Venezia Il Mose
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Re: Venezia Il Mose
Con i sinistri diventati renziani, da queste parti è ormai guerra aperta. La lite è diventata sistematicamente di giornata.
Ovviamente il tema della giornata è Mineo, a cui gli vengono attribuite tutte le infamie possibili di questo mondo, solo e soltanto per arrivare a giustificare l'operato di Renzi.
In più quotidiani stamani si accenna ad un'epurazione.
Ma i renziani sono sordi, caricano a testa bassa.
Hanno perso il senso del ridicolo e del minimo accettabile della dignità umana.
Il Duce ha sempre ragione,....è il fine ultimo delle loro discussioni.
La situazione è drammatica, ma spicca ancor di più il fatto che è senza speranza.
Anche i giovani renziani sono tutti già marci nell'animo ancora prima di cominciare.
Notizie relative a lotti: orsoni non ha la tessera del Pd
Mose, lo scontro nel Pd: “Arrestati non sono iscritti”, “No ...
Il Fatto Quotidiano - 6 giorni fa
Dopo l'uscita di Lotti, infatti, oggi a parlare è Chiara Geloni, giornalista che ... Ma come fai a dire che Giorgio Orsoni non è del Pd? Orsoni, il sindaco di Venezia. ... scriva la giornalista – Solo chi ha la tessera è del Pd adesso?
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Tangenti Mose, Lotti: «Orsoni non è del Pd» Renzi: «Daspo ...
nuovavenezia.gelocal.it/.../tangenti-mose-cantone-piu-grave-di-expo-1.9...
05/giu/2014 - ROMA. «Il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, contrariamente a quello che ho letto stamani non è iscritto al Pd. Non ha tessera. È un sindaco .
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Caro Lotti scusa, come fai a dire che Orsoni non è del Pd ...
http://www.huffingtonpost.it/.../luca-l ... 58016.html?...
06/giu/2014 - Ma come fai a dire che Giorgio Orsoni non è del Pd? Volevo chiederti: chi è del Pd allora scusa? Solo chi ha la tessera è del Pd adesso?
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Scandalo Mose, Luca Lotti (Pd) si disfa del sindaco di ...
http://www.liberoquotidiano.it/news/pol ... -Lotti-.ht...
05/giu/2014 - Scandalo Mose, Luca Lotti (Pd) si disfa del sindaco di Venezia agli ... ma non Giorgio Orsoni non è del Pd, non ha mai avuto la tessera del Pd, ...
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''IL SINDACO ORSONI? NON E' DEL PD, LO ABBIAMO ...
http://www.ilnord.it/c-3088_IL_SINDACO_ ... _DEL_PD_LO_...
05/giu/2014 - (DICE IL BRACCIO DESTRO DI RENZI, LOTTI) - I fatti e le opinioni del ... ma Giorgio Orsoni non è del Pd, non ha mai avuto la tessera del Pd, ...
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Mose, Lotti:Orsoni non iscritto al Pd, media accaniti contro noi
https://it.notizie.yahoo.com/mose-lotti ... pd-media-1...
05/giu/2014 - 'Mose, Lotti:Orsoni non iscritto al Pd, media accaniti contro noi' su ... ma Giorgio Orsoni non e' del Pd, non ha mai avuto la tessera del Pd, non ...
Mai tanto berlusconismo era penetrato nell'ex centrosinistra. Non è roba loro Orsoni. E' un ladro punto e basta.
Ieri Orsoni ha parlato davanti al magistrato e si tolto il rospo sullo stomaco.
La vigliaccheria dei renziani è al top.
*
Mose, Orsoni: “Chiedevo soldi a Mazzacurati su richiesta del Pd”
Il primo cittadino di Venezia, dopo avere lasciato i domiciliari, non si dimette da sindaco e attacca il partito. I colleghi Dem lo scaricano. Il senatore Russo: "Lo dico senza mezze misure, non può continuare a governare la città"
di Antonio Massari e Davide Vecchi | 13 giugno 2014Commenti (606)
Da una sponda all’altra del Canal Grande. Dieci metri di acqua, questa la distanza che segna il ritorno alla libertà di Giorgio Orsoni. Dalla sua lussuosa abitazione, nella quale ha trascorso otto giorni di arresti domiciliari, al Comune, dove ieri è potuto tornare a occupare la poltrona di sindaco dopo aver chiesto il patteggiamento ai magistrati. Ma la vicenda Mose per Orsoni si è ora trasformata in un regolamento di conti con il partito che lo sostiene, il Pd, e che sta valutando di abbandonarlo e chiederne le dimissioni. Soltanto oggi si saprà se lascerà prima lui o costringerà i democratici a chiederne la testa.
Il primo cittadino ieri ha voluto convocare una conferenza stampa per spiegare la sua “totale estraneità alle accuse che mi sono state rivolte”, ha garantito di aver avuto rapporti con Giovanni Mazzacurati su “richiesta di alcuni esponenti del partito che hanno insistito prima per candidarmi e poi mi chiedevano di caldeggiare finanziamenti alla mia campagna elettorale da parte degli imprenditori”. E Mazzacurati, per trenta anni presidente del Consorzio Nuova Venezia e secondo gli inquirenti capo indiscusso della cricca serenissima, “ha sempre finanziato tutti i candidati” compresi quindi Massimo Cacciari e Paolo Costa, ex sindaci di Venezia. È Mazzacurati però a incastrare Orsoni, a dichiarare ai pm di avergli consegnato dei fondi. Ora il sindaco lo definisce “un millantatore”. E per convincere la stampa della sua tesi difensiva aggiunge: “Io chiedevo a lui i fondi su richiesta del partito ma non mi sono mai occupato di organizzare né finanziare alcuna iniziativa elettorale così come non potevo di certo sapere se quei soldi provenissero da fondi neri”.
Non ha voluto dire chi nel Pd lo ha spinto a rivolgersi a Mazzacurati, ma i nomi li ha fatti nell’interrogatorio lunedì scorso davanti ai tre pm titolari dell’inchiesta. Zoggia, Marchese e Mognato. E anche i rapporti con Mazzacurati sono ricostruiti in maniera diversa. Si legge nell’interrogatorio: “Mazzacurati è venuto diverse volte a casa mia, ogni tanto mi lasciava dei carteggi e delle buste, non sempre ho aperto per vedere cosa c’era dentro”. Il pm gli chiedono se li avesse poi portati al Pd. “Può anche essere, ma non ricordo. I fatti sono avvenuti anni fa”. Aggiunge inoltre che di fronte alle insistenze pressanti dei tre esponenti del Pd aveva “delle perplessità. Ma mi dissero che era sempre avvenuto così a Venezia, che si andava a chiedere il contributo a Mazzacurati. Che era una cosa avvenuta in passato con i precedenti sindaci”.
Ancora più netto e chiaro quanto scrivono i pm nelle tre pagine di parere di revoca della misura di custodia cautelare trasmesso al giudice per le indagini preliminari. “Nella sostanza Orsoni riconduce la sua candidatura a un’iniziativa del Partito Democratico, alla ricerca di una personalità credibile e idonea ad aggregare un vasto consenso politico”, circostanza “verosimile e coerente con la logica del sistema”. Quanto alla decisione di accettare finanziamenti da Mazzacurati, proseguono i pm, Orsoni le “attribuisce a insistenze reiterate e pressanti del Partito Democratico, avanzate dai suoi responsabili politici e contabili, Zoggia, Marchese e Mognato”. I magistrati credono alla versione di Orsoni. E ieri hanno infatti accolto la richiesta di patteggiamento proponendo una durata di 9 mesi (il legale del sindaco ne ha chiesti quattro) al giudice per le indagini preliminari che ora dovrà decidere. Orsoni liquida il patteggiamento come una “goccia di sangue che dovevo pagare, poco più di un incidente”. Sconosciuto ancora l’esito dello scontro politico aperto con i democratici.
Ieri il primo cittadino ha attaccato frontalmente i vertici del Pd, locale e nazionale, e la reazione non si è fatta attendere. Roger De Menech, segretario regionale dei Dem, ha espresso chiaramente quale sia la posizione del partito: “Dobbiamo andare avanti con una posizione molto concreta e dura rispetto al malaffare e decidere per il bene di Venezia”. Ieri sera in una riunione conclusa a tarda serata è stato deciso di attendere almeno un giorno prima di prendere posizioni nette in consiglio comunale ma la linea maggiormente votata è per mandare a casa Orsoni. “Gli diamo qualche ora di tempo per riflettere e confidiamo che sia lui a fare spontaneamente il passo indietro”. Già ieri pomeriggio gli assessori avevano rimesso le deleghe nelle mani del primo cittadino e il titolare delle politiche educative, Tiziana Agostini, si è spinta a dimettersi polemicamente dall’incarico. “Per quattro anni ho lavorato al servizio della città e continuerò a farlo nella mia veste di cittadina. La politica è un servizio reso liberamente e non può subire condizionamenti di nessuna sorta”. Agostini è stata Coordinatrice regionale delle democratiche di sinistra del Veneto e componente del Consiglio nazionale dei Ds ed è uno dei fondatori del Partito Democratico.
Più chiare ancora, se possibile, il senatore Pd Francesco Russo: “Lo dico senza mezze misure, Giorgio Orsoni non può continuare a fare il sindaco di Venezia. Il Pd su questo tema deve dare un segnale chiaro, forte e inequivocabile. Ne va della nostra credibilità”. Il primo cittadino ieri ha lasciato il Comune ribadendo ai suoi più stretti collaboratori di non aver alcuna intenzione di dimettersi e che avrebbe comunque riflettuto durante la nottata. Ma forse a Roma hanno già riflettuto al posto suo.
Da Il Fatto Quotidiano del 13 giugno 2014
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/06 ... d/1025918/
Ovviamente il tema della giornata è Mineo, a cui gli vengono attribuite tutte le infamie possibili di questo mondo, solo e soltanto per arrivare a giustificare l'operato di Renzi.
In più quotidiani stamani si accenna ad un'epurazione.
Ma i renziani sono sordi, caricano a testa bassa.
Hanno perso il senso del ridicolo e del minimo accettabile della dignità umana.
Il Duce ha sempre ragione,....è il fine ultimo delle loro discussioni.
La situazione è drammatica, ma spicca ancor di più il fatto che è senza speranza.
Anche i giovani renziani sono tutti già marci nell'animo ancora prima di cominciare.
Notizie relative a lotti: orsoni non ha la tessera del Pd
Mose, lo scontro nel Pd: “Arrestati non sono iscritti”, “No ...
Il Fatto Quotidiano - 6 giorni fa
Dopo l'uscita di Lotti, infatti, oggi a parlare è Chiara Geloni, giornalista che ... Ma come fai a dire che Giorgio Orsoni non è del Pd? Orsoni, il sindaco di Venezia. ... scriva la giornalista – Solo chi ha la tessera è del Pd adesso?
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Tangenti Mose, Lotti: «Orsoni non è del Pd» Renzi: «Daspo ...
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05/giu/2014 - ROMA. «Il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, contrariamente a quello che ho letto stamani non è iscritto al Pd. Non ha tessera. È un sindaco .
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Caro Lotti scusa, come fai a dire che Orsoni non è del Pd ...
http://www.huffingtonpost.it/.../luca-l ... 58016.html?...
