Stato-mafia
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Stato-mafia
Stato-mafia, a processo pm vuole sentire Napolitano, Grasso
venerdì 17 maggio 2013 16:00
PALERMO (Reuters) - Al processo per la presunta trattativa tra Stato e mafia, che partirà il prossimo 27 maggio in Corte d'Assise a Palermo, la procura vuole ascoltare l'attuale capo dello Stato Giorgio Napolitano, l'ex procuratore nazionale antimafia e oggi presidente del Senato Piero Grasso, l'ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, ma anche ex ministri, collaboratori di giustizia e il procuratore generale della Cassazione, Gianfranco Ciani.
Sono questi i nomi più noti della lista di 176 persone che i pm della Procura di Palermo - Nino Di Matteo, Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi - hanno chiesto di sentire come testi in aula e depositata oggi nella cancelleria del tribunale siciliano.
Il processo per una presunta trattativa tra lo Stato e la mafia agli inizi degli anni 90 vede 10 imputati: i mafiosi Totò Riina, Antonino Cinà, Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca; il figlio dell'ex sindaco di Palermo, Massimo Ciancimino; gli ex ufficiali dei carabinieri Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno; l'ex senatore del Pdl Marcello Dell'Utri; l'ex ministro Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza.
Sul sito http://www.reuters.it le altre notizie Reuters in italiano. Le top news anche su http://www.twitter.com/reuters_italia
..........................................................................................................................
Come mai siamo arrivati a questo?e la distruzione delle telefonate tra Napolitano e Mancini? Ingria?
Per cui Silvio hai poco da dire che sei un perseguitato.Anche un presidente della repubblica è uguale a un cittadino normale.
Ciao
Paolo11
venerdì 17 maggio 2013 16:00
PALERMO (Reuters) - Al processo per la presunta trattativa tra Stato e mafia, che partirà il prossimo 27 maggio in Corte d'Assise a Palermo, la procura vuole ascoltare l'attuale capo dello Stato Giorgio Napolitano, l'ex procuratore nazionale antimafia e oggi presidente del Senato Piero Grasso, l'ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, ma anche ex ministri, collaboratori di giustizia e il procuratore generale della Cassazione, Gianfranco Ciani.
Sono questi i nomi più noti della lista di 176 persone che i pm della Procura di Palermo - Nino Di Matteo, Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi - hanno chiesto di sentire come testi in aula e depositata oggi nella cancelleria del tribunale siciliano.
Il processo per una presunta trattativa tra lo Stato e la mafia agli inizi degli anni 90 vede 10 imputati: i mafiosi Totò Riina, Antonino Cinà, Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca; il figlio dell'ex sindaco di Palermo, Massimo Ciancimino; gli ex ufficiali dei carabinieri Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno; l'ex senatore del Pdl Marcello Dell'Utri; l'ex ministro Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza.
Sul sito http://www.reuters.it le altre notizie Reuters in italiano. Le top news anche su http://www.twitter.com/reuters_italia
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Come mai siamo arrivati a questo?e la distruzione delle telefonate tra Napolitano e Mancini? Ingria?
Per cui Silvio hai poco da dire che sei un perseguitato.Anche un presidente della repubblica è uguale a un cittadino normale.
Ciao
Paolo11
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Re: Stato-mafia
Servizio Pubblico più del 06/06/2013 –
“Cosa Vostra”: lo speciale sui misteri della Trattativa.
06/06/2013 di triskel182
La puntata in onda giovedì 6 giugno dalle 21.10 su La7 e in diretta streaming su ilfattoquotidiano.it.
Il personaggio chiave è ancora una volta Bernardo Provenzano, l’ultimo grande boss che secondo la Procura di Palermo è stato il garante del patto tra Stato e mafia.
Dopo l’ultima puntata di giovedì 30 maggio, la trasmissione di Michele Santoro va in onda questa sera con la nuova serie dello spazio di approfondimento Servizio Pubblico più, che dalle 21.10 su La7 e in diretta streaming su ilfattoquotidiano.it propone lo speciale Cosa Vostra. Il sito del programma, come anticipazione della serata, pubblica il video delle immagini esclusive del bossBernardo Provenzano dal carcere di Parma, in cui incontra il figlio. Le telecamere riprendono il dialogo tra i due.
A Palermo le lancette della storia sembrano tornate indietro di vent’anni. Mentre nel cuore diBrancaccio – il regno dei fratelli Graviano – si ricomincia a sparare, nei palazzi tornano a circolare i veleni, e si riaffacciano i misteri, a partire da via d’Amelio e dai cassetti vuoti dell’allora ufficio in Procura di Paolo Borsellino. Nino Di Matteo, il magistrato che ha mandato a processo boss,politici e carabinieri coinvolti nella trattativa Stato-mafia, da mesi riceve lettere di minaccia anonime. Chi e perché c’è dietro questa nuova strategia della tensione?
Il personaggio chiave è ancora una volta Bernardo Provenzano, l’ultimo grande boss di Cosa nostra. Secondo la Procura di Palermo il padrino è stato il garante del patto tra lo Stato e la mafia, quella trattativa svelata da Massimo Ciancimino, e intervistato a Servizio Pubblico da Sandro Ruotolo, pochi giorni prima del suo recente arresto. “Zu Binnu” doveva rimanere libero, secondo le clamorose e inedite testimonianze di due carabinieri che hanno lavorato per anni a caccia del boss. E’ per questo che Provenzano forse fa ancora paura? Dal presunto tentativo di suicidio alle molte cadute in carcere, quali misteri avvolgono la sua detenzione? Qualcuno lo vuole fare tacere? Il padrino, in sedie a rotelle e con la parte sinistra del corpo paralizzata, non lo potrà più raccontare. Nello speciale – a cura di Dina Lauricella, Walter Molino e Sandro Ruotolo – si intrecciano la fiction sulle clamorose denunce del maresciallo Saverio Masi riguardo alla prolungata protezione che i Ros avrebbero assicurato a Provenzano, e la ricostruzione a fumetti degli interrogatori di zu Binnu; i video esclusivi dei colloqui nel carcere di Parma del boss di Corleone con i familiari, e le interviste esclusive a Nino Di Matteo e Piergiorgio Morosini.
Da ilfattoquotidiano.it del 06/06/2013.
“Cosa Vostra”: lo speciale sui misteri della Trattativa.
06/06/2013 di triskel182
La puntata in onda giovedì 6 giugno dalle 21.10 su La7 e in diretta streaming su ilfattoquotidiano.it.
Il personaggio chiave è ancora una volta Bernardo Provenzano, l’ultimo grande boss che secondo la Procura di Palermo è stato il garante del patto tra Stato e mafia.
Dopo l’ultima puntata di giovedì 30 maggio, la trasmissione di Michele Santoro va in onda questa sera con la nuova serie dello spazio di approfondimento Servizio Pubblico più, che dalle 21.10 su La7 e in diretta streaming su ilfattoquotidiano.it propone lo speciale Cosa Vostra. Il sito del programma, come anticipazione della serata, pubblica il video delle immagini esclusive del bossBernardo Provenzano dal carcere di Parma, in cui incontra il figlio. Le telecamere riprendono il dialogo tra i due.
A Palermo le lancette della storia sembrano tornate indietro di vent’anni. Mentre nel cuore diBrancaccio – il regno dei fratelli Graviano – si ricomincia a sparare, nei palazzi tornano a circolare i veleni, e si riaffacciano i misteri, a partire da via d’Amelio e dai cassetti vuoti dell’allora ufficio in Procura di Paolo Borsellino. Nino Di Matteo, il magistrato che ha mandato a processo boss,politici e carabinieri coinvolti nella trattativa Stato-mafia, da mesi riceve lettere di minaccia anonime. Chi e perché c’è dietro questa nuova strategia della tensione?
Il personaggio chiave è ancora una volta Bernardo Provenzano, l’ultimo grande boss di Cosa nostra. Secondo la Procura di Palermo il padrino è stato il garante del patto tra lo Stato e la mafia, quella trattativa svelata da Massimo Ciancimino, e intervistato a Servizio Pubblico da Sandro Ruotolo, pochi giorni prima del suo recente arresto. “Zu Binnu” doveva rimanere libero, secondo le clamorose e inedite testimonianze di due carabinieri che hanno lavorato per anni a caccia del boss. E’ per questo che Provenzano forse fa ancora paura? Dal presunto tentativo di suicidio alle molte cadute in carcere, quali misteri avvolgono la sua detenzione? Qualcuno lo vuole fare tacere? Il padrino, in sedie a rotelle e con la parte sinistra del corpo paralizzata, non lo potrà più raccontare. Nello speciale – a cura di Dina Lauricella, Walter Molino e Sandro Ruotolo – si intrecciano la fiction sulle clamorose denunce del maresciallo Saverio Masi riguardo alla prolungata protezione che i Ros avrebbero assicurato a Provenzano, e la ricostruzione a fumetti degli interrogatori di zu Binnu; i video esclusivi dei colloqui nel carcere di Parma del boss di Corleone con i familiari, e le interviste esclusive a Nino Di Matteo e Piergiorgio Morosini.
