ITALIA-EMERGENZA LAVORO
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Re: ITALIA-EMERGENZA LAVORO
A DICEMBRE
Agnesi chiude i battenti, Colussi chiude il pastificio di Imperia
I costi per mantenere la produzione non sono più sostenibili
di Redazione Online
«Silenzio, parla Agnesi». È lo spot che ha reso celebre il pastificio imperiese nato nel 1824. Ma ora il silenzio scende su questo marchio che ha fatto parte della storia alimentare degli italiani. Dopo un periodo di difficoltà, il gruppo Colussi ha annunciato la cessazione della produzione di pasta Agnesi e la chiusura dello stabilimento di Imperia entro il dicembre del 2014. Il marchio Agnesi potrebbe rimanere in vita, producendo altri alimenti, ma necessiterebbe di un nuovo stabilimento. La notizia della chiusura, che i vertici del Gruppo Colussi avevano annunciato ai sindacati lunedì scorso, è stata ufficializzata mercoledì nel corso di una riunione sindacale che si è svolta presso la Compagnia Portuale di Imperia.Mentre è stato smentito che Colussi abbia avviato trattative con Pasta Rummo: è lo stesso pastificio a negarlo.
150 dipendenti a rischio
Proclamate due ore di sciopero, il giorno non è stato ancora deciso. Verso la chiusura anche lo stabilimento di Fossano (Cuneo). Complessivamente rischiano il posto di lavoro 150 dipendenti. «Purtroppo è avvenuto, quanto temevamo - ha sottolineato Gianni Trebini della Flai-Cgil -. Lunedì scorso abbiamo avuto la comunicazione ufficiale da parte dell’azienda che lo stabilimento sarà chiuso entro dicembre. L’ipotesi di mantenere il marchio non producendo più pasta e ricollocando un parte di lavoratori è una ipotesi poco credibile». I primi segnali concreti della crisi si erano manifestati nei mesi scorsi con la chiusura del mulino: per i dipendenti era stata offerta una buona uscita di 6000 euro. Ma, nonostante la chiusura del mulino, il piano industriale presentato da Colussi prevedeva il passeggio da 52 a 54 mila tonnellate annue di pasta per il 2014. Dopo la chiusura del mulino era arrivata la cassa integrazione per gli addetti al confezionamento. L’azienda è poi uscita allo scoperto dicendo chiaramente che gli stabilimenti di Imperia e Fossano potrebbero produrre non più di 90 mila tonnellate di pasta all’anno, ma i costi per mantenere questa produzione non sono sostenibili. I sindacati hanno sottolineato, invece, che i due stabilimenti producono già 110 mila tonnellate. Ma Colussi ha deciso che la pasta Agnesi non ha più futuro. Il sindaco di Imperia Carlo Capacci (Pd) non si arrende: «Lancio un appello a tutti gli imprenditori imperiesi a creare una cordata, per una partnership con il gruppo Colussi, affinché il marchio Agnesi possa restare a Imperia». Silenzio, Agnesi non parlerà più agli italiani.
3 maggio 2014 | 11:14
© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/cronache/14_magg ... 38b8.shtml
Agnesi chiude i battenti, Colussi chiude il pastificio di Imperia
I costi per mantenere la produzione non sono più sostenibili
di Redazione Online
«Silenzio, parla Agnesi». È lo spot che ha reso celebre il pastificio imperiese nato nel 1824. Ma ora il silenzio scende su questo marchio che ha fatto parte della storia alimentare degli italiani. Dopo un periodo di difficoltà, il gruppo Colussi ha annunciato la cessazione della produzione di pasta Agnesi e la chiusura dello stabilimento di Imperia entro il dicembre del 2014. Il marchio Agnesi potrebbe rimanere in vita, producendo altri alimenti, ma necessiterebbe di un nuovo stabilimento. La notizia della chiusura, che i vertici del Gruppo Colussi avevano annunciato ai sindacati lunedì scorso, è stata ufficializzata mercoledì nel corso di una riunione sindacale che si è svolta presso la Compagnia Portuale di Imperia.Mentre è stato smentito che Colussi abbia avviato trattative con Pasta Rummo: è lo stesso pastificio a negarlo.
