La crisi dell'Europa
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Re: La crisi dell'Europa
Scienza della comunicazione - 1
Uno dei motivi per cui noi umani spesso assumiamo atteggiamenti contradditori e ci scanniamo come non mai, dipende dalla nostra capacità individuale di sapere trasmettere in modo semplice e comprensivo il nostro pensiero.
Capita dunque che spesso E. Scalfari venga definito fastidioso perché si dilunga nelle spiegazioni dei suoi concetti base.
Dato che si trova davanti ad un pubblico variegato di intelligenza e cultura diversa, risulta ovvio che non accontenterà mai il suo pubblico. Alcuni si dolgono che è troppo prolisso e che quanto spiega possa essere condensato in poche righe.
A chi sostiene questa tesi, diventa facile sostenere il punto di vista di Prodi, che durante le lezioni di economia in tv, sostenne che un tomo di economia di un’autore noto si sarebbe potuto condensare in poche pagine.
Se questo è vero per chi possiede la materia, non è altrettanto vero per chi è un neofito e che ha bisogno corredo di spiegazioni ed esempi continui.
Ovvio che chi detenga la materia poi si stufi davanti ad un testo prolisso. Fatto sta che in materia non ci sarà mai accordo.
Nel caso della troika, ad esempio, né Scalfari né altri spiegano mai a cosa debba servire la troika.
Oscar Giannino, qualche giorno fa ad Agorà sosteneva che il contenzioso esistente tra il governo italiano e Bruxelles riguarda il mantenimento di alcuni privilegi a cui la casta non intende rinunciare.
Da Google:
Alla domanda quanto ci costano le compartecipate:
1. Corte dei conti: le 7.500 aziende partecipate costano allo ...
http://www.ilsole24ore.com/.../corte-co ... costano-st...
29/giu/2014 - Le numerose società partecipate dallo Stato sono costate circa 26 miliardi di euro nel 2013. È quanto emerge dai dati contenuti nella ...
**
1. Corte dei conti: le società partecipate costano 26 miliardi all ...
http://www.corriere.it/.../corte-conti- ... liardi-all...
29/giu/2014 - Corte dei conti: le società partecipate costano 26 miliardi all'anno. L'allarme del procuratore .... Consulenza, quanto vale un consiglio d'autore ...
Continua
Uno dei motivi per cui noi umani spesso assumiamo atteggiamenti contradditori e ci scanniamo come non mai, dipende dalla nostra capacità individuale di sapere trasmettere in modo semplice e comprensivo il nostro pensiero.
Capita dunque che spesso E. Scalfari venga definito fastidioso perché si dilunga nelle spiegazioni dei suoi concetti base.
Dato che si trova davanti ad un pubblico variegato di intelligenza e cultura diversa, risulta ovvio che non accontenterà mai il suo pubblico. Alcuni si dolgono che è troppo prolisso e che quanto spiega possa essere condensato in poche righe.
A chi sostiene questa tesi, diventa facile sostenere il punto di vista di Prodi, che durante le lezioni di economia in tv, sostenne che un tomo di economia di un’autore noto si sarebbe potuto condensare in poche pagine.
Se questo è vero per chi possiede la materia, non è altrettanto vero per chi è un neofito e che ha bisogno corredo di spiegazioni ed esempi continui.
Ovvio che chi detenga la materia poi si stufi davanti ad un testo prolisso. Fatto sta che in materia non ci sarà mai accordo.
Nel caso della troika, ad esempio, né Scalfari né altri spiegano mai a cosa debba servire la troika.
Oscar Giannino, qualche giorno fa ad Agorà sosteneva che il contenzioso esistente tra il governo italiano e Bruxelles riguarda il mantenimento di alcuni privilegi a cui la casta non intende rinunciare.
Da Google:
Alla domanda quanto ci costano le compartecipate:
1. Corte dei conti: le 7.500 aziende partecipate costano allo ...
http://www.ilsole24ore.com/.../corte-co ... costano-st...
29/giu/2014 - Le numerose società partecipate dallo Stato sono costate circa 26 miliardi di euro nel 2013. È quanto emerge dai dati contenuti nella ...
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1. Corte dei conti: le società partecipate costano 26 miliardi all ...
http://www.corriere.it/.../corte-conti- ... liardi-all...
29/giu/2014 - Corte dei conti: le società partecipate costano 26 miliardi all'anno. L'allarme del procuratore .... Consulenza, quanto vale un consiglio d'autore ...
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Re: La crisi dell'Europa
Scienza della comunicazione - 2
IL RENDICONTO GENERALE 2013
Corte dei conti: le società partecipate costano 26 miliardi all’anno
L’allarme del procuratore generale Salvatore Nottola: «Hanno un forte impatto sui conti pubblici ma poca trasparenza»
di Valentina Santarpia
Sono un esercito di oltre 5000 società, espressione di un mondo ancora poco conosciuto e poco trasparente, eppure costano allo Stato ventisei miliardi all’anno: sono le partecipate pubbliche, imprese che - è la denuncia della Corte dei conti - andrebbero sottoposte ad un «disegno di ristrutturazione organico e complessivo».
Per il loro peso finanziario e per la dimensione economica, gli enti partecipati - sottolinea il procuratore generale Salvatore Nottola nel suo giudizio sul rendiconto generale dello Stato - «hanno un forte impatto sui conti pubblici, sui quali si ripercuotono i risultati della gestione, quando i costi non gravano sulla collettività, attraverso i meccanismi tariffari».
Un terzo delle partecipate dagli enti locali
In realtà le imprese partecipate in Italia sono circa 7500: 50 sono partecipate dallo Stato, 2214 sono organismi di varia natura (come consorzi, fondazione, e così via), e 5258 sono quelle in mano degli enti locali: ed è proprio su queste che si concentra l’analisi impietosa del procuratore generale presso la Corte dei Conti. Perché un terzo di queste società risulta in perdita: significa che alla fine a rimetterci sono Regioni, Province e Comuni, che rimpolpano le casse quando i conti vanno in rosso.E’ il caso, per fare un esempio, delle società di trasporto pubblico locale, che garantendo un servizio essenziale per la collettività vengono spesso mantenute in regime pubblico: con conseguenze però spesso devastanti, visto che oltre il 40% delle società è in perdita nonostante autobus, tram e metro in molte città funzionino male.
http://www.corriere.it/economia/14_giug ... 4268.shtml
Corte dei conti: le 7.500 aziende partecipate costano allo Stato 26 miliardi (un terzo sono in perdita)
29 giugno 2014
Le numerose società partecipate dallo Stato sono costate circa 26 miliardi di euro nel 2013. È quanto emerge dai dati contenuti nella requisitoria orale del procuratore generale presso la Corte dei Conti, Salvatore Nottola nel giudizio sul rendiconto generale dello Stato che evidenzia la necessità di «un disegno di ristrutturazione organico e complessivo, che preveda regole chiare e cogenti, forme organizzative omogenee, criteri razionali di partecipazione, imprescindibili ed effettivi controlli da parte degli enti conferenti e dia a questi ultimi la responsabilità dell'effettivo governo degli enti partecipati».
Il numero delle società partecipate è variabile in quanto sono soggette a frequenti modifiche dell'assetto societario. All'atto dell'ultima rilevazione della Corte dei conti quelle partecipate dallo Stato erano 50. Quelle partecipate dagli enti locali 5.258 (alle quali vanno aggiunti 2.214 organismi di varia natura: consorzi, fondazioni e così via)
Il movimento finanziario indotto dalle società partecipate dallo Stato, costituito dai pagamenti a qualsiasi titolo erogati dai ministeri nei loro confronti ammonta a 30,55 miliardi nel 2011, 26,11 miliardi nel 2012 e 25,93 nel 2013. Il peso delle società strumentali sul bilancio dei ministeri è stato di 785,9 milioni nel 2011, 844,61 milioni nel 2012 e 574,91 milioni nel 2013; quanto agli enti partecipati dagli enti locali, un terzo è in perdita.
