Il mondo che ribolle
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Re: Il mondo che ribolle
Portogallo - 1
Portogallo, governo in bilico fa crollare la Borsa come per il crac Lehman Brothers
Il ministro degli Esteri si è dimesso seguendo quanto annunciato 24 ore prima dal ministro delle Finanze. I mercati precipitano come nel 2008, mentre i titoli di Stato volano e Standard & Poor's declassa il Paese. Torna lo spettro di un secondo salvataggio
di Silvia Ragusa | 8 luglio 2013Commenti (11)
Per alcuni Paesi con una situazione economica parecchio fragile una crisi di governo è decisamente un lusso. È quello che è successo la scorsa settimana in Portogallo, quando Paulo Portas, ministro degli Esteri e leader del partito minore della coalizione di centrodestra, ha deciso all’improvviso di dare le sue “irrevocabili” dimissioni. L’ha fatto 24 ore dopo che il ministro delle Finanze, Vitor Gaspar, si alzasse dal tavolo e uscisse dall’esecutivo sbattendo la porta. Il gesto di Gaspar, che già da ottobre faceva intendere un suo ritiro dietro le quinte, era più o meno inevitabile. Ma quello di Portas no.
Lisbona ha tremato, la Borsa è crollata, in un solo giorno, tanto quanto era precipitata il giorno del default di Lehman Brothers, nel settembre 2008. Gli interessi sui titoli di Stato a dieci anni sono schizzati ed è tornato lo spettro di un secondo salvataggio, proprio mentre l’agenzia di rating Standard & Poor’s declassava il rating del Paese a BB, ossia negativo. Solo il settimanale portoghese Sábado ha avuto il coraggio di scriverlo in copertina: “Ecco come i bisticci e gli intrighi tra Passos Coelho e Portas possono portarci ai livelli della Grecia“.
Oggi il governo lusitano si presenta alla riunione dell’Eurogruppo con una crisi in apparenza superata e una promessa di stabilità. Il primo ministro conservatore Passos Coelho è apparso sugli schermi televisivi sabato sera per assicurare al Paese, ma anche all’Europa e agli investitori, che il nuovo governo di coalizione sarà solido e durerà fino a fine legislatura, nel 2015. Alla sua destra il dimissionario Paulo Portas con aria soddisfatta: da ministro degli Esteri passa a vicepremier con pieni poteri sulle politiche economiche e sui rapporti con il triunvirato europeo (Ue, Bce, Fmi). Insomma un gradino in più di Maria Luisa Albuquerque, chiamata a ricoprire la carica di ministro delle Finanze lasciata vuota da Gaspar. Portas l’aveva considerata una scelta di continuità alle ricette economiche che finora ha messo in pratica il Portogallo, basate sull’austerità a ogni costo, tagli alla spesa pubblica e sull’accettazione passiva delle condizioni imposte dalla troika. E anche per questo aveva rassegnato le dimissioni.
Sono servite cinque riunioni private, l’intervento del presidente della Repubblica Cavaco Silva e le nefaste ripercussioni sui mercati finanziari a mettere fine al vuoto di potere. Almeno sulla carta. Secondo fonti interne i due, premier e neo vicepremier si parlano poco. Portas ha sempre accusato Passos Coelho di scarsa considerazione e di aver dovuto ingoiare molte sgradite decisioni, soprattutto sul rigore dei bilanci. Per l’opposizione tanto basta: sfiducia l’esecutivo che, a suo parere, ne è uscito indebolito, screditato e fragile di fronte alla crisi economica che non dà tregua. E chiede a gran voce elezioni anticipate per chiarire la situazione, come hanno fatto le migliaia di persone scese in piazza sabato, quando il capo dello Stato incontrava per l’ennesima volta il primo ministro e Paulo Portas con l’intenzione di mediare.
Insomma nessuno, forse nemmeno i diretti interessati, scommettono molto sulla durata di questo accordo a tavolino. Tanto più che, secondo il quotidiano spagnolo El País, Bruxelles sta già negoziando con Lisbona una “linea di credito precauzionale” dell’Esm (Meccanismo europeo di stabilità): un salvataggio “morbido” che funzioni come misura preventiva per assicurarsi che l’uscita dal memorandum, nel maggio 2014, non sia sofferta. Secondo le due alte cariche europee intervistate dal corrispondente spagnolo a Bruxelles, il Portogallo infatti mostra chiari segni di fatica e la cura dell’austerità non dà i risultati sperati.
Il Paese, considerato da sempre il primo della classe, non sembra infatti riuscire a rialzarsi davvero. Con un tasso di disoccupazione in aumento – attorno al 20 per cento – quattro degli ultimi cinque anni in recessione, incluso il 2013, e un debito pubblico del 120 per cento sul Pil, il malessere dei cittadini in merito al programma imposto dalla troika aumenta. I sindacati pochi giorni fa hanno convocato uno sciopero generale, il quarto sotto l’esecutivo conservatore, per mettere un freno all’ennesima riforma, che stavolta vuole facilitare i licenziamenti nel settore pubblico. Intanto, lunedì prossimo, il 15 luglio, arriveranno gli uomini in nero in vista dell’ottava valutazione del piano di aggiustamento. Senza quei soldi tutto crolla. Ma per averli occorrerà tagliare, ancora una volta.
twitter @si_ragu
http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/07 ... rs/649453/
Portogallo, governo in bilico fa crollare la Borsa come per il crac Lehman Brothers
Il ministro degli Esteri si è dimesso seguendo quanto annunciato 24 ore prima dal ministro delle Finanze. I mercati precipitano come nel 2008, mentre i titoli di Stato volano e Standard & Poor's declassa il Paese. Torna lo spettro di un secondo salvataggio
di Silvia Ragusa | 8 luglio 2013Commenti (11)
Per alcuni Paesi con una situazione economica parecchio fragile una crisi di governo è decisamente un lusso. È quello che è successo la scorsa settimana in Portogallo, quando Paulo Portas, ministro degli Esteri e leader del partito minore della coalizione di centrodestra, ha deciso all’improvviso di dare le sue “irrevocabili” dimissioni. L’ha fatto 24 ore dopo che il ministro delle Finanze, Vitor Gaspar, si alzasse dal tavolo e uscisse dall’esecutivo sbattendo la porta. Il gesto di Gaspar, che già da ottobre faceva intendere un suo ritiro dietro le quinte, era più o meno inevitabile. Ma quello di Portas no.
Lisbona ha tremato, la Borsa è crollata, in un solo giorno, tanto quanto era precipitata il giorno del default di Lehman Brothers, nel settembre 2008. Gli interessi sui titoli di Stato a dieci anni sono schizzati ed è tornato lo spettro di un secondo salvataggio, proprio mentre l’agenzia di rating Standard & Poor’s declassava il rating del Paese a BB, ossia negativo. Solo il settimanale portoghese Sábado ha avuto il coraggio di scriverlo in copertina: “Ecco come i bisticci e gli intrighi tra Passos Coelho e Portas possono portarci ai livelli della Grecia“.
Oggi il governo lusitano si presenta alla riunione dell’Eurogruppo con una crisi in apparenza superata e una promessa di stabilità. Il primo ministro conservatore Passos Coelho è apparso sugli schermi televisivi sabato sera per assicurare al Paese, ma anche all’Europa e agli investitori, che il nuovo governo di coalizione sarà solido e durerà fino a fine legislatura, nel 2015. Alla sua destra il dimissionario Paulo Portas con aria soddisfatta: da ministro degli Esteri passa a vicepremier con pieni poteri sulle politiche economiche e sui rapporti con il triunvirato europeo (Ue, Bce, Fmi). Insomma un gradino in più di Maria Luisa Albuquerque, chiamata a ricoprire la carica di ministro delle Finanze lasciata vuota da Gaspar. Portas l’aveva considerata una scelta di continuità alle ricette economiche che finora ha messo in pratica il Portogallo, basate sull’austerità a ogni costo, tagli alla spesa pubblica e sull’accettazione passiva delle condizioni imposte dalla troika. E anche per questo aveva rassegnato le dimissioni.
