La Terza Guerra Mondiale
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Cronaca di guerra - 4
Fronte - 5 - Siria - 1
Siria, regime di Assad: “Pronti a collaborare con Usa e Regno Unito contro jihadisti”
Lo ha annunciato il ministero degli Esteri Walid al-Moallem: Damasco sarebbe d’accordo con azioni militari sul proprio territorio contro lo Stato Islamico, ma solo con "un pieno coordinamento con il governo siriano". Onu: Isis sta conducendo in Iraq "una pulizia etnica e religiosa". In Iraq, intanto, dove i jihadisti imperversano, si continua a morire: almeno 11 persone sono morte in un attacco kamikaze contro una moschea sciita a Baghdad
di Redazione Il Fatto Quotidiano | 25 agosto 2014Commenti (453)
Nemici fino a ieri, da oggi possibili alleati. Mentre a Washington si considera la possibilità di estendere in Siria i raid aerei in atto in Iraq, la Siria si dice pronta a cooperare con la comunità internazionale, compresi gli Stati Uniti, nella lotta contro il terrorismo. Lo ha annunciato il ministero degli Esteri Walid al-Moallem durante una conferenza stampa a Damasco in cui ha precisato di rispettare la risoluzione Onu che prevede sanzioni contro i gruppi jihadisti in Siria. La dichiarazione di al-Moallem segna il primo commento pubblico da parte di un alto funzionario del governo di Bashar al Assad sulla minaccia dello Stato islamico, che ha conquistato vaste aree di territorio iracheno e siriano.
Il capo della diplomazia siriana ha messo in chiaro che Damasco sarebbe d’accordo con azioni militari, “anche della Gran Bretagna e degli Usa” sul proprio territorio contro l’Isis, ma solo con “un pieno coordinamento con il governo siriano”. Attacchi aerei in Siria contro i militanti dello Stato islamico senza il consenso di Damasco “sarebbero considerati come una grave violazione della sovranità siriana e come un’aggressione”, ha dichiarato il ministro. Muallem è tornato poi sul fallito blitz delle forze speciali Usa per liberare il giornalista James Foley, poi ucciso dall’Isis: “Vi assicuro che se ci fosse stato un coordinamento tra gli Usa e il governo siriano, l’operazione non sarebbe fallita”.
”Nessuna decisione sul possibile avvio di un’azione militare in Siria”, riferisce il portavoce della Casa Bianca, Josh Earnest. Gli Stati Uniti si stanno consultando con Regno Unito, Francia, Australia e Canada su come incrementare il proprio impegno contro l’avanzata dell’Isis, condividendo di informazioni di intelligence, fornendo assistenza militare alle forze curde in Iraq e all’opposizione moderata in Siria e valutando, se necessaria, la strada dei raid aerei.
E’ passato appena un anno dalla fase più acuta della crisi tra il regime di Bashar Al Assad e gli Stati Uniti. Diffusosi il sospetto che le truppe governative stessero usando armi chimiche contro i ribelli, Barack Obama il 20 agosto 2013 escludeva un intervento militare nel paese mediorientale ma avvertiva: “L’uso di armi chimiche cambierebbe la mia strategia. Se si passerà questa linea rossa le conseguenze saranno enormi”. Soltanto 11 giorno dopo, il 31 agosto, il capo della Casa Bianca si diceva pronto a chiedere al Congresso l’autorizzazione per un attacco perché “migliaia di persone sono state uccise dal gas dal loro governo e questo atto è un assalto alla dignità umana e alla nostra sicurezza nazionale”. Alla decisione di Obama di passare per il Congresso il regime esultava. E provocava: l’atteggiamento dell’amministrazione Usa “è diventato ormai oggetto di sarcasmo da parte di tutti”, ironizzava il 1° settembre il vicepremier siriano Qadri Jamil. La risposta di Assad, corredata di una non troppo velata minaccia, arrivava il giorno dopo, il 2 settembre, in un’intervista a Le Figaro: “Il Medioriente è una polveriera – spiegava Assad -, e il fuoco oggi vi sta avvicinando. Non bisogna parlare soltanto della risposta siriana, ma di quello che potrà succedere dopo il primo sparo. Nessuno può sapere cosa succederà. Tutto il mondo perderà il controllo, quando questa polveriera esploderà. Il caos e l’estremismo si diffonderanno ovunque. Esiste il rischio di una guerra in tutta la regione”.
Anche le Nazioni Unite tornano a far sentire la propria voce. Lo Stato islamico sta conducendo in Iraq “una pulizia etnica e religiosa“. La denuncia è arrivata dall’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani, Navi Pillay. “Gravi e orribili violazioni dei diritti dell’uomo vengono commesse ogni giorno dallo Stato islamico e dai gruppi armati associati – ha detto in una nota – colpiscono sistematicamente gli uomini, le donne ed i bambini in virtù della loro appartenenza etnica, religiosa o settaria e conducono senza pietà una pulizia etinica e religiosa nelle regioni sotto il loro controllo”.
In Iraq, intanto, dove lo Stato Islamico imperversa, si continua a morire. Almeno 11 persone sono morte in un attacco kamikaze contro una moschea sciita a Baghdad. Lo ha riferito l’emittente al Arabiya. La moschea colpita è quella dell’Imam Ali, situata nell’affollato sobborgo di Nuova Baghdad, nella parte sud-orientale della capitale. Secondo una fonte del ministero dell’Interno iracheno, citata a condizione di anonimato dall’agenzia Xinhua, l’attentatore ha azionato una cintura esplosiva facendosi saltare in area tra i fedeli riuniti per la preghiera di mezzogiorno. Inoltre alcune autobombe esplose in città sciite a sud di Baghdad hanno hanno ucciso almeno 23 persone. Lo fanno sapere fonti ufficiali del governo iracheno.
In Siria i jihadisti sono galvanizzati dall’ultimo successo ottenuto ieri con la conquista della base di Al Tabqa, l’ultima roccaforte lealista nella provincia settentrionale di Raqqa. Una situazione che ha indotto il vescovo caldeo di Aleppo e presidente di Caritas Siria, mons. Antoine Audo, ad invocare l’intervento di “una forza internazionale di pace”, come avevano fatto altri pastori della Chiesa in Iraq nelle scorse settimane. Mentre Papa Francesco è tornato ad invitare alla preghiera “per la fine della violenza insensata” in un messaggio inviato ad una messa di suffragio per il giornalista americano James Foley, ucciso in Siria dai suoi sequestratori dello Stato islamico.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/08 ... a/1098531/
Fronte - 5 - Siria - 1
Siria, regime di Assad: “Pronti a collaborare con Usa e Regno Unito contro jihadisti”
Lo ha annunciato il ministero degli Esteri Walid al-Moallem: Damasco sarebbe d’accordo con azioni militari sul proprio territorio contro lo Stato Islamico, ma solo con "un pieno coordinamento con il governo siriano". Onu: Isis sta conducendo in Iraq "una pulizia etnica e religiosa". In Iraq, intanto, dove i jihadisti imperversano, si continua a morire: almeno 11 persone sono morte in un attacco kamikaze contro una moschea sciita a Baghdad
di Redazione Il Fatto Quotidiano | 25 agosto 2014Commenti (453)
Nemici fino a ieri, da oggi possibili alleati. Mentre a Washington si considera la possibilità di estendere in Siria i raid aerei in atto in Iraq, la Siria si dice pronta a cooperare con la comunità internazionale, compresi gli Stati Uniti, nella lotta contro il terrorismo. Lo ha annunciato il ministero degli Esteri Walid al-Moallem durante una conferenza stampa a Damasco in cui ha precisato di rispettare la risoluzione Onu che prevede sanzioni contro i gruppi jihadisti in Siria. La dichiarazione di al-Moallem segna il primo commento pubblico da parte di un alto funzionario del governo di Bashar al Assad sulla minaccia dello Stato islamico, che ha conquistato vaste aree di territorio iracheno e siriano.
Il capo della diplomazia siriana ha messo in chiaro che Damasco sarebbe d’accordo con azioni militari, “anche della Gran Bretagna e degli Usa” sul proprio territorio contro l’Isis, ma solo con “un pieno coordinamento con il governo siriano”. Attacchi aerei in Siria contro i militanti dello Stato islamico senza il consenso di Damasco “sarebbero considerati come una grave violazione della sovranità siriana e come un’aggressione”, ha dichiarato il ministro. Muallem è tornato poi sul fallito blitz delle forze speciali Usa per liberare il giornalista James Foley, poi ucciso dall’Isis: “Vi assicuro che se ci fosse stato un coordinamento tra gli Usa e il governo siriano, l’operazione non sarebbe fallita”.
”Nessuna decisione sul possibile avvio di un’azione militare in Siria”, riferisce il portavoce della Casa Bianca, Josh Earnest. Gli Stati Uniti si stanno consultando con Regno Unito, Francia, Australia e Canada su come incrementare il proprio impegno contro l’avanzata dell’Isis, condividendo di informazioni di intelligence, fornendo assistenza militare alle forze curde in Iraq e all’opposizione moderata in Siria e valutando, se necessaria, la strada dei raid aerei.
E’ passato appena un anno dalla fase più acuta della crisi tra il regime di Bashar Al Assad e gli Stati Uniti. Diffusosi il sospetto che le truppe governative stessero usando armi chimiche contro i ribelli, Barack Obama il 20 agosto 2013 escludeva un intervento militare nel paese mediorientale ma avvertiva: “L’uso di armi chimiche cambierebbe la mia strategia. Se si passerà questa linea rossa le conseguenze saranno enormi”. Soltanto 11 giorno dopo, il 31 agosto, il capo della Casa Bianca si diceva pronto a chiedere al Congresso l’autorizzazione per un attacco perché “migliaia di persone sono state uccise dal gas dal loro governo e questo atto è un assalto alla dignità umana e alla nostra sicurezza nazionale”. Alla decisione di Obama di passare per il Congresso il regime esultava. E provocava: l’atteggiamento dell’amministrazione Usa “è diventato ormai oggetto di sarcasmo da parte di tutti”, ironizzava il 1° settembre il vicepremier siriano Qadri Jamil. La risposta di Assad, corredata di una non troppo velata minaccia, arrivava il giorno dopo, il 2 settembre, in un’intervista a Le Figaro: “Il Medioriente è una polveriera – spiegava Assad -, e il fuoco oggi vi sta avvicinando. Non bisogna parlare soltanto della risposta siriana, ma di quello che potrà succedere dopo il primo sparo. Nessuno può sapere cosa succederà. Tutto il mondo perderà il controllo, quando questa polveriera esploderà. Il caos e l’estremismo si diffonderanno ovunque. Esiste il rischio di una guerra in tutta la regione”.
Anche le Nazioni Unite tornano a far sentire la propria voce. Lo Stato islamico sta conducendo in Iraq “una pulizia etnica e religiosa“. La denuncia è arrivata dall’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani, Navi Pillay. “Gravi e orribili violazioni dei diritti dell’uomo vengono commesse ogni giorno dallo Stato islamico e dai gruppi armati associati – ha detto in una nota – colpiscono sistematicamente gli uomini, le donne ed i bambini in virtù della loro appartenenza etnica, religiosa o settaria e conducono senza pietà una pulizia etinica e religiosa nelle regioni sotto il loro controllo”.
In Iraq, intanto, dove lo Stato Islamico imperversa, si continua a morire. Almeno 11 persone sono morte in un attacco kamikaze contro una moschea sciita a Baghdad. Lo ha riferito l’emittente al Arabiya. La moschea colpita è quella dell’Imam Ali, situata nell’affollato sobborgo di Nuova Baghdad, nella parte sud-orientale della capitale. Secondo una fonte del ministero dell’Interno iracheno, citata a condizione di anonimato dall’agenzia Xinhua, l’attentatore ha azionato una cintura esplosiva facendosi saltare in area tra i fedeli riuniti per la preghiera di mezzogiorno. Inoltre alcune autobombe esplose in città sciite a sud di Baghdad hanno hanno ucciso almeno 23 persone. Lo fanno sapere fonti ufficiali del governo iracheno.
In Siria i jihadisti sono galvanizzati dall’ultimo successo ottenuto ieri con la conquista della base di Al Tabqa, l’ultima roccaforte lealista nella provincia settentrionale di Raqqa. Una situazione che ha indotto il vescovo caldeo di Aleppo e presidente di Caritas Siria, mons. Antoine Audo, ad invocare l’intervento di “una forza internazionale di pace”, come avevano fatto altri pastori della Chiesa in Iraq nelle scorse settimane. Mentre Papa Francesco è tornato ad invitare alla preghiera “per la fine della violenza insensata” in un messaggio inviato ad una messa di suffragio per il giornalista americano James Foley, ucciso in Siria dai suoi sequestratori dello Stato islamico.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Cronaca di guerra - 5
Fronte - 6 - Italia - 2
Isis, rischio jihad anche in Italia? E’ giusto mandare armi in Iraq? Vox più sondaggio
Video
http://tv.ilfattoquotidiano.it/2014/08/ ... io/293544/
C’è il rischio di attacchi terroristici di matrice islamica anche per l’Italia? Le autorità italiane annunciano una “altissima vigilanza”, ma in strada tra i cittadini non si registra per il momento una grande preoccupazione, anche se alcuni non escludono il gesto del “fondamentalista della porta accanto”. Altra questione: il governo italiano ha fatto bene a decidere di partecipare all’invio di armi in Iraq per contrastare l’Isis? Le opinioni che abbiamo registrato divergono, ma anche coloro che rispondono in modo affermativo ritengono che non basterà certo ad arginare quella che papa Francesco ha definito “una guerra mondiale a capitoli”. Non mancano le voci radicalmente in dissenso rispetto all’opinione prevalente: “Non siamo di fronte al terrorismo ma a una parte in guerra contro l’imperialismo Usa“, dice un giovane marocchino. “Anche i governi e i media occidentali in fondo fanno terrorismo”, aggiunge un altro intervistato. E voi cosa ne pensate? dite la vostra nei commenti e votando le risposte che vi convincono di più
di Piero Ricca, riprese Ricky Farina
Sondaggio
L’Italia è a rischio terrorismo da parte dei fondamentalisti islamici?
