Circolano in rete...
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Re: Circolano in rete...
Censura
Umbria, il bavaglio al giornale online
"Oscurate quell'inchiesta sul web"
Un gip ha stabilito l'oscuramento di tre articoli con le intercettazioni telefoniche legate al caso della Banca Popolare di Spoleto. "E' il primo episodio del genere. Un precedente pericoloso per il giornalismo d'inchiesta"
di Carmine Gazzanni
Il rischio è che ora non si possano pubblicare atti processuali anche dopo la comunicazione di conclusione indagini. È questo il precedente che potrebbe nascere dopo la vicenda capitata al giornale online umbro Tuttoggi.info a cui lo scorso 20 dicembre è stato recapitato l’avviso di sequestro preventivo , mediante oscuramento, di ben tre articoli contenenti intercettazioni relativi all’inchiesta che tocca la Banca Popolare di Spoleto e che vede rinviate a giudizio ben 34 persone, tra cda e imprenditori legati all’istituto, per reati che, a vario titolo, vanno dalla mediazione usuraria all’ostacolo alla Vigilanza, dall’associazione a delinquere fino alla bancarotta fraudolenta.
La prima volta che accade per un quotidiano online. Ma c’è di più. Il motivo per cui l’ordinanza ha destato l’attenzione anche dello stesso Ordine dei giornalisti sta nel fatto che gli atti processuali erano ormai pubblici quando il giornale, diretto da Carlo Ceraso, ha pubblicato gli articoli incriminati. E da ben tre mesi. Occhio alle date: il 29 maggio il procuratore capo della Procura di Spoleto Gianfranco Riggio comunica l’avviso di conclusione indagine; dall’otto all’undici agosto, in successione, Tuttoggi si occupa della vicenda con tre inchieste scritte a quattro mani dallo stesso Ceraso e dal collega del Giornale dell’Umbria Massimo Sbardella. Ed ora arriva il sequestro preventivo disposto dal gip Daniela Caramico D’Auria dopo la querela presentata a novembre da Giovannino Antonini, ex dominus della Bps, che lo scorso 20 luglio, nell’ambito di un’altra inchiesta della Procura di Roma, è stato arrestato con l’accusa di corruzione in atti giudiziari insieme ad altre tre persone, fra cui il giudice del Tar Franco De Bernardi (per gli inquirenti Antonini avrebbe cercato di ‘sistemare’ il processo attraverso il quale far annullare il decreto di commissariamento disposto da Bankitalia e Mef).
Atti pubblici o no allora? Pare proprio di sì dato che nell’ordinanza di sequestro del 20 dicembre scorso è lo stesso magistrato che dichiara che “le intercettazioni pubblicate negli articoli” sono “atti non più coperti da segreto avendo il PM emesso nell’ambito del procedimento nr. 319/2009 avviso di conclusione delle indagini”.
Cosa si contesta allora? In pratica, a detta del gip, è necessario che il giudice non venga influenzato e non conosca gli atti prima dell’udienza preliminare, nonostante siano, di fatto, già atti pubblici. “Una preoccupazione che non esiste - come la definisce a L’Espresso il legale del giornale Salvatore Francesco Donzelli - perché contrastante con il codice che parla invece di pubblicità degli atti al momento della notifica di conclusione delle indagini, comunicazione che era stata resa nota alla stampa dallo stesso Procuratore capo di Spoleto con un comunicato ufficiale”.
Un principio che se diventasse norma potrebbe portare all’oscuramento di gran parte della cronaca giudiziaria del nostro Paese. “In pratica - continua Donzelli - è stata applicata la ‘legge bavaglio’ su cui tanto ha insistito il passato governo Berlusconi”. Si legge infatti nell’ordinanza che “la libera disponibilità degli articoli può aggravare la conseguenza del reato” e, soprattutto, che il giudice “non può e non deve conoscere gli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero se non attraverso il dibattimento”.
Nessun riferimento, invece, alla pubblica opinione che, a conclusione indagini, dovrebbe avere il diritto di conoscere (e approfonditamente) atti che toccano un istituto importante come quello di Spoleto, quotato in Borsa. “È un’iniziativa assolutamente assurda quella intrapresa - chiosa ancora Donzelli - credo nella buona fede dei magistrati, però oggettivamente è una decisione abnorme perché si è fatto semplicemente giornalismo d’inchiesta informando su cosa stava accadendo in una banca di cui è stato devastato il patrimonio, con un buco spaventoso tanto che poi è stata commissariata da Bankitalia (il 16 febbraio scorso, ndr)”.
Non è la prima volta, d’altronde, che Bps e Tuttoggi si scontrano a muso duro. L’otto maggio 2012 il giornale scovò e pubblicò in esclusiva un video che dimostrava il modus operandi dell’ex presidente Antonini e che prontamente venne consegnato alle autorità competenti (anche qui l’inchiesta ha portato la Procura a spiccare 9 avvisi di garanzia con varie accuse, dalla ingiuria alla minaccia, al falso ideologico a comportamenti fraudolenti grazie ai quali Antonini sfuggì alla sfiducia votata dalla maggioranza del board dell’epoca). Delle vicende sulla Pop Spoleto si è occupato anche Ossigeno, l’osservatorio sui giornalisti minacciati in Italia, dato che lo stesso Ceraso ha ricevuto in passato intimidazioni e minacce di morte che, scrive lo stesso osservatorio, “avevano verosimilmente la loro origine nell’interesse della testata per le vicende dell’istituto di credito umbro”. Ed ora ecco l’ultima tessera: l’oscuramento di tre articoli, nonostante gli atti di cui ci si occupava fossero già pubblici.
Sulla questione anche Guido Scorza, uno dei massimi esperti di web e censura, si dice stupito, almeno dal punto di vista dello squilibrio tra quotidiano online e cartaceo: “La mia sensazione - dice l’avvocato e giornalista - è che in effetti siamo di fronte ad un provvedimento abnorme nelle conclusioni. La cosa curiosa in questa partita è che se fossimo stati davanti ad un giornale di carta nessuno avrebbe neppure lontanamente avanzato l’idea del sequestro, mentre di fronte ad una testata registrata online qualcuno non solo denuncia, ma addirittura c’è chi dispone il sequestro”. Secondo Scorza, in altre parole, ci sono al momento due pesi e due misure tra l’online e il cartaceo: “Si sta andando in una direzione, come d’altra parte dice la nuova legge sulla diffamazione, nella quale fondamentalmente l’editore di carta e l’editore telematico sono soggetti allo stesso tipo di responsabilità. Quando si tratta di chiamare il giornalista o l’editore a pagare il conto per l’errore, l’informazione di carta e quella telematica vengono equiparate dal punto di vista giuridico; quando invece si tratta di garantire la tutela del giornalista siamo all’assurdo: l’editore del giornale di carta dispone della garanzia in pratica di non incorrere mai nel sequestro preventivo; mentre l’editore dell’online non può disporre della stessa tutela. Come dire: paga lo stesso prezzo ma gode di meno garanzie”.