Sono servite cinque riunioni private, l’intervento del presidente della Repubblica Cavaco Silva e le nefaste ripercussioni sui mercati finanziari a mettere fine al vuoto di potere. Almeno sulla carta. Secondo fonti interne i due, premier e neo vicepremier si parlano poco. Portas ha sempre accusato Passos Coelho di scarsa considerazione e di aver dovuto ingoiare molte sgradite decisioni, soprattutto sul rigore dei bilanci. Per l’opposizione tanto basta: sfiducia l’esecutivo che, a suo parere, ne è uscito indebolito, screditato e fragile di fronte alla crisi economica che non dà tregua. E chiede a gran voce elezioni anticipate per chiarire la situazione, come hanno fatto le migliaia di persone scese in piazza sabato, quando il capo dello Stato incontrava per l’ennesima volta il primo ministro e Paulo Portas con l’intenzione di mediare.
Insomma nessuno, forse nemmeno i diretti interessati, scommettono molto sulla durata di questo accordo a tavolino. Tanto più che, secondo il quotidiano spagnolo El País, Bruxelles sta già negoziando con Lisbona una “linea di credito precauzionale” dell’Esm (Meccanismo europeo di stabilità): un salvataggio “morbido” che funzioni come misura preventiva per assicurarsi che l’uscita dal memorandum, nel maggio 2014, non sia sofferta. Secondo le due alte cariche europee intervistate dal corrispondente spagnolo a Bruxelles, il Portogallo infatti mostra chiari segni di fatica e la cura dell’austerità non dà i risultati sperati.
Il Paese, considerato da sempre il primo della classe, non sembra infatti riuscire a rialzarsi davvero. Con un tasso di disoccupazione in aumento – attorno al 20 per cento – quattro degli ultimi cinque anni in recessione, incluso il 2013, e un debito pubblico del 120 per cento sul Pil, il malessere dei cittadini in merito al programma imposto dalla troika aumenta. I sindacati pochi giorni fa hanno convocato uno sciopero generale, il quarto sotto l’esecutivo conservatore, per mettere un freno all’ennesima riforma, che stavolta vuole facilitare i licenziamenti nel settore pubblico. Intanto, lunedì prossimo, il 15 luglio, arriveranno gli uomini in nero in vista dell’ottava valutazione del piano di aggiustamento. Senza quei soldi tutto crolla. Ma per averli occorrerà tagliare, ancora una volta.
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Re: Il mondo che ribolle
Grecia - 1
Grecia, scontri all’università e sciopero generale. Troika, sì al maxiprestito
L'Eurogruppo divide in due tranche gli aiuti che il paese si aspettava tutti insieme a luglio, e la prima tranche da 2,5 miliardi arriverà solo “in funzione delle riforme che dovranno essere messe in piedi entro il 19 luglio” ha fatto sapere il presidente Dijsselbloem.
di Francesco De Palo | 8 luglio 2013Commenti (7)
Non si placa il disagio sociale nella crisi greca. Da un lato si registra la notizia del via libera della troika alla dose di agosto del maxiprestito da 8 miliardi di euro, dall’altro la piazza torna ad infiammarsi con l’aggressione al sindaco della capitale e con scontri tra manifestanti e forze dell’ordine con lancio di lacrimogeni e arresti fra gli studenti. I rappresentanti dei creditori internazionali hanno concluso questa mattina il loro report sui progressi di Atene: Fmi, Ue e Bce si dicono soddisfatti del trend avviato dal governo Samaras circa le riforme strutturali della pubblica amministrazione e del comparto occupazionale, anche se permangono dubbi circa la tenuta complessiva delle misure. L’Eurogruppo divide in due tranche gli aiuti che la Grecia si aspettava tutti insieme a luglio, e la prima tranche da 2,5 miliardi arriverà solo “in funzione delle riforme che dovranno essere messe in piedi entro il 19 luglio” ha fatto sapere il presidente Dijsselbloem.
I nodi restano i ritardi di attuazione del programma in alcuni settori come le privatizzazioni, di cui ne sono state avviate solo tre in un anno (di cui una sola, l’Opap, con cash ascrivibili al bilancio ellenico). Inoltre il via libera della troika non prevede, così come qualche ministro aveva lasciato intendere, la riduzione dell’iva che resta al 23%. Mentre aumenta dello 0,2% la tassa di proprietà sugli immobili. Buone notizie (per Berlino) sul fronte occupazionale, con il governo disposto a licenziare i 12.500 dipendenti pubblici chiesti dalla troika, per garantire il raggiungimento degli obiettivi finanziari nel 2013-2014. Ancora difficoltà per l’erario, con almeno due miliardi di tasse non riscosse, per la mutua e l’Inps che presentano una voragine finanziaria non ancora quantificata. Proprio il lavoro è un punto dolente, con lo sciopero generale andato in scena oggi nel Paese e con l’aggressione di ieri al sindaco di Atene Iorgos Kaminis. Un gruppo di dipendenti pubblici lo ha riconosciuto per le strade della capitale, al termine di un vertice proprio sul rischio licenziamenti e lo ha aggredito con calci e pugni, oltre a danneggiare la sua auto. Il sindaco è riuscito a mettersi in salvo montando su una moto di grossa cilindrata che lo ha condotto al pronto soccorso.
E non è tutto, perché oggi, proprio in occasione della mobilitazione dei lavoratori, cento studenti dell’Università di Atene hanno manifestato contro la riunione del Consiglio direttivo dell’ateneo che avrebbe dovuto decidere sui tagli al personale. La polizia anti-sommossa è intervenuta per disperderli con lancio di lacrimogeni, arrestandone trentuno. Gli uomini dei Mat sono anche entrati nel rettorato dove si sono scontrati con gli studenti. Il rettore è rimasto intrappolato all’interno della sala conferenze per qualche ora, prima che la folla andasse via. Diminuisce intanto la flotta mercantile greca: meno 3,7% nel corso degli ultimi dodici mesi. Secondo i dati presentati al Parlamento dal ministero della Marina, la potenza della flotta mercantile greca per navi da cento tonnellate di stazza lorda al marzo di quest’anno si è attestato a 1.932 unità. Con una stazza lorda complessiva di 43.932.408, mentre il corrispondente di un anno fa era di 2.006 unità. Infine l’affondo contro l’Ue da parte del leader del Syriza, Alexis Tsipras. Incontrando Henri Malosse, presidente del Comitato economico e sociale europeo, ha detto che “l’Europa è guidata su strade sdrucciolevoli, le scelte neoliberiste dei leader dell’Ue distruggono la coesione economica e sociale, le politiche restrittive sono in fase di stallo, la disoccupazione è in crescita, mentre lo stato sociale si scioglie”.
Twitter @FDepalo
Modificato da redazione web alle 20.22
http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/07 ... to/650005/
Grecia, scontri all’università e sciopero generale. Troika, sì al maxiprestito
L'Eurogruppo divide in due tranche gli aiuti che il paese si aspettava tutti insieme a luglio, e la prima tranche da 2,5 miliardi arriverà solo “in funzione delle riforme che dovranno essere messe in piedi entro il 19 luglio” ha fatto sapere il presidente Dijsselbloem.
di Francesco De Palo | 8 luglio 2013Commenti (7)
Non si placa il disagio sociale nella crisi greca. Da un lato si registra la notizia del via libera della troika alla dose di agosto del maxiprestito da 8 miliardi di euro, dall’altro la piazza torna ad infiammarsi con l’aggressione al sindaco della capitale e con scontri tra manifestanti e forze dell’ordine con lancio di lacrimogeni e arresti fra gli studenti. I rappresentanti dei creditori internazionali hanno concluso questa mattina il loro report sui progressi di Atene: Fmi, Ue e Bce si dicono soddisfatti del trend avviato dal governo Samaras circa le riforme strutturali della pubblica amministrazione e del comparto occupazionale, anche se permangono dubbi circa la tenuta complessiva delle misure. L’Eurogruppo divide in due tranche gli aiuti che la Grecia si aspettava tutti insieme a luglio, e la prima tranche da 2,5 miliardi arriverà solo “in funzione delle riforme che dovranno essere messe in piedi entro il 19 luglio” ha fatto sapere il presidente Dijsselbloem.