06/giu/2014 - Ma come fai a dire che Giorgio Orsoni non è del Pd? Volevo chiederti: chi è del Pd allora scusa? Solo chi ha la tessera è del Pd adesso?
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Scandalo Mose, Luca Lotti (Pd) si disfa del sindaco di ...
http://www.liberoquotidiano.it/news/pol ... -Lotti-.ht...
05/giu/2014 - Scandalo Mose, Luca Lotti (Pd) si disfa del sindaco di Venezia agli ... ma non Giorgio Orsoni non è del Pd, non ha mai avuto la tessera del Pd, ...
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''IL SINDACO ORSONI? NON E' DEL PD, LO ABBIAMO ...
http://www.ilnord.it/c-3088_IL_SINDACO_ ... _DEL_PD_LO_...
05/giu/2014 - (DICE IL BRACCIO DESTRO DI RENZI, LOTTI) - I fatti e le opinioni del ... ma Giorgio Orsoni non è del Pd, non ha mai avuto la tessera del Pd, ...
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Mose, Lotti:Orsoni non iscritto al Pd, media accaniti contro noi
https://it.notizie.yahoo.com/mose-lotti ... pd-media-1...
05/giu/2014 - 'Mose, Lotti:Orsoni non iscritto al Pd, media accaniti contro noi' su ... ma Giorgio Orsoni non e' del Pd, non ha mai avuto la tessera del Pd, non ...
Mai tanto berlusconismo era penetrato nell'ex centrosinistra. Non è roba loro Orsoni. E' un ladro punto e basta.
Ieri Orsoni ha parlato davanti al magistrato e si tolto il rospo sullo stomaco.
La vigliaccheria dei renziani è al top.
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Mose, Orsoni: “Chiedevo soldi a Mazzacurati su richiesta del Pd”
Il primo cittadino di Venezia, dopo avere lasciato i domiciliari, non si dimette da sindaco e attacca il partito. I colleghi Dem lo scaricano. Il senatore Russo: "Lo dico senza mezze misure, non può continuare a governare la città"
di Antonio Massari e Davide Vecchi | 13 giugno 2014Commenti (606)
Da una sponda all’altra del Canal Grande. Dieci metri di acqua, questa la distanza che segna il ritorno alla libertà di Giorgio Orsoni. Dalla sua lussuosa abitazione, nella quale ha trascorso otto giorni di arresti domiciliari, al Comune, dove ieri è potuto tornare a occupare la poltrona di sindaco dopo aver chiesto il patteggiamento ai magistrati. Ma la vicenda Mose per Orsoni si è ora trasformata in un regolamento di conti con il partito che lo sostiene, il Pd, e che sta valutando di abbandonarlo e chiederne le dimissioni. Soltanto oggi si saprà se lascerà prima lui o costringerà i democratici a chiederne la testa.
Il primo cittadino ieri ha voluto convocare una conferenza stampa per spiegare la sua “totale estraneità alle accuse che mi sono state rivolte”, ha garantito di aver avuto rapporti con Giovanni Mazzacurati su “richiesta di alcuni esponenti del partito che hanno insistito prima per candidarmi e poi mi chiedevano di caldeggiare finanziamenti alla mia campagna elettorale da parte degli imprenditori”. E Mazzacurati, per trenta anni presidente del Consorzio Nuova Venezia e secondo gli inquirenti capo indiscusso della cricca serenissima, “ha sempre finanziato tutti i candidati” compresi quindi Massimo Cacciari e Paolo Costa, ex sindaci di Venezia. È Mazzacurati però a incastrare Orsoni, a dichiarare ai pm di avergli consegnato dei fondi. Ora il sindaco lo definisce “un millantatore”. E per convincere la stampa della sua tesi difensiva aggiunge: “Io chiedevo a lui i fondi su richiesta del partito ma non mi sono mai occupato di organizzare né finanziare alcuna iniziativa elettorale così come non potevo di certo sapere se quei soldi provenissero da fondi neri”.
Non ha voluto dire chi nel Pd lo ha spinto a rivolgersi a Mazzacurati, ma i nomi li ha fatti nell’interrogatorio lunedì scorso davanti ai tre pm titolari dell’inchiesta. Zoggia, Marchese e Mognato. E anche i rapporti con Mazzacurati sono ricostruiti in maniera diversa. Si legge nell’interrogatorio: “Mazzacurati è venuto diverse volte a casa mia, ogni tanto mi lasciava dei carteggi e delle buste, non sempre ho aperto per vedere cosa c’era dentro”. Il pm gli chiedono se li avesse poi portati al Pd. “Può anche essere, ma non ricordo. I fatti sono avvenuti anni fa”. Aggiunge inoltre che di fronte alle insistenze pressanti dei tre esponenti del Pd aveva “delle perplessità. Ma mi dissero che era sempre avvenuto così a Venezia, che si andava a chiedere il contributo a Mazzacurati. Che era una cosa avvenuta in passato con i precedenti sindaci”.
Ancora più netto e chiaro quanto scrivono i pm nelle tre pagine di parere di revoca della misura di custodia cautelare trasmesso al giudice per le indagini preliminari. “Nella sostanza Orsoni riconduce la sua candidatura a un’iniziativa del Partito Democratico, alla ricerca di una personalità credibile e idonea ad aggregare un vasto consenso politico”, circostanza “verosimile e coerente con la logica del sistema”. Quanto alla decisione di accettare finanziamenti da Mazzacurati, proseguono i pm, Orsoni le “attribuisce a insistenze reiterate e pressanti del Partito Democratico, avanzate dai suoi responsabili politici e contabili, Zoggia, Marchese e Mognato”. I magistrati credono alla versione di Orsoni. E ieri hanno infatti accolto la richiesta di patteggiamento proponendo una durata di 9 mesi (il legale del sindaco ne ha chiesti quattro) al giudice per le indagini preliminari che ora dovrà decidere. Orsoni liquida il patteggiamento come una “goccia di sangue che dovevo pagare, poco più di un incidente”. Sconosciuto ancora l’esito dello scontro politico aperto con i democratici.
Ieri il primo cittadino ha attaccato frontalmente i vertici del Pd, locale e nazionale, e la reazione non si è fatta attendere. Roger De Menech, segretario regionale dei Dem, ha espresso chiaramente quale sia la posizione del partito: “Dobbiamo andare avanti con una posizione molto concreta e dura rispetto al malaffare e decidere per il bene di Venezia”. Ieri sera in una riunione conclusa a tarda serata è stato deciso di attendere almeno un giorno prima di prendere posizioni nette in consiglio comunale ma la linea maggiormente votata è per mandare a casa Orsoni. “Gli diamo qualche ora di tempo per riflettere e confidiamo che sia lui a fare spontaneamente il passo indietro”. Già ieri pomeriggio gli assessori avevano rimesso le deleghe nelle mani del primo cittadino e il titolare delle politiche educative, Tiziana Agostini, si è spinta a dimettersi polemicamente dall’incarico. “Per quattro anni ho lavorato al servizio della città e continuerò a farlo nella mia veste di cittadina. La politica è un servizio reso liberamente e non può subire condizionamenti di nessuna sorta”. Agostini è stata Coordinatrice regionale delle democratiche di sinistra del Veneto e componente del Consiglio nazionale dei Ds ed è uno dei fondatori del Partito Democratico.
Più chiare ancora, se possibile, il senatore Pd Francesco Russo: “Lo dico senza mezze misure, Giorgio Orsoni non può continuare a fare il sindaco di Venezia. Il Pd su questo tema deve dare un segnale chiaro, forte e inequivocabile. Ne va della nostra credibilità”. Il primo cittadino ieri ha lasciato il Comune ribadendo ai suoi più stretti collaboratori di non aver alcuna intenzione di dimettersi e che avrebbe comunque riflettuto durante la nottata. Ma forse a Roma hanno già riflettuto al posto suo.
Da Il Fatto Quotidiano del 13 giugno 2014
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Re: Venezia Il Mose
IL PERSONAGGIO
L'eterno ritorno di Gianni Letta nelle inchieste
Il nome dell’ex sottosegretario Letta compare nelle carte sul Mose e sull’Expo. Come in quasi tutte le indagini-scandalo degli ultimi anni. A conferma di un potere soft ma pressoché sconfinato. Impermeabile ai cambi di governo e durato ben oltre la permanenza di Berlusconi a Palazzo Chigi
DI PAOLO FANTAUZZI
17 giugno 2014
«Non è la prima volta che il mio nome viene evocato o citato in una delle tante inchieste che riempiono le cronache di questi mesi. Ed è ovvio che lo sia, perché negli anni di governo mi sono occupato di tutte le più importanti vicende». Proprio non è andata giù a Gianni Letta l’accostamento della sua persona con l’inchiesta sul Mose che sta facendo tremare la politica. E in effetti - per quanto mai indagato e spesso solo citato nelle conversazioni («ho sempre agito con correttezza e trasparenza» ha rivendicato lui) - quasi non c’è stato scandalo piccolo o grande in cui non sia comparsa nelle carte anche l’eminenza grigia del berlusconismo, dalla P4 alla Banca popolare di Milano, dal caso Rai-Agcom ai prezzi dei farmaci gonfiati. E da ultimo, il Mose e l’Expo.
Una ricorrenza che, al di là dell’assenza di rilievi penali, racconta meglio di tante parole il sistema di potere incarnato da Letta, da molti osannato quale statista e impagabile servitore dello Stato . Un potere soft, il suo, ma pressoché sterminato. Soprattutto, impermeabile ai cambi di governo. Tanto da essere un po’ in declino, forse, ma da durare tuttora.
VEDI ANCHE:
letta-jpg
Enrico, Gianni e il Mose. I Letta tirati in ballo nell'inchiesta veneziana
Zio e nipote sono entrambi da sempre favorevoli all’opera. Ora i due nomi spuntano nei faldoni. I due smentiscono, Gianni querela e Enrico nega le ultime affermazioni di Pravatà: «Sono falsità». Ma il rapporto dell’ex premier con il Consorzio risale ai tempi del think tank VeDro’
SOVRAESPOSIZIONE UNIVERSALE
Prima del Mose il nome dell’ex sottosegretario era già apparso poche settimane fa nell’inchiesta sull’Expo. Nella quale Letta, come quasi sempre, appare il Richelieu da cui tutti vanno in processione per chiedere una referenza, una intercessione o una buona parola. «Ma perché non metti in campo tutto il tuo prestigio con Gianni Letta e il presidente?» domanda ad esempio il presunto “corriere” delle tangenti Sergio Cattozzo all’ex parlamentare di Forza Italia Gianstefano Frigerio a maggio 2013. Ovvero quando Berlusconi non era più a Palazzo Chigi da un anno e mezzo e al governo sedeva da meno di un mese Letta junior.
Il motivo per cui spendersi? Le nomine nelle società pubbliche, in cui gli organizzatori della cupola, non contenti degli appalti, cercavano di mettere il becco. E infatti, secondo quanto emerso, lo stesso Letta alcuni mesi prima avrebbe ricevuto l’allora senatore Pdl Luigi Grillo, poi arrestato, interessato a promuovere (senza successo) la candidatura del manager Giuseppe Nucci. Tramite del contatto, Cesare Previti. «Ecco Giuseppe (...) son stato da Cesare (Previti, ndr) … abbiamo parlato al telefono con Gianni Letta. Domani ci riceve, domani mattina ci dice a che ora, perché c'è anche il Presidente» riferisce Grillo al telefono. «Appena andiamo a parlare con Gianni poi ci vediamo io e te e ti racconto». Ma Da Letta, a quanto emerso, sarebbero andati anche i toscani Denis Verdini e Altero Matteoli per perorare il nome dell’ex sottosegretario Stefano Saglia per la guida di Sogin.