"Il disastro delle partecipate di Comuni e Regioni descritto dalla Corte dei Conti deve condurre ad inserire in Costituzione l'obbligo di mettere a gara i servizi locali come ha proposto il Nuovo centrodestra unitamente ad altri emendamenti che dispongono il fallimento politico degli amministratori locali in caso di dissesto sulla base dei costi standard". Lo ha dichiarato il presidente del gruppo del Nuovo Centrodestra al SenatoMaurizio Sacconi. "La riforma -ha aggiunto- deve segnare la discontinuità con il tempo della finanza locale irresponsabile. Il Nuovo centrodestra chiederà il voto su questi emendamenti con la massima determinazione. I futuri senatori, dalle Regioni e dai Comuni, non potranno essere ambasciatori a Roma della spesa senza limiti".
RIPRODUZIONE RISERVATA
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http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/ ... d=ABP9O2VB
IL RENDICONTO GENERALE 2013
Corte dei conti: le società partecipate costano 26 miliardi all’anno
L’allarme del procuratore generale Salvatore Nottola: «Hanno un forte impatto sui conti pubblici ma poca trasparenza»
di Valentina Santarpia
Sono un esercito di oltre 5000 società, espressione di un mondo ancora poco conosciuto e poco trasparente, eppure costano allo Stato ventisei miliardi all’anno: sono le partecipate pubbliche, imprese che - è la denuncia della Corte dei conti - andrebbero sottoposte ad un «disegno di ristrutturazione organico e complessivo».
Per il loro peso finanziario e per la dimensione economica, gli enti partecipati - sottolinea il procuratore generale Salvatore Nottola nel suo giudizio sul rendiconto generale dello Stato - «hanno un forte impatto sui conti pubblici, sui quali si ripercuotono i risultati della gestione, quando i costi non gravano sulla collettività, attraverso i meccanismi tariffari».
Un terzo delle partecipate dagli enti locali
In realtà le imprese partecipate in Italia sono circa 7500: 50 sono partecipate dallo Stato, 2214 sono organismi di varia natura (come consorzi, fondazione, e così via), e 5258 sono quelle in mano degli enti locali: ed è proprio su queste che si concentra l’analisi impietosa del procuratore generale presso la Corte dei Conti. Perché un terzo di queste società risulta in perdita: significa che alla fine a rimetterci sono Regioni, Province e Comuni, che rimpolpano le casse quando i conti vanno in rosso.E’ il caso, per fare un esempio, delle società di trasporto pubblico locale, che garantendo un servizio essenziale per la collettività vengono spesso mantenute in regime pubblico: con conseguenze però spesso devastanti, visto che oltre il 40% delle società è in perdita nonostante autobus, tram e metro in molte città funzionino male.
http://www.corriere.it/economia/14_giug ... 4268.shtml
Corte dei conti: le 7.500 aziende partecipate costano allo Stato 26 miliardi (un terzo sono in perdita)
29 giugno 2014
Le numerose società partecipate dallo Stato sono costate circa 26 miliardi di euro nel 2013. È quanto emerge dai dati contenuti nella requisitoria orale del procuratore generale presso la Corte dei Conti, Salvatore Nottola nel giudizio sul rendiconto generale dello Stato che evidenzia la necessità di «un disegno di ristrutturazione organico e complessivo, che preveda regole chiare e cogenti, forme organizzative omogenee, criteri razionali di partecipazione, imprescindibili ed effettivi controlli da parte degli enti conferenti e dia a questi ultimi la responsabilità dell'effettivo governo degli enti partecipati».
Il numero delle società partecipate è variabile in quanto sono soggette a frequenti modifiche dell'assetto societario. All'atto dell'ultima rilevazione della Corte dei conti quelle partecipate dallo Stato erano 50. Quelle partecipate dagli enti locali 5.258 (alle quali vanno aggiunti 2.214 organismi di varia natura: consorzi, fondazioni e così via)
Il movimento finanziario indotto dalle società partecipate dallo Stato, costituito dai pagamenti a qualsiasi titolo erogati dai ministeri nei loro confronti ammonta a 30,55 miliardi nel 2011, 26,11 miliardi nel 2012 e 25,93 nel 2013. Il peso delle società strumentali sul bilancio dei ministeri è stato di 785,9 milioni nel 2011, 844,61 milioni nel 2012 e 574,91 milioni nel 2013; quanto agli enti partecipati dagli enti locali, un terzo è in perdita.
"Il disastro delle partecipate di Comuni e Regioni descritto dalla Corte dei Conti deve condurre ad inserire in Costituzione l'obbligo di mettere a gara i servizi locali come ha proposto il Nuovo centrodestra unitamente ad altri emendamenti che dispongono il fallimento politico degli amministratori locali in caso di dissesto sulla base dei costi standard". Lo ha dichiarato il presidente del gruppo del Nuovo Centrodestra al SenatoMaurizio Sacconi. "La riforma -ha aggiunto- deve segnare la discontinuità con il tempo della finanza locale irresponsabile. Il Nuovo centrodestra chiederà il voto su questi emendamenti con la massima determinazione. I futuri senatori, dalle Regioni e dai Comuni, non potranno essere ambasciatori a Roma della spesa senza limiti".
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http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/ ... d=ABP9O2VB
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Re: La crisi dell'Europa
Scienza delle Comunicazioni - 3
Da qualche anno è sceso improvvisamente un immotivato silenzio sull’erogazione da parte dello Stato di fondi a titolo gratuito alle imprese amiche.
Tutti gli ultimi ministri dell’Economia da quando è uscita la denuncia palese di Marco Cobianchi, giornalista di Panorama che già nel 2007, un libro pieno di documenti alla mano, alla Travaglio, che valutava all’epoca l’erogazione annua di 30 miliardi di euro, hanno fatto finta di niente.
Neppure il super mega “Ghe pensi mi 2.0” ha mai accennato a questo spreco. Neppure Cottarelli.
Ovviamente questo trasferimento gratuito ha un suo senso in quanto i soldi partono si dalle casse dello Stato, ma una parte ritorna nelle tasche della cricca dei politici e degli uomini delle istituzioni sotto forma di mazzette.
Ovvio che su questa attività mafiosa ci sia il silenzio di tutti. E’ nel loro preciso interesse.
In questo momento il ministro Padoan annuncia l’ennesima “Fatica di Ercole” per recuperare 22 mliardi.
Ma su questa attività della cricca non intendono metterci mano.
Evidente che inventarsi prelievi su aree oramai munte e rimunte diventa difficile.
Quando la Ue e la Merkel insistono sull’austerità, si riferiscono in modo particolare a questo evidente terreno di spreco.
La casta non lo dirà mai, ma come sostiene Giannino si tratta di questo.
Solamente questi due evidenti nodi di spreco, varrebbero una nuova rivoluzione francese, perché mai nessuno fuori dal cerchio magico della cricca della casta riuscirà in modalità ordinaria azzerare questo tipo di sprechi evidenti.
Non crediamo che in Germania non facciano puttanate come dai per appropriarsi indebitamente di alcune fonti di denaro pubblico.
L’unica differenza consiste che quando uno o più politici vengono scoperti abbandono di loro iniziativa quel mondo.
Nel “libero” Paese di Bananas, avviene l’esatto contrario.
^^^
http://www.chiarelettere.it/libro/princ ... bucate.php
http://issuu.com/chiarelettere/docs/man ... r_sito?e=0
Continua
Da qualche anno è sceso improvvisamente un immotivato silenzio sull’erogazione da parte dello Stato di fondi a titolo gratuito alle imprese amiche.
Tutti gli ultimi ministri dell’Economia da quando è uscita la denuncia palese di Marco Cobianchi, giornalista di Panorama che già nel 2007, un libro pieno di documenti alla mano, alla Travaglio, che valutava all’epoca l’erogazione annua di 30 miliardi di euro, hanno fatto finta di niente.
Neppure il super mega “Ghe pensi mi 2.0” ha mai accennato a questo spreco. Neppure Cottarelli.
Ovviamente questo trasferimento gratuito ha un suo senso in quanto i soldi partono si dalle casse dello Stato, ma una parte ritorna nelle tasche della cricca dei politici e degli uomini delle istituzioni sotto forma di mazzette.
Ovvio che su questa attività mafiosa ci sia il silenzio di tutti. E’ nel loro preciso interesse.
In questo momento il ministro Padoan annuncia l’ennesima “Fatica di Ercole” per recuperare 22 mliardi.
Ma su questa attività della cricca non intendono metterci mano.