Per il ministro Alfano l'Italia è a rischio terrorismo da parte dei fondamentalisti islamici. Ti sembra concreto questo rischio?
Sì
No
Risultati
Sì 60.81% (861 voti)
No 39.19% (555 voti)
Votanti: 1.416
^^^^^^^^^
Il governo italiano partecipa all’invio di armi in Iraq. Una scelta positiva?
Sì
No
Risultati
No 71.98% (907 voti)
Sì 28.02% (353 voti)
Votanti: 1,260
Fronte - 6 - Italia - 2
Isis, rischio jihad anche in Italia? E’ giusto mandare armi in Iraq? Vox più sondaggio
Video
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C’è il rischio di attacchi terroristici di matrice islamica anche per l’Italia? Le autorità italiane annunciano una “altissima vigilanza”, ma in strada tra i cittadini non si registra per il momento una grande preoccupazione, anche se alcuni non escludono il gesto del “fondamentalista della porta accanto”. Altra questione: il governo italiano ha fatto bene a decidere di partecipare all’invio di armi in Iraq per contrastare l’Isis? Le opinioni che abbiamo registrato divergono, ma anche coloro che rispondono in modo affermativo ritengono che non basterà certo ad arginare quella che papa Francesco ha definito “una guerra mondiale a capitoli”. Non mancano le voci radicalmente in dissenso rispetto all’opinione prevalente: “Non siamo di fronte al terrorismo ma a una parte in guerra contro l’imperialismo Usa“, dice un giovane marocchino. “Anche i governi e i media occidentali in fondo fanno terrorismo”, aggiunge un altro intervistato. E voi cosa ne pensate? dite la vostra nei commenti e votando le risposte che vi convincono di più
di Piero Ricca, riprese Ricky Farina
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L’Italia è a rischio terrorismo da parte dei fondamentalisti islamici?
Per il ministro Alfano l'Italia è a rischio terrorismo da parte dei fondamentalisti islamici. Ti sembra concreto questo rischio?
Sì
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No 39.19% (555 voti)
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Il governo italiano partecipa all’invio di armi in Iraq. Una scelta positiva?
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Cronaca di guerra - 6
Fronte - 6 - Italia - 3
IN ITALIA
Giovani e convertiti, chi sono i 50 italiani dell’Isis
Combattono in Siria e in Iraq, soltanto il 20 per cento è figlio di immigrati. Le adesioni soprattutto a Brescia, Torino, Padova e Bologna
di Virginia Piccolillo
ROMA - Sono almeno cinquanta. Giovanissimi. Reclutati e indottrinati spesso via Internet. Vengono dalle città del Nord: soprattutto Brescia, Torino, Ravenna, Padova, Bologna, e diversi piccoli centri del Veneto. Ma anche Roma e Napoli. La gran parte, almeno l’80 per cento di loro, sono italiani convertiti all’Islam da poco. E di colpo. Ma ci sono anche figli di immigrati, di seconda generazione. Tutti sono attualmente tra Siria e Iraq, pronti ad immolarsi per la jihad: la guerra santa. Ecco l’identikit delle decine di «foreign fighters», i combattenti italiani arruolati dal terrorismo nelle schiere dell’Isis (Stato islamico dell’Iraq e del Levante) dei quali ha parlato ieri al Corriere il ministro dell’Interno, Angelino Alfano.
Nei rapporti riservati della nostra intelligence, che li ha posti sotto controllo, i «foreign fighters» sono la punta estrema di fanatismo in un fenomeno che non è coeso in un unico nucleo, ma frammentato. E che può contare su un gruppo più consistente di residenti in Italia che fungono da «ufficiali di collegamento» tra il nostro territorio e il terrorismo islamico. Secondo le relazioni della nostra intelligence, sarebbero almeno duecento questi ultimi soggetti «attenzionati», ritenuti molto pericolosi dai nostri servizi perché rientrati nel nostro Paese dopo un periodo di addestramento in basi segrete, per lo più in Afghanistan. Rappresentano un fenomeno del tutto nuovo e in controtendenza rispetto agli altri Paesi europei come Gran Bretagna, Germania e Francia e Belgio. Lì la gran parte dei jihadisti reclutati, molto più numerosi di quelli italiani, vanno direttamente a combattere come volontari nei teatri di conflitto. Da noi è il contrario. La maggioranza resta a fornire sostegno logistico, organizzativo e di reclutamento sul nostro territorio, ritenuto uno snodo nevralgico. Anche perché le politiche di integrazione e di accoglienza stanno rendendo sempre più difficile riconoscere, all’interno del popolo di disperati in arrivo sulle nostre coste, quei soggetti che tornano dalla Siria o dalla Libia con ruoli di primo piano. E capaci di fare da punto di riferimento per le nuove reclute.
I «foreign fighters», dalle indagini finora svolte, sono tutti molto giovani. Hanno tra i 18 e i 25 anni. E sono per lo più maschi. Non si hanno per il momento notizie di donne partite dall’Italia per combattere. Sono stati convertiti alla fede jihadista spesso attraverso il web. È la novità principale del fondamentalismo violento. Un’insidia molto difficile da combattere. L’indottrinamento avviene con tecniche pervasive e rapide, che in poco tempo fanno fare ai ragazzi il passo decisivo della partenza verso i teatri di guerra. Tecniche psicologiche manipolative potenti, sperimentate in Pakistan, nei campi di addestramento per giovani kamikaze. Quando sono pronte, le reclute dell’Isis possono contare sugli ufficiali di collegamento che organizzano le loro trasferte spesso senza ritorno. Come è stato per una decina di questi ragazzi partiti dall’Italia e morti in Siria.
Molti combattenti nel nostro Paese sono stati reclutati al Nord. È in fermento la zona di Brescia, assieme alle città di Torino e Milano. Ma anche Ravenna e Bologna, l’area di Padova, la Valcamonica, oltre a Napoli e Roma. Mentre a Cremona era attivo Adhan Bilal Bosnic, ritenuto uno dei principali reclutatori dell’Isis e considerato dagli analisti uno dei sostenitori in Siria e del Califfato oltre che uno dei leader wahabiti integralisti. È noto sui siti Internet integralisti il suo video che inneggia alla distruzione degli Stati Uniti con slogan del genere: «Con esplosivi sul nostro petto costruiamo la via verso il paradiso». Se il web aumenta la capacità pervasiva di radicalizzazione, secondo l’intelligence andrebbe certamente tenuta sotto maggiore controllo l’attività svolta nelle moschee. Mentre in molti Paesi islamici esiste un ministero degli Affari religiosi che a volte valuta in anticipo i sermoni tenuti da imam conosciuti e controllati, da noi no. E senza l’obbligo di pronunciare i discorsi in italiano diventa difficile capire quando la religione cede il passo alla violenza. E quando, invece di pregare per la fratellanza universale, si incitano i fedeli alla guerra santa.
L’allarme infiltrazioni è stato più volte lanciato in questi mesi di grandi sbarchi. E se il ministro dell’Interno, come aveva già fatto il sottosegretario con delega ai servizi Marco Minniti, ha minimizzato sull’incidenza tra i migranti di potenziali terroristi islamici, c’è comunque grande preoccupazione. Molti di quei circa duecento «ufficiali di collegamento» presenti sul nostro territorio nazionale sono rientrati in Italia da Paesi in guerra, inclusa la Siria: come distinguerli con certezza dai richiedenti asilo? Sono loro, del resto, a destare maggiori timori. A capo di piccoli gruppi di intervento, dediti per lo più alla raccolta di fondi e al reclutamento, secondo gli esperti sarebbero pronti, nel momento in cui arrivasse l’ordine, a trasformarsi in micro-cellule terroristiche. O a fornire supporto logistico per l’organizzazione internazionale di eventuali attentati.
25 agosto 2014 | 07:07
© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/cronache/14_agos ... 7a50.shtml
Fronte - 6 - Italia - 3
IN ITALIA
Giovani e convertiti, chi sono i 50 italiani dell’Isis
Combattono in Siria e in Iraq, soltanto il 20 per cento è figlio di immigrati. Le adesioni soprattutto a Brescia, Torino, Padova e Bologna
di Virginia Piccolillo
ROMA - Sono almeno cinquanta. Giovanissimi. Reclutati e indottrinati spesso via Internet. Vengono dalle città del Nord: soprattutto Brescia, Torino, Ravenna, Padova, Bologna, e diversi piccoli centri del Veneto. Ma anche Roma e Napoli. La gran parte, almeno l’80 per cento di loro, sono italiani convertiti all’Islam da poco. E di colpo. Ma ci sono anche figli di immigrati, di seconda generazione. Tutti sono attualmente tra Siria e Iraq, pronti ad immolarsi per la jihad: la guerra santa. Ecco l’identikit delle decine di «foreign fighters», i combattenti italiani arruolati dal terrorismo nelle schiere dell’Isis (Stato islamico dell’Iraq e del Levante) dei quali ha parlato ieri al Corriere il ministro dell’Interno, Angelino Alfano.
Nei rapporti riservati della nostra intelligence, che li ha posti sotto controllo, i «foreign fighters» sono la punta estrema di fanatismo in un fenomeno che non è coeso in un unico nucleo, ma frammentato. E che può contare su un gruppo più consistente di residenti in Italia che fungono da «ufficiali di collegamento» tra il nostro territorio e il terrorismo islamico. Secondo le relazioni della nostra intelligence, sarebbero almeno duecento questi ultimi soggetti «attenzionati», ritenuti molto pericolosi dai nostri servizi perché rientrati nel nostro Paese dopo un periodo di addestramento in basi segrete, per lo più in Afghanistan. Rappresentano un fenomeno del tutto nuovo e in controtendenza rispetto agli altri Paesi europei come Gran Bretagna, Germania e Francia e Belgio. Lì la gran parte dei jihadisti reclutati, molto più numerosi di quelli italiani, vanno direttamente a combattere come volontari nei teatri di conflitto. Da noi è il contrario. La maggioranza resta a fornire sostegno logistico, organizzativo e di reclutamento sul nostro territorio, ritenuto uno snodo nevralgico. Anche perché le politiche di integrazione e di accoglienza stanno rendendo sempre più difficile riconoscere, all’interno del popolo di disperati in arrivo sulle nostre coste, quei soggetti che tornano dalla Siria o dalla Libia con ruoli di primo piano. E capaci di fare da punto di riferimento per le nuove reclute.
I «foreign fighters», dalle indagini finora svolte, sono tutti molto giovani. Hanno tra i 18 e i 25 anni. E sono per lo più maschi. Non si hanno per il momento notizie di donne partite dall’Italia per combattere. Sono stati convertiti alla fede jihadista spesso attraverso il web. È la novità principale del fondamentalismo violento. Un’insidia molto difficile da combattere. L’indottrinamento avviene con tecniche pervasive e rapide, che in poco tempo fanno fare ai ragazzi il passo decisivo della partenza verso i teatri di guerra. Tecniche psicologiche manipolative potenti, sperimentate in Pakistan, nei campi di addestramento per giovani kamikaze. Quando sono pronte, le reclute dell’Isis possono contare sugli ufficiali di collegamento che organizzano le loro trasferte spesso senza ritorno. Come è stato per una decina di questi ragazzi partiti dall’Italia e morti in Siria.
Molti combattenti nel nostro Paese sono stati reclutati al Nord. È in fermento la zona di Brescia, assieme alle città di Torino e Milano. Ma anche Ravenna e Bologna, l’area di Padova, la Valcamonica, oltre a Napoli e Roma. Mentre a Cremona era attivo Adhan Bilal Bosnic, ritenuto uno dei principali reclutatori dell’Isis e considerato dagli analisti uno dei sostenitori in Siria e del Califfato oltre che uno dei leader wahabiti integralisti. È noto sui siti Internet integralisti il suo video che inneggia alla distruzione degli Stati Uniti con slogan del genere: «Con esplosivi sul nostro petto costruiamo la via verso il paradiso». Se il web aumenta la capacità pervasiva di radicalizzazione, secondo l’intelligence andrebbe certamente tenuta sotto maggiore controllo l’attività svolta nelle moschee. Mentre in molti Paesi islamici esiste un ministero degli Affari religiosi che a volte valuta in anticipo i sermoni tenuti da imam conosciuti e controllati, da noi no. E senza l’obbligo di pronunciare i discorsi in italiano diventa difficile capire quando la religione cede il passo alla violenza. E quando, invece di pregare per la fratellanza universale, si incitano i fedeli alla guerra santa.
