LOTTA O GOVERNO, DILEMMA A SINISTRA
Europa. Quasi ovunque nell’Unione la sinistra è troppo debole per poter essere determinante nella linea delle coalizioni, ma abbastanza forte da essere essenziale per battere l’avversario di destra
di Luciana Castellina, 12 novembre 2014
Per mezzo secolo il ventaglio dei partiti di sinistra presenti nei parlamenti Europei è rimasto press’a poco invariato, salvo il fortunoso ingresso di qualche formazione sessantottina in Italia, altrove l’avvento dei verdi e quasi ovunque il mutamento di nome dei vecchi partiti comunisti dopo il terremoto dell’89. Da qualche tempo assistiamo invece a una nuova variopinta fioritura che, almeno in Grecia e in Spagna, ha già avuto, o i sondaggi dicono che avrà, una notevole consistenza parlamentare, inimmaginabilmente più larga di qualsiasi altra formazione simile prima d’ora.
Parlo naturalmente soprattutto di Syriza in Grecia e di Podemos in Spagna.
Sebbene vi si ritrovino anche nomi che da ormai qualche decennio conosciamo, militanti che già abbiamo incontrato ai grandi appuntamenti internazionali di movimento, si tratta di creature nuove, nel senso che somigliano poco a ogni altro partito storico. Né sono, tuttavia, simili fra loro, né per origine né per pratica attuale: Syriza nasce da un arcipelago di partitini e si è però andata caratterizzando per il suo legame con le iniziative sul territorio animate dalla società civile; Podemos, invece, nasce da un movimento, quello degli Indignados, che fino alle ultime elezioni politiche spagnole aveva disertato addirittura le urne in sintonia con il suo manifesto in cui si diceva: «Nessuno ci rappresenta» — e però anche:
«Non vogliamo che nessuno ci rappresenti», ed è ora approdato al riconoscimento che bisogna stare laddove si decide, in parlamento per l’appunto.
Tanto i nuovi venuti che le più antiche formazioni che non fanno capo al partito socialista europeo, sia quelle di provenienza comunista tradizionale che di nuova sinistra, hanno nella loro diversità qualche significativo tratto in comune che rende a tutti periglioso e spesso confuso il cammino: il rapporto con il movimento e il problema del governo.
Si tratta di questioni reali e difficili, su cui anche in Italia, dove siamo comunque in una situazione ben più confusa, ci arrovelliamo tutti.
Il governo: non c’è paese europeo, dalla Norvegia fino all’Italia, dove non si sia bloccati dal dilemma se sostenere, partecipandovi direttamente o meno, una coalizione di centro sinistra e così però trovarsi a condividere la responsabilità di scelte che non si vorrebbero compiere, oppure se collocarsi all’opposizione ma con il rischio di spianare il terreno all’avvento di un governo di destra.
Quasi ovunque la sinistra è infatti in Europa troppo debole per poter essere determinante nella linea delle coalizioni di centro sinistra, ma abbastanza forte per essere essenziale al loro successo. Impedirlo significa così caricarsi della impopolarissima responsabilità di far vincere l’avversario principale.
Non sono cose nuovissime: già negli anni Trenta, quando per la prima volta entrò in un governo il partito laburista inglese, Ramsey Mc Donald, che ne era diventato primo ministro, ebbe a confessare amaro: credevo fosse tremendo stare all’opposizione,
non sapevo quanto più tremendo fosse stare al governo e non avere potere.
Quanto all’altra opzione, vale ricordare quanti sono gli elettori che tutt’ora non hanno perdonato a Fausto Bertinotti di aver fatto cadere il governo Prodi alla fine degli anni Novanta.
Anche
più difficile il problema movimento: ovvero il dilemma fra il rischio di separarsene una volta entrati sul terreno della politica istituzionale; e, al contrario, di rimanere preda delle sue inevitabili fluttuazioni, dell’impotenza che produce l’impossibilità di aggregare un potere decisionale per via del rifiuto di ogni leadership.
Non ci sono evidentemente soluzioni facili e soprattutto univoche. Oltretutto perché questi problemi antichi sono oggi stravolti da un galoppante mutamento del mondo, e dunque degli stessi modi di vivere delle persone, della dislocazione dei poteri da affrontare.