Evidente che inventarsi prelievi su aree oramai munte e rimunte diventa difficile.
Quando la Ue e la Merkel insistono sull’austerità, si riferiscono in modo particolare a questo evidente terreno di spreco.
La casta non lo dirà mai, ma come sostiene Giannino si tratta di questo.
Solamente questi due evidenti nodi di spreco, varrebbero una nuova rivoluzione francese, perché mai nessuno fuori dal cerchio magico della cricca della casta riuscirà in modalità ordinaria azzerare questo tipo di sprechi evidenti.
Non crediamo che in Germania non facciano puttanate come dai per appropriarsi indebitamente di alcune fonti di denaro pubblico.
L’unica differenza consiste che quando uno o più politici vengono scoperti abbandono di loro iniziativa quel mondo.
Nel “libero” Paese di Bananas, avviene l’esatto contrario.
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Re: La crisi dell'Europa
molto interessante, la Germania est e la Grecia e il ruolo della moneta
http://www.ilfoglio.it/articoli/v/12361 ... angela.htm
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Re: La crisi dell'Europa
AD ATENE CON TSIPRAS
di Luciana Castellina, 10 dicembre 2014
Grecia. L’annuncio delle elezioni anticipate arriva mentre con il leader di Syriza ricordiamo la figura di Jannis. La vittoria è data per certa ma sale la preoccupazione per le possibili reazioni eversive
La notizia è arrivata, lunedì, mentre era in corso la commemorazione di uno dei fondatori di Syriza, Yannis Banias. Alexis Tsipras aveva appena finito il suo discorso, parole commosse, perché Yannis fu decisivo nella scelta di affidare a lui, prima leader degli studenti medi di Atene, poi giovanissimo consigliere comunale della città, il compito di rappresentare il cambio generazionale alla testa della nuova formazione politica.
Io — invitata a partecipare alla cerimonia perché Jannis è stato per decenni un grande amico del Pdup e assieme abbiamo fatto tante cose, e condiviso molte opinioni, da quando era segretario del Partito comunista (dell’interno), poi a capo della sua inevitabile scissione e fondatore di Akoa, il bizzarro ma felicemente esplicito nome che aveva deciso di dare al suo gruppo: «Innovazione ecologica comunista» (che è stato poi uno dei motori delle successive unificazioni della sinistra greca, prima Synapsismos, poi, per l’appunto, Syriza) — stavo pronunciando il mio intervento. Mi sono interrotta perché qualcuno è venuto a dire ad Alexis qualcosa all’orecchio, e il messaggio è stato subito reso pubblico: il governo aveva appena deciso di anticipare l’elezione del presidente della Repubblica.
Subito il teatro recentemente ricavato da una fabbrica di gas in disarmo – più di un migliaio di compagni giovani e vecchi, stipatissimi– è esploso in una manifestazione di giubilo. Io, poiché tutto era stato detto in greco, ero la sola a non aver capito cosa era accaduto. Poi Alexis mi ha spiegato: andiamo al voto fra un mese. Perché questo è il significato dell’anticipazione, non disponendo la maggioranza governativa dei 180 voti necessari ad eleggere il presidente ed essendo dunque necessario sciogliere le Camere. Ne ha sicuri solo 152, perché buona parte dei 24 deputati che nel frattempo sono usciti dalla coalizione, molti del Pasok, non voteranno il candidato proposto. Non per la persona, ma perché anche loro, oramai, vogliono le elezioni.
Per Syriza è una vittoria. E lo è per il paese: se vince la sinistra la situazione sarà tutt’altro che facile, ma verrà interrotta la politica che ha portato a questa che qui viene chiamata “catastrofe umanitaria”. Del resto la decisione del primo ministro Samaras è il segno che anche per il governo di destra quanto chiede la troika è diventato troppo e che la sua politica è stata un fallimento.
La sera, durante la grande cena collettiva (in tempi di austerità ognuno aveva portato un piatto) organizzata nella sala della redazione di Epochi (il giornale che assai spesso ripubblica articoli de il manifesto) l’entusiasmo e l’eccitazione per la sfida imminente era al cielo. E così l’indomani nella sede di Syriza, un edificio che porta i segni del difficile percorso che ha portato alla creazione del nuovo partito: perché, prima d’ora, è stata la sede del Partito comunista dell’interno, poi di Synapsismos.
I compagni sono ottimisti. I sondaggi sono positivi. Le mobilitazioni popolari continuano ad essere incoraggianti, anche se qui i sindacati non ne sono i principali protagonisti, perché la loro rappresentanza è circoscritta ai dipendenti pubblici, poco il settore privato; e anche qui dilaga il precariato. Gli studenti scendono in strada ad ogni occasione, anche se spesso con gli eccessi del neo anarchismo che anche in Grecia conquista una parte della nuova generazione.
I timori comunque non sono per il voto, Syriza è convinta della propria popolarità, di cui ha del resto continue riprove. Frutto dell’immagine unitaria che la sinistra qui è riuscita a dare, che ha ricreato non solo un partito, ma soprattutto una comunità solidale, senza cui nessuna formazione politica riesce ad essere forte. E poi Syriza ha messo radici sul territorio fornendo supplenza là dove lo stato ha ormai tagliato: centri medici, farmaceutici, mense. Lavoro volontario: potremmo chiamarle il ritorno alla vecchia tradizione del movimento operaio – società di mutuo soccorso – oppure, per usare parole gramsciane, riappropriazione di pezzi di gestione statale. Comunque una esperienza straordinaria.
Discutendo con i compagni si avverte tuttavia la preoccupazione del dopo, anche, anzi soprattutto in caso di vittoria, la partita sarà dura. Ne sono tutti consapevoli. E del resto è bastato leggere i giornali del mondo intero l’indomani dell’annuncio: caduta delle borse, terrore seminato ovunque, bugie da vergognarsi, ivi compresi sui più rispettabili quotidiani italiani. Che dipingono Tsipras come chi vorrebbe distruggere l’Europa e uscire dall’euro, attribuendogli cose che non ha mai detto, perché sembra che nessuno si documenti più prima di scrivere.
La paura non è in realtà per l’Europa, è per il peso che una vittoria della sinistra in Grecia potrebbe avere nell’indurre una svolta nella linea fin qui dettata dai potentati europei. Il tentativo è isolare Syriza, come gli appestati. Col rischio che si ricorra a tutto. Anche alle provocazioni. Se muore, come è probabile, il ragazzo anarchico incarcerato per furto che sta praticando da un mese lo sciopero della fame per ottenere il diritto di seguire i corsi universitari anche se in galera, la capitale potrebbe conoscere una protesta incontenibile e la strategia della tensione potrebbe esser fomentata.
Syriza è isolata nell’Europa degli attuali governi. Con insistenza tutti mi chiedono se penso che Renzi potrebbe esser indotto a formare un blocco dei pesi mediterranei per trattare con più forza con la troika, un’ipotesi non peregrina vista la forza che in Spagna, ma anche in Portogallo, sta acquistando la sinistra. Ho avuto imbarazzo a rispondere, quasi che portassi la responsabilità del nostro governo.
Comunque: davanti ai tanti compagni assiepati nel teatro per la commemorazione di Yannis Banas, tanti amici da mezzo secolo, mi sono sentita felice. «E’ la prima volta in mezzo secolo, da quando così spesso sono venuta qui per i vostri congressi o manifestazioni o elezioni o colpi di stato – gli ho detto –che invece di trovare una sinistra minacciata, incarcerata, frantumata, comunque in difficoltà, trovo una sinistra vittoriosa». E scherzando ho aggiunto: «Tant’è vero che prima molti usavano andare a Mosca per prendere la linea, ora veniamo ad Atene». Dove, ne siamo certi, è migliore.
da il manifesto del 11 dicembre 2014
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Purtroppo Renzi non ha la statura di un uomo politico in grado di andare contro i potenti di turno e soprattutto non è in buona compagnia.
di Luciana Castellina, 10 dicembre 2014
Grecia. L’annuncio delle elezioni anticipate arriva mentre con il leader di Syriza ricordiamo la figura di Jannis. La vittoria è data per certa ma sale la preoccupazione per le possibili reazioni eversive
La notizia è arrivata, lunedì, mentre era in corso la commemorazione di uno dei fondatori di Syriza, Yannis Banias. Alexis Tsipras aveva appena finito il suo discorso, parole commosse, perché Yannis fu decisivo nella scelta di affidare a lui, prima leader degli studenti medi di Atene, poi giovanissimo consigliere comunale della città, il compito di rappresentare il cambio generazionale alla testa della nuova formazione politica.