150 dipendenti a rischio
Proclamate due ore di sciopero, il giorno non è stato ancora deciso. Verso la chiusura anche lo stabilimento di Fossano (Cuneo). Complessivamente rischiano il posto di lavoro 150 dipendenti. «Purtroppo è avvenuto, quanto temevamo - ha sottolineato Gianni Trebini della Flai-Cgil -. Lunedì scorso abbiamo avuto la comunicazione ufficiale da parte dell’azienda che lo stabilimento sarà chiuso entro dicembre. L’ipotesi di mantenere il marchio non producendo più pasta e ricollocando un parte di lavoratori è una ipotesi poco credibile». I primi segnali concreti della crisi si erano manifestati nei mesi scorsi con la chiusura del mulino: per i dipendenti era stata offerta una buona uscita di 6000 euro. Ma, nonostante la chiusura del mulino, il piano industriale presentato da Colussi prevedeva il passeggio da 52 a 54 mila tonnellate annue di pasta per il 2014. Dopo la chiusura del mulino era arrivata la cassa integrazione per gli addetti al confezionamento. L’azienda è poi uscita allo scoperto dicendo chiaramente che gli stabilimenti di Imperia e Fossano potrebbero produrre non più di 90 mila tonnellate di pasta all’anno, ma i costi per mantenere questa produzione non sono sostenibili. I sindacati hanno sottolineato, invece, che i due stabilimenti producono già 110 mila tonnellate. Ma Colussi ha deciso che la pasta Agnesi non ha più futuro. Il sindaco di Imperia Carlo Capacci (Pd) non si arrende: «Lancio un appello a tutti gli imprenditori imperiesi a creare una cordata, per una partnership con il gruppo Colussi, affinché il marchio Agnesi possa restare a Imperia». Silenzio, Agnesi non parlerà più agli italiani.
3 maggio 2014 | 11:14
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Re: ITALIA-EMERGENZA LAVORO
Precari, Poletti: “Via i diritti acquisiti se i privilegi sono ingiusti”
Intervenendo a margine di un convegno sul Job Act, il titolare del Lavoro ha chiesto di ristabilire il giusto equilibrio tra generazioni, togliendo benefici a chi ne approfitta da tempo senza merito
di Redazione Il Fatto Quotidiano
Precari, Poletti: “Via i diritti acquisiti se i privilegi sono ingiusti”
Più informazioni su: Giuliano Poletti, Lavoro, Precari.
“Se il diritto acquisito è un privilegio ingiustificato non si deve tenere” per questo “bisogna avere il coraggio di dire che ci sono delle cose che non ci stanno, perché ingiuste”. Con queste parole il ministro del Lavoro Giuliano Poletti si è scagliato contro i diritti ottenuti da molti grazie a vecchi privilegi. Ospite di un convegno sul job act, il titolare del Lavoro ha dichiarato: “È iniquo che mio figlio non abbia delle garanzie, dobbiamo costruire un punto di giustizia nel rapporto tra le generazioni”. D’altronde, secondo Poletti, “ci sono delle cose che erano giuste nel ’62 ma non lo sono più nel 2014″. Si tratta di una questione di iniquità generazionale: “Di gente che ha conquistato cose nel ’64-’65 ne abbiamo in quantità industriale”, ha aggiunto, “ma dobbiamo misurarci con tutti i ragazzi che non hanno ancora iniziato a lavorare”.
Poletti ha poi commentato positivamente l’iniziativa del governo Garanzia Giovani, un piano europeo per la lotta alla disoccupazione, che in una settimana ha già raccolto quasi 30.000 adesioni. Secondo quanto riportato dall’agenzia Public Policy il titolare del Lavoro ha parlato di “abbassare il livello del costo in entrata del lavoro a tempo indeterminato”, intervenendo su “fisco, contribuzione pubblica e previdenziale”. Poi, ha concluso il suo intervento con un auspicio per il futuro: “Un ragazzo di vent’anni deve avere le condizioni minimali per poter lavorare”.
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E' ....................MALATO !!!!!
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il PRIVILEGIO sono i licenziamenti per aziende con meno di 15 dipendenti,
il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo per aziende con piu di 15 dipendenti, cassa integrazione ordinaria , cassa integrazione straordinaria , licenziamenti collettivi con lista mobilità , esodati senza stipendio e senza pensione
Poletti il comunista è un CAPORALE di false cooperative !!!
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se il CAPORALE parla di Pubblica Amministrazione ( ma non lo dice !!! ) il problema non è il licenziamento, ma l' EFFICIENZA BUROCRATICA che è un mondo che il caporale traditore di enrico berlinguer non conosce !!
Intervenendo a margine di un convegno sul Job Act, il titolare del Lavoro ha chiesto di ristabilire il giusto equilibrio tra generazioni, togliendo benefici a chi ne approfitta da tempo senza merito
di Redazione Il Fatto Quotidiano
Precari, Poletti: “Via i diritti acquisiti se i privilegi sono ingiusti”
Più informazioni su: Giuliano Poletti, Lavoro, Precari.