L’ANGIOLILLO CUSTODE
Altro passo indietro di poche settimane: ad aprile vengono depositati gli atti dell'indagine sulla Banca popolare di Milano (Bpm), per la quale l’ex presidente Massimo Ponzellini rischia il processo. Analizzando le intercettazioni fatte nell’arco di due mesi (relative al 2009) la Guardia di finanzia è giunta alla conclusione che il rapporto tra Ponzellini e Letta “è apparso solido, duraturo e confidenziale da permettere” all'ex sottosegretario “senza particolari filtri, di raccomandare al banchiere persone o aziende in cerca di finanziamenti”. Come nel caso di Marco Bianchi Milella, figlio di primo letto della regina romana dei salotti e vecchia amica Maria Angiolillo, al quale il sottosegretario cerca di far ottenere un incarico. Oppure lo sforzo per aiutare “ imprese amiche bisognose di una sponda finanziaria ”.
Ed è proprio con la mediazione della Angiolillo che, sempre nel 2009, i vertici della casa farmaceutica Menarini, posseduta dalla famiglia Aleotti, arrivarono fino al sottosegretario per far approvare un emendamento contro i medicinali generici , più economici in quanto non coperti da brevetto. Una vicenda, scrivono i Nas di Firenze, in cui ci fu “una volontà politica di altissimo livello costituita dal Capo del Governo e da Gianni Letta nel condurre in porto l’emendamento” e nella quale ci fu “l’appoggio decisivo di Berlusconi”.
E poco cambia quando a Palazzo Chigi arrivano i Professori, come traspare dalle carte dell’inchiesta sulla tav di Firenze. Anche col governo Monti l’ex sottosegretario continua infatti ad avere peso nelle nomine istituzionali, considerato anche che il suo posto alla presidenza del Consiglio lo ha preso proprio un Letta-boy: Antonio Catricalà. Una situazione evidente nella scelta dei componenti dell’Authority sui trasporti, come ha raccontato l’Espresso , dove in una “telefonata imbarazzata” (così la definisce, intercettata, l’ex governatrice umbra Maria Rita Lorenzetti, poi arrestata) l’allora vicesegretario Pd Enrico Letta fa sapere “che suo zio Gianni non vuole sentire ragioni a mollare Pasquale De Lise ”, il consigliere di Stato già apparso nelle carte dell’inchiesta su Guido Bertolaso, Angelo Balducci e Fabio Anemone.
L’AMICO BISI
Per quanto ampio, il potere di Letta fonda su una riservatezza assoluta che si manifesta anche al telefono. Al punto che anche quando finisce direttamente nelle intercettazioni, mentre i suoi interlocutori mostrano una loquacità assai poco avveduta, lui si limita a poche parole. Come nell’inchiesta Rai-Agcom. Il 3 dicembre 2009 il commissario Agcom Giancarlo Innocenzi, pressato da Berlusconi per far chiudere “Annozero”, lo chiama per chiedergli di contattare il presidente dell’Authority Corrado Calabrò. Innocenzi si profonde con foga in un lungo monologo («Tu sei l’ultima spiaggia», arriva a dirgli) e Letta si limita a un telegrafico: «Proverò a cercarlo, grazie, ciao».
Una accortezza messa a rischio solo dalla “disinvoltura” telefonica dell’amico di vecchia data Luigi Bisignani, di cui Letta è stato testimone di nozze («Bisignani si muoveva e veniva individuato come l'uomo di Letta» ha detto l’ex responsabile delle relazioni esterne di Finmeccanica, Lorenzo Borgogni, sentito nell’inchiesta sulla P4). Un rapporto di amicizia gestito «in modo istituzionale e corretto» ha sottolineato Letta. Di certo, motivo di qualche imbarazzo per il sottosegretario. Come quando l’amico gli dice di essere «oggetto di attenzioni da parte dell'autorità giudiziaria» e lui gli suggerisce di «non parlare troppo al telefono, visto che è piuttosto facondo».
Oppure quando Bisignani afferma ai pm di Napoli che «sicuramente» lo informava delle informazioni avute dal deputato Pdl Alfonso Papa, «in particolare tutte le vicende che potevano riguardarlo direttamente o indirettamente come la vicenda riguardante Verdini». O ancora quando, intercettato, Bisignani parla della cena per festeggiare la nomina a giudice costituzionale di Giorgio Lattanzi e Letta si trova costretto a smentire ai magistrati di avervi partecipato.
L’IMPRESENTABILE DA ASSUMERE
Ma il nome di Letta è spuntato nei mesi scorsi anche nell’inchiesta su un appalto pilotato per l’informatizzazione di Palazzo Chigi, uno stralcio della P4 che ha visto coinvolto l’ex capo dipartimento di Palazzo Chigi, Antonio Ragusa e, ancora una volta, Luigi Bisignani, che ha patteggiato una pena di due mesi (un altro anno e sette mesi il faccendiere lo aveva patteggiato per il filone principale). I pm di Roma sentono Borgogni e il discorso cade su un’assunzione nella galassia Finmeccanica relativa a un familiare di Ragusa, che i magistrati ipotizzano sia uno scambio corruttivo relativo all’appalto. «Non c’è nesso» afferma Borgogni: «Sarebbe stata sufficiente una telefonata con il sottosegretario Gianni Letta, che con il Guarguaglini (presidente Finmeccanica, ndr) era in contatti giornalieri e al quale Ragusa era molto vicino, per ottenere l’effetto».
Che sia vero o no quanto sostenuto, l’ex sottosegretario si sarebbe speso personalmente per caldeggiare un’assunzione. Anche se con parametri non proprio meritocratici, a detta di Borgogni: «Che Letta fosse in condizioni per fare tali richieste e che concretamente le facesse mi risulta personalmente perché aveva raccomandato a Guarguaglini una persona proveniente da Telecom e io mi opposi perché era impresentabile».
http://espresso.repubblica.it/inchieste ... e-1.169479
L'eterno ritorno di Gianni Letta nelle inchieste
Il nome dell’ex sottosegretario Letta compare nelle carte sul Mose e sull’Expo. Come in quasi tutte le indagini-scandalo degli ultimi anni. A conferma di un potere soft ma pressoché sconfinato. Impermeabile ai cambi di governo e durato ben oltre la permanenza di Berlusconi a Palazzo Chigi
DI PAOLO FANTAUZZI
17 giugno 2014
«Non è la prima volta che il mio nome viene evocato o citato in una delle tante inchieste che riempiono le cronache di questi mesi. Ed è ovvio che lo sia, perché negli anni di governo mi sono occupato di tutte le più importanti vicende». Proprio non è andata giù a Gianni Letta l’accostamento della sua persona con l’inchiesta sul Mose che sta facendo tremare la politica. E in effetti - per quanto mai indagato e spesso solo citato nelle conversazioni («ho sempre agito con correttezza e trasparenza» ha rivendicato lui) - quasi non c’è stato scandalo piccolo o grande in cui non sia comparsa nelle carte anche l’eminenza grigia del berlusconismo, dalla P4 alla Banca popolare di Milano, dal caso Rai-Agcom ai prezzi dei farmaci gonfiati. E da ultimo, il Mose e l’Expo.
Una ricorrenza che, al di là dell’assenza di rilievi penali, racconta meglio di tante parole il sistema di potere incarnato da Letta, da molti osannato quale statista e impagabile servitore dello Stato . Un potere soft, il suo, ma pressoché sterminato. Soprattutto, impermeabile ai cambi di governo. Tanto da essere un po’ in declino, forse, ma da durare tuttora.
VEDI ANCHE:
letta-jpg
Enrico, Gianni e il Mose. I Letta tirati in ballo nell'inchiesta veneziana
Zio e nipote sono entrambi da sempre favorevoli all’opera. Ora i due nomi spuntano nei faldoni. I due smentiscono, Gianni querela e Enrico nega le ultime affermazioni di Pravatà: «Sono falsità». Ma il rapporto dell’ex premier con il Consorzio risale ai tempi del think tank VeDro’
SOVRAESPOSIZIONE UNIVERSALE
Prima del Mose il nome dell’ex sottosegretario era già apparso poche settimane fa nell’inchiesta sull’Expo. Nella quale Letta, come quasi sempre, appare il Richelieu da cui tutti vanno in processione per chiedere una referenza, una intercessione o una buona parola. «Ma perché non metti in campo tutto il tuo prestigio con Gianni Letta e il presidente?» domanda ad esempio il presunto “corriere” delle tangenti Sergio Cattozzo all’ex parlamentare di Forza Italia Gianstefano Frigerio a maggio 2013. Ovvero quando Berlusconi non era più a Palazzo Chigi da un anno e mezzo e al governo sedeva da meno di un mese Letta junior.
Il motivo per cui spendersi? Le nomine nelle società pubbliche, in cui gli organizzatori della cupola, non contenti degli appalti, cercavano di mettere il becco. E infatti, secondo quanto emerso, lo stesso Letta alcuni mesi prima avrebbe ricevuto l’allora senatore Pdl Luigi Grillo, poi arrestato, interessato a promuovere (senza successo) la candidatura del manager Giuseppe Nucci. Tramite del contatto, Cesare Previti. «Ecco Giuseppe (...) son stato da Cesare (Previti, ndr) … abbiamo parlato al telefono con Gianni Letta. Domani ci riceve, domani mattina ci dice a che ora, perché c'è anche il Presidente» riferisce Grillo al telefono. «Appena andiamo a parlare con Gianni poi ci vediamo io e te e ti racconto». Ma Da Letta, a quanto emerso, sarebbero andati anche i toscani Denis Verdini e Altero Matteoli per perorare il nome dell’ex sottosegretario Stefano Saglia per la guida di Sogin.
L’ANGIOLILLO CUSTODE
Altro passo indietro di poche settimane: ad aprile vengono depositati gli atti dell'indagine sulla Banca popolare di Milano (Bpm), per la quale l’ex presidente Massimo Ponzellini rischia il processo. Analizzando le intercettazioni fatte nell’arco di due mesi (relative al 2009) la Guardia di finanzia è giunta alla conclusione che il rapporto tra Ponzellini e Letta “è apparso solido, duraturo e confidenziale da permettere” all'ex sottosegretario “senza particolari filtri, di raccomandare al banchiere persone o aziende in cerca di finanziamenti”. Come nel caso di Marco Bianchi Milella, figlio di primo letto della regina romana dei salotti e vecchia amica Maria Angiolillo, al quale il sottosegretario cerca di far ottenere un incarico. Oppure lo sforzo per aiutare “ imprese amiche bisognose di una sponda finanziaria ”.
Ed è proprio con la mediazione della Angiolillo che, sempre nel 2009, i vertici della casa farmaceutica Menarini, posseduta dalla famiglia Aleotti, arrivarono fino al sottosegretario per far approvare un emendamento contro i medicinali generici , più economici in quanto non coperti da brevetto. Una vicenda, scrivono i Nas di Firenze, in cui ci fu “una volontà politica di altissimo livello costituita dal Capo del Governo e da Gianni Letta nel condurre in porto l’emendamento” e nella quale ci fu “l’appoggio decisivo di Berlusconi”.