Io — invitata a partecipare alla cerimonia perché Jannis è stato per decenni un grande amico del Pdup e assieme abbiamo fatto tante cose, e condiviso molte opinioni, da quando era segretario del Partito comunista (dell’interno), poi a capo della sua inevitabile scissione e fondatore di Akoa, il bizzarro ma felicemente esplicito nome che aveva deciso di dare al suo gruppo: «Innovazione ecologica comunista» (che è stato poi uno dei motori delle successive unificazioni della sinistra greca, prima Synapsismos, poi, per l’appunto, Syriza) — stavo pronunciando il mio intervento. Mi sono interrotta perché qualcuno è venuto a dire ad Alexis qualcosa all’orecchio, e il messaggio è stato subito reso pubblico: il governo aveva appena deciso di anticipare l’elezione del presidente della Repubblica.
Subito il teatro recentemente ricavato da una fabbrica di gas in disarmo – più di un migliaio di compagni giovani e vecchi, stipatissimi– è esploso in una manifestazione di giubilo. Io, poiché tutto era stato detto in greco, ero la sola a non aver capito cosa era accaduto. Poi Alexis mi ha spiegato: andiamo al voto fra un mese. Perché questo è il significato dell’anticipazione, non disponendo la maggioranza governativa dei 180 voti necessari ad eleggere il presidente ed essendo dunque necessario sciogliere le Camere. Ne ha sicuri solo 152, perché buona parte dei 24 deputati che nel frattempo sono usciti dalla coalizione, molti del Pasok, non voteranno il candidato proposto. Non per la persona, ma perché anche loro, oramai, vogliono le elezioni.
Per Syriza è una vittoria. E lo è per il paese: se vince la sinistra la situazione sarà tutt’altro che facile, ma verrà interrotta la politica che ha portato a questa che qui viene chiamata “catastrofe umanitaria”. Del resto la decisione del primo ministro Samaras è il segno che anche per il governo di destra quanto chiede la troika è diventato troppo e che la sua politica è stata un fallimento.
La sera, durante la grande cena collettiva (in tempi di austerità ognuno aveva portato un piatto) organizzata nella sala della redazione di Epochi (il giornale che assai spesso ripubblica articoli de il manifesto) l’entusiasmo e l’eccitazione per la sfida imminente era al cielo. E così l’indomani nella sede di Syriza, un edificio che porta i segni del difficile percorso che ha portato alla creazione del nuovo partito: perché, prima d’ora, è stata la sede del Partito comunista dell’interno, poi di Synapsismos.
I compagni sono ottimisti. I sondaggi sono positivi. Le mobilitazioni popolari continuano ad essere incoraggianti, anche se qui i sindacati non ne sono i principali protagonisti, perché la loro rappresentanza è circoscritta ai dipendenti pubblici, poco il settore privato; e anche qui dilaga il precariato. Gli studenti scendono in strada ad ogni occasione, anche se spesso con gli eccessi del neo anarchismo che anche in Grecia conquista una parte della nuova generazione.
I timori comunque non sono per il voto, Syriza è convinta della propria popolarità, di cui ha del resto continue riprove. Frutto dell’immagine unitaria che la sinistra qui è riuscita a dare, che ha ricreato non solo un partito, ma soprattutto una comunità solidale, senza cui nessuna formazione politica riesce ad essere forte. E poi Syriza ha messo radici sul territorio fornendo supplenza là dove lo stato ha ormai tagliato: centri medici, farmaceutici, mense. Lavoro volontario: potremmo chiamarle il ritorno alla vecchia tradizione del movimento operaio – società di mutuo soccorso – oppure, per usare parole gramsciane, riappropriazione di pezzi di gestione statale. Comunque una esperienza straordinaria.
Discutendo con i compagni si avverte tuttavia la preoccupazione del dopo, anche, anzi soprattutto in caso di vittoria, la partita sarà dura. Ne sono tutti consapevoli. E del resto è bastato leggere i giornali del mondo intero l’indomani dell’annuncio: caduta delle borse, terrore seminato ovunque, bugie da vergognarsi, ivi compresi sui più rispettabili quotidiani italiani. Che dipingono Tsipras come chi vorrebbe distruggere l’Europa e uscire dall’euro, attribuendogli cose che non ha mai detto, perché sembra che nessuno si documenti più prima di scrivere.
La paura non è in realtà per l’Europa, è per il peso che una vittoria della sinistra in Grecia potrebbe avere nell’indurre una svolta nella linea fin qui dettata dai potentati europei. Il tentativo è isolare Syriza, come gli appestati. Col rischio che si ricorra a tutto. Anche alle provocazioni. Se muore, come è probabile, il ragazzo anarchico incarcerato per furto che sta praticando da un mese lo sciopero della fame per ottenere il diritto di seguire i corsi universitari anche se in galera, la capitale potrebbe conoscere una protesta incontenibile e la strategia della tensione potrebbe esser fomentata.
Syriza è isolata nell’Europa degli attuali governi. Con insistenza tutti mi chiedono se penso che Renzi potrebbe esser indotto a formare un blocco dei pesi mediterranei per trattare con più forza con la troika, un’ipotesi non peregrina vista la forza che in Spagna, ma anche in Portogallo, sta acquistando la sinistra. Ho avuto imbarazzo a rispondere, quasi che portassi la responsabilità del nostro governo.
Comunque: davanti ai tanti compagni assiepati nel teatro per la commemorazione di Yannis Banas, tanti amici da mezzo secolo, mi sono sentita felice. «E’ la prima volta in mezzo secolo, da quando così spesso sono venuta qui per i vostri congressi o manifestazioni o elezioni o colpi di stato – gli ho detto –che invece di trovare una sinistra minacciata, incarcerata, frantumata, comunque in difficoltà, trovo una sinistra vittoriosa». E scherzando ho aggiunto: «Tant’è vero che prima molti usavano andare a Mosca per prendere la linea, ora veniamo ad Atene». Dove, ne siamo certi, è migliore.
da il manifesto del 11 dicembre 2014
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Purtroppo Renzi non ha la statura di un uomo politico in grado di andare contro i potenti di turno e soprattutto non è in buona compagnia.
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Re: La crisi dell'Europa
L'Europa frena, ma è più ricca della Cina e degli Stati Uniti
I singoli paesi del Vecchio continente sono lontani da Pechino e Washingont, ma insieme sorpassano tutti con 18.100 miliardi di dollari di Pil a "parità di potere d'acquisto"
11 dicembre 2014
L'Europa frena, ma è più ricca della Cina e degli Stati Uniti
Il presidente della Commissione Ue, Jean Claude Juncker (ansa)
MILANO - La Cina supera gli Stati Uniti, ma - a sorpresa - la regione più ricca del mondo è l'Europa. Una buon esempio, se qualcuno ancora avesse dubbi, per spiegare come i singoli paesi del Vecchio continente non siano più in grado di competere a livello internazionale con le due superpotenze economiche, mentre insieme sono ancora capaci di mettere tutti in fila.
Lo spiega con chiarezza il Fondo monetario internazionale che ha misurato le ricchezza mondiale in termini di "parità di potere d'acquisto": un'unità di misura che permette di considerare cosa effettivamente si può comprare in ogni paese con la valuta locale. Ebbene, per la prima volta, nel 2014, la Cina supera gli Usa con 17.600 miliardi di dollari di Pil contro i 17.400 miliardi degli americani. Ben staccati arrivano i piccoli grandi d'Europa: la Germania (3.600 miliardi), la Francia (2.500 miliardi) e la Gran Bretagna (2.500).
La prospettiva, però, cambia radicalmente sommando - come per gli Stati Uniti - il Pil di tutti i paesi europei. Con 18.100 miliardi di dollari, il Vecchio continente è la prima potenza economica mondiale, almeno per quest'anno. Secondo il Fmi, infatti, la Cina sorpasserà l'Europa nel 2015 e gli Usa nel 2019. Certo, se poi il calcolo si facesse per numero di abitanti la classifica verrebbe ulteriormente stravolta con l'ex Impero del dragone all'89esimo posto.