L’allarme infiltrazioni è stato più volte lanciato in questi mesi di grandi sbarchi. E se il ministro dell’Interno, come aveva già fatto il sottosegretario con delega ai servizi Marco Minniti, ha minimizzato sull’incidenza tra i migranti di potenziali terroristi islamici, c’è comunque grande preoccupazione. Molti di quei circa duecento «ufficiali di collegamento» presenti sul nostro territorio nazionale sono rientrati in Italia da Paesi in guerra, inclusa la Siria: come distinguerli con certezza dai richiedenti asilo? Sono loro, del resto, a destare maggiori timori. A capo di piccoli gruppi di intervento, dediti per lo più alla raccolta di fondi e al reclutamento, secondo gli esperti sarebbero pronti, nel momento in cui arrivasse l’ordine, a trasformarsi in micro-cellule terroristiche. O a fornire supporto logistico per l’organizzazione internazionale di eventuali attentati.
25 agosto 2014 | 07:07
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Cronaca di guerra - 7
Fronte - 7 - Europa - 1
TERRORISMO
IL FENOMENO
Il «Califfato» in Europa: gli hacker con il mitra pronti a tornare a casa
Occidentali indottrinati sul Web e al fronte. La cellula britannica di Raqqa, in Siria, e l’allarme dei servizi
di FABIO CAVALERA
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE LONDRA - «Dalle vie di Londra alle strade dell’Iraq». E ritorno. Junaid Hussain ha 19 anni, è uno dei «soldati» di John, il boia del giornalista americano. Chi sia John ancora non si sa: è inglese, è probabilmente londinese. E uno che ha avuto a che fare con lui, sulle colonne del Guardian , lo descrive come colto, intelligente, educato al radicalismo islamico sulle rive del Tamigi. È volato in Siria per la guerra santa ed è diventato capo di una squadra dell’Isis, quel piccolo esercito (dicono i servizi segreti di Sua Maestà) che riunisce nell’area della città di Raqqa tutti gli estremisti di nazionalità britannica, prima di inviarli al fronte. Ha scalato i ranghi e assieme ad altri tre suoi sottoposti ha costituito un gruppo di fuoco che si è autodefinito «i Beatles».
Estremisti. Combattenti. Terroristi. John è un nome di fantasia. È l’ufficiale che organizza la rete dei jihadisti cresciuti a Londra, a Manchester, a Cardiff, a Portsmouth, a Brighton, a Bristol, nel Sussex. Pianifica le «trasferte». È pure un sorta di agente di viaggio. E Junaid Hussain, hacker che ha violato la privacy di Tony Blair e della sua fondazione, lo ha seguito. Lo avevano identificato e sospettavano che fosse caduto nella rete dei predicatori musulmani più fanatici. Ma lui ha beffato la sicurezza ed è partito in giugno. Ora si firma Abu Abdullah al Britain. Su Twitter scrive: «Dalle vie di Londra alle strade dell’Iraq». E inneggia alla decapitazione del giornalista americano. Imitato da Reyaad Khan che a 20 anni ha mollato Cardiff per imbracciare il kalashnikov e inveire su Internet: «Un messaggio dell’Isis a Obama. Ritiratevi o il caos decapiterà il vostro cammino».
Nel Galles, proprio a Cardiff, c’era una cellula. Al fianco di Reyaad Khan, un diciassettenne e un ventenne: i fratelli Aseel e Nasser Muthana, studenti, il secondo di medicina. Il più grande ha prodotto un video di propaganda per l’Isis quando ancora stava nel Regno Unito. Il padre Ahmed è disperato: «Gli hanno lavato il cervello».
Passano i giorni e le dimensioni del reclutamento in terra britannica diventano chiare. Polizia e servizi segreti si erano lasciati sfuggire il fenomeno. O lo avevano sottovalutato? Cercano di correre ai ripari ricostruendo l’identità e la personalità di questi fanatici, giovani e meno giovani. Pronti a tutto. Che sanno usare i social network e il mitra. Che riescono a fare proselitismo spacciandosi per combattenti, per eroi, per partigiani della fede. Che si lasciano fotografare in Siria e in Iraq con la Nutella e con le armi in mano.
Alla scuola del radicalismo appartengono le «spose della guerra santa» (così si sono definite), due gemelle sedicenni di Manchester, Salma e Zahra Halane. Hanno preso il diploma superiore. Dicevano di volere iscriversi alla facoltà di medicina. Nessuno si era accorto che il loro fratello maggiore, ventenne, era già sparito per unirsi all’Isis. Lo hanno raggiunto.
Queste schiere di infervorati jihadisti si concentrano a Raqqa. Secondo i servizi segreti è la città della Siria dove i «soldati» britannici dell’Isis terrebbero prigionieri gli ostaggi occidentali. Sedicenne è pure Jaffar. Studiava a Brighton e se ne è andato col fratello Amer e col fratello Abdullah che è stato ucciso. Organizzati, accolti, indottrinati da John il boia.
E gli efficienti James Bond? Possibile che non si siano resi conto di quanto stava maturando in casa? A Londra operava Aine Davis, trafficante di droga convertito all’Islam. Sua moglie Amal è stata colta mentre, attraverso un’amica «corriere», stava trasferendo 16 mila sterline in contanti al consorte ormai al fronte in Siria e in Iraq sotto i vessilli dell’Isis. Solo adesso si comprende quanto fosse estesa la ragnatela. Da Portsmouth, la più antica base della Royal Navy, la marina militare, almeno in dieci hanno risposto all’appello dell’integralismo sunnita.
Muhammad Rahman, venticinquenne, era dirigente supervisore a Primark, colosso britannico dell’abbigliamento di bassa qualità. Un giorno suo padre che lavora in un ristorante indiano ha ricevuto un messaggio sul telefonino: «Muhammad ha voluto diventare un martire per amore di Allah». Era andato a Gatwick, volato in Turchia e poi in Siria. L’intelligence, che legge tutto, che spia tutto, che vede tutto, non aveva intercettato questo sms.
Qualcuno è morto. Come Abdul Waheed Majeed, del Sussex, che si è fatto saltare in aria su un camion carico di esplosivi ad Aleppo (decine di morti). Molti partono. E molti ritornano: è allarme rosso. I servizi di sicurezza hanno stimato, nell’ultima riunione del «Cobra», il comitato guidato dal premier per le emergenze nazionali, che 500 hanno preso la via della Siria e dell’Iraq. Ma altri 250 sono rientrati. È il cambio della guardia. «Dalle vie di Londra alle strade dell’Iraq». E ritorno. Per combinare che cosa?
22 agosto 2014 | 06:55
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http://www.corriere.it/esteri/14_agosto ... e6d8.shtml
Fronte - 7 - Europa - 1
TERRORISMO
IL FENOMENO
Il «Califfato» in Europa: gli hacker con il mitra pronti a tornare a casa
Occidentali indottrinati sul Web e al fronte. La cellula britannica di Raqqa, in Siria, e l’allarme dei servizi
di FABIO CAVALERA
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE LONDRA - «Dalle vie di Londra alle strade dell’Iraq». E ritorno. Junaid Hussain ha 19 anni, è uno dei «soldati» di John, il boia del giornalista americano. Chi sia John ancora non si sa: è inglese, è probabilmente londinese. E uno che ha avuto a che fare con lui, sulle colonne del Guardian , lo descrive come colto, intelligente, educato al radicalismo islamico sulle rive del Tamigi. È volato in Siria per la guerra santa ed è diventato capo di una squadra dell’Isis, quel piccolo esercito (dicono i servizi segreti di Sua Maestà) che riunisce nell’area della città di Raqqa tutti gli estremisti di nazionalità britannica, prima di inviarli al fronte. Ha scalato i ranghi e assieme ad altri tre suoi sottoposti ha costituito un gruppo di fuoco che si è autodefinito «i Beatles».
Estremisti. Combattenti. Terroristi. John è un nome di fantasia. È l’ufficiale che organizza la rete dei jihadisti cresciuti a Londra, a Manchester, a Cardiff, a Portsmouth, a Brighton, a Bristol, nel Sussex. Pianifica le «trasferte». È pure un sorta di agente di viaggio. E Junaid Hussain, hacker che ha violato la privacy di Tony Blair e della sua fondazione, lo ha seguito. Lo avevano identificato e sospettavano che fosse caduto nella rete dei predicatori musulmani più fanatici. Ma lui ha beffato la sicurezza ed è partito in giugno. Ora si firma Abu Abdullah al Britain. Su Twitter scrive: «Dalle vie di Londra alle strade dell’Iraq». E inneggia alla decapitazione del giornalista americano. Imitato da Reyaad Khan che a 20 anni ha mollato Cardiff per imbracciare il kalashnikov e inveire su Internet: «Un messaggio dell’Isis a Obama. Ritiratevi o il caos decapiterà il vostro cammino».
Nel Galles, proprio a Cardiff, c’era una cellula. Al fianco di Reyaad Khan, un diciassettenne e un ventenne: i fratelli Aseel e Nasser Muthana, studenti, il secondo di medicina. Il più grande ha prodotto un video di propaganda per l’Isis quando ancora stava nel Regno Unito. Il padre Ahmed è disperato: «Gli hanno lavato il cervello».
Passano i giorni e le dimensioni del reclutamento in terra britannica diventano chiare. Polizia e servizi segreti si erano lasciati sfuggire il fenomeno. O lo avevano sottovalutato? Cercano di correre ai ripari ricostruendo l’identità e la personalità di questi fanatici, giovani e meno giovani. Pronti a tutto. Che sanno usare i social network e il mitra. Che riescono a fare proselitismo spacciandosi per combattenti, per eroi, per partigiani della fede. Che si lasciano fotografare in Siria e in Iraq con la Nutella e con le armi in mano.
Alla scuola del radicalismo appartengono le «spose della guerra santa» (così si sono definite), due gemelle sedicenni di Manchester, Salma e Zahra Halane. Hanno preso il diploma superiore. Dicevano di volere iscriversi alla facoltà di medicina. Nessuno si era accorto che il loro fratello maggiore, ventenne, era già sparito per unirsi all’Isis. Lo hanno raggiunto.
Queste schiere di infervorati jihadisti si concentrano a Raqqa. Secondo i servizi segreti è la città della Siria dove i «soldati» britannici dell’Isis terrebbero prigionieri gli ostaggi occidentali. Sedicenne è pure Jaffar. Studiava a Brighton e se ne è andato col fratello Amer e col fratello Abdullah che è stato ucciso. Organizzati, accolti, indottrinati da John il boia.
E gli efficienti James Bond? Possibile che non si siano resi conto di quanto stava maturando in casa? A Londra operava Aine Davis, trafficante di droga convertito all’Islam. Sua moglie Amal è stata colta mentre, attraverso un’amica «corriere», stava trasferendo 16 mila sterline in contanti al consorte ormai al fronte in Siria e in Iraq sotto i vessilli dell’Isis. Solo adesso si comprende quanto fosse estesa la ragnatela. Da Portsmouth, la più antica base della Royal Navy, la marina militare, almeno in dieci hanno risposto all’appello dell’integralismo sunnita.
Muhammad Rahman, venticinquenne, era dirigente supervisore a Primark, colosso britannico dell’abbigliamento di bassa qualità. Un giorno suo padre che lavora in un ristorante indiano ha ricevuto un messaggio sul telefonino: «Muhammad ha voluto diventare un martire per amore di Allah». Era andato a Gatwick, volato in Turchia e poi in Siria. L’intelligence, che legge tutto, che spia tutto, che vede tutto, non aveva intercettato questo sms.
Qualcuno è morto. Come Abdul Waheed Majeed, del Sussex, che si è fatto saltare in aria su un camion carico di esplosivi ad Aleppo (decine di morti). Molti partono. E molti ritornano: è allarme rosso. I servizi di sicurezza hanno stimato, nell’ultima riunione del «Cobra», il comitato guidato dal premier per le emergenze nazionali, che 500 hanno preso la via della Siria e dell’Iraq. Ma altri 250 sono rientrati. È il cambio della guardia. «Dalle vie di Londra alle strade dell’Iraq». E ritorno. Per combinare che cosa?
22 agosto 2014 | 06:55
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Cartina aggiornata e molto interessante sulla reale situazione in Ucraina.
L'offensiva di Kiev, se c'è mai stata è fallita miseramente e la situzione militare è disperata.
Penso che non si discuta più se i separatisti vinceranno ma solo quando...
L'Ucraina sta per diventare un'espressione geografica...
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Cronaca di guerra - 8
Fronte - 4 - Striscia di Gaza - 1
Gaza, in vigore il nuovo cessate il fuoco tra Israele e Hamas: “Sarà duraturo”
Lo ha affermato l’esponente di Hamas, Musa Abu Marzuk, in un messaggio sulla sua pagina Facebook. Secondo Abu Marzuk, l’accordo per una tregua stabile nell’enclave palestinese "è una vittoria della resistenza". Lo stop alle operazioni dovrebbe iniziare alle 18 locali. Un’ora dopo inizierà a Ramallah un discorso del presidente palestinese Abu Mazen. Ma le sirene tornano a suonare nel Negev
di Redazione Il Fatto Quotidiano | 26 agosto 2014Commenti (155)
E’ entrato in vigore un nuovo cessate il fuoco tra Israele e Hamas. “I colloqui sono terminati, abbiamo raggiunto un accordo” per una tregua nella Striscia di Gaza, ha annunciato nel pomeriggio l’esponente di Hamas, Musa Abu Marzuk, in un messaggio sulla sua pagina Facebook. Secondo Abu Marzuk, l’accordo per una tregua stabile nell’enclave palestinese “è una vittoria della resistenza” ed “incarna la resistenza del nostro popolo”. Stando a fonti palestinesi, citate dal Jerusalem Post, l’annuncio del cessate il fuoco sarà fatto stasera dal presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp), Mahmoud Abbas. Il premier di Hamas a Gaza, Ismail Haniyeh, ha confermato che Israele e palestinesi sono vicini ad annunciare l’inizio di una tregua stabile. “Siamo molto vicini a raggiungere delle intese politiche che sono in linea con le richieste del nostro popolo e che sono appropriate con la condotta della resistenza”, ha detto Haniyeh, stando ai media palestinesi. La tregua è entrata in vigore alle 18 ore italiane.