“Se il diritto acquisito è un privilegio ingiustificato non si deve tenere” per questo “bisogna avere il coraggio di dire che ci sono delle cose che non ci stanno, perché ingiuste”. Con queste parole il ministro del Lavoro Giuliano Poletti si è scagliato contro i diritti ottenuti da molti grazie a vecchi privilegi. Ospite di un convegno sul job act, il titolare del Lavoro ha dichiarato: “È iniquo che mio figlio non abbia delle garanzie, dobbiamo costruire un punto di giustizia nel rapporto tra le generazioni”. D’altronde, secondo Poletti, “ci sono delle cose che erano giuste nel ’62 ma non lo sono più nel 2014″. Si tratta di una questione di iniquità generazionale: “Di gente che ha conquistato cose nel ’64-’65 ne abbiamo in quantità industriale”, ha aggiunto, “ma dobbiamo misurarci con tutti i ragazzi che non hanno ancora iniziato a lavorare”.
Poletti ha poi commentato positivamente l’iniziativa del governo Garanzia Giovani, un piano europeo per la lotta alla disoccupazione, che in una settimana ha già raccolto quasi 30.000 adesioni. Secondo quanto riportato dall’agenzia Public Policy il titolare del Lavoro ha parlato di “abbassare il livello del costo in entrata del lavoro a tempo indeterminato”, intervenendo su “fisco, contribuzione pubblica e previdenziale”. Poi, ha concluso il suo intervento con un auspicio per il futuro: “Un ragazzo di vent’anni deve avere le condizioni minimali per poter lavorare”.
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E' ....................MALATO !!!!!
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il PRIVILEGIO sono i licenziamenti per aziende con meno di 15 dipendenti,
il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo per aziende con piu di 15 dipendenti, cassa integrazione ordinaria , cassa integrazione straordinaria , licenziamenti collettivi con lista mobilità , esodati senza stipendio e senza pensione
Poletti il comunista è un CAPORALE di false cooperative !!!
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se il CAPORALE parla di Pubblica Amministrazione ( ma non lo dice !!! ) il problema non è il licenziamento, ma l' EFFICIENZA BUROCRATICA che è un mondo che il caporale traditore di enrico berlinguer non conosce !!
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Re: ITALIA-EMERGENZA LAVORO
l’Unità 15.5.14
Lo sciopero mondiale dei lavoratori fast-food
Dall’America parte la protesta dei dipendenti delle grandi catene
che chiedono paghe giuste e migliori condizioni
La difficile lotta in Italia
di Massimo Franchi
Se non il primo sciopero globale - ‘che scioperare in buona parte del mondo è troppo rischioso -comunque la prima mobilitazione planetaria. Parte oggi dall’America dei fast food, dei McJob - diventato in slang americano il simbolo del lavoro mal pagato, poco prestigioso e a termine - e si aggira per 33 Paesi di tutti i continenti. Dalla California fino alla Nuova Zelanda tutti i fusi orari saranno attraversati dalla protesta - che si chiuderà domani in Italia - dei lavoratori delle grandi catene delle ristorazione a buon mercato. Un «buon mercato» figlio però delle paghe da fame e dalle condizioni di lavoro spesso da galera a cui sono sottoposti i lavoratori, sempre meno giovani che sfornano patatine, hamburger e panini. Il loro boom è figlio della crisi. E la crisi ora porta chi la subisce in prima persona a chiedere paga e condizioni di lavoro «decenti».
«CONDIZIONI DI LAVORO DECENTI»
Dove non arrivano i sindacati confederali in Europa - nonostante i sei anni di crisi, lo sciopero continentale è ancora un’utopia - sono arrivati i debolissimi sindacati dei fast food. L’azione globale e l’hashtag #FastFoodGlobal sono stati lanciati durante il primo meeting internazionale la scorsa settimana a New York dallo Iuf, - International Union of Food ( che rappresenta anche i lavoratori degli hotel e dell’agricoltura) - al quale hanno partecipato i rappresentanti sindacali dei lavoratori dei fast food di tutto il mondo. Sono gli Stati Uniti ad aver lanciato l’idea sotto lo slogan «Fight for fifteen» - lotta per i 15 dollari l’ora rispetto agli attuali 7,5 con cui si devono pagare anche la sanità - che porterà a picchetti di protesta in 150 città sotto la bandiera a stelle e strisce. Una stima su quanti lavoratori saranno coinvolti è assai complicata. Il lavoro è ormai così frammentato che se in Italia ci lamentiamo del sindacato che non raggiunge i precari, nel resto del mondo la parola «sindacato» è spesso sconosciuta.