Da ilfattoquotidiano.it del 06/06/2013.
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Re: Stato-mafia
Il crollo della società è totale
“Il caso Messina Denaro è tutto un’invenzione”
(Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza).
14/06/2013 di triskel182
Il mancato coordinamento nelle indagini per la cattura del boss Messina Denaro? “Non esiste. Il coordinamento è stato totale”. La pista del Ros “bruciata” con l’arresto intempestivo del capomafia Vito Sutera, in contatto con il superlatitante? “La copertura del Ros presentava così tante falle da ricordarmi la vicenda della mancata perquisizione del covo di Riina”. A 24 ore dall’apertura da parte del Csm della procedura di trasferimento del procuratore di Palermo Francesco Messineo, l’aggiunto Vittorio Teresi smentisce il punto più grave delle contestazioni mosse al suo capo, accusa il Ros di aver seguito una filosofia investigativa “perdente”, e se la prende con chi a Palazzo dei Marescialli ha rappresentato una ricostruzione “non aderente alla realtà”.
Il Csm attribuisce, di fatto, a Messineo, la fuga del superlatitante. È un’accusa grave…
Non esiste. Il coordinamento è stato totale, con una copertura a 360 gradi. Mi addolora leggere certi titoli sui giornali: chi ha riferito a Roma queste informazioni distorte avrebbe fatto meglio a tacere”.
A chi si riferisce?
Se è vero che è stato l’aggiunto Leonardo Agueci, vuol dire che non aveva capito nulla. Non è mai stato competente per queste vicende, aveva solo orecchiato quello che era successo nelle riunioni.
Agueci ora minimizza: “Non è vero – ha detto ieri – che la colpa della mancata cattura è di Messineo”…
Forse Agueci avrebbe fatto meglio a lasciare che fossi io a spiegare al Csm com’è andata. A me, invece, non è stato chiesto nulla di questa storia. Ma se nessuna domanda è stata fatta a me, e neppure a Teresa Principato, vuol dire che Agueci si è tirato fuori da solo tutta la vicenda? Questo mi dispiace: ha innescato un meccanismo avvelenato, che ha fatto titolare i giornali su una cosa che non è esistita.
Come mai il Csm non le ha fatto domande specifiche?
Questo non lo so, certo è curioso.
Ma lei cosa avrebbe voluto spiegare ai suoi colleghi del Csm?
La verità dei fatti: e cioè che la sinergia tra i due gruppi investigativi è durata due anni. Non ci sono mai state due attività investigative parallele più coordinate .
E poi?
Nel giugno 2012 venne fuori il pericolo di fuga di alcuni indagati: si creò così il presupposto per il fermo. Lì è sorto il problema del che fare.
E lei a quel punto ha deciso di intervenire…
In aprile la Principato aveva segnalato un’intercettazione che poteva accelerare la cattura di Messina Denaro: uno scambio di pizzini tra l’entourage del latitante e quello di Sutera, attraverso alcuni intermediari. Ma per Messineo l’intercettazione non era così significativa come il Ros sosteneva. E quando il Ros ha mostrato alcune foto di Sutera che entrava in una masseria dove era stata installata una telecamera, i miei dubbi sono aumentati. Dalle immagini si vedeva Sutera che lasciava un pizzino nella baracca, ma il Ros per una settimana non è entrato nel tugurio per fotografare il pizzino e avere la prova che fosse proprio di Messina Denaro. È una mancanza grave, che io ho paragonato alla mancata perquisizione del covo di Riina.
L’indagine del Ros, insomma, non l’ha convinta…
C’erano altre stranezze, altri incontri con Sutera non registrati dal Ros. La copertura, insomma, aveva numerose falle e io non potevo più assumermi la responsabilità di ritardare gli arresti.
Quella del Ros è la filosofia della ‘corda lunga’: io individuo il soggetto che ha contatti col latitante, lo lascio camminare perché, oltre al latitante, mi interessa il contesto. È la stessa che sostanzia la versione ufficiale della mancata cattura del covo di Riina. Una filosofia perdente e sbagliata.
Ma che c’entra Messineo con tutto questo?
Quando Messineo ha dovuto scegliere tra la mia linea e quella di una possibile – ma non probabile – cattura di Messina Denaro, mi sono imposto: e viste le mie buone ragioni, il procuratore ha optato per la mia proposta. Tutto qui.
L’indagine del Csm rischia adesso di bloccare la procura di Palermo?
Non credo proprio che questa sia una procura paralizzata. Sono in preparazione diverse attività importanti. L’attività antimafia non si è mai fermata e non si fermerà solo perché c’è un procedimento per Messi-neo. Il procuratore ha sempre insistito perché ciascuno di noi continuasse a lavorare.
Da Il Fatto Quotidiano del 14/0672013.
“Il caso Messina Denaro è tutto un’invenzione”
(Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza).
14/06/2013 di triskel182
Il mancato coordinamento nelle indagini per la cattura del boss Messina Denaro? “Non esiste. Il coordinamento è stato totale”. La pista del Ros “bruciata” con l’arresto intempestivo del capomafia Vito Sutera, in contatto con il superlatitante? “La copertura del Ros presentava così tante falle da ricordarmi la vicenda della mancata perquisizione del covo di Riina”. A 24 ore dall’apertura da parte del Csm della procedura di trasferimento del procuratore di Palermo Francesco Messineo, l’aggiunto Vittorio Teresi smentisce il punto più grave delle contestazioni mosse al suo capo, accusa il Ros di aver seguito una filosofia investigativa “perdente”, e se la prende con chi a Palazzo dei Marescialli ha rappresentato una ricostruzione “non aderente alla realtà”.
Il Csm attribuisce, di fatto, a Messineo, la fuga del superlatitante. È un’accusa grave…
Non esiste. Il coordinamento è stato totale, con una copertura a 360 gradi. Mi addolora leggere certi titoli sui giornali: chi ha riferito a Roma queste informazioni distorte avrebbe fatto meglio a tacere”.
A chi si riferisce?
Se è vero che è stato l’aggiunto Leonardo Agueci, vuol dire che non aveva capito nulla. Non è mai stato competente per queste vicende, aveva solo orecchiato quello che era successo nelle riunioni.
Agueci ora minimizza: “Non è vero – ha detto ieri – che la colpa della mancata cattura è di Messineo”…
Forse Agueci avrebbe fatto meglio a lasciare che fossi io a spiegare al Csm com’è andata. A me, invece, non è stato chiesto nulla di questa storia. Ma se nessuna domanda è stata fatta a me, e neppure a Teresa Principato, vuol dire che Agueci si è tirato fuori da solo tutta la vicenda? Questo mi dispiace: ha innescato un meccanismo avvelenato, che ha fatto titolare i giornali su una cosa che non è esistita.
Come mai il Csm non le ha fatto domande specifiche?
Questo non lo so, certo è curioso.
Ma lei cosa avrebbe voluto spiegare ai suoi colleghi del Csm?
La verità dei fatti: e cioè che la sinergia tra i due gruppi investigativi è durata due anni. Non ci sono mai state due attività investigative parallele più coordinate .
E poi?
Nel giugno 2012 venne fuori il pericolo di fuga di alcuni indagati: si creò così il presupposto per il fermo. Lì è sorto il problema del che fare.
E lei a quel punto ha deciso di intervenire…
In aprile la Principato aveva segnalato un’intercettazione che poteva accelerare la cattura di Messina Denaro: uno scambio di pizzini tra l’entourage del latitante e quello di Sutera, attraverso alcuni intermediari. Ma per Messineo l’intercettazione non era così significativa come il Ros sosteneva. E quando il Ros ha mostrato alcune foto di Sutera che entrava in una masseria dove era stata installata una telecamera, i miei dubbi sono aumentati. Dalle immagini si vedeva Sutera che lasciava un pizzino nella baracca, ma il Ros per una settimana non è entrato nel tugurio per fotografare il pizzino e avere la prova che fosse proprio di Messina Denaro. È una mancanza grave, che io ho paragonato alla mancata perquisizione del covo di Riina.
L’indagine del Ros, insomma, non l’ha convinta…
C’erano altre stranezze, altri incontri con Sutera non registrati dal Ros. La copertura, insomma, aveva numerose falle e io non potevo più assumermi la responsabilità di ritardare gli arresti.
Quella del Ros è la filosofia della ‘corda lunga’: io individuo il soggetto che ha contatti col latitante, lo lascio camminare perché, oltre al latitante, mi interessa il contesto. È la stessa che sostanzia la versione ufficiale della mancata cattura del covo di Riina. Una filosofia perdente e sbagliata.
Ma che c’entra Messineo con tutto questo?
Quando Messineo ha dovuto scegliere tra la mia linea e quella di una possibile – ma non probabile – cattura di Messina Denaro, mi sono imposto: e viste le mie buone ragioni, il procuratore ha optato per la mia proposta. Tutto qui.