I nodi restano i ritardi di attuazione del programma in alcuni settori come le privatizzazioni, di cui ne sono state avviate solo tre in un anno (di cui una sola, l’Opap, con cash ascrivibili al bilancio ellenico). Inoltre il via libera della troika non prevede, così come qualche ministro aveva lasciato intendere, la riduzione dell’iva che resta al 23%. Mentre aumenta dello 0,2% la tassa di proprietà sugli immobili. Buone notizie (per Berlino) sul fronte occupazionale, con il governo disposto a licenziare i 12.500 dipendenti pubblici chiesti dalla troika, per garantire il raggiungimento degli obiettivi finanziari nel 2013-2014. Ancora difficoltà per l’erario, con almeno due miliardi di tasse non riscosse, per la mutua e l’Inps che presentano una voragine finanziaria non ancora quantificata. Proprio il lavoro è un punto dolente, con lo sciopero generale andato in scena oggi nel Paese e con l’aggressione di ieri al sindaco di Atene Iorgos Kaminis. Un gruppo di dipendenti pubblici lo ha riconosciuto per le strade della capitale, al termine di un vertice proprio sul rischio licenziamenti e lo ha aggredito con calci e pugni, oltre a danneggiare la sua auto. Il sindaco è riuscito a mettersi in salvo montando su una moto di grossa cilindrata che lo ha condotto al pronto soccorso.
E non è tutto, perché oggi, proprio in occasione della mobilitazione dei lavoratori, cento studenti dell’Università di Atene hanno manifestato contro la riunione del Consiglio direttivo dell’ateneo che avrebbe dovuto decidere sui tagli al personale. La polizia anti-sommossa è intervenuta per disperderli con lancio di lacrimogeni, arrestandone trentuno. Gli uomini dei Mat sono anche entrati nel rettorato dove si sono scontrati con gli studenti. Il rettore è rimasto intrappolato all’interno della sala conferenze per qualche ora, prima che la folla andasse via. Diminuisce intanto la flotta mercantile greca: meno 3,7% nel corso degli ultimi dodici mesi. Secondo i dati presentati al Parlamento dal ministero della Marina, la potenza della flotta mercantile greca per navi da cento tonnellate di stazza lorda al marzo di quest’anno si è attestato a 1.932 unità. Con una stazza lorda complessiva di 43.932.408, mentre il corrispondente di un anno fa era di 2.006 unità. Infine l’affondo contro l’Ue da parte del leader del Syriza, Alexis Tsipras. Incontrando Henri Malosse, presidente del Comitato economico e sociale europeo, ha detto che “l’Europa è guidata su strade sdrucciolevoli, le scelte neoliberiste dei leader dell’Ue distruggono la coesione economica e sociale, le politiche restrittive sono in fase di stallo, la disoccupazione è in crescita, mentre lo stato sociale si scioglie”.
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Re: Il mondo che ribolle
25 LUG 2013 17:58
CRISTINA AMMAZZA CRISTINA: LAGARDE “TRADISCE” LA KIRCHNER, DEFAULT ARGENTINO PIU' VICINO
Voltafaccia via mail del dg del Fmi, che con una mail ritira il sostegno al governo di Buenos Aires nella causa intentata a New York dagli hedge fund che rifiutarono lo swap al 33% del debito argentino - Braccio di ferro politico: l'Argentina ribadisce che non pagherà in ogni caso...
Mara Monti per il "Sole 24 Ore"
Tra Argentina e Stati Uniti scoppia un caso diplomatico e ad accendere lo scontro è ancora l'annosa vicenda dei bond in default su cui si attende il pronunciamento del Tribunale di New York.
Ad accendere la miccia è stata la decisione del Fondo Monetario Internazionale attraverso il direttore generale Christine Lagarde di ritirare il supporto all'Argentina davanti al Tribunale di New York dove pende il ricorso presentato dagli hedge fund Paul Singer della Elliott Management, smentendo il suo appoggio dato soltanto tre giorni fa. In una e-mail il Fondo sottolinea come la decisione della Corte americana potrebbe creare un precedente con ricadute sistemiche nei processi di ristrutturazione in generale.
La vicenda che si trascina ormai da dieci anni da quando l'Argentina oggi guidato dalla signora Kirchner è caduto in default nel 2001, sta assumendo i contorni di uno scontro politico e diplomatico dal momento che a scendere in campo ora è anche il Tesoro americano che a difesa degli investitori statunitensi ha dichiarato insostenibile la posizione dell'Argentina, invitando il Fondo Monetario a non intervenire nel procedimento legale.
Lo scorso ottobre il paese sudamericano aveva presentato ricorso al Tribunale di New York nel procedimento davanti al giudice Thomas Griesa dopo la decisione in primo grado che aveva imposto per la prima all'Argentina di ripagare il debito.
Una decisione alla quale il paese sudamericano si è apporto perché le conseguenze sarebbero disastrose perché costringerebbe il paese a sborsare altri 43 miliardi a tutti colori che avevano aderito allo swap per consentire loro di godere delle stesse condizioni migliorative.
Una clausola prevista nel prospetto informativo relativo all'Ops, secondo la quale l'Argentina accettava che nel caso di proposte migliorative accettata in un secondo tempo, esse sarebbero estese a tutti coloro che avevano aderito all'offerta di scambio. L'Argentina ha già fatto sapere che anche se perderà la causa, non intenderà pagare, però è probabile che sarà lo stesso il giudice del Tribunale di New York Thomas Griesa a isolare l'Argentina costringendola al default.
Ora lo scontro si sposta sul campo diplomatico dal momento che l'Argentina accusa il Tribunale di New York «di intrusione senza precedenti nelle questioni interne di un paese estero che ha rapporti con gli Stati Uniti». La decisione della Corte potrebbe arrivare in ogni momento, ma prima di allora l'avvocatura dello Stato americano potrebbe essere audito davanti ai giudici della Suprema Corte.
Il caso dell'Argentina si trascina dal 2001 quando il paese dichiarò la bancarotta con un debito record di 95 miliardi di dollari, per la maggior parte nelle mani degli investitori esteri, e dieci anni dopo ancora un pugno di bondholders è in ballo per definire le modalità del restante debito. Il 95% del debito è stato oggetto di un accordo di swap di nuovi titoli pari al 33% del valore originario.
Ora questa nuova tegola arriva in un momento di grave difficoltà per il paese al punto che per evitare una nuova fuga di capitali all'estero, il governo ha razionalizzato la vendita di dollari e di altre valute forzando la popolazione a rivolgersi al mercato nero alla ricerca di valuta estera per i viaggi o per i risparmi.
CRISTINA AMMAZZA CRISTINA: LAGARDE “TRADISCE” LA KIRCHNER, DEFAULT ARGENTINO PIU' VICINO
Voltafaccia via mail del dg del Fmi, che con una mail ritira il sostegno al governo di Buenos Aires nella causa intentata a New York dagli hedge fund che rifiutarono lo swap al 33% del debito argentino - Braccio di ferro politico: l'Argentina ribadisce che non pagherà in ogni caso...
Mara Monti per il "Sole 24 Ore"
Tra Argentina e Stati Uniti scoppia un caso diplomatico e ad accendere lo scontro è ancora l'annosa vicenda dei bond in default su cui si attende il pronunciamento del Tribunale di New York.
Ad accendere la miccia è stata la decisione del Fondo Monetario Internazionale attraverso il direttore generale Christine Lagarde di ritirare il supporto all'Argentina davanti al Tribunale di New York dove pende il ricorso presentato dagli hedge fund Paul Singer della Elliott Management, smentendo il suo appoggio dato soltanto tre giorni fa. In una e-mail il Fondo sottolinea come la decisione della Corte americana potrebbe creare un precedente con ricadute sistemiche nei processi di ristrutturazione in generale.
La vicenda che si trascina ormai da dieci anni da quando l'Argentina oggi guidato dalla signora Kirchner è caduto in default nel 2001, sta assumendo i contorni di uno scontro politico e diplomatico dal momento che a scendere in campo ora è anche il Tesoro americano che a difesa degli investitori statunitensi ha dichiarato insostenibile la posizione dell'Argentina, invitando il Fondo Monetario a non intervenire nel procedimento legale.
Lo scorso ottobre il paese sudamericano aveva presentato ricorso al Tribunale di New York nel procedimento davanti al giudice Thomas Griesa dopo la decisione in primo grado che aveva imposto per la prima all'Argentina di ripagare il debito.
Una decisione alla quale il paese sudamericano si è apporto perché le conseguenze sarebbero disastrose perché costringerebbe il paese a sborsare altri 43 miliardi a tutti colori che avevano aderito allo swap per consentire loro di godere delle stesse condizioni migliorative.