Magra consolazione, perché è innegabile che l'Europa sia in panne: negli ultimi cinque anni la Cina ha messo a segno un aumento della propria ricchezza di 7mila miliardi, gli Usa di 3mila e l'Europa intera di 2.200, una tendenza che secondo il Fmi è destinata a continuare, almeno fino al 2019. A meno che il Vecchio continente non riesca a concretizzare, rapidamento, il piano d'investimenti annunciato dal nuovo presidente della Commissione Ue, Jean Claude Juncker.
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a meno che l'Europa non cambi
I singoli paesi del Vecchio continente sono lontani da Pechino e Washingont, ma insieme sorpassano tutti con 18.100 miliardi di dollari di Pil a "parità di potere d'acquisto"
11 dicembre 2014
L'Europa frena, ma è più ricca della Cina e degli Stati Uniti
Il presidente della Commissione Ue, Jean Claude Juncker (ansa)
MILANO - La Cina supera gli Stati Uniti, ma - a sorpresa - la regione più ricca del mondo è l'Europa. Una buon esempio, se qualcuno ancora avesse dubbi, per spiegare come i singoli paesi del Vecchio continente non siano più in grado di competere a livello internazionale con le due superpotenze economiche, mentre insieme sono ancora capaci di mettere tutti in fila.
Lo spiega con chiarezza il Fondo monetario internazionale che ha misurato le ricchezza mondiale in termini di "parità di potere d'acquisto": un'unità di misura che permette di considerare cosa effettivamente si può comprare in ogni paese con la valuta locale. Ebbene, per la prima volta, nel 2014, la Cina supera gli Usa con 17.600 miliardi di dollari di Pil contro i 17.400 miliardi degli americani. Ben staccati arrivano i piccoli grandi d'Europa: la Germania (3.600 miliardi), la Francia (2.500 miliardi) e la Gran Bretagna (2.500).
La prospettiva, però, cambia radicalmente sommando - come per gli Stati Uniti - il Pil di tutti i paesi europei. Con 18.100 miliardi di dollari, il Vecchio continente è la prima potenza economica mondiale, almeno per quest'anno. Secondo il Fmi, infatti, la Cina sorpasserà l'Europa nel 2015 e gli Usa nel 2019. Certo, se poi il calcolo si facesse per numero di abitanti la classifica verrebbe ulteriormente stravolta con l'ex Impero del dragone all'89esimo posto.
Magra consolazione, perché è innegabile che l'Europa sia in panne: negli ultimi cinque anni la Cina ha messo a segno un aumento della propria ricchezza di 7mila miliardi, gli Usa di 3mila e l'Europa intera di 2.200, una tendenza che secondo il Fmi è destinata a continuare, almeno fino al 2019. A meno che il Vecchio continente non riesca a concretizzare, rapidamento, il piano d'investimenti annunciato dal nuovo presidente della Commissione Ue, Jean Claude Juncker.
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Re: La crisi dell'Europa
E non cambierà, perché i valori assoluti di questa Europa non sono quelli di Schuman, Adenauer e De Gasperi.iospero ha scritto:L'Europa frena, ma è più ricca della Cina e degli Stati Uniti
I singoli paesi del Vecchio continente sono lontani da Pechino e Washingont, ma insieme sorpassano tutti con 18.100 miliardi di dollari di Pil a "parità di potere d'acquisto"
11 dicembre 2014
L'Europa frena, ma è più ricca della Cina e degli Stati Uniti
Il presidente della Commissione Ue, Jean Claude Juncker (ansa)
MILANO - La Cina supera gli Stati Uniti, ma - a sorpresa - la regione più ricca del mondo è l'Europa. Una buon esempio, se qualcuno ancora avesse dubbi, per spiegare come i singoli paesi del Vecchio continente non siano più in grado di competere a livello internazionale con le due superpotenze economiche, mentre insieme sono ancora capaci di mettere tutti in fila.
Lo spiega con chiarezza il Fondo monetario internazionale che ha misurato le ricchezza mondiale in termini di "parità di potere d'acquisto": un'unità di misura che permette di considerare cosa effettivamente si può comprare in ogni paese con la valuta locale. Ebbene, per la prima volta, nel 2014, la Cina supera gli Usa con 17.600 miliardi di dollari di Pil contro i 17.400 miliardi degli americani. Ben staccati arrivano i piccoli grandi d'Europa: la Germania (3.600 miliardi), la Francia (2.500 miliardi) e la Gran Bretagna (2.500).
La prospettiva, però, cambia radicalmente sommando - come per gli Stati Uniti - il Pil di tutti i paesi europei. Con 18.100 miliardi di dollari, il Vecchio continente è la prima potenza economica mondiale, almeno per quest'anno. Secondo il Fmi, infatti, la Cina sorpasserà l'Europa nel 2015 e gli Usa nel 2019. Certo, se poi il calcolo si facesse per numero di abitanti la classifica verrebbe ulteriormente stravolta con l'ex Impero del dragone all'89esimo posto.
Magra consolazione, perché è innegabile che l'Europa sia in panne: negli ultimi cinque anni la Cina ha messo a segno un aumento della propria ricchezza di 7mila miliardi, gli Usa di 3mila e l'Europa intera di 2.200, una tendenza che secondo il Fmi è destinata a continuare, almeno fino al 2019. A meno che il Vecchio continente non riesca a concretizzare, rapidamento, il piano d'investimenti annunciato dal nuovo presidente della Commissione Ue, Jean Claude Juncker.
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Re: La crisi dell'Europa
Vittorio Feltri ha pubblicato questo libro in cui sostiene che la Germania attuale abbia dato vita al "Quarto Reich"
Il Quarto Reich. Come la Germania ha sottomesso l'Europa
di Vittorio Feltri, Gennaro Sangiuliano
Descrizione
Lettere riservate a capi di governo, telefonate segrete alle più alte cariche di Stati sovrani, pressioni esercitate in mille modi da poteri forti che si muovono al di fuori e al di sopra delle elementari regole democratiche. La storia del ruolo svolto in questo inizio secolo dalla Germania in Europa, e in particolare nell'Unione europea, è ancora tutta da raccontare, soprattutto in relazione alle vicende politiche dell'Italia, il paese che per decenni è stato suo partner amichevole ma anche temibile concorrente economico sui mercati mondiali. Di questa storia, Vittorio Feltri e Gennaro Sangiuliano tracciano qui il quadro generale e non esitano a parlare di "Quarto Reich", una formula che, lungi dall'essere una banalizzazione giornalistica, è la sintesi estrema, e forse inquietante, della situazione venutasi a creare nell'area euro. In un decennio, infatti, grazie alla moneta unica e alla gabbia istituzionale dell'Unione, la Germania è riuscita a costruire sul Vecchio Continente una condizione di predominio economico e di egemonia politica. L'impossibilità di dissentire sulle leggi del rigore dettate dagli euroburocrati e ispirate da Berlino ha privato gli altri paesi membri di ogni reale sovranità economica e ha concentrato tutto il potere decisionale nelle mani delle élite e delle strutture comunitarie. Ma se per i cittadini tedeschi l'"era del Quarto Reich" significa benessere, lavoro e crescita, per le altre nazioni, soprattutto del Sud Europa, vuol dire povertà, disoccupazione e recessione.
leggi di più
Il Quarto Reich. Come la Germania ha sottomesso l'Europa
di Vittorio Feltri, Gennaro Sangiuliano
Descrizione
Lettere riservate a capi di governo, telefonate segrete alle più alte cariche di Stati sovrani, pressioni esercitate in mille modi da poteri forti che si muovono al di fuori e al di sopra delle elementari regole democratiche. La storia del ruolo svolto in questo inizio secolo dalla Germania in Europa, e in particolare nell'Unione europea, è ancora tutta da raccontare, soprattutto in relazione alle vicende politiche dell'Italia, il paese che per decenni è stato suo partner amichevole ma anche temibile concorrente economico sui mercati mondiali. Di questa storia, Vittorio Feltri e Gennaro Sangiuliano tracciano qui il quadro generale e non esitano a parlare di "Quarto Reich", una formula che, lungi dall'essere una banalizzazione giornalistica, è la sintesi estrema, e forse inquietante, della situazione venutasi a creare nell'area euro. In un decennio, infatti, grazie alla moneta unica e alla gabbia istituzionale dell'Unione, la Germania è riuscita a costruire sul Vecchio Continente una condizione di predominio economico e di egemonia politica. L'impossibilità di dissentire sulle leggi del rigore dettate dagli euroburocrati e ispirate da Berlino ha privato gli altri paesi membri di ogni reale sovranità economica e ha concentrato tutto il potere decisionale nelle mani delle élite e delle strutture comunitarie. Ma se per i cittadini tedeschi l'"era del Quarto Reich" significa benessere, lavoro e crescita, per le altre nazioni, soprattutto del Sud Europa, vuol dire povertà, disoccupazione e recessione.
