dell'attesa, del rivederlo. Così invece... non so quando ci rivedremo. Ho voluto un gran bene a Vittorio e gliene voglio ancora. Io ero la sua mammi, così mi chiamava, questa sintonia che c'era tra di noi non si è mai spezzata. Neanche adesso.

http://www.globalist.it/Detail_News_Dis ... empre-cosi
mariok

Re: Le storie e lo specchio

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TARANTO

Suicida a 13 anni dopo lo stupro
Il padre: «Traditi dallo Stato»


In una lettera aperta lo sfogo di Alfredo Frassanito che a 5 anni dai fatti non ha ancora avuto giustizia

MILANO - «Stato, istituzioni, giustizia, ministri dove siete? Quanti secoli vi occorrono per celebrare finalmente questi maledetti processi?». Lo scrive in una lettera aperta Alfonso Frassanito, padre di Carmela, la 13enne che si tolse la vita il 15 aprile del 2007, lanciandosi dal balcone di un palazzo del rione Paolo VI di Taranto, perchè era stata violentata e nessuno le credeva. L'uomo ricorda che il processo a carico di tre maggiorenni accusati di aver stuprato la ragazzina si trascina «stancamente e sono state celebrate solo quattro udienze, mentre due giovani (all'epoca dei fatti minorenni) hanno evitato la condanna, nonostante la confessione, con il riconoscimento della messa alla prova».

PAESE INCIVILE - Oggi, scrive Frassanito, presidente dell'associazione «Io sò Carmela» ricorre «il quinto vergognoso anniversario senza giustizia per Carmela, figlia, suo malgrado, di questo paese ipocrita e incivile, che con il suo silenzio e la sua indifferenza si rende complice di queste atrocità». «Ogni martedì, in quello stesso tribunale di Taranto, - ricorda Frassanito - che per il processo contro gli stupratori di Carmela di udienze riesce a farne solo una ogni sei mesi si svolgono le udienze per il delitto, altrettanto vergognoso della piccola Sarah Scazzi».

ECCESSO DI GARANTISMO - «Sembra di essere a Hollywood, telecamere dappertutto, imputati divenuti vip e calca di curiosi - dice Frassanito - disposti a perdere giornate di lavoro pur di apparire davanti alle telecamere». Ma dove sono, sottolinea Frassanito, «quando la giustizia la si chiede per Carmela e per altre vittime come lei? Basta - conclude l'uomo - con l'eccessivo garantismo nei confronti di chi stupra e ammazza (anche e soprattutto quando ad uccidere è lo stesso Stato) calpestando invece sempre e comunque i diritti delle vittime». (Fonte Ansa)

15 aprile 2012 | 16:49

http://www.corriere.it/cronache/12_apri ... 4bd1.shtml
mariok

Re: Le storie e lo specchio

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CONCORDIA: TROVATO IL CORPO DI GIUSEPPE. LASCIÒ IL SUO POSTO SULLA SCIALUPPA AD UNA BAMBINA

Il corpo del batterista Giuseppe Girolamo è stato ritrovato ieri. Così è morto un eroe



E' stato identificato il corpo del musicista sulla Concordia. Il suo cadavere è stato recuperato insieme a quello di altre quattro vittime. Si tratta di Christina Mathi Ganz, cittadina tedesca; Norbert Josef Ganz, cittadino tedesco; Barbara Heil, cittadina americana; Gerald Heil, cittadino americano. Restano disperse altre due persone.

Quel giorno, mentre il capitano Schettino si apprestava ad abbandonare in fretta e furia la nave Concordia, Giuseppe Girolamo, lasciava il suo posto in scialuppa ad una bambina. Un gesto eroico che gli è costato la vita.

Su Facebook il suo ultimo messaggio è datato 2 Gennaio: "Auguri di buon 2012 a tutti i miei amici...perdonate il ritardo ma la naviggazione non mi ha permesso di connettermi prima!!! Ciaaaaaao!!!". Addio, eroe.

http://www.cadoinpiedi.it/2012/04/18/co ... _eroe.html
mariok

Re: Le storie e lo specchio

Messaggio da mariok »

Cina: femmine troppo brave, esami più facili per i maschi

Troppe studentesse sono troppo brave e i maschi vengono surclassati nei test d’accesso scolastico. Quindi ai ragazzi potrebbero essere fatti fare test diversi e piu’ facili. Una proposta che in Cina sta suscitando, secondo il China Daily, molte polemiche.

L’idea e’ venuta a Wang Ronghua, che e’ anche direttore della Fondazione per lo sviluppo e l’educazione di Shanghai. Secondo Wang, negli ultimi anni nelle scuole, soprattutto superiori, si sta verificando una eccessiva sproporzione tra numero di maschi e numero di femmine. Lo scorso anno, secondo dati da lui forniti, gli studenti maschi a Shanghai hanno ottenuto agli esami di accesso alla scuola superiore una media di 25 punti in meno rispetto alle loro compagne. I maschi sono risultati molto meno preparati soprattutto in inglese e in cinese. Alla scuola superiore di Shanghai la proporzione di studenti di sesso maschile e’ crollata al 35% del totale rispetto al 65% di circa 20 anni fa.

”Temo che se si andra’ avanti cosi’ – ha detto Wang – le scuole superiori diventeranno solo femminili, e questo non va bene”. Secondo il deputato la ragione di questa differenza sta nel fatto che i maschi hanno bisogno di piu’ tempo per maturare e sono anche piu’ portati per le materie creative e per quelle che necessitano un’applicazione pratica.

”Agli esami – ha continuato Wang – sono svantaggiati, perche’ i test si basano soprattutto sulla capacita’ di autocontrollo, sulla dialettica, sull’abilita’ linguistica, tutte cose in cui le femmine primeggiano. Ecco perche’ sarebbe giusto semplificare gli esami per i maschi”. E se da un lato sono in parecchi ad aver accolto con favore l’idea, i pareri contrari non mancano. ”I maschi e le femmine sono uguali – commenta una donna – e non e’ giusto che le femmine siano sottoposte ad esami piu’ duri solo perche’ sono piu’ brave. Usare standard differenti significa fare una discriminazione”. Secondo Sun Baohong, ricercatore all’Accademia di Scienze Sociali di Shanghai, la responsabilita’ e’ spesso anche dei genitori.

”In Cina i genitori spesso per tradizione preferiscono i figli maschi – spiega il ricercatore – questo fa si’ che essi spesso siano piu’ viziati e svogliati rispetto alle femmine. I genitori invece dovrebbero incoraggiarli a confrontarsi con tutte le materie e a gestire le difficolta’ e le sfide”.

Fonte: http://www.blitzquotidiano.it

Passeremo dalle quote rosa alle quote celesti?
mariok

Re: Le storie e lo specchio

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Buon compleanno Rita Levi Montalcini. 103 anni per il premio Nobel


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‎"Per me quello che conta, in una persona, non è che sia ebrea o cattolica, ma che sia degna di rispetto. E sono convinta che non esistano le razze, ma i razzisti". [Rita Levi-Montalcini]
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