E poco cambia quando a Palazzo Chigi arrivano i Professori, come traspare dalle carte dell’inchiesta sulla tav di Firenze. Anche col governo Monti l’ex sottosegretario continua infatti ad avere peso nelle nomine istituzionali, considerato anche che il suo posto alla presidenza del Consiglio lo ha preso proprio un Letta-boy: Antonio Catricalà. Una situazione evidente nella scelta dei componenti dell’Authority sui trasporti, come ha raccontato l’Espresso , dove in una “telefonata imbarazzata” (così la definisce, intercettata, l’ex governatrice umbra Maria Rita Lorenzetti, poi arrestata) l’allora vicesegretario Pd Enrico Letta fa sapere “che suo zio Gianni non vuole sentire ragioni a mollare Pasquale De Lise ”, il consigliere di Stato già apparso nelle carte dell’inchiesta su Guido Bertolaso, Angelo Balducci e Fabio Anemone.
L’AMICO BISI
Per quanto ampio, il potere di Letta fonda su una riservatezza assoluta che si manifesta anche al telefono. Al punto che anche quando finisce direttamente nelle intercettazioni, mentre i suoi interlocutori mostrano una loquacità assai poco avveduta, lui si limita a poche parole. Come nell’inchiesta Rai-Agcom. Il 3 dicembre 2009 il commissario Agcom Giancarlo Innocenzi, pressato da Berlusconi per far chiudere “Annozero”, lo chiama per chiedergli di contattare il presidente dell’Authority Corrado Calabrò. Innocenzi si profonde con foga in un lungo monologo («Tu sei l’ultima spiaggia», arriva a dirgli) e Letta si limita a un telegrafico: «Proverò a cercarlo, grazie, ciao».
Una accortezza messa a rischio solo dalla “disinvoltura” telefonica dell’amico di vecchia data Luigi Bisignani, di cui Letta è stato testimone di nozze («Bisignani si muoveva e veniva individuato come l'uomo di Letta» ha detto l’ex responsabile delle relazioni esterne di Finmeccanica, Lorenzo Borgogni, sentito nell’inchiesta sulla P4). Un rapporto di amicizia gestito «in modo istituzionale e corretto» ha sottolineato Letta. Di certo, motivo di qualche imbarazzo per il sottosegretario. Come quando l’amico gli dice di essere «oggetto di attenzioni da parte dell'autorità giudiziaria» e lui gli suggerisce di «non parlare troppo al telefono, visto che è piuttosto facondo».
Oppure quando Bisignani afferma ai pm di Napoli che «sicuramente» lo informava delle informazioni avute dal deputato Pdl Alfonso Papa, «in particolare tutte le vicende che potevano riguardarlo direttamente o indirettamente come la vicenda riguardante Verdini». O ancora quando, intercettato, Bisignani parla della cena per festeggiare la nomina a giudice costituzionale di Giorgio Lattanzi e Letta si trova costretto a smentire ai magistrati di avervi partecipato.
L’IMPRESENTABILE DA ASSUMERE
Ma il nome di Letta è spuntato nei mesi scorsi anche nell’inchiesta su un appalto pilotato per l’informatizzazione di Palazzo Chigi, uno stralcio della P4 che ha visto coinvolto l’ex capo dipartimento di Palazzo Chigi, Antonio Ragusa e, ancora una volta, Luigi Bisignani, che ha patteggiato una pena di due mesi (un altro anno e sette mesi il faccendiere lo aveva patteggiato per il filone principale). I pm di Roma sentono Borgogni e il discorso cade su un’assunzione nella galassia Finmeccanica relativa a un familiare di Ragusa, che i magistrati ipotizzano sia uno scambio corruttivo relativo all’appalto. «Non c’è nesso» afferma Borgogni: «Sarebbe stata sufficiente una telefonata con il sottosegretario Gianni Letta, che con il Guarguaglini (presidente Finmeccanica, ndr) era in contatti giornalieri e al quale Ragusa era molto vicino, per ottenere l’effetto».
Che sia vero o no quanto sostenuto, l’ex sottosegretario si sarebbe speso personalmente per caldeggiare un’assunzione. Anche se con parametri non proprio meritocratici, a detta di Borgogni: «Che Letta fosse in condizioni per fare tali richieste e che concretamente le facesse mi risulta personalmente perché aveva raccomandato a Guarguaglini una persona proveniente da Telecom e io mi opposi perché era impresentabile».
http://espresso.repubblica.it/inchieste ... e-1.169479
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Re: Venezia Il Mose
Com’è triste Venezia, affondata dal Mose
(Gad Lerner).
20/06/2014 di triskel182
Com’è triste Venezia affondata nelle mazzette dal gigante di cemento che doveva salvarla
Dal sogno megalomane delle dighe del Mose alla scoperta che le casse della città sono vuote
Così il progetto nato per proteggere la Laguna, e che tutti qui difendono ancora, ha finito per prosciugare la Serenissima E adesso c’è chi dice: “L’ultima spiaggia? Vendersi ai cinesi”
UNA CITTÀ SEMPRE PIÙ VECCHIA E DEPREDATA DALLE MAZZETTE .
VENEZIA COLPITA e affondata dalla mitomania idraulica che doveva risollevarla, Venezia- Mose condivide la sventura con la sua rivale storica: Genova-Carige la sbancata. Certo in laguna tutto appare più elegante, l’ingegner Mazzacurati è un gran signore cosmopolita e l’avvocato Orsoni, a detta degli stessi magistrati, riceveva a domicilio i soldi pubblici del Consorzio, cioè di noi contribuenti, «con vereconda indifferenza, seguita dalle consuete reciproche manifestazioni di cavalleresche cortesie».
Sempre chiarendo che quei soldi non servivano certo a lui, già ricco abbastanza, ma all’intendenza di un Pd cui si era concesso candidato sindaco, recandogli con sé il beneplacito della curia e del patriziato superstite. Ho promesso al rivale di Orsoni nelle elezioni 2010, il solitamente loquace Renato Brunetta, di non violare l’embargo che si è imposto sulla retata del Consorzio Nuova Venezia.
Anche perché, se gli ricordi i contributi che anche lui riscuoteva da Mazzacurati, reagisce citando le campagne elettorali di Obama e le provvidenze statali ai giornali. Sta di fatto che Brunetta si sente vittima di un sistema che a destra includeva Galan mentre lo liquidava come outsider. Ma c’è un rimpianto di Brunetta che non posso non riferire, in quanto espressione del vetusto senso di superiorità che neanche la decadenza veneziana affievolisce: «Sono addolorato perché il Mose è la più grande opera idraulica della storia dell’umanità. Oggi viene svilita ma rappresentava il riscatto della modernità. In fondo anche la Tour Eiffel costò molte vite umane, spero che questa brutta storia venga dimenticata
».
Ecco la vetustà della Serenissima decaduta: illusasi di dominare le maree con dighe subacquee mobili che nessun altro luogo al
mondo impianta, anche per i costi proibitivi della loro manutenzione. Riproporsi superpotenza attraverso la tecnologia nonostante sia venuta meno la sua vocazione globale al commercio e le sue secolari ricchezze patrimoniali siano ormai esaurite. Il Comune, destinato al commissariamento, ha le casse vuote. Il Casinò non fornisce più i fondi necessari alla spesa sociale. Gli introiti delle navi da crociera vanno direttamente allo Stato. E da decenni ormai i miliardi dei fondi speciali necessari alla manutenzione vengono interamente drenati dal Consorzio, il grande corruttore.
«Voglio scrivere un saggio intitolato Serenissima preda – dice Gianfranco Bettin, uno dei pochi No-Mose della politica cittadina —
perché Venezia si è concessa con grazia ai suoi violentatori, illudendosi di guadagnarci ». Bettin ha scagliato un bicchiere contro il muro per la rabbia quando Giorgio Orsoni gli ha negato la parola il giorno delle dimissioni della giunta (di cui faceva parte come assessore all’Ambiente). Sostiene che il sindaco benestante ha preso i soldi, forse malvolentieri, con lo spirito di chi facendo parte del sistema non poteva rifiutarsi «come quando ti offrono da bere e sarebbe brutto dire di no». In effetti è vero che la giunta Orsoni ha ingaggiato poi un braccio di ferro col Consorzio di Mazzacurati e Baita, così come con l’altro fautore delle grandi opere, Paolo Costa, a sua volta ex sindaco ora presidente dell’Autorità Portuale che progetta ulteriori scavi di canali e un nuovo bacino off shore. Bettin non risparmia neanche l’amico Massimo Cacciari, che è stato grande elettore prima di Costa e poi di Orsoni, essendo convinto che Venezia si possa amministrare solo cedendo spazio ai portavoce moderati del suo establishment.
Un establishment ora schiacciato dalla megalomane vetustà lagunare, avvolto nella ragnatela delle sovrafatturazioni grazie a cui il Consorzio stipendiava perfino chi avrebbe dovuto controllarlo, cioè i funzionari del Magistrato delle Acque. Parlo di vetustà scoprendo che la settimana scorsa perfino l’”irregolare” Cacciari ha compiuto settant’anni. E lo stesso Bettin ne ha trascorsi più di venti tra consiglio comunale e Parlamento. A essere invecchiata è un’idea di modernità coltivata trasversalmente in laguna, meglio una ideologia che ha portato tra i fautori del Mose urbanisti di sinistra come Francesco Indovina, firma illustre del Manifesto. Un altro personaggio di quel gruppo, Franco Miracco, dopo aver lavorato lungamente alla presentabilità sociale di Giancarlo Galan, nel frattempo si è già riciclato assessore alla cultura nella giunta di sinistra di Trieste. Moderno e
trasversale, appunto. Talmente strana è Venezia, dove presidente degli industriali è divenuto Luigi Brugnaro, fondatore dell’agenzia di lavoro interinale Humana, figlio di Ferruccio Brugnaro, poeta-operaio comunista del Petrolchimico. Se ne parla come possibile candidato sindaco.
Il record della vetustà lo detiene l’economista Giuliano Segre, per undici anni presidente della Cassa di Risparmio e a seguire, dal 1993, per altri ventun anni, presidente della Fondazione bancaria. Sta precostituendosi un futuro alla guida di M9, il Museo del Novecento di Mestre in cui la Fondazione investe 100 milioni contando di finanziarsi perché una buona metà dell’area verrà adibita a centro commerciale. Vado a trovarlo perché è un vecchio socialista amico di Amato e De Michelis che invano Orsoni ha cercato di scalzare. Non so quanto si compiaccia nel constatare che «l’elevatissima autostima di Orsoni è crollata. Insieme al suo tentativo di sottomettere al Comune gli altri poteri, dalle acque ai Musei, dal Casinò alla Fenice».
Il risultato è la dissoluzione di un establishment cui la sinistra ex comunista, dopo la scomparsa di un purosangue come Gianni Pellicani, si è limitata a figurare come supporto, accontentandosi di contrattare appalti e licenze per le Coop. Così, insieme agli imprenditori arricchitisi col Consorzio e con il project financing degli ospedali (solo quello di Mestre ne costa alla collettività 18 milioni di affitto), sono finiti incastrati anche i Primo Greganti locali e i loro politici di riferimento, alias Marchese, Mugnato e Zoggia.