Una clausola prevista nel prospetto informativo relativo all'Ops, secondo la quale l'Argentina accettava che nel caso di proposte migliorative accettata in un secondo tempo, esse sarebbero estese a tutti coloro che avevano aderito all'offerta di scambio. L'Argentina ha già fatto sapere che anche se perderà la causa, non intenderà pagare, però è probabile che sarà lo stesso il giudice del Tribunale di New York Thomas Griesa a isolare l'Argentina costringendola al default.
Ora lo scontro si sposta sul campo diplomatico dal momento che l'Argentina accusa il Tribunale di New York «di intrusione senza precedenti nelle questioni interne di un paese estero che ha rapporti con gli Stati Uniti». La decisione della Corte potrebbe arrivare in ogni momento, ma prima di allora l'avvocatura dello Stato americano potrebbe essere audito davanti ai giudici della Suprema Corte.
Il caso dell'Argentina si trascina dal 2001 quando il paese dichiarò la bancarotta con un debito record di 95 miliardi di dollari, per la maggior parte nelle mani degli investitori esteri, e dieci anni dopo ancora un pugno di bondholders è in ballo per definire le modalità del restante debito. Il 95% del debito è stato oggetto di un accordo di swap di nuovi titoli pari al 33% del valore originario.
Ora questa nuova tegola arriva in un momento di grave difficoltà per il paese al punto che per evitare una nuova fuga di capitali all'estero, il governo ha razionalizzato la vendita di dollari e di altre valute forzando la popolazione a rivolgersi al mercato nero alla ricerca di valuta estera per i viaggi o per i risparmi.
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Re: Il mondo che ribolle
25 LUG 2013 18:39
DISCOUNT ATENE: APPARTAMENTI IN VENDITA A 7MILA EURO, MA NESSUNO LI COMPRA PER LE MAXI-TASSE (MANCO I CINESI)
Effetti della crisi greca: mercato immobiliare ko per le tasse e la miseria - Ad Atene appartamenti in centro in vendita per cifre intorno ai 10mila euro, ma non li comprano più nemmeno gli albanesi - le supertasse sugli immobili sono un incubo - Fallisce la “promozione cinese” di Samaras...
Dimitri Deliolanes per "il Foglio"
Un appartamento o uno studio di due stanze a meno di diecimila euro: lo si può trovare al centro di Atene, ma anche a Salonicco, a Patrasso, perfino nella turistica Corfù oppure nell'isola di Creta. Non ruderi da ristrutturare, ma case pronte per essere abitate.
E' il panorama da svendita del mercato immobiliare della Grecia in crisi, descritto dal quotidiano economico Imerisia in un documentato reportage, basato sui dati dell'Unione proprietari immobiliari (Pomida).
La città in cui i prezzi sono letteralmente crollati rispetto a cinque anni fa è Atene, specialmente nel centro della città, abbandonato da decenni al degrado. Quartieri centrali come Kypseli, Patisia, persino il famigerato Agios Panteleimon, roccaforte dei nazisti di Alba dorata, sono stati gradualmente abbandonati dai residenti greci, sostituiti da immigrati.
Ora anche gli immigrati se ne vanno. Specialmente gli albanesi, al primo posto tra le comunità straniere in Grecia, hanno da tempo ripreso la strada del ritorno in patria. Gli appartamenti in cui vivevano, spesso in affitto, qualche volta di proprietà, sono rimasti vuoti. E sui proprietari pesano le tasse e i costi di mantenimento.
Le tasse, appunto. Fin dallo scoppio della crisi, la proprietà immobiliare è stata la più sicura fonte di entrate per le casse dello stato. Non c'è solo l'analoga dell'Imu, qui chiamata "tassa straordinaria di solidarietà", che sarà protratta fino al 2016. C'è anche la rivalutazione del valore catastale, decretato nel 2011 ma calcolato sui valori di mercato del 2005, di regola tre o quattro volte più alti degli attuali.
Qualche esempio: un appartamento di 55 mq al centralissimo quartiere Kypseli, palazzo del 1958 in ottime condizioni, si vende per undicimila euro. A Patisia, un appartamento di 68 mq in una palazzina del 1976 si vende a settemila euro. A Salonicco, 50 mq in vendita a diecimila euro. A Corfù, una villetta fuori città di 55 mq con un piccolo giardino, diecimila euro. Ma anche con questi prezzi, gli immobili rimangono invenduti e vuoti.
La Pomida calcola che gli appartamenti vuoti siano tra i 200 e i 270 mila in tutto il paese, e propone la sua soluzione: modificare la legge che impedisce ai proprietari di cedere gli immobili al demanio, come saldo per le tasse dovute. Da quest'anno, per debiti all'ufficio delle imposte per più di cinquantamila euro è prevista la condanna a un anno di carcere.
Durante la sua visita a Pechino, nel maggio scorso, il premier Samaras aveva invitato i cinesi - ma fino a oggi con scarsissimi risultati - ad acquistare immobili in Grecia, visto che la legge cinese prevede per i proprietari di immobili all'estero l'esenzione dall'obbligo del figlio unico.
DISCOUNT ATENE: APPARTAMENTI IN VENDITA A 7MILA EURO, MA NESSUNO LI COMPRA PER LE MAXI-TASSE (MANCO I CINESI)
Effetti della crisi greca: mercato immobiliare ko per le tasse e la miseria - Ad Atene appartamenti in centro in vendita per cifre intorno ai 10mila euro, ma non li comprano più nemmeno gli albanesi - le supertasse sugli immobili sono un incubo - Fallisce la “promozione cinese” di Samaras...
Dimitri Deliolanes per "il Foglio"
Un appartamento o uno studio di due stanze a meno di diecimila euro: lo si può trovare al centro di Atene, ma anche a Salonicco, a Patrasso, perfino nella turistica Corfù oppure nell'isola di Creta. Non ruderi da ristrutturare, ma case pronte per essere abitate.
E' il panorama da svendita del mercato immobiliare della Grecia in crisi, descritto dal quotidiano economico Imerisia in un documentato reportage, basato sui dati dell'Unione proprietari immobiliari (Pomida).
La città in cui i prezzi sono letteralmente crollati rispetto a cinque anni fa è Atene, specialmente nel centro della città, abbandonato da decenni al degrado. Quartieri centrali come Kypseli, Patisia, persino il famigerato Agios Panteleimon, roccaforte dei nazisti di Alba dorata, sono stati gradualmente abbandonati dai residenti greci, sostituiti da immigrati.
Ora anche gli immigrati se ne vanno. Specialmente gli albanesi, al primo posto tra le comunità straniere in Grecia, hanno da tempo ripreso la strada del ritorno in patria. Gli appartamenti in cui vivevano, spesso in affitto, qualche volta di proprietà, sono rimasti vuoti. E sui proprietari pesano le tasse e i costi di mantenimento.
Le tasse, appunto. Fin dallo scoppio della crisi, la proprietà immobiliare è stata la più sicura fonte di entrate per le casse dello stato. Non c'è solo l'analoga dell'Imu, qui chiamata "tassa straordinaria di solidarietà", che sarà protratta fino al 2016. C'è anche la rivalutazione del valore catastale, decretato nel 2011 ma calcolato sui valori di mercato del 2005, di regola tre o quattro volte più alti degli attuali.
Qualche esempio: un appartamento di 55 mq al centralissimo quartiere Kypseli, palazzo del 1958 in ottime condizioni, si vende per undicimila euro. A Patisia, un appartamento di 68 mq in una palazzina del 1976 si vende a settemila euro. A Salonicco, 50 mq in vendita a diecimila euro. A Corfù, una villetta fuori città di 55 mq con un piccolo giardino, diecimila euro. Ma anche con questi prezzi, gli immobili rimangono invenduti e vuoti.
La Pomida calcola che gli appartamenti vuoti siano tra i 200 e i 270 mila in tutto il paese, e propone la sua soluzione: modificare la legge che impedisce ai proprietari di cedere gli immobili al demanio, come saldo per le tasse dovute. Da quest'anno, per debiti all'ufficio delle imposte per più di cinquantamila euro è prevista la condanna a un anno di carcere.