L’accordo prevede anche l’allentamento “immediato” dell’”assedio” all’enclave palestinese. Lo ha riferito una fonte di Hamas, citata a condizione di anonimato dal sito Ynet. Secondo la fonte, l’accordo prevede inoltre che nei prossimi mesi partano colloqui tra le parti per la costruzione nella Striscia di Gaza di un porto e di un aeroporto. Dopo l’annuncio dell’entrata in vigore della tregua, spiega la stessa fonte, sarà aperto il valico di Rafah, che collega l’enclave palestinese all’Egitto. Le operazioni di apertura del valico saranno condotte dalle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp). “Altre questioni – scrive l’agenzia egiziana Mena – verranno discusse in altri negoziati entro un mese“.
Subito dopo l’annuncio sul raggiungimento dell’accordo, le sirene anti-missile sono tornate a suonare in Israele. Hamas avrebbe lanciato un’offensiva nel Neghev occidentale. I kibbutzim e i villaggi vicini alla linea di demarcazione sono sottoposti a nutriti lanci di mortai e di razzi palestinesi. Le sirene suonano a ripetizione, la popolazione è nei rifugi. Il bilancio è di un morto e due feriti.
Alla pioggia di razzi di Hamas e delle altre fazioni, Israele ha replicato sia con i raid (i morti secondo fonti palestinesi sarebbero almeno altri 12 nelle ultime 24 ore, circa 2.120 in totale) sia con le “esecuzioni mirate”. L’esercito ha confermato di aver condotto questo tipo di azione quando un razzo ha centrato oggi un’automobile in transito a Gaza City. All’interno, secondo la radio militare, viaggiavano due miliziani di un gruppo locale noto come ‘Esercito dell’Islam‘ che sarebbero stati impegnati nell’organizzazione di un attentato. In un’altra operazione, l’aviazione israeliana, con un razzo di ‘avvertimentò sparato da un drone sul tetto, ha di fatto intimato agli abitanti di un edificio di sette piani vicino al porto di Gaza di sgomberare subito l’edificio in pronto di essere colpito. Fonti sul posto hanno riferito della fuga precipitosa degli inquilini e ai giornalisti stranieri presenti negli alberghi vicini è stato consigliato dagli abitanti di tenersi a distanza di sicurezza.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/08 ... e/1099632/
Fronte - 4 - Striscia di Gaza - 1
Gaza, in vigore il nuovo cessate il fuoco tra Israele e Hamas: “Sarà duraturo”
Lo ha affermato l’esponente di Hamas, Musa Abu Marzuk, in un messaggio sulla sua pagina Facebook. Secondo Abu Marzuk, l’accordo per una tregua stabile nell’enclave palestinese "è una vittoria della resistenza". Lo stop alle operazioni dovrebbe iniziare alle 18 locali. Un’ora dopo inizierà a Ramallah un discorso del presidente palestinese Abu Mazen. Ma le sirene tornano a suonare nel Negev
di Redazione Il Fatto Quotidiano | 26 agosto 2014Commenti (155)
E’ entrato in vigore un nuovo cessate il fuoco tra Israele e Hamas. “I colloqui sono terminati, abbiamo raggiunto un accordo” per una tregua nella Striscia di Gaza, ha annunciato nel pomeriggio l’esponente di Hamas, Musa Abu Marzuk, in un messaggio sulla sua pagina Facebook. Secondo Abu Marzuk, l’accordo per una tregua stabile nell’enclave palestinese “è una vittoria della resistenza” ed “incarna la resistenza del nostro popolo”. Stando a fonti palestinesi, citate dal Jerusalem Post, l’annuncio del cessate il fuoco sarà fatto stasera dal presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp), Mahmoud Abbas. Il premier di Hamas a Gaza, Ismail Haniyeh, ha confermato che Israele e palestinesi sono vicini ad annunciare l’inizio di una tregua stabile. “Siamo molto vicini a raggiungere delle intese politiche che sono in linea con le richieste del nostro popolo e che sono appropriate con la condotta della resistenza”, ha detto Haniyeh, stando ai media palestinesi. La tregua è entrata in vigore alle 18 ore italiane.
L’accordo prevede anche l’allentamento “immediato” dell’”assedio” all’enclave palestinese. Lo ha riferito una fonte di Hamas, citata a condizione di anonimato dal sito Ynet. Secondo la fonte, l’accordo prevede inoltre che nei prossimi mesi partano colloqui tra le parti per la costruzione nella Striscia di Gaza di un porto e di un aeroporto. Dopo l’annuncio dell’entrata in vigore della tregua, spiega la stessa fonte, sarà aperto il valico di Rafah, che collega l’enclave palestinese all’Egitto. Le operazioni di apertura del valico saranno condotte dalle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp). “Altre questioni – scrive l’agenzia egiziana Mena – verranno discusse in altri negoziati entro un mese“.
Subito dopo l’annuncio sul raggiungimento dell’accordo, le sirene anti-missile sono tornate a suonare in Israele. Hamas avrebbe lanciato un’offensiva nel Neghev occidentale. I kibbutzim e i villaggi vicini alla linea di demarcazione sono sottoposti a nutriti lanci di mortai e di razzi palestinesi. Le sirene suonano a ripetizione, la popolazione è nei rifugi. Il bilancio è di un morto e due feriti.
Alla pioggia di razzi di Hamas e delle altre fazioni, Israele ha replicato sia con i raid (i morti secondo fonti palestinesi sarebbero almeno altri 12 nelle ultime 24 ore, circa 2.120 in totale) sia con le “esecuzioni mirate”. L’esercito ha confermato di aver condotto questo tipo di azione quando un razzo ha centrato oggi un’automobile in transito a Gaza City. All’interno, secondo la radio militare, viaggiavano due miliziani di un gruppo locale noto come ‘Esercito dell’Islam‘ che sarebbero stati impegnati nell’organizzazione di un attentato. In un’altra operazione, l’aviazione israeliana, con un razzo di ‘avvertimentò sparato da un drone sul tetto, ha di fatto intimato agli abitanti di un edificio di sette piani vicino al porto di Gaza di sgomberare subito l’edificio in pronto di essere colpito. Fonti sul posto hanno riferito della fuga precipitosa degli inquilini e ai giornalisti stranieri presenti negli alberghi vicini è stato consigliato dagli abitanti di tenersi a distanza di sicurezza.
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Ultima modifica di camillobenso il 29/08/2014, 20:38, modificato 2 volte in totale.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Cronaca di guerra - 9
Glossario
CONFLITTI NEL MONDO
Sigle e forze in campo,
il glossario delle guerre
Dal Medio Oriente all’Ucraina tutte le parole chiave, le sigle e gli acronimi
dei principali conflitti che stanno infiammando il mondo
di Ilaria Morani e Marta Serafini
Medio Oriente
Jihad, parola araba che significa esercitare il massimo sforzo. Si riferisce a una delle istituzioni fondamentali dell’Islam e compare in 23 versi del Corano, il testo sacro per i musulmani. Anche se si discute molto sulla sua vera interpretazione, negli ultimi decenni, le scuole coraniche concordano sul fatto che il concetto di Jihad implichi una battaglia contro i persecutori e gli oppressori.
Isis (o Isil) sta per Stato Islamico dell’Iraq e del Levante. Il gruppo si è formato nel 2004 come Organizzazione del Monoteismo e della Jihad (Jtj) e ha subito numerosi cambi di nome. Il 13 ottobre del 2006 venne annunciata la fondazione del Dawlat al Iraq al-Islamiyah (Stato islamico dell’Iraq, Isi). Il 9 aprile 2013, dopo essersi espanso in Siria, il gruppo adottò il nome di Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, conosciuto anche come Stato Islamico dell’Iraq e di al-Sham.Il nome viene abbreviato in Isis o Isil. La s finale nell’acronimo Isis deriva dalla parola araba Sham (or Shaam), che nel contesto di una jihad globale si riferisce al Levante o alla Grande Siria. Il 14 maggio del 2014 il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha annunciato la sua decisione di usare
Islamic State of Iraq and the Levant (Isil) come nome principale del gruppo. Isis segue un’interpretazione estremamente anti-occidentale dell’Islam, promuove la violenza religiosa e considera coloro che non concordano con la sua interpretazione come infedeli e apostati. Allo stesso tempo mira a fondare uno stato islamista orientato al salafismo (vedi sotto) in Iraq, Siria e altre parti del levante. Secondo le stime, Isis conterebbe 20 mila uomini nel mondo provenienti da 83 paesi diversi nel mondo.
Is sta per Islamic State, Stato Islamico, proclamato il 29 giugno del 2014 da Abu Bakr al-Baghdadi (sopra nella foto), che si auto definisce califfo. Viene usato impropriamente come sinonimo di Isis.
Ahrar al-Sham è un gruppo armato siriano che raduna varie formazioni minori d’impronta ideologica islamista e salafita, che formarono una brigata durante la Guerra civile siriana per abbattere il regime di Assad. Gli uomini di Ahrar al-Sham cooperano con il Free Siryan Army (Fsa) e altri gruppi ribelli laici, pur senza intrattenere relazioni con il Consiglio Nazionale Siriano (Cns). Malgrado si coordinino con altri gruppi, mantengono strettamente la loro leadership segreta, ricevendo la maggior parte dei loro finanziamenti da donatori del Golfo Persico, in special modo Arabia Saudita e Qatar.
Al Nusra, o anche Jabhat al-Nusra ossia “Fronte della vittoria del popolo di Siria” è affiliato al Al Qaeda. Formato alla fine del 2011, quando in Siria era già in corso la guerra civile, è stato qualificato “terrorista” dagli Stati Uniti alla fine del 2012.
Peshmerga, in lingua curda indica un combattente guerrigliero che intende battersi fino alla morte. Il nome è stato ugualmente usato per una parte dei combattenti autonomisti e indipendentisti curdi in Iraq, appartenenti al Partito Democratico del Kurdistan. In particolare, Peshmerga è il nome ufficiale delle forze armate del Governo Regionale del Kurdistan nella regione semiautonoma (a tutto agosto 2014) del Kurdistan iracheno. Queste forze si sono in passato scontrate con i militanti dell’Unione Patriottica del Kurdistan (ed anche al Partito dei lavoratori del Kurdistan turco, presente nella parte nord dell’Iraq) e con i guerriglieri islamisti di Ansar al Islam; sempre nell’agosto 2014, alcuni battaglioni della milizia peshmerga sono stati integrati nella Guardia Nazionale Irachena, e sono parte della nuova 2a divisione irachena, di base a Mossul. La storia di questi combattenti è però molto più antica: i peshmerga sono stati attivi nei vari sconvolgimenti della storia dell’Iraq dalla sua indipendenza, nella guerra Iran-Iraq, nella prima e nella seconda guerra del golfo. Durante le guerre del Golfo hanno cooperato con le forze speciali dell’Alleanza contro Saddam Hussein, salvando vari piloti e incursori sul loro territorio, e tenendo occupato l’intero V corpo iracheno nel 2003 a nord, impedendogli di schierarsi contro le forze alleate a sud. Hanno avuto e hanno proprie forze speciali, al 2014 in parte amalgamate con l’esercito iracheno. Il termine peshmerga indica anche i combattenti pathani (pashtun) lungo la frontiera dell’Afghanistan.
Per vedere il grafico interattivo:
Da Isis a Boko Haram, la Jihad nel mondo
http://www.corriere.it/esteri/14_agosto ... 7a50.shtml
Salafismo è una scuola di pensiero sunnita che prende il nome dal termine arabo salaf al-salihin (“i pii antenati”) che identifica le prime tre generazioni di musulmani (VII-VIII secolo) considerati - dai salafiti - dei modelli esemplari di virtù religiosa. I primi segnali evidenti, e ufficiali, del mutamento ideologico e strategico del Salafismo, da movimento “riformista” e tollerante a movimento “fondamentalista”, si possono forse riscontrare in Tunisia, verso gli anni trenta del XX secolo. In Egitto, la trasformazione del Salafismo avvenne nello stesso periodo, con l’avvento della cosiddetta “Neo-Salafiyya”.
Sciiti e Sunniti, la principale differenza tra sunniti e sciiti consiste nel fatto che i primi rientrano nel gruppo dei secondi, differenziandosi però da questi ultimi in merito alla presenza e ruolo di una gerarchia all’interno della fazione religiosa. Il nome sunniti deriva dall’arabo “sunnah”, che significa “tradizione“. I sunniti sono infatti coloro che seguono la tradizionale religione islamica. Essi seguono le scritture del Corano e utilizzano come punto di riferimento le azioni, le parole e la vita di Maometto, testimoniati appunto dalla tradizione. Gli sciiti, staccatisi dalla maggioranza sunnita in seguito alla morte di Maometto, credono nell’importanza di identificare il patriarca della loro comunità identificandolo come successore di Maometto stesso.Tale base profonda della divergenza tra Sunna e Shiia può spiegare sia le violente lotte tra le due tendenze lungo tutta la storia islamica, sia le tensioni attuali e gli atteggiamenti di tipo politico nelle diverse componenti dell’islam moderno.