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Re: La crisi dell'Europa
E la Germania diventò il "Quarto Reich"
L'ultimo libro di Vittorio Feltri e Gennaro Sangiuliano: la Merkel e la scalata tedesca all'egemonia in Europa
Vittorio Feltri Gennaro Sangiuliano - Ven, 05/09/2014 - 16:14
È stata Anne Applebaum, in un commento pubblicato sul Washington Post nel settembre 2013 e intitolato «Angela Merkel, the empress of Europe» (Angela Merkel, l'imperatrice d'Europa), a usare l'espressione «Fourth Reich» (Quarto Reich): definizione da brivido, probabilmente esagerata, ma che potrebbe riassumere i sentimenti di molti cittadini europei di fronte a una crisi.
La locuzione si è talmente diffusa che compare persino come voce dell'enciclopedia online Wikipedia, dove si legge che «il termine Quarto Reich si riferisce alla possibilità di un'ascesa e ritorno al potere in Germania e in Europa» del nazionalsocialismo (...).
Nell'agosto 2012 è stato il direttore del Giornale , Alessandro Sallusti, a intitolare un suo commento «Quarto Reich», scrivendo che «di fatto, da ieri, l'Italia (e non solo lei) non è più in Europa ma nel Quarto Reich», e aggiungendo: «Monti ci sta vendendo, per codardia e incapacità, più o meno come fece il primo ministro inglese Chamberlain nel '38 a Monaco». Lo stesso ha fatto il blog del Movimento 5 stelle dove si sostiene che «sulle macerie del Sud Europa sta nascendo il Quarto Reich».
Per oltre un secolo, da quando alla fine dell'Ottocento conseguì con Bismarck l'unità statale e politica, la Germania ha coltivato una volontà di egemonia nei confronti dell'Europa. Un progetto geopolitico che si è tradotto in due sanguinose guerre, la Prima guerra mondiale condotta dall'esercito imperiale del Kaiser e la Seconda, tragica e atroce, scatenata da Hitler. Quando il problema tedesco sembrava definitivamente superato dalla storia, anche grazie alla costruzione unitaria europea esso riappare all'orizzonte. Quell'egemonia che la Germania non è riuscita a conquistare con le armi belliche sembra essere stata «pacificamente» conseguita con l'arma economica.
L'era della moneta unica europea, infatti, è diventata l'epoca della grande egemonia tedesca, dove Berlino prospera e gli altri popoli europei soffrono una recessione senza precedenti. Angelo Bolaffi, filosofo e germanista, ha scritto: «Alla base del risentimento antitedesco che circola oggi in Europa non ci sono più, dunque (solo), le colpe storiche del passato, ma piuttosto le scelte del presente: la Germania, forte della sua forza, pretende così pensa un diffuso senso comune di trasformare la propria ossessione per il rigore finanziario e la stabilità monetaria nella Costituzione materiale dell'Europa, minacciandone in tal modo gli equilibri economici, le conquiste sociali e persino il funzionamento dei sistemi democratici».
Quasi settant'anni fa la Germania usciva da una guerra disastrosa, ridotta in macerie materiali e soprattutto morali, con la responsabilità e l'onta del crimine più grave contro l'umanità, la Shoah. Ora, come ha osservato il sociologo Ulrich Beck, apprezzato docente alla London School of Economics, «si è trasformata da docile scolaretta in maestra dell'Europa». L'Unione europea nacque, nel pensiero e negli intendimenti di chi la volle, per evitare, dopo due sanguinose guerre, che l'Europa potesse tornare a essere terreno di fratture e di egemonie, che potesse ripetersi una «guerra civile europea». Oggi, invece, l'Europa è percepita come una minaccia alla stabilità economica e sociale di milioni di cittadini del Vecchio continente. E la Germania, a torto o a ragione, viene identificata con le politiche rigoriste, con l'astrattismo formale e il deficit di democrazia che questa Europa ha espresso. L'Unione appare costruita secondo il modello sociale ed economico del Nord Europa, senza considerare le peculiarità e le caratteristiche storiche dei popoli latini.
***
L'euro è stato l'eldorado della Germania. «In due mosse Berlino ha dato scacco ai partner latini usando la nascita dell'euro e i parametri di Maastricht» ha scritto Marco Fortis. Aggiungendo: «È del tutto falso che la forza dei tedeschi sia nell'export verso gli Stati che stanno vivendo una fase di espansione. I surplus commerciali sono cresciuti prima che cominciasse la grande crisi, soprattutto grazie alla moneta unica. Dal 1999 al 2007 l'import tedesco di merci italiane è volutamente calato in tutti i settori produttivi. Dal 2008 in poi Berlino è riuscita inoltre a finanziare a basso costo i propri crescenti disavanzi a scapito dei Paesi mediterranei. L'esposizione della Germania verso l'estero è cresciuta di 345 miliardi. E l'Italia passava per sorvegliata speciale. Nonostante i sacrifici fatti dalle famiglie italiane la Ue non è ancora soddisfatta».
Da diversi anni la Germania fa segnare un surplus delle sue partite correnti, un eccesso di esportazioni che viola i Trattati istitutivi dell'euro, i quali prevedono che l'attivo della bilancia dei pagamenti non superi il 6 per cento del Pil nella media triennale e che il passivo non vada oltre il 4 per cento del Pil. Ebbene, da molto tempo Berlino trasgredisce quelle norme europee che è inflessibile a invocare per altri casi e per altri parametri, giungendo a un surplus corrente del 7,9 per cento del Pil, una dimensione da record per uno Stato a economia matura. Su questo punto il governo tedesco ha subìto anche le critiche del Tesoro e del dipartimento del Commercio americani. Per ridurre l'eccessivo surplus corrente, Berlino dovrebbe far crescere la domanda interna, incentivando i consumi e incrementando la spesa pubblica con investimenti infrastrutturali, aumenti dei salari e dell'inflazione. Tutte cose che la cancelliera Merkel, gelosa del primato tedesco, non ha alcuna intenzione di fare.
In altre parole, la Germania, secondo quanto ritiene più di un analista, pretende di esportare senza consumare, di vendere senza investire, contribuendo alla crisi economica del Sud Europa. In teoria l'Unione europea avrebbe gli strumenti giuridici e i motivi di fatto per intervenire ma, al di là di qualche blando e formale richiamo, subisce l'egemonia tedesca. Il finlandese Olli Rehn, ex calciatore, commissario europeo agli Affari monetari che si è distinto per i continui richiami all'Italia e per le posizioni smaccatamente filotedesche, ha definito la questione «semplicistica» ed «eccessivamente politicizzata».
Nella sua inchiesta Fortis ricorda quali erano le condizioni economiche della Germania prima dell'inizio della stagione dell'euro. «Nel 1998, prima che cominciasse l'era dell'euro, la Germania era la malata d'Europa, col Pil che cresceva molto meno di quello italiano. Le famiglie tedesche, dopo la riunificazione delle due Germanie, erano super-indebitate. La ricchezza finanziaria netta delle famiglie tedesche era di appena 1796 miliardi di euro contro i 2229 miliardi delle famiglie italiane. Il debito pubblico tedesco del 1998, se espresso in percentuale della ricchezza finanziaria netta delle famiglie anziché del Pil, era di gran lunga più elevato (66%) di quello italiano (56%)».