Durante la sua visita a Pechino, nel maggio scorso, il premier Samaras aveva invitato i cinesi - ma fino a oggi con scarsissimi risultati - ad acquistare immobili in Grecia, visto che la legge cinese prevede per i proprietari di immobili all'estero l'esenzione dall'obbligo del figlio unico.
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Re: Il mondo che ribolle
Nelle strade in fiamme del Cairo “I soldati hanno sparato per uccidere” settanta morti tra gli islamici in rivolta
(Vanna Vannucchi).
28/07/2013 di triskel182
E Kerry ammonisce l’esercito: “Rispettare chi protesta”.
Il reportage.
IL CAIRO-CON le persone che portano con sé il pasto serale e se restano bloccati nel traffico lo consumano in macchina o parcheggiano l’automobile e dispongono il cibo sul cofano. Una corrente di questa fiumana punta verso piazza Tahrir, la piazza centrale del Cairo che era stata due anni fa epicentro della rivoluzione, e che ha visto una mega manifestazione come non ce n’erano più state dopo la cacciata di Mubarak. L’altra corrente punta verso Nasr City, la roccaforte dei Fratelli Musulmani. Due mondi che sono al massimo a nove chilometri di distanza ma che in questo momento sarebbero pronti ognuno a eliminare l’altro se potessero. La demonizzazione reciproca è arrivata al parossismo. «L’esercito deve sradicare il terrore» è scritto sul mega striscione che attraversa piazza Tahrir. Mentre tra le tende dove da 28 giorni sono accampati i Fratelli Musulmani, davanti alla moschea Raaba Alawija, a Nasr City, gli altoparlanti
di continuo scandiscono solennemente che nessuno si muoverà di lì fino a che Morsi non sarà riportato alla presidenza. La notizia dell’incriminazione di Morsi l’altro ieri per tradimento ha eccitato ulteriormente gli animi.
Le manifestazioni di massa servono a entrambe le parti per dimostrare chi delle due rappresenti la volontà popolare. Il generale al Sissi ha chiesto al popolo un mandato «per combattere il terrorismo e la violenza» e gli egiziani gliel’hanno dato con entusiasmo con la grande manifestazione di venerdì; altrettanto hanno fatto i Fratelli musulmani convocando i loro seguaci. È un gioco pericoloso. All’alba di ieri la notte insonne dei manifestanti è sfociata in un bagno di sangue cui non sono ancora chiare né la meccanica né le responsabilità; perfino il numero dei morti è rimasto incerto, oscillante per tutta la giornata tra 20 e 200, per attestarsi — sono le cifre ufficiali del ministero della Sanità — su sessantasei vittime e diverse centinaia di feriti. Ma la gravità della situazione ha fatto riflettere, non solo per le condanne venute dall’Europa e dagli Stati Uniti, con il segretario di Stato John Kerry che ha espresso «preoccupazione per il massacro» e chiesto rispetto per «il diritto a manifestare pacificamente in pubblico », ma perché potrebbe erodere i consensi di cui godono in questo momento i militari. Ieri sera si è riunito il Consiglio supremo di difesa presieduto dal capo dello Stato ad interim Adli Mansur. Lo scopo di Al Sissi era accelerare i tempi e giocare la partita finale con i Fratelli Musulmani. Aveva dato loro un ultimatum di 48 ore per accettare l’offerta di dialogo. Ma aveva sottovalutato la loro irriducibilità. L’Imam dell’università Al Azhar, la massima autorità teologica del mondo sunnita, che con la sua presenza il 3 luglio aveva benedetto la deposizione di Morsi, ha condannato l’uso eccessivo della forza e ha chiesto una inchiesta. La stessa richiesta è venuta da Moahmmed El Baradei. «Faccio appello a tutte le parti perché sia posto fine pacificamente al conflitto» ha detto il vicepresidente. Appelli «a porre fine alla carneficina » e a creare una commissione d’inchiesta «che dica la verità al popolo egiziano» sono venute anche dal partito salafita al Nour e da altre forze politiche. Su Youtube sono state postate vere e proprie scene di orrore: pozze di sangue, un medico che si piega su un ragazzo e gli solleva la testa trapassata da una pallottola, medici che cercano disperatamente di rianimare dei giovani esanimi o di suturare delle ferite nel lazzaretto da campo che è stato allestito di fronte alla moschea mentre la gente scandisce: Sissi assassino.
Ieri il grande accampamento nelle strade intorno alla moschea appariva tranquillo e nell’ospedale allestito di fronte c’erano poche persone. Sotto il sole infuocato del pomeriggio gli uomini stavano per lo più distesi
a dormire. La presenza di un giornalista europeo provoca dapprima diffidenza, poi prevale però il desiderio di parlare. E subito ti fanno la domanda: É o non è un colpo di Stato secondo i vostri concetti di democrazia? Sotto le tende qui tutti sono immersi nel loro cosmo Morsi, rispondono con identica foga e parole identiche. Gli argomenti si ripetono uguali sotto ogni tenda e unanime è il rifiuto di qualsiasi soluzione che non accolga in pieno le loro domande. «Non ci preoccupa vincere mi dice uno di loro -perché noi vinciamo comunque: vinciamo se Morsi sarà reinstallato nelle sue funzioni, ma vinciamo anche se ci ammazzano tutti. Questo è il nostro credo». Nel ruolo di vittime e nel ritorno alla clandestinità alcuni vedono il modo per ripartire: «L’organizzazione dei Fratelli musulmani è stata costruita in 85 anni sempre sotto regimi oppressivi. È un mondo che conosciamo». Le strade che portano alla moschea sono state fortificate con sacchi di sabbia e barriere di cemento.
«Colpo di Stato?», mi dirà più tardi uno studente di ingegneria più tardi a Piazza Tahrir. «Se lei compra una scatola di cibo e si accorge che è andato a male che fa, lo mangia o lo butta? Si rende conto di chi cosa avrebbe significato per l’Egitto tenersi Morsi per altri quattro anni? Essersi liberati da un governo oppressivo e ipocrita è un miracolo. Morsi non aveva altra ambizione che occupare rapidamente tutti i posti di potere. Dappertutto aveva creato poteri paralleli: una milizia islamica accanto alla polizia, servizi segreti islamici accanto a quelli esistenti. Perfino a al Azhar, dopo che non era riuscito a defenestrare il Gran Imam gli ha messo alle costole un Fratello musulmano». Piazza Tahrir è ancora piena di ritratti di Al Sissi: con Sadat, con Nasser, con il papa copto. «L’esercito ha una tradizione popolare in Egitto, ed è giusto che i militari affermino la volontà del popolo», dice la gente.
Da La Repubblica del 28/07/2013.
(Vanna Vannucchi).
28/07/2013 di triskel182
E Kerry ammonisce l’esercito: “Rispettare chi protesta”.
Il reportage.
IL CAIRO-CON le persone che portano con sé il pasto serale e se restano bloccati nel traffico lo consumano in macchina o parcheggiano l’automobile e dispongono il cibo sul cofano. Una corrente di questa fiumana punta verso piazza Tahrir, la piazza centrale del Cairo che era stata due anni fa epicentro della rivoluzione, e che ha visto una mega manifestazione come non ce n’erano più state dopo la cacciata di Mubarak. L’altra corrente punta verso Nasr City, la roccaforte dei Fratelli Musulmani. Due mondi che sono al massimo a nove chilometri di distanza ma che in questo momento sarebbero pronti ognuno a eliminare l’altro se potessero. La demonizzazione reciproca è arrivata al parossismo. «L’esercito deve sradicare il terrore» è scritto sul mega striscione che attraversa piazza Tahrir. Mentre tra le tende dove da 28 giorni sono accampati i Fratelli Musulmani, davanti alla moschea Raaba Alawija, a Nasr City, gli altoparlanti
di continuo scandiscono solennemente che nessuno si muoverà di lì fino a che Morsi non sarà riportato alla presidenza. La notizia dell’incriminazione di Morsi l’altro ieri per tradimento ha eccitato ulteriormente gli animi.