L’indagine del Csm rischia adesso di bloccare la procura di Palermo?
Non credo proprio che questa sia una procura paralizzata. Sono in preparazione diverse attività importanti. L’attività antimafia non si è mai fermata e non si fermerà solo perché c’è un procedimento per Messi-neo. Il procuratore ha sempre insistito perché ciascuno di noi continuasse a lavorare.
Da Il Fatto Quotidiano del 14/0672013.
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Re: Stato-mafia
Esplora il significato del termine: NUOVI ATTI DI INDAGINE
E Riina disse: «Io andreottiano da sempre»
Trattativa Stato-Mafia: le nuove prove
Le rivelazione della guardia carceraria in una relazione depositata agli atti del processo sulla trattativa stato-mafia
Nuove rivelazioni sull'esistenza della trattativa stato-mafia. Un agente di polizia penitenziaria chiede al boss: «E' vero che ha lei ha dato un bacio ad Andreotti?» e lui risponde: «Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Ai suoi custodi Riina ha detto pure: «Appuntato, ha visto? Sono ancora un orologio svizzero, anche se mi sono fatto vecchio». Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio, durante la pausa di un'udienza alla quale il boss partecipava in teleconferenza.
IL CONTATTO INIZIALE - «Io non ho cercato nessuno, erano loro che cercavano me». Avrebbe anche detto il capo dei capi. Le sue confidenze, fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenaziarie del carcere Opera di Milano, sono finite adesso agli atti del processo per la trattativa tra Stato e mafia. Le relazioni delle due guardie del Gom e le relazioni di servizio sono state depositate oggi al processo in corso a Palermo. Uno dei due agenti carcerari spiega: «Sia io che il mio collega abbiamo chiaramente udito questa frase che non è stata preceduta o seguita da altre espressioni di Riina che potessero farci comprendere meglio il contesto da cui scaturiva». E poi ha ribadito: «Riina era assolutamente lucido, cosciente, padrone di sé e ha scandito quelle frasi perchè noi le sentissimo chiaramente». «La frase è stata profferita da Riina - spiega la guardia penitenziaria - circa uno o due minuti prima dell'accesso nella saletta e cioè durante il tempo utile a coprire il breve percorso del corridoio, considerato anche il passo lento del detenuto ormai anziano». Quella stessa mattina, Riina si sentì male e vomitò nella saletta da cui assisteva al processo per la trattativa.
LA CONFERMA - Dal capomafia dunque arriverebbero clamorose conferme sull'esistenza della trattativa Stato-mafia. Agli agenti penitenziari il boss avrebbe detto anche che a farlo arrestare furono Bernardo Provenzano e Vito Ciancimino. L'agente del Gom ha spiegato al pm che lo ha interrogato che il capomafia, ogni volta che deve assistere al processo per la trattativa si innervosisce molto: «In tutti gli anni in cui ho prestato servizio presso il carcere di Opera con il detenuto Riina, le due occasioni sono le uniche nelle quali lo stesso si è lasciato andare a commenti relativi ai suoi processi». E ancora: «Effettivamente ho notato che Riina appare piuttosto infastidito dal suo coinvolgimento in questo processo palermitano, come mai mi era accaduto di notare in passato».
LA RELAZIONE - Le parole del boss, che non è da ritenersi un collaboratore di giustizia, sono finite in una relazione degli agenti che è stata depositata agli atti del processo sulla trattativa insieme agli interrogatori delle guardie carcerarie che hanno sentito le frasi di Riina. Secondo l'interpretazione degli inquirenti, confermerebbero le dichiarazioni del figlio di Ciancimino, Massimo, che ha raccontato ai pm che furono il padre e Provenzano a fare arrestare Riina ai carabinieri a gennaio del 1993. Il padrino avrebbe fatto riferimento poi alla circostanza che qualcuno sarebbe andato da lui: frase sibillina che potrebbe alludere al tentativo di dialogo avviato dal Ros con Riina attraverso Vito Ciancimino che avrebbe segnato l'avvio della trattativa.
Redazione Online
1 luglio 2013 | 15:52
© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/cronache/13_lugl ... d45c.shtml
E Riina disse: «Io andreottiano da sempre»
Trattativa Stato-Mafia: le nuove prove
Le rivelazione della guardia carceraria in una relazione depositata agli atti del processo sulla trattativa stato-mafia
Nuove rivelazioni sull'esistenza della trattativa stato-mafia. Un agente di polizia penitenziaria chiede al boss: «E' vero che ha lei ha dato un bacio ad Andreotti?» e lui risponde: «Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Ai suoi custodi Riina ha detto pure: «Appuntato, ha visto? Sono ancora un orologio svizzero, anche se mi sono fatto vecchio». Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio, durante la pausa di un'udienza alla quale il boss partecipava in teleconferenza.
IL CONTATTO INIZIALE - «Io non ho cercato nessuno, erano loro che cercavano me». Avrebbe anche detto il capo dei capi. Le sue confidenze, fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenaziarie del carcere Opera di Milano, sono finite adesso agli atti del processo per la trattativa tra Stato e mafia. Le relazioni delle due guardie del Gom e le relazioni di servizio sono state depositate oggi al processo in corso a Palermo. Uno dei due agenti carcerari spiega: «Sia io che il mio collega abbiamo chiaramente udito questa frase che non è stata preceduta o seguita da altre espressioni di Riina che potessero farci comprendere meglio il contesto da cui scaturiva». E poi ha ribadito: «Riina era assolutamente lucido, cosciente, padrone di sé e ha scandito quelle frasi perchè noi le sentissimo chiaramente». «La frase è stata profferita da Riina - spiega la guardia penitenziaria - circa uno o due minuti prima dell'accesso nella saletta e cioè durante il tempo utile a coprire il breve percorso del corridoio, considerato anche il passo lento del detenuto ormai anziano». Quella stessa mattina, Riina si sentì male e vomitò nella saletta da cui assisteva al processo per la trattativa.
LA CONFERMA - Dal capomafia dunque arriverebbero clamorose conferme sull'esistenza della trattativa Stato-mafia. Agli agenti penitenziari il boss avrebbe detto anche che a farlo arrestare furono Bernardo Provenzano e Vito Ciancimino. L'agente del Gom ha spiegato al pm che lo ha interrogato che il capomafia, ogni volta che deve assistere al processo per la trattativa si innervosisce molto: «In tutti gli anni in cui ho prestato servizio presso il carcere di Opera con il detenuto Riina, le due occasioni sono le uniche nelle quali lo stesso si è lasciato andare a commenti relativi ai suoi processi». E ancora: «Effettivamente ho notato che Riina appare piuttosto infastidito dal suo coinvolgimento in questo processo palermitano, come mai mi era accaduto di notare in passato».
LA RELAZIONE - Le parole del boss, che non è da ritenersi un collaboratore di giustizia, sono finite in una relazione degli agenti che è stata depositata agli atti del processo sulla trattativa insieme agli interrogatori delle guardie carcerarie che hanno sentito le frasi di Riina. Secondo l'interpretazione degli inquirenti, confermerebbero le dichiarazioni del figlio di Ciancimino, Massimo, che ha raccontato ai pm che furono il padre e Provenzano a fare arrestare Riina ai carabinieri a gennaio del 1993. Il padrino avrebbe fatto riferimento poi alla circostanza che qualcuno sarebbe andato da lui: frase sibillina che potrebbe alludere al tentativo di dialogo avviato dal Ros con Riina attraverso Vito Ciancimino che avrebbe segnato l'avvio della trattativa.
Redazione Online
1 luglio 2013 | 15:52
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Re: Stato-mafia
l’Unità 18.10.13
Processo Stato-mafia Napolitano sarà teste
di Claudia Fusani
Le massime cariche dello Stato saranno testimoni dell’accusa nel processo sulla presunta trattativa iniziata nel 1992 e andata avanti almeno fino al 1994, ma non è escluso anche oltre, tra parti dello Stato e Cosa Nostra. La Corte d’Assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto, ha deciso ieri, dopo una lunga camera di consiglio, di ammettere tutti i 175 testimoni chiesti dall’accusa. Tra questi, la prima carica dello Stato, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, la seconda carica il presidente del Senato Piero Grasso e il primo dei pm, il procuratore generale Gianfranco Ciani, e una sfilza di politici della prima Repubblica. Saranno tutti sentiti come persone informate sui fatti «in ordine si legge nel dispositivo della Corte alle richieste provenienti dall’imputato Nicola Mancino aventi ad oggetto l’andamento delle indagini sulla cosiddetta trattativa, l’eventuale avocazione delle stesse e/o il coordinamento investigativo delle Procure interessate». Si tratta, infatti, delle persone che tra il novembre 2011 e il febbraio 2012 l’ex ministro e vicepresidente del Csm Nicola Mancino contattò quando seppe dell’inchiesta sul suo conto della Procura di Palermo, che da anni cerca di fare luce, anche con le Procure di Firenze e Caltanissetta, sul presunto patto tra Stato e mafia che avrebbe messo fine alla stagione delle bombe (’92-’94).