«In Italia i lavoratori coinvolti sono circa 500mila», spiega Christian Sesena che per la Filcams Cgi ha partecipato all’incontro di New York. Il suo racconto di quella due giorni dà l’idea di come sia complicato il mondo del lavoro e il mestiere del sindacalista nel 2014. «Ogni Paese ha la sua specificità. Ho assistito alle denunce delle lavoratrici thailandesi licenziate perché protestavano, ai racconti di quelle inglesi che spiegavano i contratti a zero ore per cui sei assunto a tempo indeterminato ma lavori solo a chiamata, alla lavoratrice danese che prende 21 dollari l’ora e non vuole sentirsi in colpa se nel suo Paese il governo fa rispettare i contratti e le relazioni sindacali». E allora dal primo meeting internazionale è stata lanciata «una lettera simbolicamente consegnata a tutti gli amministratori delegati di McDonalds e delle altre catene» che chiede diritti globali minimi per tutti i lavoratori del globo, un salario decente - sull’indicare una paga minima globale siamo però ancora molto lontani - l’abolizione dei contratti a zero ore, condizioni e orari di lavoro non da sfruttamento. «I punti in comune in tutte le esperienze raccontate riguardano il fatto che ormai nei fast food non lavorano più solo i giovani, non è più in lavoro di transizione e che, a parte l’eccezione scandinava, le relazioni sindacali sono praticamente nulle», spiega Sesena.
Le peculiarità italiche riguardano il caso McDonalds. In Italia il brand in realtà copre l’80 per cento di franchising per i suoi quasi 500 ristoranti con 17mila lavoratori in gran parte con un part time involontarioda20orea620euroalmese- per 6,8 euro netti l’ora. «Ma poi in Italia ci sono tantissime catene di autogrill in cui i problemi sono gli stessi». Ora acuiti dalla disdetta da parte della Fipe (federazione pubblici esercizi facente parte di Confcommercio) del contratto nazionale. Per questo lo sciopero di domani - «lo avevamo già proclamato per quel giorno e comunque sarà in contemporanea con la Nuova Zelanda» - vedrà la protesta comune dei lavoratori dei fast food con quella degli alberghi e dei tour operator di Confindustria, delle agenzie di viaggio di Fiavet, e quelli di Confesercenti tutti in attesa da più di un anno del rinnovo.
Pensare localmente per agire globalmente «perché di noi non parla nessuno». L’esempio dei lavoratori dei fast food si spera sia d’esempio per tutti.
Lo sciopero mondiale dei lavoratori fast-food
Dall’America parte la protesta dei dipendenti delle grandi catene
che chiedono paghe giuste e migliori condizioni
La difficile lotta in Italia
di Massimo Franchi
Se non il primo sciopero globale - ‘che scioperare in buona parte del mondo è troppo rischioso -comunque la prima mobilitazione planetaria. Parte oggi dall’America dei fast food, dei McJob - diventato in slang americano il simbolo del lavoro mal pagato, poco prestigioso e a termine - e si aggira per 33 Paesi di tutti i continenti. Dalla California fino alla Nuova Zelanda tutti i fusi orari saranno attraversati dalla protesta - che si chiuderà domani in Italia - dei lavoratori delle grandi catene delle ristorazione a buon mercato. Un «buon mercato» figlio però delle paghe da fame e dalle condizioni di lavoro spesso da galera a cui sono sottoposti i lavoratori, sempre meno giovani che sfornano patatine, hamburger e panini. Il loro boom è figlio della crisi. E la crisi ora porta chi la subisce in prima persona a chiedere paga e condizioni di lavoro «decenti».
«CONDIZIONI DI LAVORO DECENTI»
Dove non arrivano i sindacati confederali in Europa - nonostante i sei anni di crisi, lo sciopero continentale è ancora un’utopia - sono arrivati i debolissimi sindacati dei fast food. L’azione globale e l’hashtag #FastFoodGlobal sono stati lanciati durante il primo meeting internazionale la scorsa settimana a New York dallo Iuf, - International Union of Food ( che rappresenta anche i lavoratori degli hotel e dell’agricoltura) - al quale hanno partecipato i rappresentanti sindacali dei lavoratori dei fast food di tutto il mondo. Sono gli Stati Uniti ad aver lanciato l’idea sotto lo slogan «Fight for fifteen» - lotta per i 15 dollari l’ora rispetto agli attuali 7,5 con cui si devono pagare anche la sanità - che porterà a picchetti di protesta in 150 città sotto la bandiera a stelle e strisce. Una stima su quanti lavoratori saranno coinvolti è assai complicata. Il lavoro è ormai così frammentato che se in Italia ci lamentiamo del sindacato che non raggiunge i precari, nel resto del mondo la parola «sindacato» è spesso sconosciuta.