La “ditta” veneziana, come direbbe Bersani. Una batosta politica, prima che giudiziaria, dalla quale difficilmente si riprenderanno in tempo per il rinnovo del consiglio comunale, che sia in autunno o la primavera
2015. Tanto è vero che già avanza, sponsorizzato su Europa da Guido Multedo, l’uomo nuovo del Pd, l’avvocato Jacopo Molina, 36 anni, uno che parla di “rottamazione” e di “cambiare verso”.
La corsa a recuperare una parvenza di verginità ora coinvolge un po’ tutti, compreso il presidente leghista della giunta regionale, Luca Zaia, cui in effetti Galan cercò invano di sbarrare il passo convocando a colloquio con Berlusconi in una saletta dell’aeroporto veneziano il gotha degli imprenditori amici, il 19 ottobre 2009: c’erano Mazzacurati, Baia, Zoppas, Stefanel e altri. Non mancava il finanziere- manager di quell’aeroporto, Enrico Marchi, altra eminenza grigia di quella galassia che Renzo Mazzaro ha descritto bene nel libro I padroni del Veneto ( Laterza). Mazzaro non manca però di ricordare come poi Zaia scelse di tenere al suo fianco l’assessore alle Infrastrutture di Galan, Renato Chisso, oggi in carcere. E durante la sua prima, spettacolare visita agli impianti del Mose, con due motonavi e tre elicotteri, salutò così l’impresa: «Il Mose è il primo datore di lavoro del Veneto. E lo sarà anche in futuro grazie alle opere di manutenzione». Zaia ora denuncia «una cupola inquietante che però nessuno poteva immaginare, se è vero che da magistrato non riuscì a individuarla nemmeno Felice Casson ». In effetti Mazzacurati era previdente. Il completamento del Mose non avrebbe dovuto interrompere la mangiatoia generale. E lui stesso, dimettendosi per tempo prima di essere travolto, ha pensato bene di farsi elargire una liquidazione di oltre sette milioni di euro. Da sommare alla casa di San Diego in California, luogo d’origine delle mogli-sorelle
sposate in successione, dove opera il centro oceanografico Scrips che collabora al Mose.
Come a Genova è crollato il valore patrimoniale della Carige e della Fondazione sua azionista, anche Venezia rimane drammaticamente a secco. Non è chiaro come il Comune finanzierà i servizi sociali. Ma se a Genova sopravvive qualche imprenditore miliardario, come i Malacalza, in laguna ci si è abituati a vivere da tempo solo con i soldi che arrivano da Roma. La capitale mediterranea dei commerci, la Serenissima dei mercanti che ignoravano la politica e affittavano gli eserciti, ha esaurito anche le ricchezze private. Fu una grande colonizzatrice, imperialista fra il Medioevo e l’età moderna, per ritrovarsi ora città-museo che può trovare un futuro solo accettando la colonizzazione degli investimenti stranieri.
Provo a dirlo scherzando a Giuliano Segre, ma lui risponde serio: «È chiaro che noi dobbiamo puntare a una colonizzazione giocata sulla cultura. Dobbiamo andare dai cinesi e dirgli “Venezia può diventare una vostra colonia” ». Guardi che lo scrivo, Segre… «Ma certo, lo scriva». Sua moglie, in effetti, Laura Fincato, già sottosegretaria socialista agli Esteri nella Prima Repubblica, e ora delegata ai rapporti con l’Expo 2015 della giunta Orsoni, tiene per Venezia i rapporti con la Repubblica popolare cinese. Non a caso Segre mi fa notare che l’unico spezzone di establishment che abbia conservato a Venezia rilevanza mondiale è la Biennale presieduta da Paolo Baratta. I cinesi vi hanno (faticosamente) acquisito uno spazio espositivo importante, come gli americani.
Diciamo che il destino riservato a Venezia sembra il tragitto di un Marco Polo all’incontrario, con gli occhi a mandorla.
Ma a tutto questo i residenti travolti dall’idraulica in questi giorni non riescono a pensare. Sui vaporetti hanno affisso una pubblicità con scritto: «Venezia non è solo Mose». Si
attendono gli esiti delle confessioni già rilasciate, a cominciare da quelle degli elemosinieri che dopo aver corrotto la politica e i controllori si ergono a moralisti. Soprattutto ci si aspetta che dai numerosi omissis dei verbali sgorghino altri nomi, altre rivelazioni. Non sappiamo ancora chi abbia incassato le «buste anodine» che Orsoni vedeva posarsi «con riluttanza» nella sua bella casa. Non sappiamo se il potente caduto in disgrazia, Giancarlo Galan, conoscerà anche l’onta della galera. Di certo ne esce stravolta l’immagine virtuosa del Nord-Est e dei suoi imprenditori soffocati dalla burocrazia e dall’avidità dei governanti, su cui ha marciato per decenni l’antipolitica. Chi gli crederà più quando, magari domani all’assemblea degli industriali di Treviso con il premier Renzi, si alzerà qualcuno a fare il vittimista?
E pensare che la nostra splendida vetrina lagunare, il gioiello Venezia, è stata giustamente prescelta dal governo per inaugurare il 7-8 luglio prossimi il semestre di presidenza italiana dell’Unione, in coincidenza con la settimana digitale europea. Matteo Renzi avrebbe dovuto visitare gli impianti del Mose e la sua spettacolare stanza di controllo. Il programma subirà qualche aggiustamento. Forse aveva ragione il nostro compianto Fabio Barbieri, direttore dei tre giornali veneti del Gruppo Espresso, che quando gli parlavano del Mose rispondeva: è un ferrovecchio.
Da La Repubblica del 20/06/2014.
(Gad Lerner).
20/06/2014 di triskel182
Com’è triste Venezia affondata nelle mazzette dal gigante di cemento che doveva salvarla
Dal sogno megalomane delle dighe del Mose alla scoperta che le casse della città sono vuote
Così il progetto nato per proteggere la Laguna, e che tutti qui difendono ancora, ha finito per prosciugare la Serenissima E adesso c’è chi dice: “L’ultima spiaggia? Vendersi ai cinesi”
UNA CITTÀ SEMPRE PIÙ VECCHIA E DEPREDATA DALLE MAZZETTE .
VENEZIA COLPITA e affondata dalla mitomania idraulica che doveva risollevarla, Venezia- Mose condivide la sventura con la sua rivale storica: Genova-Carige la sbancata. Certo in laguna tutto appare più elegante, l’ingegner Mazzacurati è un gran signore cosmopolita e l’avvocato Orsoni, a detta degli stessi magistrati, riceveva a domicilio i soldi pubblici del Consorzio, cioè di noi contribuenti, «con vereconda indifferenza, seguita dalle consuete reciproche manifestazioni di cavalleresche cortesie».
Sempre chiarendo che quei soldi non servivano certo a lui, già ricco abbastanza, ma all’intendenza di un Pd cui si era concesso candidato sindaco, recandogli con sé il beneplacito della curia e del patriziato superstite. Ho promesso al rivale di Orsoni nelle elezioni 2010, il solitamente loquace Renato Brunetta, di non violare l’embargo che si è imposto sulla retata del Consorzio Nuova Venezia.
Anche perché, se gli ricordi i contributi che anche lui riscuoteva da Mazzacurati, reagisce citando le campagne elettorali di Obama e le provvidenze statali ai giornali. Sta di fatto che Brunetta si sente vittima di un sistema che a destra includeva Galan mentre lo liquidava come outsider. Ma c’è un rimpianto di Brunetta che non posso non riferire, in quanto espressione del vetusto senso di superiorità che neanche la decadenza veneziana affievolisce: «Sono addolorato perché il Mose è la più grande opera idraulica della storia dell’umanità. Oggi viene svilita ma rappresentava il riscatto della modernità. In fondo anche la Tour Eiffel costò molte vite umane, spero che questa brutta storia venga dimenticata
».
Ecco la vetustà della Serenissima decaduta: illusasi di dominare le maree con dighe subacquee mobili che nessun altro luogo al
mondo impianta, anche per i costi proibitivi della loro manutenzione. Riproporsi superpotenza attraverso la tecnologia nonostante sia venuta meno la sua vocazione globale al commercio e le sue secolari ricchezze patrimoniali siano ormai esaurite. Il Comune, destinato al commissariamento, ha le casse vuote. Il Casinò non fornisce più i fondi necessari alla spesa sociale. Gli introiti delle navi da crociera vanno direttamente allo Stato. E da decenni ormai i miliardi dei fondi speciali necessari alla manutenzione vengono interamente drenati dal Consorzio, il grande corruttore.
«Voglio scrivere un saggio intitolato Serenissima preda – dice Gianfranco Bettin, uno dei pochi No-Mose della politica cittadina —
perché Venezia si è concessa con grazia ai suoi violentatori, illudendosi di guadagnarci ». Bettin ha scagliato un bicchiere contro il muro per la rabbia quando Giorgio Orsoni gli ha negato la parola il giorno delle dimissioni della giunta (di cui faceva parte come assessore all’Ambiente). Sostiene che il sindaco benestante ha preso i soldi, forse malvolentieri, con lo spirito di chi facendo parte del sistema non poteva rifiutarsi «come quando ti offrono da bere e sarebbe brutto dire di no». In effetti è vero che la giunta Orsoni ha ingaggiato poi un braccio di ferro col Consorzio di Mazzacurati e Baita, così come con l’altro fautore delle grandi opere, Paolo Costa, a sua volta ex sindaco ora presidente dell’Autorità Portuale che progetta ulteriori scavi di canali e un nuovo bacino off shore. Bettin non risparmia neanche l’amico Massimo Cacciari, che è stato grande elettore prima di Costa e poi di Orsoni, essendo convinto che Venezia si possa amministrare solo cedendo spazio ai portavoce moderati del suo establishment.
Un establishment ora schiacciato dalla megalomane vetustà lagunare, avvolto nella ragnatela delle sovrafatturazioni grazie a cui il Consorzio stipendiava perfino chi avrebbe dovuto controllarlo, cioè i funzionari del Magistrato delle Acque. Parlo di vetustà scoprendo che la settimana scorsa perfino l’”irregolare” Cacciari ha compiuto settant’anni. E lo stesso Bettin ne ha trascorsi più di venti tra consiglio comunale e Parlamento. A essere invecchiata è un’idea di modernità coltivata trasversalmente in laguna, meglio una ideologia che ha portato tra i fautori del Mose urbanisti di sinistra come Francesco Indovina, firma illustre del Manifesto. Un altro personaggio di quel gruppo, Franco Miracco, dopo aver lavorato lungamente alla presentabilità sociale di Giancarlo Galan, nel frattempo si è già riciclato assessore alla cultura nella giunta di sinistra di Trieste. Moderno e
trasversale, appunto. Talmente strana è Venezia, dove presidente degli industriali è divenuto Luigi Brugnaro, fondatore dell’agenzia di lavoro interinale Humana, figlio di Ferruccio Brugnaro, poeta-operaio comunista del Petrolchimico. Se ne parla come possibile candidato sindaco.