Yazidi, popolo di origine curda, costituito da circa 300 mila individui. Il gruppo principale, costituito da 150 mila yazidi, vive in due aree dell’Iraq: i monti del Gebel Singiar (al confine con la Siria) e i distretti di Badinan (o Shaykhan) e Dohuk (nord-ovest del Paese). Il nord-ovest dell’Iraq è l’area originaria del popolo yazidi, insieme all’Anatolia sud-orientale (province di Diyarbakir e Mardin). Sbagliato è trattare gli yazidi come gruppo entico. La parola va riferita infatti a una specifica religione, combinazione sincretistica di zoroastrismo, manicheismo, ebraismo e cristianesimo nestoriano sui quali sono stati successivamente aggiunti elementi islamici sciiti e sufi.
Turcomanni, dopo l’assedio agli yazidi sul Monte Sinjar, adesso sono gli sciiti turcomanni della città di Amerli che rischiano la carneficina, circondati da settimane dai jihadisti dello Stato islamico. Da non confondere con i turkmeni, vivono per lo più nella città di Kirkuk, altro centro toccato dall’avanzata di Isis.
Ucraina
Donbass è l’area dell’Ucraina orientale che confina con la Russia. E’ nota anche come Bacino del Donec, affluente del Don, e si estende in 3 oblast (suddivisione amministrativa che corrisponde in modo approssimativo ai termini regione, provincia o area: in Ucraina se ne contano 24): di Donetsk, Lugansk e Dnipropetrovsk. La capitale non ufficiale della regione è Donetsk.
Maidan in ucraino (ma non solo) significa piazza. Nella crisi del Paese il temine viene utilizzato per identificare la piazza principale di Kiev, dove, dalla fine di novembre 2013 migliaia di persone hanno occupato l'area con sit in e manifestazioni per protestare contro il presidente. L'inizio ufficiale degli scontri è riconducibile al 21 novembre 2013 quando il presidente Viktor Yanukovic ha respinto gli accordi di associazione con l'Unione Europea e il Deep and Comprehensive Free Trade Agreement. Nasce ufficialmente EuroMaidan: da movimento strettamente filo-europeo la protesta diventa contro Yanukovic, la più grande dalla Rivoluzione Arancione del 2004-2005. Il 30 novembre le prime cariche della polizia contro i manifestanti e il partito ultra nazionalista Svoboda occupa il palazzo municipale, ma il giorno più lungo e il più doloroso della piazza è il 18 febbraio: 28 morti solo quel giorno, 100 alla fine delle proteste e centinaia di feriti. I cecchini sparano sui manifestanti che cercano di rispondere con spranghe e bombe molotov portate in piazza soprattutto dagli estremisti del Pravyi Sector (Settore Destro). Tre agenti delle forze speciali Berkut (l’ex reparto anti sommossa) saranno poi arrestati per essere responsabili degli spari. Il 22 febbraio la Rada vota la destituzione e l'impeachment per Yanukovich che decade immediatamente.
Filorussi, chiamati anche prorussi, ribelli, separatisti, e, nelle comunicazioni di Kiev, terroristi. Come conseguenza al movimento di Euromaidan, che aveva preso parte alle proteste di Kiev per chiedere di intensificare i legami con l'Europa, alcune migliaia di persone delle regioni russofone, sostenute dal partito delle Regioni e disapprovando le proteste, hanno iniziato a manifestare per avere un contatto più stretto con la Russia. Anche se alcuni di loro chiedono l'annessione alla Russia, come era successo con la Crimea, vogliono fondamentalmente la secessione dall'Ucraina, desiderio dimostrato dopo la vittoria (secondo fonti filorusse) del referendum indetto nelle città dell'est l'11 maggio 2014.
Repubblica Popolare di Donetsk è stata creata il 6 aprile 2014, in coincidenza con l'inizio della crisi del paese. Quel giorno decine di manifestanti armati si sono impadroniti di alcuni palazzi governativi delle città del Donbass, facendo il loro quartier generale nel palazzo della Regione in centro a Donetsk, protetto da barricate. Successivamente è stata dichiarata anche la Repubblica Popolare di Lugansk: il 22 maggio le autoproclamate repubbliche si sono unite nella Novorossia. Il 24 giugno i leader politici hanno dichiarato di avere creato una federazione con una propria costituzione.
I soldati in campo: battaglioni e Guardia Nazionale. A «difesa dell’Ucraina» si sono schierati esercito regolare e Guardia Nazionale. Il primo, poco abituato a combattere, esce da un periodo in cui i fondi destinati alle forze armate erano stati nettamente tagliati, si ritrova quindi a richiamare spesso i riservisti da ogni angolo del paese. La Guardia Nazionale, invece, è una formazione paramilitare (come da autorizzazione ministeriale dell’aprile 2014) composta da volontari stipendiati e suddivisa in battaglioni. Si conta che all’appello abbiamo risposto oltre 12mila civili, molti di loro erano nel corpo di sicurezza di piazza Maidan. Il più noto nei combattimenti dell’est è l’Azov, o anche detto, Men in Black, guidato da Andriy Biletsky, capo del partito neo-nazista Sna e dei Patrioti d’Ucraina. Anche tra i filorussi ci sono diversi battaglioni paramilitari. Tra i più noti il Vostok Battalion: prende il nome dalle forze dell’intelligence russa (Gru) che hanno combattuto in Cecenia nel 1999. Sono ben preparati, armati e guidati da Igor Sergun, il capo del servizio segreto militare russo che ha gestito tutte le operazioni dei ribelli sul piano logistico e militare. Sempre a coordinare le operazioni sul campo diverse figure di spicco dell’esercito russo: come Nikolay Kozitsin, ufficiale dei cosacchi che appoggiano Mosca e Igor Girkin, ufficiale del Gru, attivo proprio sulla parte organizzativa dei miliziani.
Uomini verdi. Nessuno ha mai confermato ufficialmente l’identità di questi soldati vestiti in mimetica senza nessun segno distintivo di appartenenza. Sono apparsi per la prima volta durante la presa della Crimea: si tratta di soldati molto preparati con armi russe non in dotazione dell'esercito ucraino. Secondo tantissime testimonianze, smentite da Mosca, sarebbero uomini del Cremlino giunti in Crimea per affiancare le Forze di autodifesa locali e i cosacchi.
Oligarchi, uomini e donne ricche, a cavallo tra politica ed economia che, nel caso della crisi ucraina, hanno fin dall'inizio avuto un ruolo di primo piano nel muovere le pedine della guerra con la Russia. Il più noto è Rinat Akhmetov (secondo Forbes ha un patrimonio pari a 15,4 miliardi di dollari) è il proprietario e presidente dello Shakhtar Donetsk, la squadra di calcio di Donetsk. Akhmetov ha costruito la sua fortuna con l'acciaio, è stato un grande sostenitore di Victor Yanukovich fino a quando non è stato dimesso. In un primo momento ha anche sostenuto i filorussi, poi, però, il 14 maggio, ha dichiarato che la causa era sbagliata portando in piazza migliaia di suoi operai delle fonderie. Victor Pinchuk è il capo del clan di Dnepropetrovsk e leader nel settore energetico: la sua Interpipe produce tubi. Nemico di Yulia Tymoshenko è un forte europeista. Petro Poroshenko, attuale presidente ucraino, è detto il re del cioccolato, leader dell'industria alimentare. Sempre impegnato politicamente, è stato ministro degli Esteri sotto il governo della Tymoshenko e ministro dello Sviluppo economico con Mykola Azarov, l’ultimo premier della presidenza Yanukovich. Yulia Tymoshenko negli anni Novanta era a capo della Uesu e gestiva la distribuzione del gas con i paesi orientali. Poi si è dedicata interamente alla politica. Uscita di prigione (era stata incarcerata dopo la deposizione di Yanukovych) ha provato a rientrare in politica, ma ha perso le presidenziali contro Poroshenko.
Propaganda. Accompagna tutte le guerre, e quella che si combatte in Ucraina non è da meno. Intorno alla «causa» di Kiev si è creato EuromaidanPr, l’organo di informazione ufficiale. L’ufficio stampa della Resistenza Nazionale è formato da ragazzi appartenenti al popolo di Maidan: ora gestiscono il sito, e i social network in 8 diverse lingue, facendo una netta controinformazione rispetto a tutto quello prodotto dai media russi. Dall’altra parte le direttive arrivano dal Cremlino che, secondo diverse testimonianze, avrebbe reclutato truppe di troll per veicolare le informazioni. La televisione ucraina e le radio sono del tutto sparite nell’est del paese e il segnale è captato solo da emittenti russe.
@martaserafini e @ilariamorani
25 agosto 2014 | 13:39
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dei principali conflitti che stanno infiammando il mondo
di Ilaria Morani e Marta Serafini
Medio Oriente
Jihad, parola araba che significa esercitare il massimo sforzo. Si riferisce a una delle istituzioni fondamentali dell’Islam e compare in 23 versi del Corano, il testo sacro per i musulmani. Anche se si discute molto sulla sua vera interpretazione, negli ultimi decenni, le scuole coraniche concordano sul fatto che il concetto di Jihad implichi una battaglia contro i persecutori e gli oppressori.
Isis (o Isil) sta per Stato Islamico dell’Iraq e del Levante. Il gruppo si è formato nel 2004 come Organizzazione del Monoteismo e della Jihad (Jtj) e ha subito numerosi cambi di nome. Il 13 ottobre del 2006 venne annunciata la fondazione del Dawlat al Iraq al-Islamiyah (Stato islamico dell’Iraq, Isi). Il 9 aprile 2013, dopo essersi espanso in Siria, il gruppo adottò il nome di Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, conosciuto anche come Stato Islamico dell’Iraq e di al-Sham.Il nome viene abbreviato in Isis o Isil. La s finale nell’acronimo Isis deriva dalla parola araba Sham (or Shaam), che nel contesto di una jihad globale si riferisce al Levante o alla Grande Siria. Il 14 maggio del 2014 il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha annunciato la sua decisione di usare
Islamic State of Iraq and the Levant (Isil) come nome principale del gruppo. Isis segue un’interpretazione estremamente anti-occidentale dell’Islam, promuove la violenza religiosa e considera coloro che non concordano con la sua interpretazione come infedeli e apostati. Allo stesso tempo mira a fondare uno stato islamista orientato al salafismo (vedi sotto) in Iraq, Siria e altre parti del levante. Secondo le stime, Isis conterebbe 20 mila uomini nel mondo provenienti da 83 paesi diversi nel mondo.
Is sta per Islamic State, Stato Islamico, proclamato il 29 giugno del 2014 da Abu Bakr al-Baghdadi (sopra nella foto), che si auto definisce califfo. Viene usato impropriamente come sinonimo di Isis.
Ahrar al-Sham è un gruppo armato siriano che raduna varie formazioni minori d’impronta ideologica islamista e salafita, che formarono una brigata durante la Guerra civile siriana per abbattere il regime di Assad. Gli uomini di Ahrar al-Sham cooperano con il Free Siryan Army (Fsa) e altri gruppi ribelli laici, pur senza intrattenere relazioni con il Consiglio Nazionale Siriano (Cns). Malgrado si coordinino con altri gruppi, mantengono strettamente la loro leadership segreta, ricevendo la maggior parte dei loro finanziamenti da donatori del Golfo Persico, in special modo Arabia Saudita e Qatar.
Al Nusra, o anche Jabhat al-Nusra ossia “Fronte della vittoria del popolo di Siria” è affiliato al Al Qaeda. Formato alla fine del 2011, quando in Siria era già in corso la guerra civile, è stato qualificato “terrorista” dagli Stati Uniti alla fine del 2012.
Peshmerga, in lingua curda indica un combattente guerrigliero che intende battersi fino alla morte. Il nome è stato ugualmente usato per una parte dei combattenti autonomisti e indipendentisti curdi in Iraq, appartenenti al Partito Democratico del Kurdistan. In particolare, Peshmerga è il nome ufficiale delle forze armate del Governo Regionale del Kurdistan nella regione semiautonoma (a tutto agosto 2014) del Kurdistan iracheno. Queste forze si sono in passato scontrate con i militanti dell’Unione Patriottica del Kurdistan (ed anche al Partito dei lavoratori del Kurdistan turco, presente nella parte nord dell’Iraq) e con i guerriglieri islamisti di Ansar al Islam; sempre nell’agosto 2014, alcuni battaglioni della milizia peshmerga sono stati integrati nella Guardia Nazionale Irachena, e sono parte della nuova 2a divisione irachena, di base a Mossul. La storia di questi combattenti è però molto più antica: i peshmerga sono stati attivi nei vari sconvolgimenti della storia dell’Iraq dalla sua indipendenza, nella guerra Iran-Iraq, nella prima e nella seconda guerra del golfo. Durante le guerre del Golfo hanno cooperato con le forze speciali dell’Alleanza contro Saddam Hussein, salvando vari piloti e incursori sul loro territorio, e tenendo occupato l’intero V corpo iracheno nel 2003 a nord, impedendogli di schierarsi contro le forze alleate a sud. Hanno avuto e hanno proprie forze speciali, al 2014 in parte amalgamate con l’esercito iracheno. Il termine peshmerga indica anche i combattenti pathani (pashtun) lungo la frontiera dell’Afghanistan.