«In Italia i lavoratori coinvolti sono circa 500mila», spiega Christian Sesena che per la Filcams Cgi ha partecipato all’incontro di New York. Il suo racconto di quella due giorni dà l’idea di come sia complicato il mondo del lavoro e il mestiere del sindacalista nel 2014. «Ogni Paese ha la sua specificità. Ho assistito alle denunce delle lavoratrici thailandesi licenziate perché protestavano, ai racconti di quelle inglesi che spiegavano i contratti a zero ore per cui sei assunto a tempo indeterminato ma lavori solo a chiamata, alla lavoratrice danese che prende 21 dollari l’ora e non vuole sentirsi in colpa se nel suo Paese il governo fa rispettare i contratti e le relazioni sindacali». E allora dal primo meeting internazionale è stata lanciata «una lettera simbolicamente consegnata a tutti gli amministratori delegati di McDonalds e delle altre catene» che chiede diritti globali minimi per tutti i lavoratori del globo, un salario decente - sull’indicare una paga minima globale siamo però ancora molto lontani - l’abolizione dei contratti a zero ore, condizioni e orari di lavoro non da sfruttamento. «I punti in comune in tutte le esperienze raccontate riguardano il fatto che ormai nei fast food non lavorano più solo i giovani, non è più in lavoro di transizione e che, a parte l’eccezione scandinava, le relazioni sindacali sono praticamente nulle», spiega Sesena.
Le peculiarità italiche riguardano il caso McDonalds. In Italia il brand in realtà copre l’80 per cento di franchising per i suoi quasi 500 ristoranti con 17mila lavoratori in gran parte con un part time involontarioda20orea620euroalmese- per 6,8 euro netti l’ora. «Ma poi in Italia ci sono tantissime catene di autogrill in cui i problemi sono gli stessi». Ora acuiti dalla disdetta da parte della Fipe (federazione pubblici esercizi facente parte di Confcommercio) del contratto nazionale. Per questo lo sciopero di domani - «lo avevamo già proclamato per quel giorno e comunque sarà in contemporanea con la Nuova Zelanda» - vedrà la protesta comune dei lavoratori dei fast food con quella degli alberghi e dei tour operator di Confindustria, delle agenzie di viaggio di Fiavet, e quelli di Confesercenti tutti in attesa da più di un anno del rinnovo.
Pensare localmente per agire globalmente «perché di noi non parla nessuno». L’esempio dei lavoratori dei fast food si spera sia d’esempio per tutti.
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Re: ITALIA-EMERGENZA LAVORO
Coop rosse di vergogna tra inchieste e lotte sindacali. Ora nel mirino della Cgil
L'indagine sulle tangenti per l'Expo milanese fotografa un mondo allo sbando. Orfano della politica, ostaggio di padri-padroni inamovibili. Il coinvolgimento nell'inchiesta del gigante Manutencoop e del suo presidente Claudio Levorato non sorprende. La settimana scorsa un duro attacco era arrivato dal segretario generale Susanna Camusso: “Sappiamo bene che veniamo dalle stesse radici, ma proprio per questo ci indigniamo di più quando non si riesce a dare risposta al tema della falsa cooperazione"
di Giorgio Meletti | 19 maggio 2014
Altro che magistrati. L’attacco più duro alle coop cosiddette rosse è venuto dal capo della Cgil, Susanna Camusso. La settimana scorsa, chiudendo il congresso di Rimini, il segretario generale del primo sindacato italiano ha riservato alle cooperative parole al vetriolo: “Sappiamo bene che veniamo dalle stesse radici, ma proprio per questo ci indigniamo di più quando non si riesce a dare risposta al tema della falsa cooperazione, quando si usano appalti alla qualunque e non si firmano i contratti, quando si disdettano gli accordi come una qualunque catena straniera della grande distribuzione. Ci indigniamo non per la presenza di soci lavoratori, ma se sono tali solo per non applicare i contratti, che lo si faccia nella cooperazione industriale o in quella sociale, non va bene”.
I fendenti di Camusso sono in parte strumentali, giusto per castigare un po’ il ministro del Lavoro Giuliano Poletti che ha appena lasciato la presidenza di Legacoop per farsi interprete del verbo renziano sul mercato del lavoro. Ma non nuovi. Negli anni 90 il suo predecessore Sergio Cofferati già parlava di cooperative “che considerano il lavoro come occasione di profitto sulla pelle dei giovani”. Insomma, è da almeno vent’anni che le coop hanno scoperto il mercatismo e sciolto ogni legame con i valori laburisti e solidaristi. Rivendicano di essere aziende come le altre, e si comportano di conseguenza. Non solo calpestando quando serve i diritti dei loro dipendenti – che molto spesso non sono nemmeno soci, cosicché la cooperative che li assume più che di lavoratori si potrebbe definire di datori di lavoro. Ma anche infischiandosene del codice penale nella stessa misura delle normali imprese private, sebbene pretendano di vedersi ancora riconosciuta una superiorità morale.