Il record della vetustà lo detiene l’economista Giuliano Segre, per undici anni presidente della Cassa di Risparmio e a seguire, dal 1993, per altri ventun anni, presidente della Fondazione bancaria. Sta precostituendosi un futuro alla guida di M9, il Museo del Novecento di Mestre in cui la Fondazione investe 100 milioni contando di finanziarsi perché una buona metà dell’area verrà adibita a centro commerciale. Vado a trovarlo perché è un vecchio socialista amico di Amato e De Michelis che invano Orsoni ha cercato di scalzare. Non so quanto si compiaccia nel constatare che «l’elevatissima autostima di Orsoni è crollata. Insieme al suo tentativo di sottomettere al Comune gli altri poteri, dalle acque ai Musei, dal Casinò alla Fenice».
Il risultato è la dissoluzione di un establishment cui la sinistra ex comunista, dopo la scomparsa di un purosangue come Gianni Pellicani, si è limitata a figurare come supporto, accontentandosi di contrattare appalti e licenze per le Coop. Così, insieme agli imprenditori arricchitisi col Consorzio e con il project financing degli ospedali (solo quello di Mestre ne costa alla collettività 18 milioni di affitto), sono finiti incastrati anche i Primo Greganti locali e i loro politici di riferimento, alias Marchese, Mugnato e Zoggia.
La “ditta” veneziana, come direbbe Bersani. Una batosta politica, prima che giudiziaria, dalla quale difficilmente si riprenderanno in tempo per il rinnovo del consiglio comunale, che sia in autunno o la primavera
2015. Tanto è vero che già avanza, sponsorizzato su Europa da Guido Multedo, l’uomo nuovo del Pd, l’avvocato Jacopo Molina, 36 anni, uno che parla di “rottamazione” e di “cambiare verso”.
La corsa a recuperare una parvenza di verginità ora coinvolge un po’ tutti, compreso il presidente leghista della giunta regionale, Luca Zaia, cui in effetti Galan cercò invano di sbarrare il passo convocando a colloquio con Berlusconi in una saletta dell’aeroporto veneziano il gotha degli imprenditori amici, il 19 ottobre 2009: c’erano Mazzacurati, Baia, Zoppas, Stefanel e altri. Non mancava il finanziere- manager di quell’aeroporto, Enrico Marchi, altra eminenza grigia di quella galassia che Renzo Mazzaro ha descritto bene nel libro I padroni del Veneto ( Laterza). Mazzaro non manca però di ricordare come poi Zaia scelse di tenere al suo fianco l’assessore alle Infrastrutture di Galan, Renato Chisso, oggi in carcere. E durante la sua prima, spettacolare visita agli impianti del Mose, con due motonavi e tre elicotteri, salutò così l’impresa: «Il Mose è il primo datore di lavoro del Veneto. E lo sarà anche in futuro grazie alle opere di manutenzione». Zaia ora denuncia «una cupola inquietante che però nessuno poteva immaginare, se è vero che da magistrato non riuscì a individuarla nemmeno Felice Casson ». In effetti Mazzacurati era previdente. Il completamento del Mose non avrebbe dovuto interrompere la mangiatoia generale. E lui stesso, dimettendosi per tempo prima di essere travolto, ha pensato bene di farsi elargire una liquidazione di oltre sette milioni di euro. Da sommare alla casa di San Diego in California, luogo d’origine delle mogli-sorelle
sposate in successione, dove opera il centro oceanografico Scrips che collabora al Mose.
Come a Genova è crollato il valore patrimoniale della Carige e della Fondazione sua azionista, anche Venezia rimane drammaticamente a secco. Non è chiaro come il Comune finanzierà i servizi sociali. Ma se a Genova sopravvive qualche imprenditore miliardario, come i Malacalza, in laguna ci si è abituati a vivere da tempo solo con i soldi che arrivano da Roma. La capitale mediterranea dei commerci, la Serenissima dei mercanti che ignoravano la politica e affittavano gli eserciti, ha esaurito anche le ricchezze private. Fu una grande colonizzatrice, imperialista fra il Medioevo e l’età moderna, per ritrovarsi ora città-museo che può trovare un futuro solo accettando la colonizzazione degli investimenti stranieri.
Provo a dirlo scherzando a Giuliano Segre, ma lui risponde serio: «È chiaro che noi dobbiamo puntare a una colonizzazione giocata sulla cultura. Dobbiamo andare dai cinesi e dirgli “Venezia può diventare una vostra colonia” ». Guardi che lo scrivo, Segre… «Ma certo, lo scriva». Sua moglie, in effetti, Laura Fincato, già sottosegretaria socialista agli Esteri nella Prima Repubblica, e ora delegata ai rapporti con l’Expo 2015 della giunta Orsoni, tiene per Venezia i rapporti con la Repubblica popolare cinese. Non a caso Segre mi fa notare che l’unico spezzone di establishment che abbia conservato a Venezia rilevanza mondiale è la Biennale presieduta da Paolo Baratta. I cinesi vi hanno (faticosamente) acquisito uno spazio espositivo importante, come gli americani.
Diciamo che il destino riservato a Venezia sembra il tragitto di un Marco Polo all’incontrario, con gli occhi a mandorla.
Ma a tutto questo i residenti travolti dall’idraulica in questi giorni non riescono a pensare. Sui vaporetti hanno affisso una pubblicità con scritto: «Venezia non è solo Mose». Si
attendono gli esiti delle confessioni già rilasciate, a cominciare da quelle degli elemosinieri che dopo aver corrotto la politica e i controllori si ergono a moralisti. Soprattutto ci si aspetta che dai numerosi omissis dei verbali sgorghino altri nomi, altre rivelazioni. Non sappiamo ancora chi abbia incassato le «buste anodine» che Orsoni vedeva posarsi «con riluttanza» nella sua bella casa. Non sappiamo se il potente caduto in disgrazia, Giancarlo Galan, conoscerà anche l’onta della galera. Di certo ne esce stravolta l’immagine virtuosa del Nord-Est e dei suoi imprenditori soffocati dalla burocrazia e dall’avidità dei governanti, su cui ha marciato per decenni l’antipolitica. Chi gli crederà più quando, magari domani all’assemblea degli industriali di Treviso con il premier Renzi, si alzerà qualcuno a fare il vittimista?
E pensare che la nostra splendida vetrina lagunare, il gioiello Venezia, è stata giustamente prescelta dal governo per inaugurare il 7-8 luglio prossimi il semestre di presidenza italiana dell’Unione, in coincidenza con la settimana digitale europea. Matteo Renzi avrebbe dovuto visitare gli impianti del Mose e la sua spettacolare stanza di controllo. Il programma subirà qualche aggiustamento. Forse aveva ragione il nostro compianto Fabio Barbieri, direttore dei tre giornali veneti del Gruppo Espresso, che quando gli parlavano del Mose rispondeva: è un ferrovecchio.
Da La Repubblica del 20/06/2014.
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Re: Venezia Il Mose
Segnalo alla vostra attenzione questo articolo di franco Cordero.
Repubblica 20.6.14
Tutti gli ostacoli del governo Renzi
di Franco Cordero
A TRE settimane dal voto europeo numeri ed eventi suggeriscono rilievi irrispettosi: gli 11.202.231 di voti raccolti dall’esordiente, pari al 40.8% dei votanti, erano un exploit inaudito nelle fiere elettorali italiane ( adde L’Altra Europa, 4%); i 4.614.364 (16.8%) racimolati da Forza Italia riflettono un leader ormai fiacco ma, issato a cavallo, può ancora guidare la carica, se qualche espediente meccanico lo tiene ritto (capitava in un vecchio film sul Cid Campeador); e inclusi i presumibili confluenti nel cartello (Ncd, Udc, FdI, Lega Nord), l’armata variopinta conta 9.997.02 teste (31.1%), in vista del tête-à tête finale, potendo pescare nel 21.11% sterile accumulato dai pentasiderei (qualora viga l’Italicum). Votassimo domani, la vittoria sarebbe ancora più larga, sennonché l’ex sindaco fiorentino vuole un’intera legislatura, fino al 2018 e qui ha gioco meno facile. Glielo complicano degli handicap.
Vediamoli cominciando dalla mistica delle riforme costituzionali; le promuoveva il Quirinale, tale essendo l’obiettivo della «larghe intese»: le quali erano veicolo d’un regime consortile dove il Pd sarebbe stato junior partner, perché nella XVI legislatura Re Lanterna era padrone, ma in 42 mesi dilapida il capitale, fino alle squallide dimissioni, sabato 12 novembre 2011. Furioso e gemebondo, lamentava le maglie strette d’una Carta obsoleta e i lunghi percorsi legislativi, imputabili alla struttura bicamerale, ululando ogniqualvolta la Consulta dichiarasse invalide norme disegnate sulla sua anomala misura. Il Colle guardava, indifferente all’immane conflitto d’interessi e coinvolto in manovre d’abusiva immunità. L’eclissi dura un anno: redivivo, sfiora la clamorosa rivincita; nasce un governo bicolore guidato da Letta nipote, la cui storia familiare e politica vale un programma; e chi elabora le novità supreme, ministro competente? Gaetano Quagliariello, centurione berlusconiano. Marchiate dall’oligarchia partitica, le Camere attuali erano le meno idonee a rifondare lo Stato. Così tengono banco questioni artificiose su cui il governo s’impegna a vuoto.
L’urgente sta nell’economia infestata da mafie, camorra, corruzione: mancavano due spanne alla bancarotta; il morbo italico è debito pubblico straripante, declino produttivo, disoccupati, rendite parassitarie, caduta dei consumi, istruzione deficitaria, atonia morale. Molto cambierebbe appena fossero snidati i vampiri e l’uomo nuovo parla chiaro ma i consorti coltivano interessi nella cui gestione “garantismo” significa impunità: ad esempio, aborrono le intercettazioni, in ossequio alla privacy delittuosa; intendono la difesa come ingegnoso perditempo; difendono meccanismi perversi della prescrizione, affinché almeno un processo su tre finisca in scandalosi proscioglimenti. Nella casistica a colletto bianco è raro che scatti la pena: quando avviene, benefici penitenziari la convertono, tagliano, diluiscono; vedi Silvius Magnus, caso Mediaset. Che nell’Italia 2014 “mercato” sia parola vuota, lo dicono notizie Expo e Mose scoperchiando malaffari miliardari dall’effetto notorio: un km d’alta velocità costa sei volte la stessa opera in Francia; vi mangiano impresari, intermediari, “facilitatori”, funzionari, pseudoconsulenti, parassiti dal vario colore sotto trasversale ombrello politico. Le procure ottengono misure cautelari. Qui gli oligarchi battono un colpo strepitoso.