Per vedere il grafico interattivo:
Da Isis a Boko Haram, la Jihad nel mondo
http://www.corriere.it/esteri/14_agosto ... 7a50.shtml
Salafismo è una scuola di pensiero sunnita che prende il nome dal termine arabo salaf al-salihin (“i pii antenati”) che identifica le prime tre generazioni di musulmani (VII-VIII secolo) considerati - dai salafiti - dei modelli esemplari di virtù religiosa. I primi segnali evidenti, e ufficiali, del mutamento ideologico e strategico del Salafismo, da movimento “riformista” e tollerante a movimento “fondamentalista”, si possono forse riscontrare in Tunisia, verso gli anni trenta del XX secolo. In Egitto, la trasformazione del Salafismo avvenne nello stesso periodo, con l’avvento della cosiddetta “Neo-Salafiyya”.
Sciiti e Sunniti, la principale differenza tra sunniti e sciiti consiste nel fatto che i primi rientrano nel gruppo dei secondi, differenziandosi però da questi ultimi in merito alla presenza e ruolo di una gerarchia all’interno della fazione religiosa. Il nome sunniti deriva dall’arabo “sunnah”, che significa “tradizione“. I sunniti sono infatti coloro che seguono la tradizionale religione islamica. Essi seguono le scritture del Corano e utilizzano come punto di riferimento le azioni, le parole e la vita di Maometto, testimoniati appunto dalla tradizione. Gli sciiti, staccatisi dalla maggioranza sunnita in seguito alla morte di Maometto, credono nell’importanza di identificare il patriarca della loro comunità identificandolo come successore di Maometto stesso.Tale base profonda della divergenza tra Sunna e Shiia può spiegare sia le violente lotte tra le due tendenze lungo tutta la storia islamica, sia le tensioni attuali e gli atteggiamenti di tipo politico nelle diverse componenti dell’islam moderno.
Yazidi, popolo di origine curda, costituito da circa 300 mila individui. Il gruppo principale, costituito da 150 mila yazidi, vive in due aree dell’Iraq: i monti del Gebel Singiar (al confine con la Siria) e i distretti di Badinan (o Shaykhan) e Dohuk (nord-ovest del Paese). Il nord-ovest dell’Iraq è l’area originaria del popolo yazidi, insieme all’Anatolia sud-orientale (province di Diyarbakir e Mardin). Sbagliato è trattare gli yazidi come gruppo entico. La parola va riferita infatti a una specifica religione, combinazione sincretistica di zoroastrismo, manicheismo, ebraismo e cristianesimo nestoriano sui quali sono stati successivamente aggiunti elementi islamici sciiti e sufi.
Turcomanni, dopo l’assedio agli yazidi sul Monte Sinjar, adesso sono gli sciiti turcomanni della città di Amerli che rischiano la carneficina, circondati da settimane dai jihadisti dello Stato islamico. Da non confondere con i turkmeni, vivono per lo più nella città di Kirkuk, altro centro toccato dall’avanzata di Isis.
Ucraina
Donbass è l’area dell’Ucraina orientale che confina con la Russia. E’ nota anche come Bacino del Donec, affluente del Don, e si estende in 3 oblast (suddivisione amministrativa che corrisponde in modo approssimativo ai termini regione, provincia o area: in Ucraina se ne contano 24): di Donetsk, Lugansk e Dnipropetrovsk. La capitale non ufficiale della regione è Donetsk.
Maidan in ucraino (ma non solo) significa piazza. Nella crisi del Paese il temine viene utilizzato per identificare la piazza principale di Kiev, dove, dalla fine di novembre 2013 migliaia di persone hanno occupato l'area con sit in e manifestazioni per protestare contro il presidente. L'inizio ufficiale degli scontri è riconducibile al 21 novembre 2013 quando il presidente Viktor Yanukovic ha respinto gli accordi di associazione con l'Unione Europea e il Deep and Comprehensive Free Trade Agreement. Nasce ufficialmente EuroMaidan: da movimento strettamente filo-europeo la protesta diventa contro Yanukovic, la più grande dalla Rivoluzione Arancione del 2004-2005. Il 30 novembre le prime cariche della polizia contro i manifestanti e il partito ultra nazionalista Svoboda occupa il palazzo municipale, ma il giorno più lungo e il più doloroso della piazza è il 18 febbraio: 28 morti solo quel giorno, 100 alla fine delle proteste e centinaia di feriti. I cecchini sparano sui manifestanti che cercano di rispondere con spranghe e bombe molotov portate in piazza soprattutto dagli estremisti del Pravyi Sector (Settore Destro). Tre agenti delle forze speciali Berkut (l’ex reparto anti sommossa) saranno poi arrestati per essere responsabili degli spari. Il 22 febbraio la Rada vota la destituzione e l'impeachment per Yanukovich che decade immediatamente.
Filorussi, chiamati anche prorussi, ribelli, separatisti, e, nelle comunicazioni di Kiev, terroristi. Come conseguenza al movimento di Euromaidan, che aveva preso parte alle proteste di Kiev per chiedere di intensificare i legami con l'Europa, alcune migliaia di persone delle regioni russofone, sostenute dal partito delle Regioni e disapprovando le proteste, hanno iniziato a manifestare per avere un contatto più stretto con la Russia. Anche se alcuni di loro chiedono l'annessione alla Russia, come era successo con la Crimea, vogliono fondamentalmente la secessione dall'Ucraina, desiderio dimostrato dopo la vittoria (secondo fonti filorusse) del referendum indetto nelle città dell'est l'11 maggio 2014.
Repubblica Popolare di Donetsk è stata creata il 6 aprile 2014, in coincidenza con l'inizio della crisi del paese. Quel giorno decine di manifestanti armati si sono impadroniti di alcuni palazzi governativi delle città del Donbass, facendo il loro quartier generale nel palazzo della Regione in centro a Donetsk, protetto da barricate. Successivamente è stata dichiarata anche la Repubblica Popolare di Lugansk: il 22 maggio le autoproclamate repubbliche si sono unite nella Novorossia. Il 24 giugno i leader politici hanno dichiarato di avere creato una federazione con una propria costituzione.
I soldati in campo: battaglioni e Guardia Nazionale. A «difesa dell’Ucraina» si sono schierati esercito regolare e Guardia Nazionale. Il primo, poco abituato a combattere, esce da un periodo in cui i fondi destinati alle forze armate erano stati nettamente tagliati, si ritrova quindi a richiamare spesso i riservisti da ogni angolo del paese. La Guardia Nazionale, invece, è una formazione paramilitare (come da autorizzazione ministeriale dell’aprile 2014) composta da volontari stipendiati e suddivisa in battaglioni. Si conta che all’appello abbiamo risposto oltre 12mila civili, molti di loro erano nel corpo di sicurezza di piazza Maidan. Il più noto nei combattimenti dell’est è l’Azov, o anche detto, Men in Black, guidato da Andriy Biletsky, capo del partito neo-nazista Sna e dei Patrioti d’Ucraina. Anche tra i filorussi ci sono diversi battaglioni paramilitari. Tra i più noti il Vostok Battalion: prende il nome dalle forze dell’intelligence russa (Gru) che hanno combattuto in Cecenia nel 1999. Sono ben preparati, armati e guidati da Igor Sergun, il capo del servizio segreto militare russo che ha gestito tutte le operazioni dei ribelli sul piano logistico e militare. Sempre a coordinare le operazioni sul campo diverse figure di spicco dell’esercito russo: come Nikolay Kozitsin, ufficiale dei cosacchi che appoggiano Mosca e Igor Girkin, ufficiale del Gru, attivo proprio sulla parte organizzativa dei miliziani.
Uomini verdi. Nessuno ha mai confermato ufficialmente l’identità di questi soldati vestiti in mimetica senza nessun segno distintivo di appartenenza. Sono apparsi per la prima volta durante la presa della Crimea: si tratta di soldati molto preparati con armi russe non in dotazione dell'esercito ucraino. Secondo tantissime testimonianze, smentite da Mosca, sarebbero uomini del Cremlino giunti in Crimea per affiancare le Forze di autodifesa locali e i cosacchi.
Oligarchi, uomini e donne ricche, a cavallo tra politica ed economia che, nel caso della crisi ucraina, hanno fin dall'inizio avuto un ruolo di primo piano nel muovere le pedine della guerra con la Russia. Il più noto è Rinat Akhmetov (secondo Forbes ha un patrimonio pari a 15,4 miliardi di dollari) è il proprietario e presidente dello Shakhtar Donetsk, la squadra di calcio di Donetsk. Akhmetov ha costruito la sua fortuna con l'acciaio, è stato un grande sostenitore di Victor Yanukovich fino a quando non è stato dimesso. In un primo momento ha anche sostenuto i filorussi, poi, però, il 14 maggio, ha dichiarato che la causa era sbagliata portando in piazza migliaia di suoi operai delle fonderie. Victor Pinchuk è il capo del clan di Dnepropetrovsk e leader nel settore energetico: la sua Interpipe produce tubi. Nemico di Yulia Tymoshenko è un forte europeista. Petro Poroshenko, attuale presidente ucraino, è detto il re del cioccolato, leader dell'industria alimentare. Sempre impegnato politicamente, è stato ministro degli Esteri sotto il governo della Tymoshenko e ministro dello Sviluppo economico con Mykola Azarov, l’ultimo premier della presidenza Yanukovich. Yulia Tymoshenko negli anni Novanta era a capo della Uesu e gestiva la distribuzione del gas con i paesi orientali. Poi si è dedicata interamente alla politica. Uscita di prigione (era stata incarcerata dopo la deposizione di Yanukovych) ha provato a rientrare in politica, ma ha perso le presidenziali contro Poroshenko.
Propaganda. Accompagna tutte le guerre, e quella che si combatte in Ucraina non è da meno. Intorno alla «causa» di Kiev si è creato EuromaidanPr, l’organo di informazione ufficiale. L’ufficio stampa della Resistenza Nazionale è formato da ragazzi appartenenti al popolo di Maidan: ora gestiscono il sito, e i social network in 8 diverse lingue, facendo una netta controinformazione rispetto a tutto quello prodotto dai media russi. Dall’altra parte le direttive arrivano dal Cremlino che, secondo diverse testimonianze, avrebbe reclutato truppe di troll per veicolare le informazioni. La televisione ucraina e le radio sono del tutto sparite nell’est del paese e il segnale è captato solo da emittenti russe.
@martaserafini e @ilariamorani
25 agosto 2014 | 13:39
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Terrorismo, cinque indagati in Veneto. “Sono reclutatori della Jihad”
Il Corriere del Veneto rivela un'inchiesta della Dda di Venezia. Gli inquisiti sono cittadini stranieri residenti nella regione, che si sarebbero dati da fare per trovare nuovi "soldati" islamici da inviare sui fronti caldi, fra cui la Siria. In queste ore è in corso un monitoraggio del Ros su una ventina di potenziali jihadisti di origine straniera e residenti nel nord-est. Nei giorni scorsi il Dipartimento di pubblica sicurezza aveva inviato a tutti i prefetti e i questori una circolare disponendo di innalzare il livello di vigilanza
di Redazione Il Fatto Quotidiano | 27 agosto 2014Commenti (397)
Cinque persone residenti in Veneto risultano indagate nell’ambito di un’inchiesta per terrorismo aperta dalla Procura distrettuale di Venezia e condotta dai Ros. Si tratterebbe di elementi sospettati di indottrinare e reclutare forze per i gruppi della Jihad islamica che combattono sui fronti caldi del Medio Oriente. A rivelare l’inchiesta è oggi il Corriere del Veneto. Le indagini sarebbero legate alla vicenda di Ismar Mesinovic, il bosniaco residente nel bellunese morto in Siria all’inizio dell’anno in combattimento dopo aver aderito alla Jihad. Secondo quanto si è appreso, gli indagati sarebbero tutti originari dei Balcani.
Il reato ipotizzato è il 270 bis, che punisce le associazioni terroristiche. I cinque indagati , scrive il Corriere, sono stranieri, “quasi tutti residenti in Veneto”. Non si tratterebbe di personaggi direttamenente impegnati nei combattimenti o intenzionati a partire per i fronti caldi, piuttosto fiancheggiatori e reclutatori, figure chiave che si muovono per trovare nuovi “soldati” da votare alla causa della jihad, “a cominciare proprio dalla Siria”, scrive il Corriere veneto. “E in almeno un caso ci sarebbero riusciti”. Dopo l’allerta terrorismo lanciata nei giorni scorsi dal Ministero dell’Interno, si era intensificata in Veneto l’attività di intelligence sui centri islamici e sui soggetti considerati pericolosamente vicini al fondamentalismo.
Pubblicità
In queste ore è in corso un monitoraggio del Ros su una ventina di potenziali jihadisti di origine straniera e residenti nel nord-est. Si tratta di militanti che potrebbero assumere il ruolo di reclutatori di aspiranti jihadisti da indottrinare ed eventualmente inviare nelle zone di conflitto, a cominciare dalla Siria e dall’Iraq. Nei giorni scorsi, sull’onda delle preoccupazioni sotto il profilo della sicurezza, legate all’avanzata in Iraq delle milizie dell’Isis, il Dipartimento di pubblica sicurezza aveva inviato a tutti i prefetti e i questori una circolare disponendo di innalzare ulteriormente il livello di vigilanza alle sedi istituzionali e a tutti gli obiettivi “sensibili” (aeroporti, stazioni, luoghi di aggregazione, scali commerciali) a rischio di attentato terroristico. Secondo le ultime stime, sarebbero almeno una quarantina i militanti islamici partiti dall’Italia per andare a combattere in Siria in nome della Jihad.