Il coinvolgimento del gigante Manutencoop e del suo presidente Claudio Levorato nell’inchiesta sulle tangenti per l’Expo milanese non sorprende. La presunzione d’innocenza è fuori discussione, naturalmente, ma l’interessato deve invocarla anche per lo scandalo degli appalti della Asl di Brindisi, per il quale proprio la settimana scorsa sono state chiuse le indagini, e Levorato è uno dei 51 indagati. Il referente locale di Manutencoop, Mauro De Feudis è finito ai domiciliari e, secondo la procura di Brindisi, citata dalla Gazzetta del Mezzogiorno “candidamente afferma di aver richiesto l’intervento del legale rappresentante della Manutencoop Facility Management spa per risolvere la problematica relativa alla mancata assunzione di soggetti segnalati dal consigliere regionale De Leonardis che nel frattempo garantiva loro l’aggiudicazione illecita di appalti in tutto il territorio pugliese”.
Il gigante delle costruzioni Cmc di Ravenna, che oggi deve la sua fama all’appalto per il tunnel di servizio dell’alta velocità in Val di Susa, è all’onore delle cronache per il caso del “porto fantasma” di Molfetta, cantiere aperto – secondo l’ipotesi accusatoria della procura di Trani – per incassare i contributi pubblici poi stornati verso altri impieghi. Il costruttore Enrico Maltauro e il faccendiere Sergio Cattozzo, intercettati prima di essere arrestati dai magistrati milanesi per l’Expo, mostrano di conoscere bene la vicenda. Dice Maltauro: “Il casino di Molfetta, non è solo un fatto di corruzione, ma c’è un fatto di truffa ai danni dello Stato”. Specifica Cattozzo: “Per cui i soldi per fare il porto li hanno utilizzati per altre cose”. A fine 2013 la Cmc è stata coinvolta nell’inchiesta sulla bonifica dell’area Rho-Pero, che fa parte dell’operazione Expo, con l’accusa a un suo esponente di aver corrotto il direttore tecnico del cantiere perché non ostacolasse il sereno dispiegarsi del lavoro della cooperativa.
C’erano di mezzo questioni di rispetto dell’ambiente anche nell’inchiesta sul tunnel dell’alta velocità di Firenze, per la quale l’anno scorso fu arrestata la presidente di Italferr (gruppo Fs) Maria Rita Lorenzetti, ex presidente della regione Umbria. In quel caso i magistrati hanno ipotizzato un’associazione a delinquere il cui scopo principale era soccorrere una coop con i conti in difficoltà: “Pianificavano una serie di interventi a vasto raggio per influire e determinare le varie amministrazioni coinvolte, in maniera da superare ogni possibile ostacolo e intralcio agli obiettivi dell’associazione: ovverosia favorire al massimo in termini economici Nodavia e tramite essa Coopsette (di cui si teme la prossima insolvenza) a scapito dei costi dell’appalto e a danno delle casse dello Stato”.
In effetti la Coopsette e la Unieco, due giganti del mattone cooperativo emiliano, hanno attraversato l’inferno del concordato preventivo e adesso si preparano a fondersi nella nuova Unisette per salvarsi. Evidentemente il ricorso al doping della corruzione, abbastanza tipico per le imprese italiane, è un vizietto che non risparmia le coop, soprattutto adesso che gli affari non vanno per niente bene.
Storia antica anche qui. L’idea che esista un blocco compatto chiamato “coop rosse” e unito ai partiti della sinistra è superata nei fatti da un ventennio. Dopo la svolta della Bolognina è scomparso dalla scena il Pci che garantiva alle coop le loro quote di mercato al tavolo della spartizione degli appalti pubblici. I boiardi rossi hanno allora imparato ad arrangiarsi da soli, al grido di “ognuno per sé e tangenti per tutti”. Già il pool Mani pulite, indagando su Tangentopoli, scoprì con una certa sorpresa che era in corso una guerra feroce tra le coop emiliane e quelle lombarde per l’accesso al mercato della Lombardia, che le seconde impedivano alle prime. In uno scenario del genere la Legacoop si è trasformata da holding di fatto, quale era ai tempi del Pci a una pressoché inutile Confindustria delle coop. Poletti, per esempio, è stato tenuto rigorosamente all’oscuro dei traffici in corso tra le grandi coop del consumo per organizzare la scalata alla Fonsai da parte dell’Unipol di cui sono azioniste. E Poletti, come il suo successore Mauro Lusetti, si limitano a minimizzare come “casi isolati” gli scandali che coinvolgono grandi e piccole imprese cooperative.
Non sorprende quindi che il risultato della “balcanizzazione” sia stato il consolidamento dei padri-padroni delle singole coop. Personaggi che già vent’anni fa l’allora presidente di Legacoop Lanfranco Turci, poco prima di essere fatto fuori, accusò di “spinte cesaristiche”. Gente come Levorato, presidente di Manutencoop da trent’anni, o come Turiddo Campaini, alla testa di Unicoop Firenze dal 1973, due anni prima della nascita di Matteo Renzi, o come Pier Luigi Stefanini, presidente di Unipol da otto anni dopo una vita alla Coop Adriatica.