Al momento il giornale preferisce non rilasciare dichiarazioni in attesa del pronunciamento del Tribunale del Riesame di Perugia a cui è stato presentato ricorso perché annulli la disposizione ordinando il dissequestro. Forte è arrivata la vicinanza anche dall’Ordine dei Giornalisti il quale auspica “che la magistratura sia capace nelle sue articolazioni di porre riparo ad un atto che arrecherebbe un danno grave all’informazione ed al diritto fondamentale dei cittadini ad essere informati”. Quello che è in gioco è il giornalismo d’inchiesta.
07 gennaio 2014
http://espresso.repubblica.it/attualita ... b-1.147956
Ciao
Paolo11
Umbria, il bavaglio al giornale online
"Oscurate quell'inchiesta sul web"
Un gip ha stabilito l'oscuramento di tre articoli con le intercettazioni telefoniche legate al caso della Banca Popolare di Spoleto. "E' il primo episodio del genere. Un precedente pericoloso per il giornalismo d'inchiesta"
di Carmine Gazzanni
Il rischio è che ora non si possano pubblicare atti processuali anche dopo la comunicazione di conclusione indagini. È questo il precedente che potrebbe nascere dopo la vicenda capitata al giornale online umbro Tuttoggi.info a cui lo scorso 20 dicembre è stato recapitato l’avviso di sequestro preventivo , mediante oscuramento, di ben tre articoli contenenti intercettazioni relativi all’inchiesta che tocca la Banca Popolare di Spoleto e che vede rinviate a giudizio ben 34 persone, tra cda e imprenditori legati all’istituto, per reati che, a vario titolo, vanno dalla mediazione usuraria all’ostacolo alla Vigilanza, dall’associazione a delinquere fino alla bancarotta fraudolenta.
La prima volta che accade per un quotidiano online. Ma c’è di più. Il motivo per cui l’ordinanza ha destato l’attenzione anche dello stesso Ordine dei giornalisti sta nel fatto che gli atti processuali erano ormai pubblici quando il giornale, diretto da Carlo Ceraso, ha pubblicato gli articoli incriminati. E da ben tre mesi. Occhio alle date: il 29 maggio il procuratore capo della Procura di Spoleto Gianfranco Riggio comunica l’avviso di conclusione indagine; dall’otto all’undici agosto, in successione, Tuttoggi si occupa della vicenda con tre inchieste scritte a quattro mani dallo stesso Ceraso e dal collega del Giornale dell’Umbria Massimo Sbardella. Ed ora arriva il sequestro preventivo disposto dal gip Daniela Caramico D’Auria dopo la querela presentata a novembre da Giovannino Antonini, ex dominus della Bps, che lo scorso 20 luglio, nell’ambito di un’altra inchiesta della Procura di Roma, è stato arrestato con l’accusa di corruzione in atti giudiziari insieme ad altre tre persone, fra cui il giudice del Tar Franco De Bernardi (per gli inquirenti Antonini avrebbe cercato di ‘sistemare’ il processo attraverso il quale far annullare il decreto di commissariamento disposto da Bankitalia e Mef).
Atti pubblici o no allora? Pare proprio di sì dato che nell’ordinanza di sequestro del 20 dicembre scorso è lo stesso magistrato che dichiara che “le intercettazioni pubblicate negli articoli” sono “atti non più coperti da segreto avendo il PM emesso nell’ambito del procedimento nr. 319/2009 avviso di conclusione delle indagini”.
Cosa si contesta allora? In pratica, a detta del gip, è necessario che il giudice non venga influenzato e non conosca gli atti prima dell’udienza preliminare, nonostante siano, di fatto, già atti pubblici. “Una preoccupazione che non esiste - come la definisce a L’Espresso il legale del giornale Salvatore Francesco Donzelli - perché contrastante con il codice che parla invece di pubblicità degli atti al momento della notifica di conclusione delle indagini, comunicazione che era stata resa nota alla stampa dallo stesso Procuratore capo di Spoleto con un comunicato ufficiale”.
Un principio che se diventasse norma potrebbe portare all’oscuramento di gran parte della cronaca giudiziaria del nostro Paese. “In pratica - continua Donzelli - è stata applicata la ‘legge bavaglio’ su cui tanto ha insistito il passato governo Berlusconi”. Si legge infatti nell’ordinanza che “la libera disponibilità degli articoli può aggravare la conseguenza del reato” e, soprattutto, che il giudice “non può e non deve conoscere gli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero se non attraverso il dibattimento”.
Nessun riferimento, invece, alla pubblica opinione che, a conclusione indagini, dovrebbe avere il diritto di conoscere (e approfonditamente) atti che toccano un istituto importante come quello di Spoleto, quotato in Borsa. “È un’iniziativa assolutamente assurda quella intrapresa - chiosa ancora Donzelli - credo nella buona fede dei magistrati, però oggettivamente è una decisione abnorme perché si è fatto semplicemente giornalismo d’inchiesta informando su cosa stava accadendo in una banca di cui è stato devastato il patrimonio, con un buco spaventoso tanto che poi è stata commissariata da Bankitalia (il 16 febbraio scorso, ndr)”.
Non è la prima volta, d’altronde, che Bps e Tuttoggi si scontrano a muso duro. L’otto maggio 2012 il giornale scovò e pubblicò in esclusiva un video che dimostrava il modus operandi dell’ex presidente Antonini e che prontamente venne consegnato alle autorità competenti (anche qui l’inchiesta ha portato la Procura a spiccare 9 avvisi di garanzia con varie accuse, dalla ingiuria alla minaccia, al falso ideologico a comportamenti fraudolenti grazie ai quali Antonini sfuggì alla sfiducia votata dalla maggioranza del board dell’epoca). Delle vicende sulla Pop Spoleto si è occupato anche Ossigeno, l’osservatorio sui giornalisti minacciati in Italia, dato che lo stesso Ceraso ha ricevuto in passato intimidazioni e minacce di morte che, scrive lo stesso osservatorio, “avevano verosimilmente la loro origine nell’interesse della testata per le vicende dell’istituto di credito umbro”. Ed ora ecco l’ultima tessera: l’oscuramento di tre articoli, nonostante gli atti di cui ci si occupava fossero già pubblici.