Mercoledì 11 giugno Montecitorio votava norme comunitarie sulla responsabilità civile del magistrato. L’emendamento del solito leghista contempla azioni dirette contro l’autore dell’asserito «danno ingiusto» ossia liti tra imputato e chi lo giudica: idea da manicomio; l’arnese intimidatorio inquina il giudizio e lo ostruisce perché ogni chiamato in causa diventa incompatibile; l’Olonese li fulminerebbe uno dopo l’altro. L’emendamento riscuote 187 sì contro 180 e se Palazzo Madama, ripetesse l’impresa, navigheremmo sulla Nave dei folli (l’aveva incisa Dürer, 1494). Naturali i trionfi a destra ma il Pd conta 293 teste sotto la cupola montecitoria e ne erano presenti 214; chi se ne intende calcola 57 traditori. Il capogruppo, pupillo dal emobersaniano, non se ne stupisce: fioriscono i « garantisti » Pd, eccome, primus quorum ipse; lo esclamava un anno fa, memorabile outing, e intavola la candidatura al patronato dei perseguibili o già imputati (corruttori, corrotti e simili); voci confraterne chiedono una «svolta storica» dal «giustizialismo» al virtuoso contrario. Il Quirinale emette una vaga frase equidistante ( l’anno scorso esortava tribunali e corti al rispetto dello «statista » indaffarato). Lo sconfitto 2013 grida d’avere votato contro l’emendamento e solleva dubbi sul gruppo M. R. Sono lunghi i quasi 4 anni residui d’una legislatura completa, con innumerevoli occasioni d’imboscata. La vecchia guardia include vescovi atei, pasticheur postmarxisti: non vinceranno mai partite elettorali ma sono temibili nei giochi d’inerzia e fuoco amico. Il premier in carica è colpevole d’avere vinto due volte, alle primarie e nelle europee. Insomma, quanto meno dura la mésalliance, tanto meglio, ed è auspicabile un trasloco al Quirinale. Scontiamo ancora i 101 voti Pd tolti a Romano Prodi: l’avevano appena acclamato; nella versione ipocrita Napolitano rieletto scongiura catastrofi. Nossignori, volevano larghe intese oligarchiche; Berlusco Felix canta al microfono «meno male che Giorgio c’è». Il disegno consortile lo presupponeva ancora una volta salvo dal processo. Era scena da teatro nero lo stupore rabbioso giovedì 1 agosto 2013, h. 19.38: la lunga caduta dell’impero forse comincia lì, dalla lettura del dispositivo d’una sentenza; staremmo assai peggio se il tempo avesse estinto anche quella frode fiscale.
Repubblica 20.6.14
Tutti gli ostacoli del governo Renzi
di Franco Cordero
A TRE settimane dal voto europeo numeri ed eventi suggeriscono rilievi irrispettosi: gli 11.202.231 di voti raccolti dall’esordiente, pari al 40.8% dei votanti, erano un exploit inaudito nelle fiere elettorali italiane ( adde L’Altra Europa, 4%); i 4.614.364 (16.8%) racimolati da Forza Italia riflettono un leader ormai fiacco ma, issato a cavallo, può ancora guidare la carica, se qualche espediente meccanico lo tiene ritto (capitava in un vecchio film sul Cid Campeador); e inclusi i presumibili confluenti nel cartello (Ncd, Udc, FdI, Lega Nord), l’armata variopinta conta 9.997.02 teste (31.1%), in vista del tête-à tête finale, potendo pescare nel 21.11% sterile accumulato dai pentasiderei (qualora viga l’Italicum). Votassimo domani, la vittoria sarebbe ancora più larga, sennonché l’ex sindaco fiorentino vuole un’intera legislatura, fino al 2018 e qui ha gioco meno facile. Glielo complicano degli handicap.
Vediamoli cominciando dalla mistica delle riforme costituzionali; le promuoveva il Quirinale, tale essendo l’obiettivo della «larghe intese»: le quali erano veicolo d’un regime consortile dove il Pd sarebbe stato junior partner, perché nella XVI legislatura Re Lanterna era padrone, ma in 42 mesi dilapida il capitale, fino alle squallide dimissioni, sabato 12 novembre 2011. Furioso e gemebondo, lamentava le maglie strette d’una Carta obsoleta e i lunghi percorsi legislativi, imputabili alla struttura bicamerale, ululando ogniqualvolta la Consulta dichiarasse invalide norme disegnate sulla sua anomala misura. Il Colle guardava, indifferente all’immane conflitto d’interessi e coinvolto in manovre d’abusiva immunità. L’eclissi dura un anno: redivivo, sfiora la clamorosa rivincita; nasce un governo bicolore guidato da Letta nipote, la cui storia familiare e politica vale un programma; e chi elabora le novità supreme, ministro competente? Gaetano Quagliariello, centurione berlusconiano. Marchiate dall’oligarchia partitica, le Camere attuali erano le meno idonee a rifondare lo Stato. Così tengono banco questioni artificiose su cui il governo s’impegna a vuoto.
L’urgente sta nell’economia infestata da mafie, camorra, corruzione: mancavano due spanne alla bancarotta; il morbo italico è debito pubblico straripante, declino produttivo, disoccupati, rendite parassitarie, caduta dei consumi, istruzione deficitaria, atonia morale. Molto cambierebbe appena fossero snidati i vampiri e l’uomo nuovo parla chiaro ma i consorti coltivano interessi nella cui gestione “garantismo” significa impunità: ad esempio, aborrono le intercettazioni, in ossequio alla privacy delittuosa; intendono la difesa come ingegnoso perditempo; difendono meccanismi perversi della prescrizione, affinché almeno un processo su tre finisca in scandalosi proscioglimenti. Nella casistica a colletto bianco è raro che scatti la pena: quando avviene, benefici penitenziari la convertono, tagliano, diluiscono; vedi Silvius Magnus, caso Mediaset. Che nell’Italia 2014 “mercato” sia parola vuota, lo dicono notizie Expo e Mose scoperchiando malaffari miliardari dall’effetto notorio: un km d’alta velocità costa sei volte la stessa opera in Francia; vi mangiano impresari, intermediari, “facilitatori”, funzionari, pseudoconsulenti, parassiti dal vario colore sotto trasversale ombrello politico. Le procure ottengono misure cautelari. Qui gli oligarchi battono un colpo strepitoso.
Mercoledì 11 giugno Montecitorio votava norme comunitarie sulla responsabilità civile del magistrato. L’emendamento del solito leghista contempla azioni dirette contro l’autore dell’asserito «danno ingiusto» ossia liti tra imputato e chi lo giudica: idea da manicomio; l’arnese intimidatorio inquina il giudizio e lo ostruisce perché ogni chiamato in causa diventa incompatibile; l’Olonese li fulminerebbe uno dopo l’altro. L’emendamento riscuote 187 sì contro 180 e se Palazzo Madama, ripetesse l’impresa, navigheremmo sulla Nave dei folli (l’aveva incisa Dürer, 1494). Naturali i trionfi a destra ma il Pd conta 293 teste sotto la cupola montecitoria e ne erano presenti 214; chi se ne intende calcola 57 traditori. Il capogruppo, pupillo dal emobersaniano, non se ne stupisce: fioriscono i « garantisti » Pd, eccome, primus quorum ipse; lo esclamava un anno fa, memorabile outing, e intavola la candidatura al patronato dei perseguibili o già imputati (corruttori, corrotti e simili); voci confraterne chiedono una «svolta storica» dal «giustizialismo» al virtuoso contrario. Il Quirinale emette una vaga frase equidistante ( l’anno scorso esortava tribunali e corti al rispetto dello «statista » indaffarato). Lo sconfitto 2013 grida d’avere votato contro l’emendamento e solleva dubbi sul gruppo M. R. Sono lunghi i quasi 4 anni residui d’una legislatura completa, con innumerevoli occasioni d’imboscata. La vecchia guardia include vescovi atei, pasticheur postmarxisti: non vinceranno mai partite elettorali ma sono temibili nei giochi d’inerzia e fuoco amico. Il premier in carica è colpevole d’avere vinto due volte, alle primarie e nelle europee. Insomma, quanto meno dura la mésalliance, tanto meglio, ed è auspicabile un trasloco al Quirinale. Scontiamo ancora i 101 voti Pd tolti a Romano Prodi: l’avevano appena acclamato; nella versione ipocrita Napolitano rieletto scongiura catastrofi. Nossignori, volevano larghe intese oligarchiche; Berlusco Felix canta al microfono «meno male che Giorgio c’è». Il disegno consortile lo presupponeva ancora una volta salvo dal processo. Era scena da teatro nero lo stupore rabbioso giovedì 1 agosto 2013, h. 19.38: la lunga caduta dell’impero forse comincia lì, dalla lettura del dispositivo d’una sentenza; staremmo assai peggio se il tempo avesse estinto anche quella frode fiscale.
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Re: Venezia Il Mose
Tenendo conto che le stazioni di erogazione del denaro pubblico in Italia sono 32.000, tra Comuni, Provincie, Regioni e Stato centrale, dove avvengono sostanzialmente in modo proporzionale le stesse vicende, ma qualcuno crede veramente che si possa uscire da una situazione come questa???
Corriere 7.7.14
Leggi corrotte, non solo gli uomini
Giavazzi e Barbieri: norme scritte per tornaconto privato
di Gian Antonio Stella
I veneziani dei tempi d’oro non ci avrebbero pensato due volte: ogni colpevole sarebbe stato portato dopo la condanna a San Marco, legato mani e piedi a quattro cavalli che con un colpo di frusta sarebbero schizzati via in direzioni opposte. Era implacabile, la Serenissima, sul furto e lo spreco di soldi pubblici. Più ancora era rigida nella difesa del delicato equilibrio della laguna.
Figuratevi dunque la collera che sarebbe esplosa alla scoperta che il Mose, senza avere ancora dato prova se funzionerà o meno, è già costato, a prezzi aggiornati grazie a preziose ricostruzioni storiche, trenta volte più della grandiosa e costosissima deviazione del Piave compiuta mezzo millennio fa dai nostri bisnonni con mezzi tecnici immensamente inferiori a quelli di oggi. Per l’esattezza sono stati sottratti alle tasche dei cittadini 6,2 miliardi di euro: più del triplo di quanto dichiarato inizialmente. Quasi il doppio di quanto costò, in moneta attuale, l’Autostrada del Sole.
È un cazzotto allo stomaco, il saggio Corruzione a norma di legge. La lobby delle grandi opere che affonda l’Italia , scritto da Giorgio Barbieri e Francesco Giavazzi, in libreria da domani per Rizzoli. Ma se volete capire «come mai» annaspiamo nella corruzione, nell’inefficienza e nella paralisi delle opere pubbliche (e come sia obbligatorio cambiare tutto), dovete assolutamente leggerlo. Perché la storia scellerata del Mose, intorno alla quale ruota il libro, è un impasto di tutto ciò che ci affligge: la cattiva politica, la cattiva imprenditoria, le cattive regole.
Ci sono infatti, per gli autori, due tipi di corruzione. Il primo, che vede scattare piuttosto spesso le manette, è quello classico: la tangente. Ma è il secondo tipo a essere più pericoloso e ambiguo «perché nessuna legge viene violata: sono le leggi stesse a essere state corrotte, cioè scritte e approvate per il tornaconto dei privati contro l’interesse dello Stato, o per alcuni privati a svantaggio di altri. Di fronte a questo tipo di corruzione la giustizia non possiede armi. Nel momento in cui la regola corrotta viene applicata nessuno commette alcun reato; i reati semmai sono stati compiuti quando il Parlamento ha approvato le leggi, ma sono più difficili da dimostrare e sanzionare».