Logica conseguenza di questa parabola e di queste logiche spietate è ciò che rileva Camusso. Le coop si stanno sempre più spesso qualificando come datori di lavoro efferati. Sul Fatto del 16 marzo scorso Marco Palombi ha raccolto un florilegio di casi incredibili: “Sulla scheda di valutazione di un dipendente abbiamo letto che l’interessato non può essere promosso. Motivo? Fa il sindacalista. Non manca nemmeno l’ordinario marchionnismo: dal delegato Rsu trasferito o demansionato fino alla schedatura fotografica degli scioperanti”.
Da Il Fatto Quotidiano di mercoledì 14 maggio 2014
L'indagine sulle tangenti per l'Expo milanese fotografa un mondo allo sbando. Orfano della politica, ostaggio di padri-padroni inamovibili. Il coinvolgimento nell'inchiesta del gigante Manutencoop e del suo presidente Claudio Levorato non sorprende. La settimana scorsa un duro attacco era arrivato dal segretario generale Susanna Camusso: “Sappiamo bene che veniamo dalle stesse radici, ma proprio per questo ci indigniamo di più quando non si riesce a dare risposta al tema della falsa cooperazione"
di Giorgio Meletti | 19 maggio 2014
Altro che magistrati. L’attacco più duro alle coop cosiddette rosse è venuto dal capo della Cgil, Susanna Camusso. La settimana scorsa, chiudendo il congresso di Rimini, il segretario generale del primo sindacato italiano ha riservato alle cooperative parole al vetriolo: “Sappiamo bene che veniamo dalle stesse radici, ma proprio per questo ci indigniamo di più quando non si riesce a dare risposta al tema della falsa cooperazione, quando si usano appalti alla qualunque e non si firmano i contratti, quando si disdettano gli accordi come una qualunque catena straniera della grande distribuzione. Ci indigniamo non per la presenza di soci lavoratori, ma se sono tali solo per non applicare i contratti, che lo si faccia nella cooperazione industriale o in quella sociale, non va bene”.
I fendenti di Camusso sono in parte strumentali, giusto per castigare un po’ il ministro del Lavoro Giuliano Poletti che ha appena lasciato la presidenza di Legacoop per farsi interprete del verbo renziano sul mercato del lavoro. Ma non nuovi. Negli anni 90 il suo predecessore Sergio Cofferati già parlava di cooperative “che considerano il lavoro come occasione di profitto sulla pelle dei giovani”. Insomma, è da almeno vent’anni che le coop hanno scoperto il mercatismo e sciolto ogni legame con i valori laburisti e solidaristi. Rivendicano di essere aziende come le altre, e si comportano di conseguenza. Non solo calpestando quando serve i diritti dei loro dipendenti – che molto spesso non sono nemmeno soci, cosicché la cooperative che li assume più che di lavoratori si potrebbe definire di datori di lavoro. Ma anche infischiandosene del codice penale nella stessa misura delle normali imprese private, sebbene pretendano di vedersi ancora riconosciuta una superiorità morale.
Il coinvolgimento del gigante Manutencoop e del suo presidente Claudio Levorato nell’inchiesta sulle tangenti per l’Expo milanese non sorprende. La presunzione d’innocenza è fuori discussione, naturalmente, ma l’interessato deve invocarla anche per lo scandalo degli appalti della Asl di Brindisi, per il quale proprio la settimana scorsa sono state chiuse le indagini, e Levorato è uno dei 51 indagati. Il referente locale di Manutencoop, Mauro De Feudis è finito ai domiciliari e, secondo la procura di Brindisi, citata dalla Gazzetta del Mezzogiorno “candidamente afferma di aver richiesto l’intervento del legale rappresentante della Manutencoop Facility Management spa per risolvere la problematica relativa alla mancata assunzione di soggetti segnalati dal consigliere regionale De Leonardis che nel frattempo garantiva loro l’aggiudicazione illecita di appalti in tutto il territorio pugliese”.
Il gigante delle costruzioni Cmc di Ravenna, che oggi deve la sua fama all’appalto per il tunnel di servizio dell’alta velocità in Val di Susa, è all’onore delle cronache per il caso del “porto fantasma” di Molfetta, cantiere aperto – secondo l’ipotesi accusatoria della procura di Trani – per incassare i contributi pubblici poi stornati verso altri impieghi. Il costruttore Enrico Maltauro e il faccendiere Sergio Cattozzo, intercettati prima di essere arrestati dai magistrati milanesi per l’Expo, mostrano di conoscere bene la vicenda. Dice Maltauro: “Il casino di Molfetta, non è solo un fatto di corruzione, ma c’è un fatto di truffa ai danni dello Stato”. Specifica Cattozzo: “Per cui i soldi per fare il porto li hanno utilizzati per altre cose”. A fine 2013 la Cmc è stata coinvolta nell’inchiesta sulla bonifica dell’area Rho-Pero, che fa parte dell’operazione Expo, con l’accusa a un suo esponente di aver corrotto il direttore tecnico del cantiere perché non ostacolasse il sereno dispiegarsi del lavoro della cooperativa.