Sulla questione anche Guido Scorza, uno dei massimi esperti di web e censura, si dice stupito, almeno dal punto di vista dello squilibrio tra quotidiano online e cartaceo: “La mia sensazione - dice l’avvocato e giornalista - è che in effetti siamo di fronte ad un provvedimento abnorme nelle conclusioni. La cosa curiosa in questa partita è che se fossimo stati davanti ad un giornale di carta nessuno avrebbe neppure lontanamente avanzato l’idea del sequestro, mentre di fronte ad una testata registrata online qualcuno non solo denuncia, ma addirittura c’è chi dispone il sequestro”. Secondo Scorza, in altre parole, ci sono al momento due pesi e due misure tra l’online e il cartaceo: “Si sta andando in una direzione, come d’altra parte dice la nuova legge sulla diffamazione, nella quale fondamentalmente l’editore di carta e l’editore telematico sono soggetti allo stesso tipo di responsabilità. Quando si tratta di chiamare il giornalista o l’editore a pagare il conto per l’errore, l’informazione di carta e quella telematica vengono equiparate dal punto di vista giuridico; quando invece si tratta di garantire la tutela del giornalista siamo all’assurdo: l’editore del giornale di carta dispone della garanzia in pratica di non incorrere mai nel sequestro preventivo; mentre l’editore dell’online non può disporre della stessa tutela. Come dire: paga lo stesso prezzo ma gode di meno garanzie”.
Al momento il giornale preferisce non rilasciare dichiarazioni in attesa del pronunciamento del Tribunale del Riesame di Perugia a cui è stato presentato ricorso perché annulli la disposizione ordinando il dissequestro. Forte è arrivata la vicinanza anche dall’Ordine dei Giornalisti il quale auspica “che la magistratura sia capace nelle sue articolazioni di porre riparo ad un atto che arrecherebbe un danno grave all’informazione ed al diritto fondamentale dei cittadini ad essere informati”. Quello che è in gioco è il giornalismo d’inchiesta.
07 gennaio 2014
http://espresso.repubblica.it/attualita ... b-1.147956
Ciao
Paolo11
Re: Circolano in rete...
Freelance sì, #coglioneNo, il grido del giovane creativo
di Giampaolo Colletti | 13 gennaio 2014
“Sei giovane e per questo lavoro non c’è budget”. “Ti sto dando una grande occasione di visibilità”, e altre frasi ancora che un freelance o un wwworkers s’è sentito ripetere mille e più volte.
Finalmente c’è qualcuno che è riuscito a mettere in video e in rete – in modo ironico, scanzonato, ma tagliente, immediato – la frustrazione di migliaia di giovani (e anche meno giovani, aggiungerei) freelance costretti a progetti sperimentali, giornate prova, lavori non retribuiti. Senza tutele, senza obblighi per colui o colei che decide di assoldare il freelance (spesso si tratta anche di aziende). Finalmente una campagna di sensibilizzazione uscita in queste ore sta spopolando online e ci costringe ad una riflessione anche offline. A realizzarla, attraverso tre video subito diventati virali, è il Collettivo Zero, costituito da Niccolò Falsetti, Stefano De Marco e Alessandro Grespan.
Così il lavoro di un idraulico, di un giardiniere e di un antennista vengono paragonati ai lavori creativi e intellettuali, e la classica risposta che spesso il freelance si becca abitualmente stride e non poco applicata a queste tre professioni. Tre video e un passaparola sui social network al grido di #coglioneNo (questo l’hashtag battezzato), per una campagna di rispetto e sensibilizzazione del lavoro creativo: “#coglioneNo è la reazione di una generazione di creativi alle mail non lette, a quelle lette e non risposte e a quelle risposte da stronzi. È la reazione alla svalutazione di queste professionalità anche per colpa di chi accetta di fornire servizi creativi in cambio di visibilità o per inseguire uno status symbol. È la reazione a offerte di lavoro gratis perché ci dobbiamo fare il portfolio, perché tanto siamo giovani, perché tanto non è un lavoro, è un divertimento”, si legge nel manifesto.
I lavori a cui la campagna si richiama sono i più vari e attingono nel “sottobosco” della creatività digitale, in quel campo indefinito del lavoro intellettuale: si parla di arte, comunicazione, social network, siti web, indicizzazione sui motori di ricerca. Un amalgama indistinta che cerca di (soprav)vivere, con una difficoltà enorme, senza regolamentazioni e rispetto del lavoro. E in tutto questo scenario così complesso ci sono anche le finte partite Iva, arruolate (e anche in questo caso spesso non pagate) da parte di privati e aziende.
Così scrisse Alberto Arbasino in un pezzo uscito nel 2010 su Repubblica: “Forse è un retaggio dei tempi quando il letterato veniva trattato come lacchè. Certamente, però, ogni giorno viene richiesto di fare qualche lavoro gratis. Presentando, presenziando, parlando, scrivendo. Per enti, sistemi, organismi, reti, strutture, talmente signorili e fini che chiedono un lavoro professionistico a un professionista. Ma lo vogliono gratis”. Comunque il messaggio del collettivo è chiaro, e sta già facendo il giro della rete. Così viene precisato sul sito: “Vogliamo unire le voci dei tanti che se lo sentono dire ogni volta. Vogliamo ricordare a tutti che siamo giovani, siamo freelance, siamo creativi ma siamo lavoratori, mica coglioni”. Servirà a sensibilizzare l’opinione pubblica e certa politica autoreferenziale e cieca rispetto a queste prassi consolidate?
di Giampaolo Colletti | 13 gennaio 2014
“Sei giovane e per questo lavoro non c’è budget”. “Ti sto dando una grande occasione di visibilità”, e altre frasi ancora che un freelance o un wwworkers s’è sentito ripetere mille e più volte.
Finalmente c’è qualcuno che è riuscito a mettere in video e in rete – in modo ironico, scanzonato, ma tagliente, immediato – la frustrazione di migliaia di giovani (e anche meno giovani, aggiungerei) freelance costretti a progetti sperimentali, giornate prova, lavori non retribuiti. Senza tutele, senza obblighi per colui o colei che decide di assoldare il freelance (spesso si tratta anche di aziende). Finalmente una campagna di sensibilizzazione uscita in queste ore sta spopolando online e ci costringe ad una riflessione anche offline. A realizzarla, attraverso tre video subito diventati virali, è il Collettivo Zero, costituito da Niccolò Falsetti, Stefano De Marco e Alessandro Grespan.