Nel 2004, secondo quanto stimò l'allora ministro delle Finanze tedesco Hans Eichel, il rapporto deficit/Pil della Germania sforò i parametri di Maastricht e raggiunse il 3,9 per cento. L'anno precedente, il deficit si era attestato al 3,8 per cento e più o meno, in quel biennio, lo stesso deficit fu conseguito dalla Francia. L'istituto di ricerca economica Diw stimò, invece, lo sforamento in un 4,3 per cento. Dunque, per tre anni consecutivi, dal 2002 al 2004, sia la Germania sia la Francia hanno avuto un deficit superiore al 3 per cento; nel 2005 il deficit francese è rientrato nei parametri, mentre quello tedesco era ancora al di sopra, attestandosi al 3,2 per cento.
Trattati e leggi europee alla mano, i due influenti Paesi avrebbero dovuto essere sanzionati e subire una severa procedura d'infrazione, ma così non fu. In occasione del Consiglio europeo di Napoli, nel novembre 2003, con l'Italia presidente di turno dell'Unione, Francia e Germania furono «graziate». Tra i motivi di tanta clemenza, il tasso di disoccupazione tedesco, giunto all'11,7 per cento.
Italia e Germania, Paesi manifatturieri centrati su un'economia di trasformazione, da decenni hanno fatto delle esportazioni il fulcro delle rispettive economie. Ma in questo campo Italia e Germania sono in competizione frontale, poiché c'è una sovrapposizione in quasi tutti i settori produttivi, nel senso che in ogni parte del mondo si può comprare una macchina utensile, un elettrodomestico, un apparecchio elettromedicale, un prodotto farmaceutico, un cacciavite di marca italiana o tedesca. Lo scontro è anche geografico, perché entrambi i Paesi puntano ai mercati dell'Est Europa, agli Stati Uniti, all'America Latina. Fra i due Paesi esiste anche un importante interscambio diretto: la Germania è infatti il mercato più consistente per esportare le nostre merci e, nel contempo, importiamo dalla Germania più che da ogni altra nazione. Una volta, soprattutto negli anni Settanta, i tedeschi erano il piatto ricco dell'intero movimento turistico verso il Belpaese, mentre oggi, pur essendo ancora una fetta consistente, sono diminuiti (circa 11 milioni l'anno) perché molti di loro si indirizzano verso la Spagna, la Grecia e gli Stati dell'ex Iugoslavia (...).
Resta poi, lapidario, il giudizio di Fortis: «Ciò che ha reso davvero ricca e creditrice la Germania verso l'estero, mettendola nella condizione di dettare oggi legge in Europa, è stato l'euro, non le riforme e tantomeno la crescita del Pil». Rimesse in ordine alcune verità, non si può contrapporre alla vulgata fino a oggi dominante un'altra che aspira a costruire una nuova egemonia. La virtuosità della Germania, l'opportunità di alcune sue riforme, il prestigio della sua classe dirigente sono fattori che non possono essere negati né trascurati. Allo stesso modo non si possono negare gli errori e le facilonerie delle élite (non solo quelle politiche) che hanno guidato i Paesi che ora sono in difficoltà. Resta il fatto che, per merito proprio e demerito altrui, la Germania ha costruito un sistema europeo prevalentemente a suo vantaggio, quello che Beck chiama «euro-nazionalismo tedesco», in virtù del quale Paesi come l'Italia e la Spagna restano nell'euro ma, in un gioco di parole e di realtà, vengono «esautorati».
http://www.ilgiornale.it/news/politica/ ... 49236.html
L'ultimo libro di Vittorio Feltri e Gennaro Sangiuliano: la Merkel e la scalata tedesca all'egemonia in Europa
Vittorio Feltri Gennaro Sangiuliano - Ven, 05/09/2014 - 16:14
È stata Anne Applebaum, in un commento pubblicato sul Washington Post nel settembre 2013 e intitolato «Angela Merkel, the empress of Europe» (Angela Merkel, l'imperatrice d'Europa), a usare l'espressione «Fourth Reich» (Quarto Reich): definizione da brivido, probabilmente esagerata, ma che potrebbe riassumere i sentimenti di molti cittadini europei di fronte a una crisi.
La locuzione si è talmente diffusa che compare persino come voce dell'enciclopedia online Wikipedia, dove si legge che «il termine Quarto Reich si riferisce alla possibilità di un'ascesa e ritorno al potere in Germania e in Europa» del nazionalsocialismo (...).
Nell'agosto 2012 è stato il direttore del Giornale , Alessandro Sallusti, a intitolare un suo commento «Quarto Reich», scrivendo che «di fatto, da ieri, l'Italia (e non solo lei) non è più in Europa ma nel Quarto Reich», e aggiungendo: «Monti ci sta vendendo, per codardia e incapacità, più o meno come fece il primo ministro inglese Chamberlain nel '38 a Monaco». Lo stesso ha fatto il blog del Movimento 5 stelle dove si sostiene che «sulle macerie del Sud Europa sta nascendo il Quarto Reich».
Per oltre un secolo, da quando alla fine dell'Ottocento conseguì con Bismarck l'unità statale e politica, la Germania ha coltivato una volontà di egemonia nei confronti dell'Europa. Un progetto geopolitico che si è tradotto in due sanguinose guerre, la Prima guerra mondiale condotta dall'esercito imperiale del Kaiser e la Seconda, tragica e atroce, scatenata da Hitler. Quando il problema tedesco sembrava definitivamente superato dalla storia, anche grazie alla costruzione unitaria europea esso riappare all'orizzonte. Quell'egemonia che la Germania non è riuscita a conquistare con le armi belliche sembra essere stata «pacificamente» conseguita con l'arma economica.
L'era della moneta unica europea, infatti, è diventata l'epoca della grande egemonia tedesca, dove Berlino prospera e gli altri popoli europei soffrono una recessione senza precedenti. Angelo Bolaffi, filosofo e germanista, ha scritto: «Alla base del risentimento antitedesco che circola oggi in Europa non ci sono più, dunque (solo), le colpe storiche del passato, ma piuttosto le scelte del presente: la Germania, forte della sua forza, pretende così pensa un diffuso senso comune di trasformare la propria ossessione per il rigore finanziario e la stabilità monetaria nella Costituzione materiale dell'Europa, minacciandone in tal modo gli equilibri economici, le conquiste sociali e persino il funzionamento dei sistemi democratici».
Quasi settant'anni fa la Germania usciva da una guerra disastrosa, ridotta in macerie materiali e soprattutto morali, con la responsabilità e l'onta del crimine più grave contro l'umanità, la Shoah. Ora, come ha osservato il sociologo Ulrich Beck, apprezzato docente alla London School of Economics, «si è trasformata da docile scolaretta in maestra dell'Europa». L'Unione europea nacque, nel pensiero e negli intendimenti di chi la volle, per evitare, dopo due sanguinose guerre, che l'Europa potesse tornare a essere terreno di fratture e di egemonie, che potesse ripetersi una «guerra civile europea». Oggi, invece, l'Europa è percepita come una minaccia alla stabilità economica e sociale di milioni di cittadini del Vecchio continente. E la Germania, a torto o a ragione, viene identificata con le politiche rigoriste, con l'astrattismo formale e il deficit di democrazia che questa Europa ha espresso. L'Unione appare costruita secondo il modello sociale ed economico del Nord Europa, senza considerare le peculiarità e le caratteristiche storiche dei popoli latini.
***
L'euro è stato l'eldorado della Germania. «In due mosse Berlino ha dato scacco ai partner latini usando la nascita dell'euro e i parametri di Maastricht» ha scritto Marco Fortis. Aggiungendo: «È del tutto falso che la forza dei tedeschi sia nell'export verso gli Stati che stanno vivendo una fase di espansione. I surplus commerciali sono cresciuti prima che cominciasse la grande crisi, soprattutto grazie alla moneta unica. Dal 1999 al 2007 l'import tedesco di merci italiane è volutamente calato in tutti i settori produttivi. Dal 2008 in poi Berlino è riuscita inoltre a finanziare a basso costo i propri crescenti disavanzi a scapito dei Paesi mediterranei. L'esposizione della Germania verso l'estero è cresciuta di 345 miliardi. E l'Italia passava per sorvegliata speciale. Nonostante i sacrifici fatti dalle famiglie italiane la Ue non è ancora soddisfatta».