C’erano di mezzo questioni di rispetto dell’ambiente anche nell’inchiesta sul tunnel dell’alta velocità di Firenze, per la quale l’anno scorso fu arrestata la presidente di Italferr (gruppo Fs) Maria Rita Lorenzetti, ex presidente della regione Umbria. In quel caso i magistrati hanno ipotizzato un’associazione a delinquere il cui scopo principale era soccorrere una coop con i conti in difficoltà: “Pianificavano una serie di interventi a vasto raggio per influire e determinare le varie amministrazioni coinvolte, in maniera da superare ogni possibile ostacolo e intralcio agli obiettivi dell’associazione: ovverosia favorire al massimo in termini economici Nodavia e tramite essa Coopsette (di cui si teme la prossima insolvenza) a scapito dei costi dell’appalto e a danno delle casse dello Stato”.
In effetti la Coopsette e la Unieco, due giganti del mattone cooperativo emiliano, hanno attraversato l’inferno del concordato preventivo e adesso si preparano a fondersi nella nuova Unisette per salvarsi. Evidentemente il ricorso al doping della corruzione, abbastanza tipico per le imprese italiane, è un vizietto che non risparmia le coop, soprattutto adesso che gli affari non vanno per niente bene.
Storia antica anche qui. L’idea che esista un blocco compatto chiamato “coop rosse” e unito ai partiti della sinistra è superata nei fatti da un ventennio. Dopo la svolta della Bolognina è scomparso dalla scena il Pci che garantiva alle coop le loro quote di mercato al tavolo della spartizione degli appalti pubblici. I boiardi rossi hanno allora imparato ad arrangiarsi da soli, al grido di “ognuno per sé e tangenti per tutti”. Già il pool Mani pulite, indagando su Tangentopoli, scoprì con una certa sorpresa che era in corso una guerra feroce tra le coop emiliane e quelle lombarde per l’accesso al mercato della Lombardia, che le seconde impedivano alle prime. In uno scenario del genere la Legacoop si è trasformata da holding di fatto, quale era ai tempi del Pci a una pressoché inutile Confindustria delle coop. Poletti, per esempio, è stato tenuto rigorosamente all’oscuro dei traffici in corso tra le grandi coop del consumo per organizzare la scalata alla Fonsai da parte dell’Unipol di cui sono azioniste. E Poletti, come il suo successore Mauro Lusetti, si limitano a minimizzare come “casi isolati” gli scandali che coinvolgono grandi e piccole imprese cooperative.
Non sorprende quindi che il risultato della “balcanizzazione” sia stato il consolidamento dei padri-padroni delle singole coop. Personaggi che già vent’anni fa l’allora presidente di Legacoop Lanfranco Turci, poco prima di essere fatto fuori, accusò di “spinte cesaristiche”. Gente come Levorato, presidente di Manutencoop da trent’anni, o come Turiddo Campaini, alla testa di Unicoop Firenze dal 1973, due anni prima della nascita di Matteo Renzi, o come Pier Luigi Stefanini, presidente di Unipol da otto anni dopo una vita alla Coop Adriatica.
Logica conseguenza di questa parabola e di queste logiche spietate è ciò che rileva Camusso. Le coop si stanno sempre più spesso qualificando come datori di lavoro efferati. Sul Fatto del 16 marzo scorso Marco Palombi ha raccolto un florilegio di casi incredibili: “Sulla scheda di valutazione di un dipendente abbiamo letto che l’interessato non può essere promosso. Motivo? Fa il sindacalista. Non manca nemmeno l’ordinario marchionnismo: dal delegato Rsu trasferito o demansionato fino alla schedatura fotografica degli scioperanti”.
Da Il Fatto Quotidiano di mercoledì 14 maggio 2014
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Re: ITALIA-EMERGENZA LAVORO
Intanto il governo dovrebbe sapere chi ha ricevuto soldi dallo stato.Quindi se una impresa delocalizza dovrebbe ridare i soldi indietro o sequestrale la fabbrica.Invece non fa un Tubo.
Se ci fosse stata una legge la FIAT sai quanti soldi dovrebbe ridare allo stato.
Ciao
Paolo11
Se ci fosse stata una legge la FIAT sai quanti soldi dovrebbe ridare allo stato.
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Paolo11
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