Un processo che è una pagina di storia, ne sente il peso e l’imbarazzo. Dagli scranni della Corte d’Assise lo Stato guarda se stesso ed è chiamato a giudicarsi in un gioco perverso che vede insieme, per la prima volta, sul banco degli imputati, boss come Totò Riina, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà, l’ex senatore Marcello Dell’Utri e gli ex ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno e il pentito Giovanni Brusca. Per tutti loro l’imputazione è di violenza e minaccia allo Stato.
IMPUTATI BOSS E POLITICI
Tra gli imputati anche Massimo Ciancimino che risponde di calunnia e di concorso in associazione mafiosa. E Nicola Mancino, trascinato nel processo con l’accusa di falsa testimonianza. Un altro ex ministro, Calogero Mannino, ha scelto l’abbreviato. Stralciata, infine, per motivi di salute, la posizione di Provenzano. Al centro del processo quel pezzo drammatico di storia d’Italia cominciata nel 1992 con l’omicidio dell’eurodeputato Salvo Lima. Era il 12 marzo. Iniziò, quel giorno, una striscia di sangue e bombe che si concluse nel gennaio 1994 (attentato fallito allo stadio Olimpico di Roma) e passò attraverso le stragi di Capaci, via d’Amelio, Roma, Firenze e Milano. Secondo l’accusa, i pm Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia (fino a un anno fa c’era Ingroia), da quel giorno alcuni politici tra cui Mannino, preoccupati di finire nel mirino della mafia, avrebbe attivato «canali clandestini per interloquire con i boss e far cessare il sangue e le bombe». Tra le controprove di una trattativa in corso, di un «do ut des tra politica e Cosa Nostra» come hanno già scritto i giudici di Firenze, gli oltre 300 detenuti che furono sottratti al regime del 41 bis. Storia controversa assai e con più angoli di lettura zeppa di dimenticanze e vuoti di memoria. Come quella di Nicola Mancino diventato ministro dell’Interno dopo Capaci e che non ricorda di aver incontrato il giudice Borsellino pochi giorni prima di morire.
«La Corte ha ammesso tutti i testimoni, centinaia di documenti e le richieste probatorie tra cui alcune intercettazioni» si fa notare da parte dell’accusa dove c’è assoluta consapevolezza della delicatezza ma anche della necessità di questo passaggio giudiziario. È la prima volta che un presidente della Repubblica sfila come testimone in un processo di mafia.
Il Quirinale fa sapere di essere in attesa di «conoscere il testo integrale dell’ordinanza di ammissione per valutarla nel massimo rispetto istituzionale». Esiste, tecnicamente, la possibilità di sollevare un conflitto tra poteri dello Stato (come già successe ai tempi delle intercettazioni, poi distrutte, tra Napolitano e Mancino) e quindi di evitare la testimonianza. Vedremo. Di sicuro il presidente della Repubblica sarà sentito, è una sua prerogativa, al Quirinale. E rigorosamente all’interno, scrivono i giudici, «tra i confini tracciati dalla sentenza della Consulta». In pratica la testimonianza può essere ammessa solo sulle cose che il teste ha appreso «fuori dalle funzioni presidenziali o prima di essere nominato Capo dello Stato».
«INDICIBILI ACCORDI»
L’accusa vuol sentire Napolitano sulle «preoccupazioni espresse dal suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio» in una lettera che gli inviò il 18 giugno del 2012. Amareggiato dai veleni seguiti alla pubblicazione delle sue telefonate con l’ex ministro Nicola Mancino, intercettato nell’inchiesta sulla trattativa, D’Ambrosio dopo poco stroncato da un infarto presentò le dimissioni a Napolitano con una lettera in cui negava di avere esercitato pressioni sulla gestione delle indagini. Uno sfogo in cui a un certo punto compare la frase che interessa i pm: «Lei sa scrisse D’Ambrosio a Napolitano che non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989-1993 che mi preoccupano e mi fanno riflettere; che mi hanno portato a enucleare ipotesi, quasi preso dal timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi». A cosa si riferiva D’Ambrosio? Indizi in proposito arrivano dalle intercettazioni di Mancino relative a Francesco di Maggio, il numero due del Dap nel 1993.
Il presidente del Senato Pietro Grasso sarà sentito, invece, sulle richieste di informazioni sull’andamento delle indagini sulla trattativa che Mancino gli sollecitava quando era capo della commissione Antimafia.
il Fatto 18.10.13
Stato-mafia Sarà testimone a Palermo
Cosa sapeva D’Ambrosio degli “indicibili accordi”?
Ora Napolitano deve dire tutta la verità
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza
Palermo Non fu, con tutta probabilità, un semplice testimone. Nel ’93, quando lavorava con Liliana Ferraro al-l’Ufficio studi degli Affari penali di via Arenula, Loris D’Ambrosio potrebbe aver avuto un ruolo, anche se inconsapevole, nelle manovre che portarono alla nomina di Francesco Di Maggio ai vertici del Dap, l’ufficio chiamato a gestire il 41bis, nell’ambito del dialogo tra Stato e mafia.
È QUESTO il significato attribuito dalla Procura di Palermo alla lettera che lo stesso D’Ambrosio, divenuto consigliere giuridico del Quirinale, scrive il 18 luglio 2012 al capo dello Stato esternandogli il “vivo timore” di esser stato considerato un “utile scriba” e usato come scudo a “indicibili accordi”, proprio in riferimento al periodo tra l’89 e il ’93. Ed ecco perché i pm Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia intendono chiedere a Napolitano, da ieri ammesso come testimone del processo di Palermo, se e cosa venne a sapere delle preoccupazioni del suo consigliere giuridico, ma soprattutto di quegli “indicibili accordi” cui D’Ambrosio fa riferimento, nella stagione tra l’attentato all’Addaura e le stragi. Chi avrebbe usato come “scudo” D’Ambrosio? E perché? Lo spin doctor del Quirinale, scomparso il 26 luglio 2012 per un attacco cardiaco, è tra i comprimari dell’indagine sulla trattativa, per essere stato l’interlocutore privilegiato dell’ex senatore Nicola Mancino che tra la fine del 2011 e la primavera del 2012 tempesta il Colle di telefonate in cerca di protezione.
IN QUEL periodo, mentre l’inchiesta entra nel vivo, per due volte, nel giro di 57 giorni, D’Ambrosio viene interrogato dai pm di Palermo come “persona informata sui fatti”: la prima il 20 marzo, a Roma; la seconda il 16 maggio, nel capoluogo siciliano. La prima volta, il consigliere giuridico nega di essere in possesso di informazioni utili agli inquirenti: “Non ho alcuna notizia specifica – dice – sull’iter seguito per la nomina di Di Maggio”. Ma la seconda volta, il pm Di Matteo gli comunica che la sua voce è stata “pizzicata” in una telefonata con Mancino, intercettata dalla Dia. In quella telefonata, registrata il 25 novembre 2011, è lo stesso D’Ambrosio a rivelare a Mancino di aver “assistito personalmente” alla stesura del decreto, scritto nell’ufficio della Ferraro, per la nomina di Di Maggio a vice-capo del Dap.
Cosa dice il consigliere del Colle al telefono? “Qui – ammette – ormai uno dei punti centrali della vicenda comincia a diventare proprio la nomina di Di Maggio al Dap”. E ancora: “Io ho assistito personalmente a questa vicenda... ricordo chiaramente il decreto, Dpr, scritto nella stanza della Ferraro... il Dpr che lo faceva vice-capo del Dap”. Perché non ne aveva parlato prima? D’Ambrosio si giustifica scaricando tutto su Mancino: “Il senatore telefona tutti i santi giorni, perché si sente sotto pressione”. Ma il pm Di Matteo gli contesta le contraddizioni tra le dichiarazioni del primo interrogatorio e la conversazione telefonica. E qui D’Ambrosio, in palese difficoltà, annaspa: “Io voglio dire... la mia idea non era il Dpr, era come la base del Dpr, cioè non c’era il visto, visto, visto, non so se mi sono spiegato. (...) Cioè io quello che sostengo è che può anche essere stata una bozza predisposta lì (...). Però io il Dpr vero e proprio non l’ho visto”.
È IPOTIZZABILE, sostengono adesso i pm della trattativa, che in quell’ufficio di via Arenula, D’Ambrosio avesse collaborato più attivamente, proprio come uno “scriba”, alla stesura di quel decreto che permise a Di Maggio, che non aveva i titoli, di andare a dirigere il Dap al fianco di Adalberto Capriotti. Lo stesso che il 26 giugno ’93, subito dopo essere stato nominato, inviò una nota al ministro della Giustizia Giovanni Conso, suggerendo di non prorogare i 41bis in scadenza entro la fine dell’anno, per lanciare “un segnale di distensione”.