Così il lavoro di un idraulico, di un giardiniere e di un antennista vengono paragonati ai lavori creativi e intellettuali, e la classica risposta che spesso il freelance si becca abitualmente stride e non poco applicata a queste tre professioni. Tre video e un passaparola sui social network al grido di #coglioneNo (questo l’hashtag battezzato), per una campagna di rispetto e sensibilizzazione del lavoro creativo: “#coglioneNo è la reazione di una generazione di creativi alle mail non lette, a quelle lette e non risposte e a quelle risposte da stronzi. È la reazione alla svalutazione di queste professionalità anche per colpa di chi accetta di fornire servizi creativi in cambio di visibilità o per inseguire uno status symbol. È la reazione a offerte di lavoro gratis perché ci dobbiamo fare il portfolio, perché tanto siamo giovani, perché tanto non è un lavoro, è un divertimento”, si legge nel manifesto.
I lavori a cui la campagna si richiama sono i più vari e attingono nel “sottobosco” della creatività digitale, in quel campo indefinito del lavoro intellettuale: si parla di arte, comunicazione, social network, siti web, indicizzazione sui motori di ricerca. Un amalgama indistinta che cerca di (soprav)vivere, con una difficoltà enorme, senza regolamentazioni e rispetto del lavoro. E in tutto questo scenario così complesso ci sono anche le finte partite Iva, arruolate (e anche in questo caso spesso non pagate) da parte di privati e aziende.
Così scrisse Alberto Arbasino in un pezzo uscito nel 2010 su Repubblica: “Forse è un retaggio dei tempi quando il letterato veniva trattato come lacchè. Certamente, però, ogni giorno viene richiesto di fare qualche lavoro gratis. Presentando, presenziando, parlando, scrivendo. Per enti, sistemi, organismi, reti, strutture, talmente signorili e fini che chiedono un lavoro professionistico a un professionista. Ma lo vogliono gratis”. Comunque il messaggio del collettivo è chiaro, e sta già facendo il giro della rete. Così viene precisato sul sito: “Vogliamo unire le voci dei tanti che se lo sentono dire ogni volta. Vogliamo ricordare a tutti che siamo giovani, siamo freelance, siamo creativi ma siamo lavoratori, mica coglioni”. Servirà a sensibilizzare l’opinione pubblica e certa politica autoreferenziale e cieca rispetto a queste prassi consolidate?
Re: Circolano in rete...
http://www.lastampa.it/2014/01/19/itali ... agina.html
CRONACHE
19/01/2014 - L’ACCUSA
“Sul caso Stamina l’informazione-spettacolo è stata irresponsabile”
La senatrice Cattaneo e altri due scienziati contro “Le Iene”
“Trasfigurati i fatti provati che condannavano il metodo”
ELENA CATTANEO. GILBERTO CORBELLINI., MICHELE DE LUCA
Caro Direttore,
la libertà di stampa è un valore non negoziabile. Proprio per questo, cioè per proteggerla, chi ne abusa causando danni a persone, in un Paese che costituzionalmente rifiuta ogni ipotesi di autorizzazione o censura, di regola andrebbe responsabilizzato dalla legge. Anche l’indicatore della libertà di stampa ci vede in fondo alla graduatoria internazionale dei paesi civili.
Un esempio eclatante di irresponsabilità nella pratica della libertà d’informazione, da cui sono venuti danni irreparabili a persone e alla sanità pubblica, è l’uso che della vicenda Stamina ha fatto nei mesi scorsi il programma televisivo «Le Iene». Interpretando al peggio la filosofia situazionista, che mescola finzione e realtà, sono state asserite circostanze insussistenti per manipolare e spettacolarizzare le sofferenze di malati e parenti. Viceversa, i fatti provati che condannavano Stamina sono stati trasfigurati. Sono stati letteralmente ribaltati e proposti come una «dimostrazione» della «falsa propaganda del potere costituito» o di non meglio precisati «interessi di potenti multinazionali». In quanto tali, gli eroici giornalisti di «Le Iene» li contrastavano. E per farlo hanno condito il tutto con «impressioni» o «sensazioni» mosse dalle più viscerali e irrazionali emozioni.
Si dovevano usare per far questo bambini malati? Si usavano. Tra le testimonianze pubblicate in questi giorni, che danno conto dell’incredibile calvario offerto da Stamina a famiglie disperate in cambio di numerose decine di migliaia di euro, non è insolito leggere espressioni come «Avevamo visto questo programma “Le Iene”…».
Sulla vicenda Stamina il Senato ha ora dato avvio ad un’indagine conoscitiva, per comprendere anche il ruolo di alcuni mezzi di informazione nella sua origine ed evoluzione. Nel frattempo, ora che sta franando il palcoscenico su cui si è recitata la tragicommedia dell’«inganno Stamina», giocata intorno all’illusione di uno pseudo-trattamento dai poteri taumaturgici, il direttore del programma «Le Iene» (Davide Parenti), cerca di smarcarsi e ripete un ritornello già ascoltato: «Abbiamo solo raccontato». Aggiungendo che la trasmissione ha «reso testimonianza», che «basta guardare le cartelle cliniche» (quali?), «abbiamo avuto curiosità per un tipo di cure, ripeto compassionevoli, che mandavano segnali», etc. E, per eludere ogni responsabilità professionale, butta lì che loro sono «un varietà, ma un varietà anomalo».
A nostro avviso, «Le Iene» hanno gravi colpe nell’avere concorso a costruire, insieme a Vannoni, l’«inganno Stamina». Con una responsabilità morale forse equivalente a quella dello «stregone di Moncalieri» e con un impatto comunicativo sicuramente superiore a quello che «uno o più stregoni» avrebbero mai potuto avere.
Ma facciamo un passo indietro, un po’ di storia per capire meglio e non lasciare dubbi, a nessuno. Già in passato, Parenti e la sua trasmissione avevano «giocato» ad alimentare false speranze presentando fenomenali «cure» a base di staminali proposte in paesi non proprio al centro della scienza e della medicina come: Thailandia o Cina. Coerentemente, nella vicenda Stamina, «Le Iene» non hanno esitato a schierarsi con Vannoni, facendo da cassa armonica alle menzogne e alle falsità. È stato dopo un loro servizio che Adriano Celentano ha scritto la lettera pubblicata dal Corriere della Sera in cui si chiedeva al ministro Balduzzi di consentire ad una bambina di continuare a ricevere il «trattamento Stamina». Da quel momento è stata un’escalation.
«Le Iene» hanno cominciato a montare e trasmettere riprese di bambini gravemente malati, facendo percepire al pubblico che il trattamento Stamina producesse effettivi e «visibili» miglioramenti. A questa tesi, perseguita con instancabile accanimento, hanno a più riprese mortificato e umiliato, oltre che la verità e il legittimo bisogno di chiarezza delle famiglie, anche la reputazione di non poche brave persone, esperti e scienziati «macchiatisi del peccato» di denunciare subito, senza mezzi termini, l’odore di bruciato. «Le Iene» hanno teso una trappola al professor Paolo Bianco, esperto italiano tra i più qualificati al mondo su staminali mesenchimali, provocandolo e montando un servizio per metterlo in cattiva luce. Con sapienti «taglia e cuci» hanno prodotto immagini distorte del serio lavoro svolto dai professionisti della Commissione incaricata dal ministro facendo ricorso a piene mani alla loro (solita) scenografica e stucchevole pseudo-ironia riservata (solitamente) ai peggiori e loschi figuri intervistati in loro passate trasmissioni.