Le manifestazioni di massa servono a entrambe le parti per dimostrare chi delle due rappresenti la volontà popolare. Il generale al Sissi ha chiesto al popolo un mandato «per combattere il terrorismo e la violenza» e gli egiziani gliel’hanno dato con entusiasmo con la grande manifestazione di venerdì; altrettanto hanno fatto i Fratelli musulmani convocando i loro seguaci. È un gioco pericoloso. All’alba di ieri la notte insonne dei manifestanti è sfociata in un bagno di sangue cui non sono ancora chiare né la meccanica né le responsabilità; perfino il numero dei morti è rimasto incerto, oscillante per tutta la giornata tra 20 e 200, per attestarsi — sono le cifre ufficiali del ministero della Sanità — su sessantasei vittime e diverse centinaia di feriti. Ma la gravità della situazione ha fatto riflettere, non solo per le condanne venute dall’Europa e dagli Stati Uniti, con il segretario di Stato John Kerry che ha espresso «preoccupazione per il massacro» e chiesto rispetto per «il diritto a manifestare pacificamente in pubblico », ma perché potrebbe erodere i consensi di cui godono in questo momento i militari. Ieri sera si è riunito il Consiglio supremo di difesa presieduto dal capo dello Stato ad interim Adli Mansur. Lo scopo di Al Sissi era accelerare i tempi e giocare la partita finale con i Fratelli Musulmani. Aveva dato loro un ultimatum di 48 ore per accettare l’offerta di dialogo. Ma aveva sottovalutato la loro irriducibilità. L’Imam dell’università Al Azhar, la massima autorità teologica del mondo sunnita, che con la sua presenza il 3 luglio aveva benedetto la deposizione di Morsi, ha condannato l’uso eccessivo della forza e ha chiesto una inchiesta. La stessa richiesta è venuta da Moahmmed El Baradei. «Faccio appello a tutte le parti perché sia posto fine pacificamente al conflitto» ha detto il vicepresidente. Appelli «a porre fine alla carneficina » e a creare una commissione d’inchiesta «che dica la verità al popolo egiziano» sono venute anche dal partito salafita al Nour e da altre forze politiche. Su Youtube sono state postate vere e proprie scene di orrore: pozze di sangue, un medico che si piega su un ragazzo e gli solleva la testa trapassata da una pallottola, medici che cercano disperatamente di rianimare dei giovani esanimi o di suturare delle ferite nel lazzaretto da campo che è stato allestito di fronte alla moschea mentre la gente scandisce: Sissi assassino.
Ieri il grande accampamento nelle strade intorno alla moschea appariva tranquillo e nell’ospedale allestito di fronte c’erano poche persone. Sotto il sole infuocato del pomeriggio gli uomini stavano per lo più distesi
a dormire. La presenza di un giornalista europeo provoca dapprima diffidenza, poi prevale però il desiderio di parlare. E subito ti fanno la domanda: É o non è un colpo di Stato secondo i vostri concetti di democrazia? Sotto le tende qui tutti sono immersi nel loro cosmo Morsi, rispondono con identica foga e parole identiche. Gli argomenti si ripetono uguali sotto ogni tenda e unanime è il rifiuto di qualsiasi soluzione che non accolga in pieno le loro domande. «Non ci preoccupa vincere mi dice uno di loro -perché noi vinciamo comunque: vinciamo se Morsi sarà reinstallato nelle sue funzioni, ma vinciamo anche se ci ammazzano tutti. Questo è il nostro credo». Nel ruolo di vittime e nel ritorno alla clandestinità alcuni vedono il modo per ripartire: «L’organizzazione dei Fratelli musulmani è stata costruita in 85 anni sempre sotto regimi oppressivi. È un mondo che conosciamo». Le strade che portano alla moschea sono state fortificate con sacchi di sabbia e barriere di cemento.
«Colpo di Stato?», mi dirà più tardi uno studente di ingegneria più tardi a Piazza Tahrir. «Se lei compra una scatola di cibo e si accorge che è andato a male che fa, lo mangia o lo butta? Si rende conto di chi cosa avrebbe significato per l’Egitto tenersi Morsi per altri quattro anni? Essersi liberati da un governo oppressivo e ipocrita è un miracolo. Morsi non aveva altra ambizione che occupare rapidamente tutti i posti di potere. Dappertutto aveva creato poteri paralleli: una milizia islamica accanto alla polizia, servizi segreti islamici accanto a quelli esistenti. Perfino a al Azhar, dopo che non era riuscito a defenestrare il Gran Imam gli ha messo alle costole un Fratello musulmano». Piazza Tahrir è ancora piena di ritratti di Al Sissi: con Sadat, con Nasser, con il papa copto. «L’esercito ha una tradizione popolare in Egitto, ed è giusto che i militari affermino la volontà del popolo», dice la gente.
Da La Repubblica del 28/07/2013.
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Re: Il mondo che ribolle
In 4 continenti
AUTOBOMBA IN CASERMA: 4 FERITI
Egitto, infuriano scontri in tutte le città15 morti al Cairo, Giza e Alessandria
Anniversario
di sangue: 30 morti in Egitto
*****
Argentina: borsa e valuta ancora sotto pressione per spettro crisi -2 ...
finanza-mercati.ilsole24ore.com/azioni/.../news-radiocor.php?...
1 giorno fa - (Il Sole 24 Ore Radiocor) - New York, 24 gen - La tensione rimane alta. Il panico a Buenos Aires come altrove e' stato scatenato da una ...
L'Indipendenza
Argentina: borsa e valuta ancora sotto pressione per spettro crisi
Il Sole 24 Ore - 1 giorno fa
(Il Sole 24 Ore Radiocor) - New York, 24 gen - I mercati finanziari dell'Argentina sono rimasti sotto assedio all'indomani della brusca ...
***
Tensione Giappone-Corea per un monumento in Cina a un patriota «terrorista»
Il Sole 24 Ore - 4 giorni fa
Domenica 19 gennaio è stato inaugurato a Harbin, in Cina, un Memorial Hall per il patriota coreano Ahn Jung-geun, che nel 1909 assassinò ...
Dr.Doom" Roubini vede nero: guerra tra Cina e Giappone nel 2014
TMNews - 2 giorni fa
Cina-Giappone: Biden, abbassare tensioni - Mondo - ANSA.it
http://www.ansa.it › Mondo
03/dic/2013 - Cina-Giappone: Biden, abbassare tensioni, Usa, "Profonda preoccupazione" su 'area identificazione' Pechino, , Mondo, Ansa.
***
AL PUGILE KLITSCHKO PROPOSTO IL RUOLO DI VICEPREMIER
Ucraina in fiamme, Yanukovich trema
I manifestanti assaltano i palazzi
Il presidente offre il governo all’opposizione, ma il tentativo di mediazione fallisce: assedio dei manifestanti al palazzo della polizia. Molotov e scontri
Kiev, la protesta s’infiamma - Foto
http://www.corriere.it/foto-gallery/est ... 1d.shtml#1
Ucraina: l'occupazione dei palazzi del potere
Assalto alla Regione a Vinnitsia, al ministero dell'energia a Kiev - rcd
http://video.corriere.it/ucraina-occupa ... 402e9bb91d
AUTOBOMBA IN CASERMA: 4 FERITI
Egitto, infuriano scontri in tutte le città15 morti al Cairo, Giza e Alessandria
Anniversario
di sangue: 30 morti in Egitto
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Argentina: borsa e valuta ancora sotto pressione per spettro crisi
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I manifestanti assaltano i palazzi
Il presidente offre il governo all’opposizione, ma il tentativo di mediazione fallisce: assedio dei manifestanti al palazzo della polizia. Molotov e scontri
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Re: Il mondo che ribolle
ISLAM POLITICO, CORSA ALLE ARMI
Il disordine che ignoriamo
di FRANCO VENTURINI
4 GUERRA
È perfettamente comprensibile che le nostre priorità siano la politica interna, la congiuntura economica, l’Europa, insomma tutto quel che ci tocca direttamente. Ma in questa logica selezione d’interessi, che non è soltanto italiana, rischiamo di non accorgerci che nel mondo esterno la classifica sta cambiando con una velocità mai vista dopo la fine della Guerra fredda. Si diffonde ovunque un disordine sempre più pericoloso anche per noi, torna alla ribalta il tema della guerra e della pace che credevamo sepolto sotto le macerie del Muro di Berlino, le aree più instabili del mondo si armano fino ai denti con sommo disprezzo dei buoni propositi sottoscritti all’Onu. E allora diventa opportuno allungare lo sguardo.