È il cuore della trattativa Stato-mafia: un passaggio sul quale, secondo la Procura di Palermo, si allunga l’ombra del generale del Ros Mario Mori. Nella requisitoria del processo per favoreggiamento alla mafia, che si è concluso il 15 luglio scorso con l’assoluzione di Mori, il pm Di Matteo ha sostenuto che, nel contesto della trattativa, in quei mesi si muoveva in sinergia una robusta cordata istituzionale: e a tal proposito ha citato proprio le parole di D’Ambrosio, al telefono con Mancino: “Era un discorso che riguardava nella parte 41bis... alleggerimento 41bis... Mori... Polizia... Parisi... Scalfaro e compagnia”.
DOPO AVER LAVORATO agli Affari penali, D’Ambrosio fu vicecapo di gabinetto dei guardasigilli Conso, Flick e Fassino. Era in via Arenula uando il 23 dicembre ’96, sotto il governo Prodi, il Parlamento decise la chiusura delle carceri di Pianosa e dell’Asinara, lanciando un altro segnale della “distensione bipartisan” in tema di mafia. Ma dei suoi dubbi, di quei timori relativi agli “indicibili accordi” che ora i pm vogliono chiarire direttamente con il capo dello Stato, non si sarebbe saputo nulla se lo stesso inquilino del Colle non avesse rivelato un anno fa l’esistenza della lettera del consigliere, indicato come vittima di una campagna mediatica. Quella stessa lettera che adesso lo obbliga a salire sul banco dei testimoni.
il Fatto 18.10.13
Il precedente
Gladio, Casson: “Quando Cossiga mi disse di no”
di Gianni Barbacetto
Un presidente della Repubblica, prima di Napolitano, fu già chiamato da un giudice a testimoniare: era Francesco Cossiga, nel 1990 ancora silenziosissimo inquilino del Quirinale. Il magistrato si chiamava Felice Casson, giudice istruttore di Venezia che, indagando su una strage nera, l’eccidio di Peteano, aveva scoperto le tracce di depositi segreti di armi sparsi per l’Italia (i “nasco”) e una misteriosa pianificazione militare fino ad allora sconosciuta. Dopo aver interrogato il nero che si era autoaccusato dell’azione di Peteano, Vincenzo Vinciguerra, e due generali dei servizi segreti, Gian Adelio Maletti (Sid) e Pasquale Notarnicola (Sismi), Casson chiede al presidente del Consiglio Giulio Andreotti di avere accesso agli archivi del Sismi. Andreotti un po’ tira per le lunghe, poi concede l’accesso. E giovedì 26 luglio 1990 negli archivi di Forte Boccea il giudice trova i documenti che provano l’esistenza della pianificazione Stay Behind, in Italia chiamata “Gladio”, nata nel 1951 da un accordo tra Cia e Sifar (il servizio segreto militare), tagliando fuori il Parlamento e perfino il governo italiano. A quel punto Andreotti gioca d’anticipo e rivela qualcosa (con molte bugie) della struttura segreta. Nei documenti di Gladio, Casson scopre che c’è un politico italiano che ha avuto un ruolo attivo nella pianificazione, quando negli anni ’60 era sottosegretario alla Difesa: un certo Cossiga, nel 1990 capo dello Stato. Codice alla mano, il giudice istruttore chiede la sua disponibilità a rendere deposizioni come testimone. Da quel momento, Cossiga il Silenzioso si trasforma in Cossiga il Picconatore: comincia ad attaccare il giudice (“l’efebo di Venezia”) con violente dichiarazioni ai giornali. Tracimerà su ogni argomento e non si fermerà più, fino alle sue dimissioni, nell’aprile 1992. Inaccettabile, per Cossiga, sedersi di fronte a un giudice per rispondere su pianificazioni segrete, esplosivi di Stato, depistaggi e stragi. Qualcuno chiede di giocare la carta del conflitto d’attribuzione tra poteri dello Stato, ricorrendo alla Corte costituzionale. Ma i codici parlano chiaro: anche il capo dello Stato può essere sentito come testimone dall’autorità giudiziaria, lo dice l’articolo 205 del nuovo codice del 1989 (“La testimonianza del presidente della Repubblica è assunta nella sede in cui egli esercita la funzione di capo dello Stato”), in continuità con l’articolo 356 del precedente codice di procedura penale. Il conflitto non viene neppure sollevato e qualche tempo dopo si convince anche Cossiga, tanto che manda due ufficiali da Casson a trattare le condizioni della deposizione.“A quel punto però la mia indagine era andata avanti – ricorda oggi Casson – avevo sentito ministri e generali, politici e capi di Stato maggiore, e non avevo più bisogno di Cossiga”. Era corso al palazzo di giustizia di Venezia anche Amintore Fanfani, che pure non era stato chiamato: “Mi ha detto – prosegue Casson – che riteneva suo dovere venire a dire quanto sapeva, e cioè che, benché fosse stato più volte premier, era stato tenuto all’oscuro di Gladio, che era dunque una pianificazione segreta con catene di comando fuori dalla Costituzione: la conoscevano i vertici di Cia e Sifar-Sid-Sismi e solo alcuni politici. Come Cossiga, che alla fine però riconobbe che era legittimo che un giudice chiedesse d’interrogare il capo dello Stato: proprio come oggi – ribadisce Casson, diventato parlamentare del Pd – è pienamente legittimo che la corte d’assise di Palermo interroghi il presidente Napolitano”.
Processo Stato-mafia Napolitano sarà teste
di Claudia Fusani
Le massime cariche dello Stato saranno testimoni dell’accusa nel processo sulla presunta trattativa iniziata nel 1992 e andata avanti almeno fino al 1994, ma non è escluso anche oltre, tra parti dello Stato e Cosa Nostra. La Corte d’Assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto, ha deciso ieri, dopo una lunga camera di consiglio, di ammettere tutti i 175 testimoni chiesti dall’accusa. Tra questi, la prima carica dello Stato, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, la seconda carica il presidente del Senato Piero Grasso e il primo dei pm, il procuratore generale Gianfranco Ciani, e una sfilza di politici della prima Repubblica. Saranno tutti sentiti come persone informate sui fatti «in ordine si legge nel dispositivo della Corte alle richieste provenienti dall’imputato Nicola Mancino aventi ad oggetto l’andamento delle indagini sulla cosiddetta trattativa, l’eventuale avocazione delle stesse e/o il coordinamento investigativo delle Procure interessate». Si tratta, infatti, delle persone che tra il novembre 2011 e il febbraio 2012 l’ex ministro e vicepresidente del Csm Nicola Mancino contattò quando seppe dell’inchiesta sul suo conto della Procura di Palermo, che da anni cerca di fare luce, anche con le Procure di Firenze e Caltanissetta, sul presunto patto tra Stato e mafia che avrebbe messo fine alla stagione delle bombe (’92-’94).
Un processo che è una pagina di storia, ne sente il peso e l’imbarazzo. Dagli scranni della Corte d’Assise lo Stato guarda se stesso ed è chiamato a giudicarsi in un gioco perverso che vede insieme, per la prima volta, sul banco degli imputati, boss come Totò Riina, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà, l’ex senatore Marcello Dell’Utri e gli ex ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno e il pentito Giovanni Brusca. Per tutti loro l’imputazione è di violenza e minaccia allo Stato.
IMPUTATI BOSS E POLITICI
Tra gli imputati anche Massimo Ciancimino che risponde di calunnia e di concorso in associazione mafiosa. E Nicola Mancino, trascinato nel processo con l’accusa di falsa testimonianza. Un altro ex ministro, Calogero Mannino, ha scelto l’abbreviato. Stralciata, infine, per motivi di salute, la posizione di Provenzano. Al centro del processo quel pezzo drammatico di storia d’Italia cominciata nel 1992 con l’omicidio dell’eurodeputato Salvo Lima. Era il 12 marzo. Iniziò, quel giorno, una striscia di sangue e bombe che si concluse nel gennaio 1994 (attentato fallito allo stadio Olimpico di Roma) e passò attraverso le stragi di Capaci, via d’Amelio, Roma, Firenze e Milano. Secondo l’accusa, i pm Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia (fino a un anno fa c’era Ingroia), da quel giorno alcuni politici tra cui Mannino, preoccupati di finire nel mirino della mafia, avrebbe attivato «canali clandestini per interloquire con i boss e far cessare il sangue e le bombe». Tra le controprove di una trattativa in corso, di un «do ut des tra politica e Cosa Nostra» come hanno già scritto i giudici di Firenze, gli oltre 300 detenuti che furono sottratti al regime del 41 bis. Storia controversa assai e con più angoli di lettura zeppa di dimenticanze e vuoti di memoria. Come quella di Nicola Mancino diventato ministro dell’Interno dopo Capaci e che non ricorda di aver incontrato il giudice Borsellino pochi giorni prima di morire.
«La Corte ha ammesso tutti i testimoni, centinaia di documenti e le richieste probatorie tra cui alcune intercettazioni» si fa notare da parte dell’accusa dove c’è assoluta consapevolezza della delicatezza ma anche della necessità di questo passaggio giudiziario. È la prima volta che un presidente della Repubblica sfila come testimone in un processo di mafia.