E ancora, hanno ingannato lo staff di Telethon, mostrando Vannoni, «che per caso passava di lì», dialogare con un addetto Telethon (non un incaricato competente di aspetti medici e scientifici), allo scopo di suffragare l’idea che Vannoni fosse «interlocutore abituale e accreditato» degli scienziati del campo e «frequentatore attendibile» dello storico e internazionalmente riconosciuto ente no-profit di ricerca. Eccetera. L’elenco delle «furbate» sarebbe lungo come tutti i servizi mandati in onda. Tutto sempre allo scopo di «raccontare» quel che loro stessi andavano sceneggiando, con l’intento da un lato di spettacolarizzare le sofferenze dei malati, e dall’altro di alimentare un’idea falsata della controversia, dove Vannoni doveva apparire il benefattore contro cui si erano scatenati i poteri forti e cattivi, incarnati dagli scienziati, ovviamente sempre al soldo delle case farmaceutiche (sia chiaro, le stesse che producono i farmaci che spesso salvano la vita a noi e ai nostri figli).
Di una serie di altri aspetti invece «Le Iene» si sono completamente disinteressate:
1) dell’indagare e raccontare che fosse Vannoni a intrattenere accordi commerciali con un’impresa farmaceutica multinazionale (Medestea – che le cronache dicono sia stata censurata dall’antitrust decine di volte per pubblicità ingannevole – tanto per restare in tema di corretta informazione);
2) del perché il proprietario di quella stessa multinazionale comparisse «improvvisamente» dietro le telecamere di «Le Iene» durante l’aggressione a Bianco (giusto quei secondi per permettergli di esprimere squallidi epiteti sottotitolati dal programma senza dire chi realmente fosse e quali fossero i suoi interessi ad esprimersi così);
3) del dettagliare l’insussistenza del «metodo» come riportato nelle valutazioni dell’ufficio brevetti americano (diventate pubbliche solo perché Vannoni & Co. non riuscirono nell’intento di «nasconderle»);
4) dello spiegare cosa significhi uno pseudo-metodo plagiato e falsato da artefatti sperimentali russi (come riportato da Nature);
5) che il trattamento Stamina non avesse nemmeno i requisiti di legge per essere «compassionevole» (termine usato spesso e a sproposito nei loro servizi);
6) che non vi fosse mai stata un’autorizzazione formale dell’Agenzia Italiana del Farmaco ad effettuare il trattamento presso gli Spedali Civili di Brescia (fatto mai smentito da Brescia), e che anzi, nel 2012, l’Agenzia avesse riscontrato illegalità su ogni fronte;
7) del raccogliere e raccontare i motivi che hanno spinto gli specialisti scienziati e clinici del mondo, oltre a premi Nobel, ad evidenziare che «non c’è nessun metodo» e nessuna «cartella clinica» in cui fosse scritto che i pazienti erano migliorati;
8) che in agosto Vannoni stesso avesse detto che la sperimentazione clinica del suo «metodo» era inutile e che per la variabilità della Sma – fino a quel momento malattia bandiera di Stamina e di «Le Iene» – tale malattia era da escludere dalla sperimentazione governativa in quanto sarebbe stato impossibile osservare benefici.
Di tutto ciò, appunto, Parenti e il suo programma si sono disinteressati anche se si trattava di elementi che qualsiasi giornalista aveva a facile disposizione, di fatto coprendo queste evidenze fondamentali.
Senza trascurare che dal sito del programma, che riporta il logo di Stamina, si dava accesso facilmente a informazioni utili a chi intendesse «rivolgersi a qualche giudice» (non a qualche medico!) per ottenere la prescrizione del trattamento Stamina.
Ora, il contratto di convivenza sociale prevede che i danni fatti si paghino. In un paese civile, Parenti e chi per lui, sarebbero anch’essi chiamati a rispondere davanti a un giudice e, probabilmente, nessuna testata che si riconosca nei più elementari principi della deontologia giornalistica darebbe più una riga da scrivere, un secondo di trasmissione, a chi si è comportato come abbiamo visto fare. Perché alla base della deontologia vi è il dovere di ricercare l’oggettività nella ricostruzione dei fatti. Se poi si sale a livello europeo, le raccomandazioni etiche dicono che i giornalisti devono chiaramente e manifestamente «tenere distinti i fatti dalle opinioni». Nel caso Stamina i fatti venivano costruiti, nutriti dalla materia di opinioni insensate o manipolatorie. Questo evidenzia, a nostro parere, una chiara responsabilità diretta di chi ha agito così.
Fino a quando in Italia si potrà continuare a giocare sul fatto che in un «varietà anomalo» si possa fare anche pseudo-informazione senza avvisare lo spettatore che si tratta di puro spettacolo? Questa è diventata l’immagine dell’Italia all’estero: quella di un Paese dove negli ultimi decenni – a livello della comunicazione non solo mediatica, ma anche politica – è sempre più difficile distinguere tra le spettacolarizzazioni mistificatorie e la realtà.
Noi pensiamo che l’Italia vera non sia questa. Vorremmo che anche le competenze e il senso di responsabilità che nel nostro Paese non mancano, venissero sempre mostrate e valorizzate. Ovviamente affidandole a quei mezzi di comunicazione capaci di cogliere, consapevolmente e ogni giorno, il significato civile e la responsabilità sociale del loro ruolo.
CRONACHE
19/01/2014 - L’ACCUSA
“Sul caso Stamina l’informazione-spettacolo è stata irresponsabile”
La senatrice Cattaneo e altri due scienziati contro “Le Iene”
“Trasfigurati i fatti provati che condannavano il metodo”
ELENA CATTANEO. GILBERTO CORBELLINI., MICHELE DE LUCA
Caro Direttore,
la libertà di stampa è un valore non negoziabile. Proprio per questo, cioè per proteggerla, chi ne abusa causando danni a persone, in un Paese che costituzionalmente rifiuta ogni ipotesi di autorizzazione o censura, di regola andrebbe responsabilizzato dalla legge. Anche l’indicatore della libertà di stampa ci vede in fondo alla graduatoria internazionale dei paesi civili.