Quello dei profughi “non è solo un problema di accoglienza – attacca il sindaco di Padova Massimo Bitonci – non possiamo più permetterci, anche alla luce di quanto sta succedendo in Libia, di trascurare il rischio che chi sbarca possa arrivare a compiere azioni terroristiche o ad ingaggiare guerriglieri, come sospettano i Ros e la Digos”. “Chiedo al ministro Alfano – continua Bitonci – così come ha visitato Lampedusa, di venire in Veneto e rendersi conto con i suoi occhi di quale sia il rischio per la cittadinanza, vista la facilità, già documentata, con cui gli estremisti islamici fanno breccia e raccolgono pericolosi consensi”.
La natura del fenomeno jihadista in Italia ha caratteristiche proprie rispetto ai Paesi dell’Unione Europea. Mentre negli Stati più sviluppati del continente si è arrivati alla seconda generazione di immigrati e “i primi network jihadisti erano operativi già nei primi anni Novanta” si legge nel dossier “Il jihadismo autoctono in Italia” firmato dallo studioso Lorenzo Vidino, in Italia la seconda generazione sta raggiungendo ora l’età adulta e il nostro Paese è interessato prevalentemente dal fenomeno del cosiddetto “autoctono”: immigrati di seconda generazione, cui si aggiunge un numero ridotto di convertiti, che agiscono autonomamente e prevalentemente su internet e, in alcuni casi per ora limitati, decidono di raggiungere il Medio Oriente per unirsi alla Jihad. Secondo l’autore, in Italia i casi di jihadisti attivi sarebbero poche decine, qualche centinaio i simpatizzanti.
In Italia “al fianco dei network jihadisti “tradizionali” ancora attivi in Italia – si legge nel dossier – è chiaro che sono presenti sia attori indipendenti (i cosiddetti lone actor), sia piccoli nuclei di soggetti che sono cresciuti in Italia, che si sono radicalizzati autonomamente, operando indipendentemente da moschee e altri gruppi strutturati, e che dimostrano forte presenza sul web. In ogni caso si sta parlando di un fenomeno dalle dimensioni ancora ridotte rispetto ad altri Paesi dell’Europa occidentale”.
Il caso spartiacque nella gestione e nella considerazione del fenomeno in Italia avvenne a Milano “il mattino del 12 ottobre 2009 – si legge ancora nel dossier di Lorenzo Vidino – presso la caserma Santa Barbara”. Quella mattina, varcato il cancello della caserma, Mohammed Game, classe 1974, originario della Libia, tentò di farsi esplodere, ma le condizioni precarie in cui era stato tenuto esplosivo impedirono al materiale di deflagrare al meglio e a pagarne le conseguenze maggiori fu lo stesso Game, che perse una mano e rimase gravemente ferito agli occhi. “Nonostante le ferite, l’uomo riuscì a sussurrare al primo poliziotto che lo soccorse: “Ve ne dovete andare via dall’Afghanistan”. Game, risultò dalle indagini, “era un avido consumatore di materiale jihadista” su internet”. L’analisi del pc, inoltre, “mostrò che Game aveva un forte astio per le politiche italiane sia in materia di Esteri che di Interni”.
La Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza redatta dai servizi di intelligence nel 2009 tracciava il ritratto di una “Nuova generazione di estremisti islamici, non inseriti in alcuna organizzazione strutturata, per lo più non evidenziatisis in precedenza, i quali hanno intrapreso un percorso di avvicinamento al credo jihadista, sino ad abbracciare l’attivismo militante”. In alcuni casi, si legge ancora nel documento, “l’assimilazone all’ideologia radicale è stata favorita dall’incontro con islamisti di un certo spessore nel panorama italiano, durante un periodo di detenzione per reati comuni. Più frequentemente, tuttavia, la formazione dei giovani militanti si giova anche delle nozioni d’indottrinamento e addestramento attinte dalla rete”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/08 ... d/1100518/
Il Corriere del Veneto rivela un'inchiesta della Dda di Venezia. Gli inquisiti sono cittadini stranieri residenti nella regione, che si sarebbero dati da fare per trovare nuovi "soldati" islamici da inviare sui fronti caldi, fra cui la Siria. In queste ore è in corso un monitoraggio del Ros su una ventina di potenziali jihadisti di origine straniera e residenti nel nord-est. Nei giorni scorsi il Dipartimento di pubblica sicurezza aveva inviato a tutti i prefetti e i questori una circolare disponendo di innalzare il livello di vigilanza
di Redazione Il Fatto Quotidiano | 27 agosto 2014Commenti (397)
Cinque persone residenti in Veneto risultano indagate nell’ambito di un’inchiesta per terrorismo aperta dalla Procura distrettuale di Venezia e condotta dai Ros. Si tratterebbe di elementi sospettati di indottrinare e reclutare forze per i gruppi della Jihad islamica che combattono sui fronti caldi del Medio Oriente. A rivelare l’inchiesta è oggi il Corriere del Veneto. Le indagini sarebbero legate alla vicenda di Ismar Mesinovic, il bosniaco residente nel bellunese morto in Siria all’inizio dell’anno in combattimento dopo aver aderito alla Jihad. Secondo quanto si è appreso, gli indagati sarebbero tutti originari dei Balcani.
Il reato ipotizzato è il 270 bis, che punisce le associazioni terroristiche. I cinque indagati , scrive il Corriere, sono stranieri, “quasi tutti residenti in Veneto”. Non si tratterebbe di personaggi direttamenente impegnati nei combattimenti o intenzionati a partire per i fronti caldi, piuttosto fiancheggiatori e reclutatori, figure chiave che si muovono per trovare nuovi “soldati” da votare alla causa della jihad, “a cominciare proprio dalla Siria”, scrive il Corriere veneto. “E in almeno un caso ci sarebbero riusciti”. Dopo l’allerta terrorismo lanciata nei giorni scorsi dal Ministero dell’Interno, si era intensificata in Veneto l’attività di intelligence sui centri islamici e sui soggetti considerati pericolosamente vicini al fondamentalismo.
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In queste ore è in corso un monitoraggio del Ros su una ventina di potenziali jihadisti di origine straniera e residenti nel nord-est. Si tratta di militanti che potrebbero assumere il ruolo di reclutatori di aspiranti jihadisti da indottrinare ed eventualmente inviare nelle zone di conflitto, a cominciare dalla Siria e dall’Iraq. Nei giorni scorsi, sull’onda delle preoccupazioni sotto il profilo della sicurezza, legate all’avanzata in Iraq delle milizie dell’Isis, il Dipartimento di pubblica sicurezza aveva inviato a tutti i prefetti e i questori una circolare disponendo di innalzare ulteriormente il livello di vigilanza alle sedi istituzionali e a tutti gli obiettivi “sensibili” (aeroporti, stazioni, luoghi di aggregazione, scali commerciali) a rischio di attentato terroristico. Secondo le ultime stime, sarebbero almeno una quarantina i militanti islamici partiti dall’Italia per andare a combattere in Siria in nome della Jihad.
Quello dei profughi “non è solo un problema di accoglienza – attacca il sindaco di Padova Massimo Bitonci – non possiamo più permetterci, anche alla luce di quanto sta succedendo in Libia, di trascurare il rischio che chi sbarca possa arrivare a compiere azioni terroristiche o ad ingaggiare guerriglieri, come sospettano i Ros e la Digos”. “Chiedo al ministro Alfano – continua Bitonci – così come ha visitato Lampedusa, di venire in Veneto e rendersi conto con i suoi occhi di quale sia il rischio per la cittadinanza, vista la facilità, già documentata, con cui gli estremisti islamici fanno breccia e raccolgono pericolosi consensi”.
La natura del fenomeno jihadista in Italia ha caratteristiche proprie rispetto ai Paesi dell’Unione Europea. Mentre negli Stati più sviluppati del continente si è arrivati alla seconda generazione di immigrati e “i primi network jihadisti erano operativi già nei primi anni Novanta” si legge nel dossier “Il jihadismo autoctono in Italia” firmato dallo studioso Lorenzo Vidino, in Italia la seconda generazione sta raggiungendo ora l’età adulta e il nostro Paese è interessato prevalentemente dal fenomeno del cosiddetto “autoctono”: immigrati di seconda generazione, cui si aggiunge un numero ridotto di convertiti, che agiscono autonomamente e prevalentemente su internet e, in alcuni casi per ora limitati, decidono di raggiungere il Medio Oriente per unirsi alla Jihad. Secondo l’autore, in Italia i casi di jihadisti attivi sarebbero poche decine, qualche centinaio i simpatizzanti.
In Italia “al fianco dei network jihadisti “tradizionali” ancora attivi in Italia – si legge nel dossier – è chiaro che sono presenti sia attori indipendenti (i cosiddetti lone actor), sia piccoli nuclei di soggetti che sono cresciuti in Italia, che si sono radicalizzati autonomamente, operando indipendentemente da moschee e altri gruppi strutturati, e che dimostrano forte presenza sul web. In ogni caso si sta parlando di un fenomeno dalle dimensioni ancora ridotte rispetto ad altri Paesi dell’Europa occidentale”.
Il caso spartiacque nella gestione e nella considerazione del fenomeno in Italia avvenne a Milano “il mattino del 12 ottobre 2009 – si legge ancora nel dossier di Lorenzo Vidino – presso la caserma Santa Barbara”. Quella mattina, varcato il cancello della caserma, Mohammed Game, classe 1974, originario della Libia, tentò di farsi esplodere, ma le condizioni precarie in cui era stato tenuto esplosivo impedirono al materiale di deflagrare al meglio e a pagarne le conseguenze maggiori fu lo stesso Game, che perse una mano e rimase gravemente ferito agli occhi. “Nonostante le ferite, l’uomo riuscì a sussurrare al primo poliziotto che lo soccorse: “Ve ne dovete andare via dall’Afghanistan”. Game, risultò dalle indagini, “era un avido consumatore di materiale jihadista” su internet”. L’analisi del pc, inoltre, “mostrò che Game aveva un forte astio per le politiche italiane sia in materia di Esteri che di Interni”.
La Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza redatta dai servizi di intelligence nel 2009 tracciava il ritratto di una “Nuova generazione di estremisti islamici, non inseriti in alcuna organizzazione strutturata, per lo più non evidenziatisis in precedenza, i quali hanno intrapreso un percorso di avvicinamento al credo jihadista, sino ad abbracciare l’attivismo militante”. In alcuni casi, si legge ancora nel documento, “l’assimilazone all’ideologia radicale è stata favorita dall’incontro con islamisti di un certo spessore nel panorama italiano, durante un periodo di detenzione per reati comuni. Più frequentemente, tuttavia, la formazione dei giovani militanti si giova anche delle nozioni d’indottrinamento e addestramento attinte dalla rete”.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
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Terrorismo, cinque indagati in Veneto. “Sono reclutatori della Jihad”
Il Corriere del Veneto rivela un'inchiesta della Dda di Venezia. Gli inquisiti sono cittadini stranieri residenti nella regione, che si sarebbero dati da fare per trovare nuovi "soldati" islamici da inviare sui fronti caldi, fra cui la Siria. In queste ore è in corso un monitoraggio del Ros su una ventina di potenziali jihadisti di origine straniera e residenti nel nord-est. Nei giorni scorsi il Dipartimento di pubblica sicurezza aveva inviato a tutti i prefetti e i questori una circolare disponendo di innalzare il livello di vigilanza
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Cinque persone residenti in Veneto risultano indagate nell’ambito di un’inchiesta per terrorismo aperta dalla Procura distrettuale di Venezia e condotta dai Ros. Si tratterebbe di elementi sospettati di indottrinare e reclutare forze per i gruppi della Jihad islamica che combattono sui fronti caldi del Medio Oriente. A rivelare l’inchiesta è oggi il Corriere del Veneto. Le indagini sarebbero legate alla vicenda di Ismar Mesinovic, il bosniaco residente nel bellunese morto in Siria all’inizio dell’anno in combattimento dopo aver aderito alla Jihad. Secondo quanto si è appreso, gli indagati sarebbero tutti originari dei Balcani.
Il reato ipotizzato è il 270 bis, che punisce le associazioni terroristiche. I cinque indagati , scrive il Corriere, sono stranieri, “quasi tutti residenti in Veneto”. Non si tratterebbe di personaggi direttamenente impegnati nei combattimenti o intenzionati a partire per i fronti caldi, piuttosto fiancheggiatori e reclutatori, figure chiave che si muovono per trovare nuovi “soldati” da votare alla causa della jihad, “a cominciare proprio dalla Siria”, scrive il Corriere veneto. “E in almeno un caso ci sarebbero riusciti”. Dopo l’allerta terrorismo lanciata nei giorni scorsi dal Ministero dell’Interno, si era intensificata in Veneto l’attività di intelligence sui centri islamici e sui soggetti considerati pericolosamente vicini al fondamentalismo.
In queste ore è in corso un monitoraggio del Ros su una ventina di potenziali jihadisti di origine straniera e residenti nel nord-est. Si tratta di militanti che potrebbero assumere il ruolo di reclutatori di aspiranti jihadisti da indottrinare ed eventualmente inviare nelle zone di conflitto, a cominciare dalla Siria e dall’Iraq. Nei giorni scorsi, sull’onda delle preoccupazioni sotto il profilo della sicurezza, legate all’avanzata in Iraq delle milizie dell’Isis, il Dipartimento di pubblica sicurezza aveva inviato a tutti i prefetti e i questori una circolare disponendo di innalzare ulteriormente il livello di vigilanza alle sedi istituzionali e a tutti gli obiettivi “sensibili” (aeroporti, stazioni, luoghi di aggregazione, scali commerciali) a rischio di attentato terroristico. Secondo le ultime stime, sarebbero almeno una quarantina i militanti islamici partiti dall’Italia per andare a combattere in Siria in nome della Jihad.