Il Quirinale fa sapere di essere in attesa di «conoscere il testo integrale dell’ordinanza di ammissione per valutarla nel massimo rispetto istituzionale». Esiste, tecnicamente, la possibilità di sollevare un conflitto tra poteri dello Stato (come già successe ai tempi delle intercettazioni, poi distrutte, tra Napolitano e Mancino) e quindi di evitare la testimonianza. Vedremo. Di sicuro il presidente della Repubblica sarà sentito, è una sua prerogativa, al Quirinale. E rigorosamente all’interno, scrivono i giudici, «tra i confini tracciati dalla sentenza della Consulta». In pratica la testimonianza può essere ammessa solo sulle cose che il teste ha appreso «fuori dalle funzioni presidenziali o prima di essere nominato Capo dello Stato».
«INDICIBILI ACCORDI»
L’accusa vuol sentire Napolitano sulle «preoccupazioni espresse dal suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio» in una lettera che gli inviò il 18 giugno del 2012. Amareggiato dai veleni seguiti alla pubblicazione delle sue telefonate con l’ex ministro Nicola Mancino, intercettato nell’inchiesta sulla trattativa, D’Ambrosio dopo poco stroncato da un infarto presentò le dimissioni a Napolitano con una lettera in cui negava di avere esercitato pressioni sulla gestione delle indagini. Uno sfogo in cui a un certo punto compare la frase che interessa i pm: «Lei sa scrisse D’Ambrosio a Napolitano che non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989-1993 che mi preoccupano e mi fanno riflettere; che mi hanno portato a enucleare ipotesi, quasi preso dal timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi». A cosa si riferiva D’Ambrosio? Indizi in proposito arrivano dalle intercettazioni di Mancino relative a Francesco di Maggio, il numero due del Dap nel 1993.
Il presidente del Senato Pietro Grasso sarà sentito, invece, sulle richieste di informazioni sull’andamento delle indagini sulla trattativa che Mancino gli sollecitava quando era capo della commissione Antimafia.
il Fatto 18.10.13
Stato-mafia Sarà testimone a Palermo
Cosa sapeva D’Ambrosio degli “indicibili accordi”?
Ora Napolitano deve dire tutta la verità
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza
Palermo Non fu, con tutta probabilità, un semplice testimone. Nel ’93, quando lavorava con Liliana Ferraro al-l’Ufficio studi degli Affari penali di via Arenula, Loris D’Ambrosio potrebbe aver avuto un ruolo, anche se inconsapevole, nelle manovre che portarono alla nomina di Francesco Di Maggio ai vertici del Dap, l’ufficio chiamato a gestire il 41bis, nell’ambito del dialogo tra Stato e mafia.
È QUESTO il significato attribuito dalla Procura di Palermo alla lettera che lo stesso D’Ambrosio, divenuto consigliere giuridico del Quirinale, scrive il 18 luglio 2012 al capo dello Stato esternandogli il “vivo timore” di esser stato considerato un “utile scriba” e usato come scudo a “indicibili accordi”, proprio in riferimento al periodo tra l’89 e il ’93. Ed ecco perché i pm Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia intendono chiedere a Napolitano, da ieri ammesso come testimone del processo di Palermo, se e cosa venne a sapere delle preoccupazioni del suo consigliere giuridico, ma soprattutto di quegli “indicibili accordi” cui D’Ambrosio fa riferimento, nella stagione tra l’attentato all’Addaura e le stragi. Chi avrebbe usato come “scudo” D’Ambrosio? E perché? Lo spin doctor del Quirinale, scomparso il 26 luglio 2012 per un attacco cardiaco, è tra i comprimari dell’indagine sulla trattativa, per essere stato l’interlocutore privilegiato dell’ex senatore Nicola Mancino che tra la fine del 2011 e la primavera del 2012 tempesta il Colle di telefonate in cerca di protezione.
IN QUEL periodo, mentre l’inchiesta entra nel vivo, per due volte, nel giro di 57 giorni, D’Ambrosio viene interrogato dai pm di Palermo come “persona informata sui fatti”: la prima il 20 marzo, a Roma; la seconda il 16 maggio, nel capoluogo siciliano. La prima volta, il consigliere giuridico nega di essere in possesso di informazioni utili agli inquirenti: “Non ho alcuna notizia specifica – dice – sull’iter seguito per la nomina di Di Maggio”. Ma la seconda volta, il pm Di Matteo gli comunica che la sua voce è stata “pizzicata” in una telefonata con Mancino, intercettata dalla Dia. In quella telefonata, registrata il 25 novembre 2011, è lo stesso D’Ambrosio a rivelare a Mancino di aver “assistito personalmente” alla stesura del decreto, scritto nell’ufficio della Ferraro, per la nomina di Di Maggio a vice-capo del Dap.
Cosa dice il consigliere del Colle al telefono? “Qui – ammette – ormai uno dei punti centrali della vicenda comincia a diventare proprio la nomina di Di Maggio al Dap”. E ancora: “Io ho assistito personalmente a questa vicenda... ricordo chiaramente il decreto, Dpr, scritto nella stanza della Ferraro... il Dpr che lo faceva vice-capo del Dap”. Perché non ne aveva parlato prima? D’Ambrosio si giustifica scaricando tutto su Mancino: “Il senatore telefona tutti i santi giorni, perché si sente sotto pressione”. Ma il pm Di Matteo gli contesta le contraddizioni tra le dichiarazioni del primo interrogatorio e la conversazione telefonica. E qui D’Ambrosio, in palese difficoltà, annaspa: “Io voglio dire... la mia idea non era il Dpr, era come la base del Dpr, cioè non c’era il visto, visto, visto, non so se mi sono spiegato. (...) Cioè io quello che sostengo è che può anche essere stata una bozza predisposta lì (...). Però io il Dpr vero e proprio non l’ho visto”.
È IPOTIZZABILE, sostengono adesso i pm della trattativa, che in quell’ufficio di via Arenula, D’Ambrosio avesse collaborato più attivamente, proprio come uno “scriba”, alla stesura di quel decreto che permise a Di Maggio, che non aveva i titoli, di andare a dirigere il Dap al fianco di Adalberto Capriotti. Lo stesso che il 26 giugno ’93, subito dopo essere stato nominato, inviò una nota al ministro della Giustizia Giovanni Conso, suggerendo di non prorogare i 41bis in scadenza entro la fine dell’anno, per lanciare “un segnale di distensione”.
È il cuore della trattativa Stato-mafia: un passaggio sul quale, secondo la Procura di Palermo, si allunga l’ombra del generale del Ros Mario Mori. Nella requisitoria del processo per favoreggiamento alla mafia, che si è concluso il 15 luglio scorso con l’assoluzione di Mori, il pm Di Matteo ha sostenuto che, nel contesto della trattativa, in quei mesi si muoveva in sinergia una robusta cordata istituzionale: e a tal proposito ha citato proprio le parole di D’Ambrosio, al telefono con Mancino: “Era un discorso che riguardava nella parte 41bis... alleggerimento 41bis... Mori... Polizia... Parisi... Scalfaro e compagnia”.
DOPO AVER LAVORATO agli Affari penali, D’Ambrosio fu vicecapo di gabinetto dei guardasigilli Conso, Flick e Fassino. Era in via Arenula uando il 23 dicembre ’96, sotto il governo Prodi, il Parlamento decise la chiusura delle carceri di Pianosa e dell’Asinara, lanciando un altro segnale della “distensione bipartisan” in tema di mafia. Ma dei suoi dubbi, di quei timori relativi agli “indicibili accordi” che ora i pm vogliono chiarire direttamente con il capo dello Stato, non si sarebbe saputo nulla se lo stesso inquilino del Colle non avesse rivelato un anno fa l’esistenza della lettera del consigliere, indicato come vittima di una campagna mediatica. Quella stessa lettera che adesso lo obbliga a salire sul banco dei testimoni.