Cominciamo da vicino casa. Sul caos libico il Corriere ha da tempo lanciato l’allarme, e gli avvenimenti continuano a dargli ragione. La diplomazia appare impotente davanti alle milizie e ai loro ricatti energetici, alla guerra civile strisciante, alle masse di profughi provenienti da altre crisi che dalle coste libiche partono nella speranza di raggiungere l’Italia. Quanto potrà durare? E poi ci sono i depositi di armi dell’era Gheddafi: lì si riforniscono combattenti d’ogni dove, qaedisti del Sahel, massacratori delle guerre africane, contendenti siriani, terroristi ben finanziati e fanatici islamisti dell’Isis (sigla per «Stato islamico dell’Iraq e del Levante») che sta mettendo a soqquadro l’Iraq.
A ben vedere è proprio l’Isis il simbolo più rivelatore dei nuovi tempi. Sunniti come tutti i qaedisti ma scomunicati dalla vecchia Al Qaeda per eccesso di crudeltà (e ce ne vuole...), gli uomini dell’Isis vogliono ridisegnare quei confini che britannici e francesi imposero quasi un secolo fa con la ben nota lungimiranza delle potenze coloniali. Non soltanto per far nascere il loro Califfato, ma per affermare una dinamica eversiva e rigidamente settaria che è già la regola nella Siria che gronda sangue, che allarma già gli sciiti iraniani e ottiene invece una tacita comprensione dai sunniti sauditi. Davvero crediamo che la grande guerra inter-islamica non ci riguardi, e non riguardi il prezzo o le forniture di greggio? Che la mattanza siriana possa continuare a piacimento, che non possano saltare all’improvviso il Libano e la Giordania, che domani in Afghanistan non possa andare come oggi in Iraq, magari trascinando nella mischia anche il Pakistan e la sua atomica? E le molte centinaia, forse le migliaia di giovani europei che vanno a combattere con l’Isis e poi rientrano nei nostri tranquilli rifugi europei addestrati e fanatizzati, anonimi fino a quando decideranno di colpire?
In Asia è tutto più chiaro. La Cina superpotenza economica investe nella marina per controllare il Mar Cinese meridionale alla faccia degli americani, il Giappone si appresta a reagire, gli Stati Uniti lo fanno già. Qui gli stanziamenti militari sono ufficiali, ma non per questo inquietano di meno. E sulla marina punta anche la Russia (settecento miliardi di dollari nei prossimi vent’anni), il che aiuta forse a capire il ratto della Crimea con il porto di Sebastopoli. Eccoci tornati vicino casa. In Ucraina si spara ancora, ma l’unica cosa sicura sembra essere che servirà un riarmo dell’esercito di Kiev.
Il mondo ha il dito sul grilletto. Il multipolarismo che abbiamo voluto è diventato disordine multipolare con esplosioni regionali. Ma la violenza si muove, e proprio come l’Isis non conosce confini. Forse dovremmo aggiornare le nostre priorità, e anche le nostre politiche.
24 giugno 2014 | 08:34
© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/opinioni/14_giug ... e6da.shtml
Il disordine che ignoriamo
di FRANCO VENTURINI
4 GUERRA
È perfettamente comprensibile che le nostre priorità siano la politica interna, la congiuntura economica, l’Europa, insomma tutto quel che ci tocca direttamente. Ma in questa logica selezione d’interessi, che non è soltanto italiana, rischiamo di non accorgerci che nel mondo esterno la classifica sta cambiando con una velocità mai vista dopo la fine della Guerra fredda. Si diffonde ovunque un disordine sempre più pericoloso anche per noi, torna alla ribalta il tema della guerra e della pace che credevamo sepolto sotto le macerie del Muro di Berlino, le aree più instabili del mondo si armano fino ai denti con sommo disprezzo dei buoni propositi sottoscritti all’Onu. E allora diventa opportuno allungare lo sguardo.
Cominciamo da vicino casa. Sul caos libico il Corriere ha da tempo lanciato l’allarme, e gli avvenimenti continuano a dargli ragione. La diplomazia appare impotente davanti alle milizie e ai loro ricatti energetici, alla guerra civile strisciante, alle masse di profughi provenienti da altre crisi che dalle coste libiche partono nella speranza di raggiungere l’Italia. Quanto potrà durare? E poi ci sono i depositi di armi dell’era Gheddafi: lì si riforniscono combattenti d’ogni dove, qaedisti del Sahel, massacratori delle guerre africane, contendenti siriani, terroristi ben finanziati e fanatici islamisti dell’Isis (sigla per «Stato islamico dell’Iraq e del Levante») che sta mettendo a soqquadro l’Iraq.
A ben vedere è proprio l’Isis il simbolo più rivelatore dei nuovi tempi. Sunniti come tutti i qaedisti ma scomunicati dalla vecchia Al Qaeda per eccesso di crudeltà (e ce ne vuole...), gli uomini dell’Isis vogliono ridisegnare quei confini che britannici e francesi imposero quasi un secolo fa con la ben nota lungimiranza delle potenze coloniali. Non soltanto per far nascere il loro Califfato, ma per affermare una dinamica eversiva e rigidamente settaria che è già la regola nella Siria che gronda sangue, che allarma già gli sciiti iraniani e ottiene invece una tacita comprensione dai sunniti sauditi. Davvero crediamo che la grande guerra inter-islamica non ci riguardi, e non riguardi il prezzo o le forniture di greggio? Che la mattanza siriana possa continuare a piacimento, che non possano saltare all’improvviso il Libano e la Giordania, che domani in Afghanistan non possa andare come oggi in Iraq, magari trascinando nella mischia anche il Pakistan e la sua atomica? E le molte centinaia, forse le migliaia di giovani europei che vanno a combattere con l’Isis e poi rientrano nei nostri tranquilli rifugi europei addestrati e fanatizzati, anonimi fino a quando decideranno di colpire?
In Asia è tutto più chiaro. La Cina superpotenza economica investe nella marina per controllare il Mar Cinese meridionale alla faccia degli americani, il Giappone si appresta a reagire, gli Stati Uniti lo fanno già. Qui gli stanziamenti militari sono ufficiali, ma non per questo inquietano di meno. E sulla marina punta anche la Russia (settecento miliardi di dollari nei prossimi vent’anni), il che aiuta forse a capire il ratto della Crimea con il porto di Sebastopoli. Eccoci tornati vicino casa. In Ucraina si spara ancora, ma l’unica cosa sicura sembra essere che servirà un riarmo dell’esercito di Kiev.
Il mondo ha il dito sul grilletto. Il multipolarismo che abbiamo voluto è diventato disordine multipolare con esplosioni regionali. Ma la violenza si muove, e proprio come l’Isis non conosce confini. Forse dovremmo aggiornare le nostre priorità, e anche le nostre politiche.
24 giugno 2014 | 08:34
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Re: Il mondo che ribolle
Auguriamoci che in questa fase non succeda nulla di pericoloso, perché tra il bambolotto di Firenze e la ministra della guerra staremo freschi.
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Re: Il mondo che ribolle
http://www.youtube.com/watch?v=7heXZPl2hik&hd=1
Il Portorico come l'Argentina, paradiso caraibico a rischio default
di Vittorio Da Rold. Con un articolo di Marco Valsania28 luglio 2014Commenti (1)
Portorico come l'Argentina? Forse. Infatti quest'anno non è tutto divertimento e sole splendente sulle bianche spiagge di Portorico in questa pazza estate 2014. Anzi nuvole grosse si stagliano all'orizzonte dell'isola caraibica. Il territorio degli Stati Uniti (ma non incorporato) ha emesso un sacco di debiti, troppi per le sue forze. E ora i creditori vogliono essere ripagati, ma ci sono forti dubbi sul fatto che Portorico onorerà i suoi obblighi. Una brutta faccenda che ricorda il default dell'Argentina del 2001, dopo quello di Lehman Brother il 15 settembre 2008.
Ma andiamo con ordine. Il 2 luglio scorso l'agenzia Moody's ha ridotto il rating di Portorico di tre gradini portandolo a junk bond, titoli spazzatura, dopo che l'isola ha approvato una controversalegge che rende più facile per alcune agenzie locali -
- tra cui quella che fornisce l'energia elettrica, la Prepa (Porto Rico Electric Power Authority ) che è indebitata per 8 miliardi di dollari - di sottrarsi ai pagamenti del debito se almeno i ¾ dei debitori si accordano sulla ristrutturazione del debito.