Solo alcune considerazioni su cui sarebbe utile aprire un dibattito che non resti chiuso nei rispettivi circuiti nazionali, ingombrati da rancori e ripicche, ma diventi finalmente europeo, usando proprio quella forza che alcune nuove formazioni hanno acquisito e quella consistenza conservata, pur nel presente terremoto, da altre più antiche (penso alla Linke tedesca o ai partiti scandinavi).
In realtà sappiamo pochissimo l’uno dell’altro, persino di Syriza, sebbene l’ultima nostra esperienza comune sia stata combattuta nel nome di Tsipras.
Non si tratta comunque solo del vantaggio che avremmo a imparare di più, ma di cominciare a costruire il solo soggetto adeguato ai nostri tempi, che deve essere europeo non solo sulla carta, come sono i partiti che portano questo nome e che più di qualche incontro annuale cui si partecipa distratti non danno. Proprio alle nuove forze dalla sinistra dovrebbe esser più facile ragionare e muoversi da europei, perché meno soggetti ai tanti condizionamenti storici dei partiti più antichi. Peraltro è inutile parlare di democratizzazione dell’Unione se prima non si costituisce, a quel livello, quanto rende democratica una nazione: una società civile comune, ricca di articolazioni e strumenti: partiti, sindacati, stampa, associazioni. Costruirla è ben più importante che conquistare qualche potere in più per il Parlamento europeo, destinato a restare impotente finché l’esecutivo risponde a un elettorato frammentato e incomunicante.
Affrontare questi problemi è difficile oggi più di quanto non fosse anche solo qualche anno fa perché viviamo in un tempo in cui il distacco fra la gente e la politica, la diffidenza nei confronti dei partiti e delle istituzioni, sono diventati profondi, e non solo in Italia.
La cosa più importante per tutti è dunque ripartire da più indietro, ricostruire il senso stesso della politica: spazzando via l’idea che sia materia di esclusiva competenza di chi sta nelle istituzioni ed evitando di proporre coalizioni o nuovi partiti sempre e solo in occasione delle elezioni, il terreno più ambiguo e difficile, anziché sperimentare la coesione, non genericamente nel movimento, ma in un’iniziativa che sia anche in grado di assumersi responsabilità di gestione della società, reimpadronendosi di pezzi dello stato che sono stati sequestrati. Quanto più le identità sono state stravolte, come è accaduto in questi anni, sino a confondere perfino la destra con la sinistra, tanto più questo diventa il terreno su cui superare le diffidenze e l’antipolitica, eludere i rischi di populismo da cui neanche i movimenti e i partiti nati dai movimenti sono immuni. Soprattutto per far maturare soggettività nelle persone, riabituandosi a pensare che la politica è poter decidere, non arbitrare fra l’uno o l’altro che decide. E neppure solo rivendicare diritti, perché la democrazia è di più: è conquista di uno spazio, e delle condizioni in cui non sia astratta la pretesa di cambiare il mondo.
Sono tutte cose che non si possono fare in parlamento, ma nemmeno ignorandolo. Il rischio, come sempre, è che il dentro e il fuori si separino.
Anche al dilemma — che dilania la sinistra di tutta Europa — se accettare di sostenere una coalizione di centro sinistra o meno, c’è una sola risposta: si può assumere il rischio se si ha abbastanza forza nella società, e si ha abbastanza forza nella società non se non ci si limita a un potere di interdizione, ma se si è capaci di gestire almeno un pezzetto di alternativa. Per occupare lo spazio pubblico, bisogna sapere che occorre innanzitutto ricostruirlo, e poi capire che non si tratta di uno stadio in cui vince chi grida di più.
(Comunque tuttora, per orientarmi,
io scelgo la vecchia indicazione del presidente Mao. Che diceva: bombardare il quartier generale, e rifondare di continuo i partiti affinché non si burocratizzino. Ma diceva che occorreva «rifondarli» per l’appunto, non che se ne poteva fare a meno e creare al loro posti semplici reti fluttuanti. Gramsci sosteneva che senza costruire un soggetto, e cioè una volontà coaugulata collettiva, che addirittura chiamava «il principe», non si sarebbe potuti andare da nessuna parte, perché la società civile, di per sé, subisce, com’è naturale, l’egemonia del potere. Sottrarla a questa sudditanza è premessa indispensabile a ogni alternativa).
da il manifesto (che è anche tuo, riprenditelo !) del 13 novembre 2014
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