il Fatto 18.10.13
Il precedente
Gladio, Casson: “Quando Cossiga mi disse di no”
di Gianni Barbacetto
Un presidente della Repubblica, prima di Napolitano, fu già chiamato da un giudice a testimoniare: era Francesco Cossiga, nel 1990 ancora silenziosissimo inquilino del Quirinale. Il magistrato si chiamava Felice Casson, giudice istruttore di Venezia che, indagando su una strage nera, l’eccidio di Peteano, aveva scoperto le tracce di depositi segreti di armi sparsi per l’Italia (i “nasco”) e una misteriosa pianificazione militare fino ad allora sconosciuta. Dopo aver interrogato il nero che si era autoaccusato dell’azione di Peteano, Vincenzo Vinciguerra, e due generali dei servizi segreti, Gian Adelio Maletti (Sid) e Pasquale Notarnicola (Sismi), Casson chiede al presidente del Consiglio Giulio Andreotti di avere accesso agli archivi del Sismi. Andreotti un po’ tira per le lunghe, poi concede l’accesso. E giovedì 26 luglio 1990 negli archivi di Forte Boccea il giudice trova i documenti che provano l’esistenza della pianificazione Stay Behind, in Italia chiamata “Gladio”, nata nel 1951 da un accordo tra Cia e Sifar (il servizio segreto militare), tagliando fuori il Parlamento e perfino il governo italiano. A quel punto Andreotti gioca d’anticipo e rivela qualcosa (con molte bugie) della struttura segreta. Nei documenti di Gladio, Casson scopre che c’è un politico italiano che ha avuto un ruolo attivo nella pianificazione, quando negli anni ’60 era sottosegretario alla Difesa: un certo Cossiga, nel 1990 capo dello Stato. Codice alla mano, il giudice istruttore chiede la sua disponibilità a rendere deposizioni come testimone. Da quel momento, Cossiga il Silenzioso si trasforma in Cossiga il Picconatore: comincia ad attaccare il giudice (“l’efebo di Venezia”) con violente dichiarazioni ai giornali. Tracimerà su ogni argomento e non si fermerà più, fino alle sue dimissioni, nell’aprile 1992. Inaccettabile, per Cossiga, sedersi di fronte a un giudice per rispondere su pianificazioni segrete, esplosivi di Stato, depistaggi e stragi. Qualcuno chiede di giocare la carta del conflitto d’attribuzione tra poteri dello Stato, ricorrendo alla Corte costituzionale. Ma i codici parlano chiaro: anche il capo dello Stato può essere sentito come testimone dall’autorità giudiziaria, lo dice l’articolo 205 del nuovo codice del 1989 (“La testimonianza del presidente della Repubblica è assunta nella sede in cui egli esercita la funzione di capo dello Stato”), in continuità con l’articolo 356 del precedente codice di procedura penale. Il conflitto non viene neppure sollevato e qualche tempo dopo si convince anche Cossiga, tanto che manda due ufficiali da Casson a trattare le condizioni della deposizione.“A quel punto però la mia indagine era andata avanti – ricorda oggi Casson – avevo sentito ministri e generali, politici e capi di Stato maggiore, e non avevo più bisogno di Cossiga”. Era corso al palazzo di giustizia di Venezia anche Amintore Fanfani, che pure non era stato chiamato: “Mi ha detto – prosegue Casson – che riteneva suo dovere venire a dire quanto sapeva, e cioè che, benché fosse stato più volte premier, era stato tenuto all’oscuro di Gladio, che era dunque una pianificazione segreta con catene di comando fuori dalla Costituzione: la conoscevano i vertici di Cia e Sifar-Sid-Sismi e solo alcuni politici. Come Cossiga, che alla fine però riconobbe che era legittimo che un giudice chiedesse d’interrogare il capo dello Stato: proprio come oggi – ribadisce Casson, diventato parlamentare del Pd – è pienamente legittimo che la corte d’assise di Palermo interroghi il presidente Napolitano”.
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Re: Stato-mafia
CATTIVERIE
Stato-mafia, Napolitano sarà testimone.
Oh, finalmente si sposano
Spinoza.it
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Re: Stato-mafia
COMMENTO
Un retrogusto amaro
La trattativa Stato-mafia
di Michele Ainis
C i hanno messo un anno (meglio tardi che mai),però alla fine i giudici di Palermo hanno sciolto la riserva: Napolitano sarà testimone coatto al processo sulla trattativa Stato-mafia. Anzi non coatto, volontario; e non è un dettaglio da poco. Perché il Codice di procedura penale (articolo 205) distingue la posizione del capo dello Stato da quella degli altri vertici delle nostre istituzioni.
Il presidente della Consulta o il premier, come d’altronde i due presidenti delle Camere, se rifiutano di deporre in un processo subiscono l’accompagnamento coattivo; lui no, il codice di rito lo esclude espressamente. Dunque la sua testimonianza è sempre spontanea, non obbligatoria. Ma evidentemente la Corte d’assise di Palermo non si cura dei dettagli. Non se ne cura nemmeno il presidente, dal momento che si è subito dichiarato disponibile. Potremmo rallegrarcene: dopotutto stiamo celebrando il trionfo del principio d’eguaglianza, con il primo cittadino trattato come tutti gli altri cittadini.
Ma invece no, c’è un retrogusto amaro in quest’ultima vicenda. C’è il sospetto che la ricerca della verità sia diventata ormai un pretesto, peraltro espresso nel peggior giuridichese. Nella sua lettera del 31 ottobre scorso, Napolitano aveva già messo nero su bianco ciò che aveva da dire; ma adesso i giudici vogliono ascoltarlo per acquisire quel «contenuto dichiarativo negativo», magari con l’aiuto d’un interprete. Come a dire che la sua testimonianza scritta ai loro occhi suona reticente, sicché vogliono sottoporla alla prova dell’orecchio. Non che la verità non ci stia a cuore.
Ne avremmo fame e sete, sulla strage di piazza Fontana, su quella di Bologna, su Ustica, sul delitto Moro, sulle troppe pagine stracciate della nostra storia nazionale. La magistratura italiana fin qui non ci ha saziato, però meglio il digiuno che un’abbuffata di bugie. E meglio l’apatia che una guerra permanente fra poteri pubblici e privati, se ciascuno usa la propria competenza per affermare la propria potenza. Succede spesso, ora impiegando lo schermo dell’art. 18 per regolare i conti con i sindacati, ora sventolando la privacy per ridurre al silenzio i giornalisti, ora con l’abuso dei decreti e dei voti di fiducia per addomesticare il Parlamento. Ma in Italia la vera rivoluzione sarebbe questa: che ciascuno torni a fare il suo mestiere, senza impadronirsi di quello altrui .
26 settembre 2014 | 10:18
© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/14_se ... a9c2.shtml
Un retrogusto amaro
La trattativa Stato-mafia
di Michele Ainis
C i hanno messo un anno (meglio tardi che mai),però alla fine i giudici di Palermo hanno sciolto la riserva: Napolitano sarà testimone coatto al processo sulla trattativa Stato-mafia. Anzi non coatto, volontario; e non è un dettaglio da poco. Perché il Codice di procedura penale (articolo 205) distingue la posizione del capo dello Stato da quella degli altri vertici delle nostre istituzioni.
Il presidente della Consulta o il premier, come d’altronde i due presidenti delle Camere, se rifiutano di deporre in un processo subiscono l’accompagnamento coattivo; lui no, il codice di rito lo esclude espressamente. Dunque la sua testimonianza è sempre spontanea, non obbligatoria. Ma evidentemente la Corte d’assise di Palermo non si cura dei dettagli. Non se ne cura nemmeno il presidente, dal momento che si è subito dichiarato disponibile. Potremmo rallegrarcene: dopotutto stiamo celebrando il trionfo del principio d’eguaglianza, con il primo cittadino trattato come tutti gli altri cittadini.
Ma invece no, c’è un retrogusto amaro in quest’ultima vicenda. C’è il sospetto che la ricerca della verità sia diventata ormai un pretesto, peraltro espresso nel peggior giuridichese. Nella sua lettera del 31 ottobre scorso, Napolitano aveva già messo nero su bianco ciò che aveva da dire; ma adesso i giudici vogliono ascoltarlo per acquisire quel «contenuto dichiarativo negativo», magari con l’aiuto d’un interprete. Come a dire che la sua testimonianza scritta ai loro occhi suona reticente, sicché vogliono sottoporla alla prova dell’orecchio. Non che la verità non ci stia a cuore.
Ne avremmo fame e sete, sulla strage di piazza Fontana, su quella di Bologna, su Ustica, sul delitto Moro, sulle troppe pagine stracciate della nostra storia nazionale. La magistratura italiana fin qui non ci ha saziato, però meglio il digiuno che un’abbuffata di bugie. E meglio l’apatia che una guerra permanente fra poteri pubblici e privati, se ciascuno usa la propria competenza per affermare la propria potenza. Succede spesso, ora impiegando lo schermo dell’art. 18 per regolare i conti con i sindacati, ora sventolando la privacy per ridurre al silenzio i giornalisti, ora con l’abuso dei decreti e dei voti di fiducia per addomesticare il Parlamento. Ma in Italia la vera rivoluzione sarebbe questa: che ciascuno torni a fare il suo mestiere, senza impadronirsi di quello altrui .
26 settembre 2014 | 10:18
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http://www.corriere.it/editoriali/14_se ... a9c2.shtml
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Re: Stato-mafia
Il Sole 26.9.14
Il riferimento a «indicibili accordi»
Gli interrogativi dei Pm sulla lettera di D'Ambrosio
di Nino Amadore
PALERMO Lo hanno detto e ridetto: il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano deve deporre al processo per la cosiddetta trattativa Stato-mafia.
Perché loro, i pubblici ministeri che sostengono l'accusa in questo controverso processo (Nino Di Matteo, Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi) ritengono che il capo dello Stato debba chiarire alcuni aspetti. Sanno di doversi muovere in un ambito limitato. Non possono, per esempio, fare domanda alcuna sulle telefonate fatte dal consigliere giuridico del Quirinale Loris D'Ambrosio (morto d'infarto), al capo dello Stato nel momento in cui l'ex presidente del Senato Nicola Mancino, imputato in questo processo, chiedeva con insistenza un intervento sul coordinamento delle indagini sulla Trattativa.