«Chi ha pagato chi ed esattamente per cosa?» Mica facile rispondere. Certo è che tutta la vicenda delle paratie mobili trabocca di deroghe decise per scassinare le regole. La scelta iniziale di un concessionario unico per prendere in contropiede Bruxelles, che avrebbe imposto gare d’appalto europee. La nascita di un cartello che si accaparra il monopolio dei lavori e dà soldi a tutti e «tratta con politici e amministrazioni come fosse un’unica impresa, rappresentando tutti i soci, e quindi evitando anche l’imbarazzo di incontri diretti fra politica e imprenditori». Le disinvolte scorciatoie per scansare ogni intralcio normativo in nome dell’urgenza («Le opere per salvare Venezia verranno ultimate entro il 1995», giurava Craxi nel 1986), col risultato che chi oggi chiede se «una scelta tecnologica fatta quarant’anni fa sia tuttora idonea, soprattutto alla luce dell’analisi costi-benefici», si sente rispondere che «è troppo tardi, ma è una domanda che, in quarant’anni, mai è stato consentito porre, sempre con la scusa che "ormai i lavori sono quasi finiti"».
Erano anni e anni, accusano Barbieri e Giavazzi, che l’andazzo era sotto gli occhi di tutti. Lo dicono le parole dei magistrati Felice Casson e Ivano Nelson Salvarani, che nella stagione di Mani pulite fecero arrestare l’allora presidente del Veneto Gianfranco Cremonese e la spalla di Gianni De Michelis, Giorgio Casadei, scrivendo nella richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti dell’ex ministro Carlo Bernini di «un accordo spartitorio tra i partiti che investe il Consorzio Venezia Nuova».
Lo ripete un micidiale rapporto degli ispettori ministeriali contro l’allora Magistrato alle acque Patrizio Cuccioletta, rimosso nel 2001 per «un uso improprio dei poteri d’urgenza» e un mucchio di irregolarità, comprese «234 giornate lavorative di assenza su 381», e ciò nonostante rimesso al suo posto anni dopo dal berlusconiano Altero Matteoli. Lo conferma un dossier giudiziario secondo cui «l’80% dell’attività del Magistrato era in realtà istruito, redatto e preparato da personale del Consorzio Venezia Nuova». Lo ribadisce una relazione della Corte dei conti sui collaudi delle opere: «Gli emolumenti ai collaudatori sono integralmente posti a carico del concessionario».
Una schifezza, denunciano Barbieri e Giavazzi: il collaudatore opera per conto e nell’interesse dello Stato e «dovrebbe essere la naturale controparte del concessionario, cioè del Consorzio, ed è un evidente conflitto d’interessi se le parcelle sono saldate da chi deve essere controllato». Parcelle enormi, tra l’altro: 23.868.640 euro nel solo quinquennio 2004-2008. Con tariffe, come rivelò Sergio Rizzo, «maggiorate del 60% per rimborso forfettario delle spese». E distribuite persino a potenti dirigenti ministeriali, che poi avevano voce in capitolo sui finanziamenti al Consorzio.
L’impasto di interessi appiccicosi era tale, ricorda il libro, che a un certo punto Carlo Azeglio Ciampi decise con un decreto di dire basta al concessionario unico. Ma ancora quell’impasto di interessi fece sì che l’anno dopo il decreto fosse svuotato da Lamberto Dini, con due righe che blindavano gli affari del Consorzio: «Restano validi gli atti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti».
Per non dire come fu presa per i fondelli Bruxelles, che, furente per le violazioni alla concorrenza sulle gare d’appalto comunitarie, abboccò all’impegno del governo di destra di un cambio di rotta e dell’assegnazione con gare europee del 53% dei lavori «per circa 3.160 milioni di euro». Una bufala: «Il Consorzio ha infatti messo a gara forniture per una cifra inferiore ai 200 milioni di euro, il 5% circa».
Ma quanto è costata agli italiani questa miliardaria poltiglia di interessi, dove le mazzette sono solo la parte più visibile? Il libro risponde che, sommando i ribassi mancati (1,6 miliardi circa) all’aggio di 744 milioni trattenuto da Venezia Nuova, si arriva a quasi 2,4 miliardi di euro. «E questa cifra non include il maggiore costo dei lavori eseguiti dal Consorzio per altre opere di salvaguardia, che ammonta a 3 miliardi di euro circa». Un bottino spropositato. Che ci ricorda l’urgenza di cambiare finalmente, prima ancora che gli uomini, le regole. Ne va del destino di Venezia. Dell’Expo. Delle grandi opere. Del Paese stesso: «Il rischio è che l’opinione pubblica, sconcertata dai casi di eclatanti violazioni della legge, scordi che il problema principale è la corruzione delle leggi».
Corriere 7.7.14
Leggi corrotte, non solo gli uomini
Giavazzi e Barbieri: norme scritte per tornaconto privato
di Gian Antonio Stella
I veneziani dei tempi d’oro non ci avrebbero pensato due volte: ogni colpevole sarebbe stato portato dopo la condanna a San Marco, legato mani e piedi a quattro cavalli che con un colpo di frusta sarebbero schizzati via in direzioni opposte. Era implacabile, la Serenissima, sul furto e lo spreco di soldi pubblici. Più ancora era rigida nella difesa del delicato equilibrio della laguna.
Figuratevi dunque la collera che sarebbe esplosa alla scoperta che il Mose, senza avere ancora dato prova se funzionerà o meno, è già costato, a prezzi aggiornati grazie a preziose ricostruzioni storiche, trenta volte più della grandiosa e costosissima deviazione del Piave compiuta mezzo millennio fa dai nostri bisnonni con mezzi tecnici immensamente inferiori a quelli di oggi. Per l’esattezza sono stati sottratti alle tasche dei cittadini 6,2 miliardi di euro: più del triplo di quanto dichiarato inizialmente. Quasi il doppio di quanto costò, in moneta attuale, l’Autostrada del Sole.
È un cazzotto allo stomaco, il saggio Corruzione a norma di legge. La lobby delle grandi opere che affonda l’Italia , scritto da Giorgio Barbieri e Francesco Giavazzi, in libreria da domani per Rizzoli. Ma se volete capire «come mai» annaspiamo nella corruzione, nell’inefficienza e nella paralisi delle opere pubbliche (e come sia obbligatorio cambiare tutto), dovete assolutamente leggerlo. Perché la storia scellerata del Mose, intorno alla quale ruota il libro, è un impasto di tutto ciò che ci affligge: la cattiva politica, la cattiva imprenditoria, le cattive regole.
Ci sono infatti, per gli autori, due tipi di corruzione. Il primo, che vede scattare piuttosto spesso le manette, è quello classico: la tangente. Ma è il secondo tipo a essere più pericoloso e ambiguo «perché nessuna legge viene violata: sono le leggi stesse a essere state corrotte, cioè scritte e approvate per il tornaconto dei privati contro l’interesse dello Stato, o per alcuni privati a svantaggio di altri. Di fronte a questo tipo di corruzione la giustizia non possiede armi. Nel momento in cui la regola corrotta viene applicata nessuno commette alcun reato; i reati semmai sono stati compiuti quando il Parlamento ha approvato le leggi, ma sono più difficili da dimostrare e sanzionare».
«Chi ha pagato chi ed esattamente per cosa?» Mica facile rispondere. Certo è che tutta la vicenda delle paratie mobili trabocca di deroghe decise per scassinare le regole. La scelta iniziale di un concessionario unico per prendere in contropiede Bruxelles, che avrebbe imposto gare d’appalto europee. La nascita di un cartello che si accaparra il monopolio dei lavori e dà soldi a tutti e «tratta con politici e amministrazioni come fosse un’unica impresa, rappresentando tutti i soci, e quindi evitando anche l’imbarazzo di incontri diretti fra politica e imprenditori». Le disinvolte scorciatoie per scansare ogni intralcio normativo in nome dell’urgenza («Le opere per salvare Venezia verranno ultimate entro il 1995», giurava Craxi nel 1986), col risultato che chi oggi chiede se «una scelta tecnologica fatta quarant’anni fa sia tuttora idonea, soprattutto alla luce dell’analisi costi-benefici», si sente rispondere che «è troppo tardi, ma è una domanda che, in quarant’anni, mai è stato consentito porre, sempre con la scusa che "ormai i lavori sono quasi finiti"».
Erano anni e anni, accusano Barbieri e Giavazzi, che l’andazzo era sotto gli occhi di tutti. Lo dicono le parole dei magistrati Felice Casson e Ivano Nelson Salvarani, che nella stagione di Mani pulite fecero arrestare l’allora presidente del Veneto Gianfranco Cremonese e la spalla di Gianni De Michelis, Giorgio Casadei, scrivendo nella richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti dell’ex ministro Carlo Bernini di «un accordo spartitorio tra i partiti che investe il Consorzio Venezia Nuova».
Lo ripete un micidiale rapporto degli ispettori ministeriali contro l’allora Magistrato alle acque Patrizio Cuccioletta, rimosso nel 2001 per «un uso improprio dei poteri d’urgenza» e un mucchio di irregolarità, comprese «234 giornate lavorative di assenza su 381», e ciò nonostante rimesso al suo posto anni dopo dal berlusconiano Altero Matteoli. Lo conferma un dossier giudiziario secondo cui «l’80% dell’attività del Magistrato era in realtà istruito, redatto e preparato da personale del Consorzio Venezia Nuova». Lo ribadisce una relazione della Corte dei conti sui collaudi delle opere: «Gli emolumenti ai collaudatori sono integralmente posti a carico del concessionario».
Una schifezza, denunciano Barbieri e Giavazzi: il collaudatore opera per conto e nell’interesse dello Stato e «dovrebbe essere la naturale controparte del concessionario, cioè del Consorzio, ed è un evidente conflitto d’interessi se le parcelle sono saldate da chi deve essere controllato». Parcelle enormi, tra l’altro: 23.868.640 euro nel solo quinquennio 2004-2008. Con tariffe, come rivelò Sergio Rizzo, «maggiorate del 60% per rimborso forfettario delle spese». E distribuite persino a potenti dirigenti ministeriali, che poi avevano voce in capitolo sui finanziamenti al Consorzio.
L’impasto di interessi appiccicosi era tale, ricorda il libro, che a un certo punto Carlo Azeglio Ciampi decise con un decreto di dire basta al concessionario unico. Ma ancora quell’impasto di interessi fece sì che l’anno dopo il decreto fosse svuotato da Lamberto Dini, con due righe che blindavano gli affari del Consorzio: «Restano validi gli atti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti».
Per non dire come fu presa per i fondelli Bruxelles, che, furente per le violazioni alla concorrenza sulle gare d’appalto comunitarie, abboccò all’impegno del governo di destra di un cambio di rotta e dell’assegnazione con gare europee del 53% dei lavori «per circa 3.160 milioni di euro». Una bufala: «Il Consorzio ha infatti messo a gara forniture per una cifra inferiore ai 200 milioni di euro, il 5% circa».
Ma quanto è costata agli italiani questa miliardaria poltiglia di interessi, dove le mazzette sono solo la parte più visibile? Il libro risponde che, sommando i ribassi mancati (1,6 miliardi circa) all’aggio di 744 milioni trattenuto da Venezia Nuova, si arriva a quasi 2,4 miliardi di euro. «E questa cifra non include il maggiore costo dei lavori eseguiti dal Consorzio per altre opere di salvaguardia, che ammonta a 3 miliardi di euro circa». Un bottino spropositato. Che ci ricorda l’urgenza di cambiare finalmente, prima ancora che gli uomini, le regole. Ne va del destino di Venezia. Dell’Expo. Delle grandi opere. Del Paese stesso: «Il rischio è che l’opinione pubblica, sconcertata dai casi di eclatanti violazioni della legge, scordi che il problema principale è la corruzione delle leggi».
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