Un esempio eclatante di irresponsabilità nella pratica della libertà d’informazione, da cui sono venuti danni irreparabili a persone e alla sanità pubblica, è l’uso che della vicenda Stamina ha fatto nei mesi scorsi il programma televisivo «Le Iene». Interpretando al peggio la filosofia situazionista, che mescola finzione e realtà, sono state asserite circostanze insussistenti per manipolare e spettacolarizzare le sofferenze di malati e parenti. Viceversa, i fatti provati che condannavano Stamina sono stati trasfigurati. Sono stati letteralmente ribaltati e proposti come una «dimostrazione» della «falsa propaganda del potere costituito» o di non meglio precisati «interessi di potenti multinazionali». In quanto tali, gli eroici giornalisti di «Le Iene» li contrastavano. E per farlo hanno condito il tutto con «impressioni» o «sensazioni» mosse dalle più viscerali e irrazionali emozioni.
Si dovevano usare per far questo bambini malati? Si usavano. Tra le testimonianze pubblicate in questi giorni, che danno conto dell’incredibile calvario offerto da Stamina a famiglie disperate in cambio di numerose decine di migliaia di euro, non è insolito leggere espressioni come «Avevamo visto questo programma “Le Iene”…».
Sulla vicenda Stamina il Senato ha ora dato avvio ad un’indagine conoscitiva, per comprendere anche il ruolo di alcuni mezzi di informazione nella sua origine ed evoluzione. Nel frattempo, ora che sta franando il palcoscenico su cui si è recitata la tragicommedia dell’«inganno Stamina», giocata intorno all’illusione di uno pseudo-trattamento dai poteri taumaturgici, il direttore del programma «Le Iene» (Davide Parenti), cerca di smarcarsi e ripete un ritornello già ascoltato: «Abbiamo solo raccontato». Aggiungendo che la trasmissione ha «reso testimonianza», che «basta guardare le cartelle cliniche» (quali?), «abbiamo avuto curiosità per un tipo di cure, ripeto compassionevoli, che mandavano segnali», etc. E, per eludere ogni responsabilità professionale, butta lì che loro sono «un varietà, ma un varietà anomalo».
A nostro avviso, «Le Iene» hanno gravi colpe nell’avere concorso a costruire, insieme a Vannoni, l’«inganno Stamina». Con una responsabilità morale forse equivalente a quella dello «stregone di Moncalieri» e con un impatto comunicativo sicuramente superiore a quello che «uno o più stregoni» avrebbero mai potuto avere.
Ma facciamo un passo indietro, un po’ di storia per capire meglio e non lasciare dubbi, a nessuno. Già in passato, Parenti e la sua trasmissione avevano «giocato» ad alimentare false speranze presentando fenomenali «cure» a base di staminali proposte in paesi non proprio al centro della scienza e della medicina come: Thailandia o Cina. Coerentemente, nella vicenda Stamina, «Le Iene» non hanno esitato a schierarsi con Vannoni, facendo da cassa armonica alle menzogne e alle falsità. È stato dopo un loro servizio che Adriano Celentano ha scritto la lettera pubblicata dal Corriere della Sera in cui si chiedeva al ministro Balduzzi di consentire ad una bambina di continuare a ricevere il «trattamento Stamina». Da quel momento è stata un’escalation.
«Le Iene» hanno cominciato a montare e trasmettere riprese di bambini gravemente malati, facendo percepire al pubblico che il trattamento Stamina producesse effettivi e «visibili» miglioramenti. A questa tesi, perseguita con instancabile accanimento, hanno a più riprese mortificato e umiliato, oltre che la verità e il legittimo bisogno di chiarezza delle famiglie, anche la reputazione di non poche brave persone, esperti e scienziati «macchiatisi del peccato» di denunciare subito, senza mezzi termini, l’odore di bruciato. «Le Iene» hanno teso una trappola al professor Paolo Bianco, esperto italiano tra i più qualificati al mondo su staminali mesenchimali, provocandolo e montando un servizio per metterlo in cattiva luce. Con sapienti «taglia e cuci» hanno prodotto immagini distorte del serio lavoro svolto dai professionisti della Commissione incaricata dal ministro facendo ricorso a piene mani alla loro (solita) scenografica e stucchevole pseudo-ironia riservata (solitamente) ai peggiori e loschi figuri intervistati in loro passate trasmissioni.
E ancora, hanno ingannato lo staff di Telethon, mostrando Vannoni, «che per caso passava di lì», dialogare con un addetto Telethon (non un incaricato competente di aspetti medici e scientifici), allo scopo di suffragare l’idea che Vannoni fosse «interlocutore abituale e accreditato» degli scienziati del campo e «frequentatore attendibile» dello storico e internazionalmente riconosciuto ente no-profit di ricerca. Eccetera. L’elenco delle «furbate» sarebbe lungo come tutti i servizi mandati in onda. Tutto sempre allo scopo di «raccontare» quel che loro stessi andavano sceneggiando, con l’intento da un lato di spettacolarizzare le sofferenze dei malati, e dall’altro di alimentare un’idea falsata della controversia, dove Vannoni doveva apparire il benefattore contro cui si erano scatenati i poteri forti e cattivi, incarnati dagli scienziati, ovviamente sempre al soldo delle case farmaceutiche (sia chiaro, le stesse che producono i farmaci che spesso salvano la vita a noi e ai nostri figli).
Di una serie di altri aspetti invece «Le Iene» si sono completamente disinteressate:
1) dell’indagare e raccontare che fosse Vannoni a intrattenere accordi commerciali con un’impresa farmaceutica multinazionale (Medestea – che le cronache dicono sia stata censurata dall’antitrust decine di volte per pubblicità ingannevole – tanto per restare in tema di corretta informazione);
2) del perché il proprietario di quella stessa multinazionale comparisse «improvvisamente» dietro le telecamere di «Le Iene» durante l’aggressione a Bianco (giusto quei secondi per permettergli di esprimere squallidi epiteti sottotitolati dal programma senza dire chi realmente fosse e quali fossero i suoi interessi ad esprimersi così);
3) del dettagliare l’insussistenza del «metodo» come riportato nelle valutazioni dell’ufficio brevetti americano (diventate pubbliche solo perché Vannoni & Co. non riuscirono nell’intento di «nasconderle»);
4) dello spiegare cosa significhi uno pseudo-metodo plagiato e falsato da artefatti sperimentali russi (come riportato da Nature);
5) che il trattamento Stamina non avesse nemmeno i requisiti di legge per essere «compassionevole» (termine usato spesso e a sproposito nei loro servizi);
6) che non vi fosse mai stata un’autorizzazione formale dell’Agenzia Italiana del Farmaco ad effettuare il trattamento presso gli Spedali Civili di Brescia (fatto mai smentito da Brescia), e che anzi, nel 2012, l’Agenzia avesse riscontrato illegalità su ogni fronte;
7) del raccogliere e raccontare i motivi che hanno spinto gli specialisti scienziati e clinici del mondo, oltre a premi Nobel, ad evidenziare che «non c’è nessun metodo» e nessuna «cartella clinica» in cui fosse scritto che i pazienti erano migliorati;
8) che in agosto Vannoni stesso avesse detto che la sperimentazione clinica del suo «metodo» era inutile e che per la variabilità della Sma – fino a quel momento malattia bandiera di Stamina e di «Le Iene» – tale malattia era da escludere dalla sperimentazione governativa in quanto sarebbe stato impossibile osservare benefici.