Ma è pur sempre la vicenda che riguarda D'Ambrosio a interessare i pm palermitani: in particolare il contenuto della lettera che il consigliere giuridico del Quirinale ha inviato al capo dello Stato il 18 giugno del 2012, successivamente pubblicata per volontà dello stesso Giorgio Napolitano. C'è un passaggio che i magistrati palermitani vogliono approfondire: la frase in cui D'Ambrosio – turbato dalla pubblicazione sui giornali delle intercettazioni telefoniche dei suoi colloqui con Mancino, ricordando ciò che ha scritto su richiesta della sorella di Giovanni Falcone, Maria, a proposito del periodo 1989-1993, trascorso in servizio all'Alto commissariato per la lotta alla mafia e poi al ministero della Giustizia – scrive: «Lei sa che non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989-1993 che mi preoccupano e mi fanno riflettere; che mi hanno portato a enucleare ipotesi - solo ipotesi - di cui ho detto anche ad altri, quasi preso anche dal vivo timore di essere stato allora solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi». A quali indicibili accordi si riferisce D'Ambrosio? Forse alla Trattativa Stato-mafia? E il presidente della Repubblica è a conoscenza di queste ipotesi? Domande scontate cui Napolitano però ha già risposto nella lettera inviata al presidente della Seconda sezione della Corte d'assise Alfredo Montalto il 31 ottobre dell'anno scorso in cui scrive di non avere «alcuna conoscenza utile al processo, come sarei ben lieto di poter fare se davvero ne avessi da riferire». E nel successivo paragrafo della lettera il presidente ha poi spiegato: «L'essenziale è comunque il non aver io in alcun modo ricevuto dal dottor D'Ambrosio qualsiasi ragguaglio e specificazione circa le "ipotesi" - "solo ipotesi" - da lui "enucleate" e il "vivo timore", cui il mio Consigliere ha fatto generico riferimento sempre nella drammatica lettera del 18 giugno. Né io avevo modo e motivo di interrogarlo su quel passaggio della sua lettera. Né mai ebbi occasione di intrattenermi con lui su vicende del passato».
Con l'ordinanza di ieri la Corte presieduta da Montalto ha «preso atto della richiesta formulata dal pubblico ministero nell'udienza del 17 luglio 2014, affinché si proceda all'esame testimoniale del presidente della Repubblica, già ammessa con ordinanza del 17 ottobre 2013, sciogliendo la riserva formulata nell'udienza del 28 novembre 2013». Per Montalto «non si può di certo escludere il diritto di ciascuna parte di chiamare e interrogare un testimone su fatti rilevanti per il processo sol perché quel testimone abbia in una precedente deposizione testimoniale, escluso di essere informato dei fatti medesimi».
Il riferimento a «indicibili accordi»
Gli interrogativi dei Pm sulla lettera di D'Ambrosio
di Nino Amadore
PALERMO Lo hanno detto e ridetto: il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano deve deporre al processo per la cosiddetta trattativa Stato-mafia.
Perché loro, i pubblici ministeri che sostengono l'accusa in questo controverso processo (Nino Di Matteo, Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi) ritengono che il capo dello Stato debba chiarire alcuni aspetti. Sanno di doversi muovere in un ambito limitato. Non possono, per esempio, fare domanda alcuna sulle telefonate fatte dal consigliere giuridico del Quirinale Loris D'Ambrosio (morto d'infarto), al capo dello Stato nel momento in cui l'ex presidente del Senato Nicola Mancino, imputato in questo processo, chiedeva con insistenza un intervento sul coordinamento delle indagini sulla Trattativa.
Ma è pur sempre la vicenda che riguarda D'Ambrosio a interessare i pm palermitani: in particolare il contenuto della lettera che il consigliere giuridico del Quirinale ha inviato al capo dello Stato il 18 giugno del 2012, successivamente pubblicata per volontà dello stesso Giorgio Napolitano. C'è un passaggio che i magistrati palermitani vogliono approfondire: la frase in cui D'Ambrosio – turbato dalla pubblicazione sui giornali delle intercettazioni telefoniche dei suoi colloqui con Mancino, ricordando ciò che ha scritto su richiesta della sorella di Giovanni Falcone, Maria, a proposito del periodo 1989-1993, trascorso in servizio all'Alto commissariato per la lotta alla mafia e poi al ministero della Giustizia – scrive: «Lei sa che non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989-1993 che mi preoccupano e mi fanno riflettere; che mi hanno portato a enucleare ipotesi - solo ipotesi - di cui ho detto anche ad altri, quasi preso anche dal vivo timore di essere stato allora solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi». A quali indicibili accordi si riferisce D'Ambrosio? Forse alla Trattativa Stato-mafia? E il presidente della Repubblica è a conoscenza di queste ipotesi? Domande scontate cui Napolitano però ha già risposto nella lettera inviata al presidente della Seconda sezione della Corte d'assise Alfredo Montalto il 31 ottobre dell'anno scorso in cui scrive di non avere «alcuna conoscenza utile al processo, come sarei ben lieto di poter fare se davvero ne avessi da riferire». E nel successivo paragrafo della lettera il presidente ha poi spiegato: «L'essenziale è comunque il non aver io in alcun modo ricevuto dal dottor D'Ambrosio qualsiasi ragguaglio e specificazione circa le "ipotesi" - "solo ipotesi" - da lui "enucleate" e il "vivo timore", cui il mio Consigliere ha fatto generico riferimento sempre nella drammatica lettera del 18 giugno. Né io avevo modo e motivo di interrogarlo su quel passaggio della sua lettera. Né mai ebbi occasione di intrattenermi con lui su vicende del passato».
Con l'ordinanza di ieri la Corte presieduta da Montalto ha «preso atto della richiesta formulata dal pubblico ministero nell'udienza del 17 luglio 2014, affinché si proceda all'esame testimoniale del presidente della Repubblica, già ammessa con ordinanza del 17 ottobre 2013, sciogliendo la riserva formulata nell'udienza del 28 novembre 2013». Per Montalto «non si può di certo escludere il diritto di ciascuna parte di chiamare e interrogare un testimone su fatti rilevanti per il processo sol perché quel testimone abbia in una precedente deposizione testimoniale, escluso di essere informato dei fatti medesimi».
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Re: Stato-mafia
Vogliamo un Presidente trasparente
Napolitano, perché non testimoni in pubblico sulla trattativa Stato - Mafia? Napolitano deve dire quello che sa sugli "indicibili accordi" fra lo Stato e la mafia. Lo ha deciso la Corte d'assise di Palermo dimostrando che tutti i cittadini sono uguali di fronte alla giustizia. Ma il Sig. Napolitano testimonierà in privato nella sala ovattata del Quirinale. Perché non lo fa pubblicamente? Il numero 1 dei cittadini dovrebbe dare l'esempio per primo.
Sig. Napolitano, fra Stato e mafia chi vuole orecchie tappate e bocche cucite non dovrebbe essere lo Stato. Il testimone eccellente teme il modo sprezzante in cui potrebbe essere trattato, domande inquisitorie e magari... che compaia "il capo dei capi" Totò Riina in videoconferenza. Se il boss mafioso (Riina) volesse, la legge glielo consentirebbe dato che è "imputato interessato all'esame". Tutti i cittadini italiani, in quanto vittime di questo accordo, sono interessati all'esame e devono sapere! Non vogliamo altri segreti di Stato, non accettiamo più situazioni dallo "stantio odore di massoneria". Sig. Napolitano si prenda le sue responsabilità e parli pubblicamente!"
Nicola Morra
Ciao
Paolo11
Napolitano, perché non testimoni in pubblico sulla trattativa Stato - Mafia? Napolitano deve dire quello che sa sugli "indicibili accordi" fra lo Stato e la mafia. Lo ha deciso la Corte d'assise di Palermo dimostrando che tutti i cittadini sono uguali di fronte alla giustizia. Ma il Sig. Napolitano testimonierà in privato nella sala ovattata del Quirinale. Perché non lo fa pubblicamente? Il numero 1 dei cittadini dovrebbe dare l'esempio per primo.
Sig. Napolitano, fra Stato e mafia chi vuole orecchie tappate e bocche cucite non dovrebbe essere lo Stato. Il testimone eccellente teme il modo sprezzante in cui potrebbe essere trattato, domande inquisitorie e magari... che compaia "il capo dei capi" Totò Riina in videoconferenza. Se il boss mafioso (Riina) volesse, la legge glielo consentirebbe dato che è "imputato interessato all'esame". Tutti i cittadini italiani, in quanto vittime di questo accordo, sono interessati all'esame e devono sapere! Non vogliamo altri segreti di Stato, non accettiamo più situazioni dallo "stantio odore di massoneria". Sig. Napolitano si prenda le sue responsabilità e parli pubblicamente!"
Nicola Morra
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