Quello dei profughi “non è solo un problema di accoglienza – attacca il sindaco di Padova Massimo Bitonci – non possiamo più permetterci, anche alla luce di quanto sta succedendo in Libia, di trascurare il rischio che chi sbarca possa arrivare a compiere azioni terroristiche o ad ingaggiare guerriglieri, come sospettano i Ros e la Digos”. “Chiedo al ministro Alfano – continua Bitonci – così come ha visitato Lampedusa, di venire in Veneto e rendersi conto con i suoi occhi di quale sia il rischio per la cittadinanza, vista la facilità, già documentata, con cui gli estremisti islamici fanno breccia e raccolgono pericolosi consensi”.
La natura del fenomeno jihadista in Italia ha caratteristiche proprie rispetto ai Paesi dell’Unione Europea. Mentre negli Stati più sviluppati del continente si è arrivati alla seconda generazione di immigrati e “i primi network jihadisti erano operativi già nei primi anni Novanta” si legge nel dossier “Il jihadismo autoctono in Italia” firmato dallo studioso Lorenzo Vidino, in Italia la seconda generazione sta raggiungendo ora l’età adulta e il nostro Paese è interessato prevalentemente dal fenomeno del cosiddetto “autoctono”: immigrati di seconda generazione, cui si aggiunge un numero ridotto di convertiti, che agiscono autonomamente e prevalentemente su internet e, in alcuni casi per ora limitati, decidono di raggiungere il Medio Oriente per unirsi alla Jihad. Secondo l’autore, in Italia i casi di jihadisti attivi sarebbero poche decine, qualche centinaio i simpatizzanti.
In Italia “al fianco dei network jihadisti “tradizionali” ancora attivi in Italia – si legge nel dossier – è chiaro che sono presenti sia attori indipendenti (i cosiddetti lone actor), sia piccoli nuclei di soggetti che sono cresciuti in Italia, che si sono radicalizzati autonomamente, operando indipendentemente da moschee e altri gruppi strutturati, e che dimostrano forte presenza sul web. In ogni caso si sta parlando di un fenomeno dalle dimensioni ancora ridotte rispetto ad altri Paesi dell’Europa occidentale”.
Il caso spartiacque nella gestione e nella considerazione del fenomeno in Italia avvenne a Milano “il mattino del 12 ottobre 2009 – si legge ancora nel dossier di Lorenzo Vidino – presso la caserma Santa Barbara”. Quella mattina, varcato il cancello della caserma, Mohammed Game, classe 1974, originario della Libia, tentò di farsi esplodere, ma le condizioni precarie in cui era stato tenuto esplosivo impedirono al materiale di deflagrare al meglio e a pagarne le conseguenze maggiori fu lo stesso Game, che perse una mano e rimase gravemente ferito agli occhi. “Nonostante le ferite, l’uomo riuscì a sussurrare al primo poliziotto che lo soccorse: “Ve ne dovete andare via dall’Afghanistan”. Game, risultò dalle indagini, “era un avido consumatore di materiale jihadista” su internet”. L’analisi del pc, inoltre, “mostrò che Game aveva un forte astio per le politiche italiane sia in materia di Esteri che di Interni”.
La Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza redatta dai servizi di intelligence nel 2009 tracciava il ritratto di una “Nuova generazione di estremisti islamici, non inseriti in alcuna organizzazione strutturata, per lo più non evidenziatisis in precedenza, i quali hanno intrapreso un percorso di avvicinamento al credo jihadista, sino ad abbracciare l’attivismo militante”. In alcuni casi, si legge ancora nel documento, “l’assimilazone all’ideologia radicale è stata favorita dall’incontro con islamisti di un certo spessore nel panorama italiano, durante un periodo di detenzione per reati comuni. Più frequentemente, tuttavia, la formazione dei giovani militanti si giova anche delle nozioni d’indottrinamento e addestramento attinte dalla rete”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/08 ... d/1100518/
Fronte - 6 - Italia - 4
Terrorismo, cinque indagati in Veneto. “Sono reclutatori della Jihad”
Il Corriere del Veneto rivela un'inchiesta della Dda di Venezia. Gli inquisiti sono cittadini stranieri residenti nella regione, che si sarebbero dati da fare per trovare nuovi "soldati" islamici da inviare sui fronti caldi, fra cui la Siria. In queste ore è in corso un monitoraggio del Ros su una ventina di potenziali jihadisti di origine straniera e residenti nel nord-est. Nei giorni scorsi il Dipartimento di pubblica sicurezza aveva inviato a tutti i prefetti e i questori una circolare disponendo di innalzare il livello di vigilanza
di Redazione Il Fatto Quotidiano | 27 agosto 2014Commenti (397)
Cinque persone residenti in Veneto risultano indagate nell’ambito di un’inchiesta per terrorismo aperta dalla Procura distrettuale di Venezia e condotta dai Ros. Si tratterebbe di elementi sospettati di indottrinare e reclutare forze per i gruppi della Jihad islamica che combattono sui fronti caldi del Medio Oriente. A rivelare l’inchiesta è oggi il Corriere del Veneto. Le indagini sarebbero legate alla vicenda di Ismar Mesinovic, il bosniaco residente nel bellunese morto in Siria all’inizio dell’anno in combattimento dopo aver aderito alla Jihad. Secondo quanto si è appreso, gli indagati sarebbero tutti originari dei Balcani.
Il reato ipotizzato è il 270 bis, che punisce le associazioni terroristiche. I cinque indagati , scrive il Corriere, sono stranieri, “quasi tutti residenti in Veneto”. Non si tratterebbe di personaggi direttamenente impegnati nei combattimenti o intenzionati a partire per i fronti caldi, piuttosto fiancheggiatori e reclutatori, figure chiave che si muovono per trovare nuovi “soldati” da votare alla causa della jihad, “a cominciare proprio dalla Siria”, scrive il Corriere veneto. “E in almeno un caso ci sarebbero riusciti”. Dopo l’allerta terrorismo lanciata nei giorni scorsi dal Ministero dell’Interno, si era intensificata in Veneto l’attività di intelligence sui centri islamici e sui soggetti considerati pericolosamente vicini al fondamentalismo.
In queste ore è in corso un monitoraggio del Ros su una ventina di potenziali jihadisti di origine straniera e residenti nel nord-est. Si tratta di militanti che potrebbero assumere il ruolo di reclutatori di aspiranti jihadisti da indottrinare ed eventualmente inviare nelle zone di conflitto, a cominciare dalla Siria e dall’Iraq. Nei giorni scorsi, sull’onda delle preoccupazioni sotto il profilo della sicurezza, legate all’avanzata in Iraq delle milizie dell’Isis, il Dipartimento di pubblica sicurezza aveva inviato a tutti i prefetti e i questori una circolare disponendo di innalzare ulteriormente il livello di vigilanza alle sedi istituzionali e a tutti gli obiettivi “sensibili” (aeroporti, stazioni, luoghi di aggregazione, scali commerciali) a rischio di attentato terroristico. Secondo le ultime stime, sarebbero almeno una quarantina i militanti islamici partiti dall’Italia per andare a combattere in Siria in nome della Jihad.
Quello dei profughi “non è solo un problema di accoglienza – attacca il sindaco di Padova Massimo Bitonci – non possiamo più permetterci, anche alla luce di quanto sta succedendo in Libia, di trascurare il rischio che chi sbarca possa arrivare a compiere azioni terroristiche o ad ingaggiare guerriglieri, come sospettano i Ros e la Digos”. “Chiedo al ministro Alfano – continua Bitonci – così come ha visitato Lampedusa, di venire in Veneto e rendersi conto con i suoi occhi di quale sia il rischio per la cittadinanza, vista la facilità, già documentata, con cui gli estremisti islamici fanno breccia e raccolgono pericolosi consensi”.
La natura del fenomeno jihadista in Italia ha caratteristiche proprie rispetto ai Paesi dell’Unione Europea. Mentre negli Stati più sviluppati del continente si è arrivati alla seconda generazione di immigrati e “i primi network jihadisti erano operativi già nei primi anni Novanta” si legge nel dossier “Il jihadismo autoctono in Italia” firmato dallo studioso Lorenzo Vidino, in Italia la seconda generazione sta raggiungendo ora l’età adulta e il nostro Paese è interessato prevalentemente dal fenomeno del cosiddetto “autoctono”: immigrati di seconda generazione, cui si aggiunge un numero ridotto di convertiti, che agiscono autonomamente e prevalentemente su internet e, in alcuni casi per ora limitati, decidono di raggiungere il Medio Oriente per unirsi alla Jihad. Secondo l’autore, in Italia i casi di jihadisti attivi sarebbero poche decine, qualche centinaio i simpatizzanti.
In Italia “al fianco dei network jihadisti “tradizionali” ancora attivi in Italia – si legge nel dossier – è chiaro che sono presenti sia attori indipendenti (i cosiddetti lone actor), sia piccoli nuclei di soggetti che sono cresciuti in Italia, che si sono radicalizzati autonomamente, operando indipendentemente da moschee e altri gruppi strutturati, e che dimostrano forte presenza sul web. In ogni caso si sta parlando di un fenomeno dalle dimensioni ancora ridotte rispetto ad altri Paesi dell’Europa occidentale”.
Il caso spartiacque nella gestione e nella considerazione del fenomeno in Italia avvenne a Milano “il mattino del 12 ottobre 2009 – si legge ancora nel dossier di Lorenzo Vidino – presso la caserma Santa Barbara”. Quella mattina, varcato il cancello della caserma, Mohammed Game, classe 1974, originario della Libia, tentò di farsi esplodere, ma le condizioni precarie in cui era stato tenuto esplosivo impedirono al materiale di deflagrare al meglio e a pagarne le conseguenze maggiori fu lo stesso Game, che perse una mano e rimase gravemente ferito agli occhi. “Nonostante le ferite, l’uomo riuscì a sussurrare al primo poliziotto che lo soccorse: “Ve ne dovete andare via dall’Afghanistan”. Game, risultò dalle indagini, “era un avido consumatore di materiale jihadista” su internet”. L’analisi del pc, inoltre, “mostrò che Game aveva un forte astio per le politiche italiane sia in materia di Esteri che di Interni”.
La Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza redatta dai servizi di intelligence nel 2009 tracciava il ritratto di una “Nuova generazione di estremisti islamici, non inseriti in alcuna organizzazione strutturata, per lo più non evidenziatisis in precedenza, i quali hanno intrapreso un percorso di avvicinamento al credo jihadista, sino ad abbracciare l’attivismo militante”. In alcuni casi, si legge ancora nel documento, “l’assimilazone all’ideologia radicale è stata favorita dall’incontro con islamisti di un certo spessore nel panorama italiano, durante un periodo di detenzione per reati comuni. Più frequentemente, tuttavia, la formazione dei giovani militanti si giova anche delle nozioni d’indottrinamento e addestramento attinte dalla rete”.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
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BUONRIENTROATUTTI • 34 minuti fa
Ci mancavano solo questi terroristi in Veneto, una regione, in particolare la provincia di Venezia, che ha visto per circa 20 anni dagli 80 in poi, spadroneggiare la mala del Brenta, facevano il bello e cattivo tempo e le forze dell'ordine dove erano, chi lo sa, poi sono arrivati quelli del Mose, che per circa 10-13 anni fino a poco fa hanno rubato, corrotto, depredato la citta' e l'intera Italia di soldi pubblici, e le forze dell'ordine erano partecipi vedi colonello della Finanza coinvolto e POSSIBILE CHE NESSUNO sapesse e vedesse nulla per 13 anni, da prima di Cacciari, lui compreso, fino ad Orsoni quando tutti o quasi i veneziani sapevano e anche avevano denunciato sui giornali locali alcuni giornalisti che poi chissa' perche' o hanno perso il posto o sono stati "mandati" in pensione veloce, ma allora mi chiedo, questa regione, questa citta', VENEZIA, e' piu'mafiosa, criminale ecc. del sud Italia, di Palermo, di Napoli ecc., aspetto solo che qualche veneto continui a parlar male del meridione per spu ttanarlo in pieno e con soddisfazione......
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Lorenzo BUONRIENTROATUTTI • 25 minuti fa
Poche ragazze da quelle parti eh ???
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BUONRIENTROATUTTI • 34 minuti fa
Ci mancavano solo questi terroristi in Veneto, una regione, in particolare la provincia di Venezia, che ha visto per circa 20 anni dagli 80 in poi, spadroneggiare la mala del Brenta, facevano il bello e cattivo tempo e le forze dell'ordine dove erano, chi lo sa, poi sono arrivati quelli del Mose, che per circa 10-13 anni fino a poco fa hanno rubato, corrotto, depredato la citta' e l'intera Italia di soldi pubblici, e le forze dell'ordine erano partecipi vedi colonello della Finanza coinvolto e POSSIBILE CHE NESSUNO sapesse e vedesse nulla per 13 anni, da prima di Cacciari, lui compreso, fino ad Orsoni quando tutti o quasi i veneziani sapevano e anche avevano denunciato sui giornali locali alcuni giornalisti che poi chissa' perche' o hanno perso il posto o sono stati "mandati" in pensione veloce, ma allora mi chiedo, questa regione, questa citta', VENEZIA, e' piu'mafiosa, criminale ecc. del sud Italia, di Palermo, di Napoli ecc., aspetto solo che qualche veneto continui a parlar male del meridione per spu ttanarlo in pieno e con soddisfazione......
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Lorenzo BUONRIENTROATUTTI • 25 minuti fa
Poche ragazze da quelle parti eh ???
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