Un brutto segnale per i grandi fondi pensione e i 401mila fondi pensione di medie dimensioni che gestiscono i risparmi dei pensionati americani e che hanno acquistato bond dell'isola. Insomma se Portorico non paga sono dolori per molti pensionati americani.
Il passaggio della legge ha sollevato forti timori che Puerto Rico, che ha circa 70 miliardi dollari di debito, si stia avvicinando al default.
"La nuova legge di Puerto Rico segna la fine della lunga storia fatta di azioni necessarie per sostenere il suo debito", ha detto Moody nella sua relazione.
Intanto i bond locali di Portorico hanno perso quasi il 50%, le tre sorelle delle agenzie di rating hanno ridotto il relativo rating del paese a spazzatura e a rischiare sono i fondi pensione che ne hanno acquistati in massa confidando dell'ombrello di protezione dello Zio Sam.
Numerose sono le similitudini con la crisi all'ombra del Partenone: se escludiamo l'appartenenza a una moneta unica con diritto di rappresentanza nelle stanze dei bottoni, ritroviamo nel caso di Portorico una forte recessione, una elevata disoccupazione (13,8%), un forte peso del debito pubblico (pari al 100% del Pil) rispetto alla modesta popolazione (3,6 milioni), emigrazionequalificata e giovanile alle stelle, un governo senza capacità di controllare le spese.
Per ora si tratta solo di un quasi "default" di un bond governativo, ma che potrebbe far male perché a Portorico si nascondono molti "investimenti" dell'economia statunitense, cioè i fondi pensione. E i tentativi di salvare l'isola dimostrano questi timori. Ma intanto i bond di Portorico crollano.
Molti analisti ritengono che Portorico sarà comunque salvata da Washington a causa delle obbligazioni detenute da diversi fondi pensione, ma l'entità del default è di 70 miliardi di dollari, vicino a quello dell'Argentina nel 2001, che fu di 95 miliardi di dollari i cui effetti non sono ancora cessati. Insomma non si tratta di noccioline.
Nel giugno scorso il presidente americano Barack Obama ad esempio ritenne di non intervenire a salvare Detroit, la città dell'auto dalla bancarotta che ammontò a 18 miliardi di dollari. Ma a Portorico si rischia un possibile effetto valanga, una faccenda più seria.
Certo il Pil pro capite di Portorico è di soli 15.000 dollari, un po' superiore a quello turco e l'isola è una pulce economica. Ma cosa farà Washington? Lascerà fallire Porto Rico con le gravi conseguenze sui fondi pensione americani o preferirà salvare l'isola per evitare l'effetto contagio e una valanga di voti contrari dei pensionati colpiti dalle perdite sui bond? La storia del salvataggio greco si ripete all'ombra dei Caraibi.
Per gli amanti delle statistiche dall'83 ad oggi Moody's ha registrato i seguenti default:
1998 Russia, Venezuela, Ucraina
1999 Pakistan, Ecuador
2000 Perù, Ucraina, Costa d'Avorio
2001 Argentina
2002 Moldova
2003 Uruguay, Nicaragua
2004 Grenada
2005 Rep. Domenicana
2006 Belize
2008 Nicaragua, Ecuador
2010 Jamaica
2012 Grecia, Belize
Visto che in passato c'è stata molta America latina, Portorico deve stare molto attento.
di Vittorio Da Rold. Con un articolo di Marco Valsania - Il Sole 24 Ore -
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/ ... d=AB3jcAfB
Il Portorico come l'Argentina, paradiso caraibico a rischio default
di Vittorio Da Rold. Con un articolo di Marco Valsania28 luglio 2014Commenti (1)
Portorico come l'Argentina? Forse. Infatti quest'anno non è tutto divertimento e sole splendente sulle bianche spiagge di Portorico in questa pazza estate 2014. Anzi nuvole grosse si stagliano all'orizzonte dell'isola caraibica. Il territorio degli Stati Uniti (ma non incorporato) ha emesso un sacco di debiti, troppi per le sue forze. E ora i creditori vogliono essere ripagati, ma ci sono forti dubbi sul fatto che Portorico onorerà i suoi obblighi. Una brutta faccenda che ricorda il default dell'Argentina del 2001, dopo quello di Lehman Brother il 15 settembre 2008.
Ma andiamo con ordine. Il 2 luglio scorso l'agenzia Moody's ha ridotto il rating di Portorico di tre gradini portandolo a junk bond, titoli spazzatura, dopo che l'isola ha approvato una controversalegge che rende più facile per alcune agenzie locali -
- tra cui quella che fornisce l'energia elettrica, la Prepa (Porto Rico Electric Power Authority ) che è indebitata per 8 miliardi di dollari - di sottrarsi ai pagamenti del debito se almeno i ¾ dei debitori si accordano sulla ristrutturazione del debito.
Un brutto segnale per i grandi fondi pensione e i 401mila fondi pensione di medie dimensioni che gestiscono i risparmi dei pensionati americani e che hanno acquistato bond dell'isola. Insomma se Portorico non paga sono dolori per molti pensionati americani.
Il passaggio della legge ha sollevato forti timori che Puerto Rico, che ha circa 70 miliardi dollari di debito, si stia avvicinando al default.
"La nuova legge di Puerto Rico segna la fine della lunga storia fatta di azioni necessarie per sostenere il suo debito", ha detto Moody nella sua relazione.
Intanto i bond locali di Portorico hanno perso quasi il 50%, le tre sorelle delle agenzie di rating hanno ridotto il relativo rating del paese a spazzatura e a rischiare sono i fondi pensione che ne hanno acquistati in massa confidando dell'ombrello di protezione dello Zio Sam.
Numerose sono le similitudini con la crisi all'ombra del Partenone: se escludiamo l'appartenenza a una moneta unica con diritto di rappresentanza nelle stanze dei bottoni, ritroviamo nel caso di Portorico una forte recessione, una elevata disoccupazione (13,8%), un forte peso del debito pubblico (pari al 100% del Pil) rispetto alla modesta popolazione (3,6 milioni), emigrazionequalificata e giovanile alle stelle, un governo senza capacità di controllare le spese.
Per ora si tratta solo di un quasi "default" di un bond governativo, ma che potrebbe far male perché a Portorico si nascondono molti "investimenti" dell'economia statunitense, cioè i fondi pensione. E i tentativi di salvare l'isola dimostrano questi timori. Ma intanto i bond di Portorico crollano.
Molti analisti ritengono che Portorico sarà comunque salvata da Washington a causa delle obbligazioni detenute da diversi fondi pensione, ma l'entità del default è di 70 miliardi di dollari, vicino a quello dell'Argentina nel 2001, che fu di 95 miliardi di dollari i cui effetti non sono ancora cessati. Insomma non si tratta di noccioline.
Nel giugno scorso il presidente americano Barack Obama ad esempio ritenne di non intervenire a salvare Detroit, la città dell'auto dalla bancarotta che ammontò a 18 miliardi di dollari. Ma a Portorico si rischia un possibile effetto valanga, una faccenda più seria.
Certo il Pil pro capite di Portorico è di soli 15.000 dollari, un po' superiore a quello turco e l'isola è una pulce economica. Ma cosa farà Washington? Lascerà fallire Porto Rico con le gravi conseguenze sui fondi pensione americani o preferirà salvare l'isola per evitare l'effetto contagio e una valanga di voti contrari dei pensionati colpiti dalle perdite sui bond? La storia del salvataggio greco si ripete all'ombra dei Caraibi.
Per gli amanti delle statistiche dall'83 ad oggi Moody's ha registrato i seguenti default:
1998 Russia, Venezuela, Ucraina
1999 Pakistan, Ecuador
2000 Perù, Ucraina, Costa d'Avorio
2001 Argentina
2002 Moldova
2003 Uruguay, Nicaragua
2004 Grenada
2005 Rep. Domenicana
2006 Belize
2008 Nicaragua, Ecuador
2010 Jamaica
2012 Grecia, Belize
Visto che in passato c'è stata molta America latina, Portorico deve stare molto attento.
di Vittorio Da Rold. Con un articolo di Marco Valsania - Il Sole 24 Ore -
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/ ... d=AB3jcAfB
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