Di tutto ciò, appunto, Parenti e il suo programma si sono disinteressati anche se si trattava di elementi che qualsiasi giornalista aveva a facile disposizione, di fatto coprendo queste evidenze fondamentali.
Senza trascurare che dal sito del programma, che riporta il logo di Stamina, si dava accesso facilmente a informazioni utili a chi intendesse «rivolgersi a qualche giudice» (non a qualche medico!) per ottenere la prescrizione del trattamento Stamina.
Ora, il contratto di convivenza sociale prevede che i danni fatti si paghino. In un paese civile, Parenti e chi per lui, sarebbero anch’essi chiamati a rispondere davanti a un giudice e, probabilmente, nessuna testata che si riconosca nei più elementari principi della deontologia giornalistica darebbe più una riga da scrivere, un secondo di trasmissione, a chi si è comportato come abbiamo visto fare. Perché alla base della deontologia vi è il dovere di ricercare l’oggettività nella ricostruzione dei fatti. Se poi si sale a livello europeo, le raccomandazioni etiche dicono che i giornalisti devono chiaramente e manifestamente «tenere distinti i fatti dalle opinioni». Nel caso Stamina i fatti venivano costruiti, nutriti dalla materia di opinioni insensate o manipolatorie. Questo evidenzia, a nostro parere, una chiara responsabilità diretta di chi ha agito così.
Fino a quando in Italia si potrà continuare a giocare sul fatto che in un «varietà anomalo» si possa fare anche pseudo-informazione senza avvisare lo spettatore che si tratta di puro spettacolo? Questa è diventata l’immagine dell’Italia all’estero: quella di un Paese dove negli ultimi decenni – a livello della comunicazione non solo mediatica, ma anche politica – è sempre più difficile distinguere tra le spettacolarizzazioni mistificatorie e la realtà.
Noi pensiamo che l’Italia vera non sia questa. Vorremmo che anche le competenze e il senso di responsabilità che nel nostro Paese non mancano, venissero sempre mostrate e valorizzate. Ovviamente affidandole a quei mezzi di comunicazione capaci di cogliere, consapevolmente e ogni giorno, il significato civile e la responsabilità sociale del loro ruolo.
Re: Circolano in rete...
M. Gramellini
L’uovo di Mastrapasqua
28/01/2014
Ma è mai possibile, si lamentano da alcuni giorni i miei cari, che il dottor Mastrapasqua riesca a fare il presidente dell’Inps, il vicepresidente esecutivo di Equitalia, Equitalia nord, Equitalia centro ed Equitalia sud, il direttore dell’ospedale israelitico e della casa di riposo ebraica, il dirigente di Italia Previdente, Eur spa, Eur Tel, Eur congressi Roma, Coni servizi spa, Autostrade per l’Italia, Fandango, Telecom Italia Media, il consigliere d’amministrazione di Quadrifoglio, Telenergia, Loquendo, Aquadrome, il presidente onorario di Mediterranean Nautilus Italy, Adr Engineering, Consel, Groma, Emsa Servizi, Telecontact Center, dell’immobiliare Idea Fimit Sgr e di chissà cos’altro ancora - insomma, che in un’epoca di disoccupazione diffusa il dottor Mastrapasqua sia in grado di gestire da solo venticinque incarichi, venticinque uffici, venticinque ficus da bagnare almeno venticinque volte l’anno, venticinque posti macchina e forse venticinque macchine, ma di sicuro venticinque chiavi d’ingresso e quindi un portachiavi immenso, un bigliettone da visita a venticinque strati e decine di riunioni, cene di rappresentanza, ricevute gonfiabili, conflitti di interesse, incontri e telefonate per litigare, mettersi d’accordo e combinare affari con le altre ventiquattro parti di se stesso - mentre tu ogni volta che in casa c’è qualche lavoretto da fare dici sempre che non hai tempo e che sei stanco morto?
L’uovo di Mastrapasqua
28/01/2014
Ma è mai possibile, si lamentano da alcuni giorni i miei cari, che il dottor Mastrapasqua riesca a fare il presidente dell’Inps, il vicepresidente esecutivo di Equitalia, Equitalia nord, Equitalia centro ed Equitalia sud, il direttore dell’ospedale israelitico e della casa di riposo ebraica, il dirigente di Italia Previdente, Eur spa, Eur Tel, Eur congressi Roma, Coni servizi spa, Autostrade per l’Italia, Fandango, Telecom Italia Media, il consigliere d’amministrazione di Quadrifoglio, Telenergia, Loquendo, Aquadrome, il presidente onorario di Mediterranean Nautilus Italy, Adr Engineering, Consel, Groma, Emsa Servizi, Telecontact Center, dell’immobiliare Idea Fimit Sgr e di chissà cos’altro ancora - insomma, che in un’epoca di disoccupazione diffusa il dottor Mastrapasqua sia in grado di gestire da solo venticinque incarichi, venticinque uffici, venticinque ficus da bagnare almeno venticinque volte l’anno, venticinque posti macchina e forse venticinque macchine, ma di sicuro venticinque chiavi d’ingresso e quindi un portachiavi immenso, un bigliettone da visita a venticinque strati e decine di riunioni, cene di rappresentanza, ricevute gonfiabili, conflitti di interesse, incontri e telefonate per litigare, mettersi d’accordo e combinare affari con le altre ventiquattro parti di se stesso - mentre tu ogni volta che in casa c’è qualche lavoretto da fare dici sempre che non hai tempo e che sei stanco morto?
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Re: Circolano in rete...
CLAMOROSO!, Laura Boldrini invia pattuglie di Polizia presso abitazioni private per far cancellare pagine web non gradite
POLIZIA A CASA (SENZA MANDATO), FAMIGLIA TERRORIZZATA, UN GRUPPO DI DIVISE IMPEGNATE NELLA CANCELLAZIONE DELLA BURLA DAL WEB
La notizia riportata da Dagospia (Di Gian Marco Chiocci del Giornale e Massimo Malpica): 7 poliziotti che monitorano la rete per conto della Presidente della Camera
Scrive Dagospia:
“Non ha voluto la scorta in strada, per andare contro gli abusi della vecchia politica. L’ha pretesa invece sulla rete, per controllare internet e far incriminare chiunque si diverta a ironizzare su di lei.
Escono inediti e inquietanti particolari sullo smodato uso del potere, da casta vecchio stile, della presidente della Camera, Laura Boldrini, che per arginare la foto-burla che su Facebook ritraeva una finta Boldrini nuda, ha scatenato l’inferno e preteso la presenza di ben 7 poliziotti alla Camera così da monitorare il web e perseguire chiunque osi scherzare sulla terza carica dello Stato.
I sette poliziotti ad personam sono stati distolti da importanti attività contro il crimine informatico tant’è che le altre indagini della squadra social network del compartimento Polizia postale e telecomunicazioni del Lazio sono praticamente bloccate.
Formalmente solo la responsabile risulta aggregata a Montecitorio con un ordine di servizio. Gli altri 4 agenti della «squadra», e altri 2 poliziotti in forza alla PolPost del complesso Tuscolano, ufficialmente non risultano distaccati né aggregati in Parlamento: sono «fantasmi», a servizio della presidentessa, con problemi di straordinari, buoni pasto e vestiario (si sono dovuti pagare giacca, cravatta e tailleur per lavorare in presidenza) come denunciato dal sindacato Coisp.
Ma c’è di più. Incrociando più fonti, e consultando carte, il Giornale ha ricostruito l’iter di quest’incredibile vicenda che ha portato al siluramento di Gaudenzio Truzzi, dirigente dell’ispettorato di polizia della Camera. Domenica 14 quest’ultimo riceve la denuncia «dalla persona offesa» (cioè la Boldrini, ma secondo il suo entourage non vi era stato intervento diretto). Truzzi informa la segreteria del capo della polizia e il vertice della «Postale» (Andrea Rossi). Vengono allertate Digos e Mobile a Latina che fanno visita a un giornalista di Fondi che aveva postato il fake su Fb.
Respinti i poliziotti per mancanza del mandato di sequestro, la postale si rivolge alla procura di Roma. Salta fuori un pm disponibile, ma non è in ufficio bensì in un ristorante romano vicino piazza Navona. Tra uno stuzzichino e un drink, firma un decreto «d’urgenza» di sequestro preventivo.
E parte il repulisti sul web, tra perquisizioni e sbianchettamenti. Spariscono molte foto della falsa Boldrini, ma anche articoli che denunciavano la bufala.
Nel decreto si dispone «il sequestro preventivo mediante oscuramento delle pagine web (…) nonché delle diverse e ulteriori pagine web che verranno individuate sulla rete con loghi, marchi, contenuti, riconducibili alla persona offesa». È la parolina «contenuti» a inquietare. Non si può nemmeno parlare di questa storia? Siamo alla censura? Anziché chiedere ancora più poliziotti, come la Boldrini sembra voler fare per rendere operativa anche di notte la sua squadretta web-buoncostume, la presidente farebbe bene a fermarsi. E a riflettere.”
http://www.laretenonperdona.it/2013/04/ ... n-gradite/
.............................
Per fortuna che è vicina a SEL:
Ciao
Paolo11
POLIZIA A CASA (SENZA MANDATO), FAMIGLIA TERRORIZZATA, UN GRUPPO DI DIVISE IMPEGNATE NELLA CANCELLAZIONE DELLA BURLA DAL WEB
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Escono inediti e inquietanti particolari sullo smodato uso del potere, da casta vecchio stile, della presidente della Camera, Laura Boldrini, che per arginare la foto-burla che su Facebook ritraeva una finta Boldrini nuda, ha scatenato l’inferno e preteso la presenza di ben 7 poliziotti alla Camera così da monitorare il web e perseguire chiunque osi scherzare sulla terza carica dello Stato.
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Formalmente solo la responsabile risulta aggregata a Montecitorio con un ordine di servizio. Gli altri 4 agenti della «squadra», e altri 2 poliziotti in forza alla PolPost del complesso Tuscolano, ufficialmente non risultano distaccati né aggregati in Parlamento: sono «fantasmi», a servizio della presidentessa, con problemi di straordinari, buoni pasto e vestiario (si sono dovuti pagare giacca, cravatta e tailleur per lavorare in presidenza) come denunciato dal sindacato Coisp.
Ma c’è di più. Incrociando più fonti, e consultando carte, il Giornale ha ricostruito l’iter di quest’incredibile vicenda che ha portato al siluramento di Gaudenzio Truzzi, dirigente dell’ispettorato di polizia della Camera. Domenica 14 quest’ultimo riceve la denuncia «dalla persona offesa» (cioè la Boldrini, ma secondo il suo entourage non vi era stato intervento diretto). Truzzi informa la segreteria del capo della polizia e il vertice della «Postale» (Andrea Rossi). Vengono allertate Digos e Mobile a Latina che fanno visita a un giornalista di Fondi che aveva postato il fake su Fb.
Respinti i poliziotti per mancanza del mandato di sequestro, la postale si rivolge alla procura di Roma. Salta fuori un pm disponibile, ma non è in ufficio bensì in un ristorante romano vicino piazza Navona. Tra uno stuzzichino e un drink, firma un decreto «d’urgenza» di sequestro preventivo.
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Nel decreto si dispone «il sequestro preventivo mediante oscuramento delle pagine web (…) nonché delle diverse e ulteriori pagine web che verranno individuate sulla rete con loghi, marchi, contenuti, riconducibili alla persona offesa». È la parolina «contenuti» a inquietare. Non si può nemmeno parlare di questa storia? Siamo alla censura? Anziché chiedere ancora più poliziotti, come la Boldrini sembra voler fare per rendere operativa anche di notte la sua squadretta web-buoncostume, la presidente farebbe bene a fermarsi. E a riflettere.”
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Ma c’è di più. Incrociando più fonti, e consultando carte, il Giornale ha ricostruito l’iter di quest’incredibile vicenda che ha portato al siluramento di Gaudenzio Truzzi, dirigente dell’ispettorato di polizia della Camera. Domenica 14 quest’ultimo riceve la denuncia «dalla persona offesa» (cioè la Boldrini, ma secondo il suo entourage non vi era stato intervento diretto). Truzzi informa la segreteria del capo della polizia e il vertice della «Postale» (Andrea Rossi). Vengono allertate Digos e Mobile a Latina che fanno visita a un giornalista di Fondi che aveva postato il fake su Fb.
Respinti i poliziotti per mancanza del mandato di sequestro, la postale si rivolge alla procura di Roma. Salta fuori un pm disponibile, ma non è in ufficio bensì in un ristorante romano vicino piazza Navona. Tra uno stuzzichino e un drink, firma un decreto «d’urgenza» di sequestro preventivo.
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