Da diversi anni la Germania fa segnare un surplus delle sue partite correnti, un eccesso di esportazioni che viola i Trattati istitutivi dell'euro, i quali prevedono che l'attivo della bilancia dei pagamenti non superi il 6 per cento del Pil nella media triennale e che il passivo non vada oltre il 4 per cento del Pil. Ebbene, da molto tempo Berlino trasgredisce quelle norme europee che è inflessibile a invocare per altri casi e per altri parametri, giungendo a un surplus corrente del 7,9 per cento del Pil, una dimensione da record per uno Stato a economia matura. Su questo punto il governo tedesco ha subìto anche le critiche del Tesoro e del dipartimento del Commercio americani. Per ridurre l'eccessivo surplus corrente, Berlino dovrebbe far crescere la domanda interna, incentivando i consumi e incrementando la spesa pubblica con investimenti infrastrutturali, aumenti dei salari e dell'inflazione. Tutte cose che la cancelliera Merkel, gelosa del primato tedesco, non ha alcuna intenzione di fare.
In altre parole, la Germania, secondo quanto ritiene più di un analista, pretende di esportare senza consumare, di vendere senza investire, contribuendo alla crisi economica del Sud Europa. In teoria l'Unione europea avrebbe gli strumenti giuridici e i motivi di fatto per intervenire ma, al di là di qualche blando e formale richiamo, subisce l'egemonia tedesca. Il finlandese Olli Rehn, ex calciatore, commissario europeo agli Affari monetari che si è distinto per i continui richiami all'Italia e per le posizioni smaccatamente filotedesche, ha definito la questione «semplicistica» ed «eccessivamente politicizzata».
Nella sua inchiesta Fortis ricorda quali erano le condizioni economiche della Germania prima dell'inizio della stagione dell'euro. «Nel 1998, prima che cominciasse l'era dell'euro, la Germania era la malata d'Europa, col Pil che cresceva molto meno di quello italiano. Le famiglie tedesche, dopo la riunificazione delle due Germanie, erano super-indebitate. La ricchezza finanziaria netta delle famiglie tedesche era di appena 1796 miliardi di euro contro i 2229 miliardi delle famiglie italiane. Il debito pubblico tedesco del 1998, se espresso in percentuale della ricchezza finanziaria netta delle famiglie anziché del Pil, era di gran lunga più elevato (66%) di quello italiano (56%)».
Nel 2004, secondo quanto stimò l'allora ministro delle Finanze tedesco Hans Eichel, il rapporto deficit/Pil della Germania sforò i parametri di Maastricht e raggiunse il 3,9 per cento. L'anno precedente, il deficit si era attestato al 3,8 per cento e più o meno, in quel biennio, lo stesso deficit fu conseguito dalla Francia. L'istituto di ricerca economica Diw stimò, invece, lo sforamento in un 4,3 per cento. Dunque, per tre anni consecutivi, dal 2002 al 2004, sia la Germania sia la Francia hanno avuto un deficit superiore al 3 per cento; nel 2005 il deficit francese è rientrato nei parametri, mentre quello tedesco era ancora al di sopra, attestandosi al 3,2 per cento.
Trattati e leggi europee alla mano, i due influenti Paesi avrebbero dovuto essere sanzionati e subire una severa procedura d'infrazione, ma così non fu. In occasione del Consiglio europeo di Napoli, nel novembre 2003, con l'Italia presidente di turno dell'Unione, Francia e Germania furono «graziate». Tra i motivi di tanta clemenza, il tasso di disoccupazione tedesco, giunto all'11,7 per cento.
Italia e Germania, Paesi manifatturieri centrati su un'economia di trasformazione, da decenni hanno fatto delle esportazioni il fulcro delle rispettive economie. Ma in questo campo Italia e Germania sono in competizione frontale, poiché c'è una sovrapposizione in quasi tutti i settori produttivi, nel senso che in ogni parte del mondo si può comprare una macchina utensile, un elettrodomestico, un apparecchio elettromedicale, un prodotto farmaceutico, un cacciavite di marca italiana o tedesca. Lo scontro è anche geografico, perché entrambi i Paesi puntano ai mercati dell'Est Europa, agli Stati Uniti, all'America Latina. Fra i due Paesi esiste anche un importante interscambio diretto: la Germania è infatti il mercato più consistente per esportare le nostre merci e, nel contempo, importiamo dalla Germania più che da ogni altra nazione. Una volta, soprattutto negli anni Settanta, i tedeschi erano il piatto ricco dell'intero movimento turistico verso il Belpaese, mentre oggi, pur essendo ancora una fetta consistente, sono diminuiti (circa 11 milioni l'anno) perché molti di loro si indirizzano verso la Spagna, la Grecia e gli Stati dell'ex Iugoslavia (...).
Resta poi, lapidario, il giudizio di Fortis: «Ciò che ha reso davvero ricca e creditrice la Germania verso l'estero, mettendola nella condizione di dettare oggi legge in Europa, è stato l'euro, non le riforme e tantomeno la crescita del Pil». Rimesse in ordine alcune verità, non si può contrapporre alla vulgata fino a oggi dominante un'altra che aspira a costruire una nuova egemonia. La virtuosità della Germania, l'opportunità di alcune sue riforme, il prestigio della sua classe dirigente sono fattori che non possono essere negati né trascurati. Allo stesso modo non si possono negare gli errori e le facilonerie delle élite (non solo quelle politiche) che hanno guidato i Paesi che ora sono in difficoltà. Resta il fatto che, per merito proprio e demerito altrui, la Germania ha costruito un sistema europeo prevalentemente a suo vantaggio, quello che Beck chiama «euro-nazionalismo tedesco», in virtù del quale Paesi come l'Italia e la Spagna restano nell'euro ma, in un gioco di parole e di realtà, vengono «esautorati».
http://www.ilgiornale.it/news/politica/ ... 49236.html
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Re: La crisi dell'Europa
Quarto Reich
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Manifesto antiamericano, opera del vignettista Carlos Latuff, che presenta lo zio Sam con le fattezze di Adolf Hitler, Führer del Terzo Reich nazista
Quarto Reich (in tedesco Viertes Reich) è un termine che si riferisce alla possibilità di un'ascesa e ritorno al potere in Germania, in Europa e/o nel mondo del regime nazionalsocialista o di un equivalente sogno di dominio del mondo in chiave totalitaria e militarista.[1]
Origine del termine[modifica | modifica wikitesto]
La definizione fu usata per la prima volta nel 1966, quando il politico Kurt Georg Kiesinger fu nominato cancelliere della Germania Ovest.[1] Le critiche mosse nei confronti di Kiesinger, sostenevano che avesse avuto rapporti col regime hitleriano, e che la sua fosse la prima pietra posata per la nascita del Quarto Reich.[1]
Negli Stati Uniti, il termine fu usato dall'investigatore Jim Garrison (capoindagine sull'omicidio del presidente John Fitzgerald Kennedy) in un rapporto per la CIA, chiamato "The rise of the Fourth Reich".
Il 7 maggio 1945 viene firmata la resa delle 3 Sezioni della Wehrmacht dal colonnello generale Jodl e dal generale ammiraglio von Friedeburg a nome del Grande Ammiraglio Dönitz, presso il comando alleato del fronte occidentale a Reims, davanti ai rappresentanti militari delle potenze vincitrici. Dönitz fu scelto da Adolf Hitler come suo successore a Presidente del Reich e in tale veste, dopo il suicidio del Führer il 30 aprile 1945, divenne l’ultimo capo della Germania nazista nel cosiddetto “Governo di Flensburg”. La resa fu firmata a nome di Dönitz che era capo militare, ma al contempo anche politico del Reich. Formalmente però fu una resa militare dell'esercito, non politica del 3º Reich. Hitler, nel testamento che lasciò prima del suicidio, incaricò Donitz di continuare la sua opera e le future generazioni di tedeschi di contribuire a una nuova Germania nazionalsocialista.[2]
Accuse di nuovi regimi[modifica | modifica wikitesto]
La presunta volontà di rinascita del Terzo Reich[modifica | modifica wikitesto]
Per chi crede alle teorie cospirative che vedono scenari possibili al ritorno del nazismo come potenza mondiale, esistono vari scritti al riguardo che hanno studiato le azioni e le politiche che potrebbero un giorno far avverare questa distopia.[3]
Nei circoli neonazisti si discute non solo del nuovo nazismo ma anche di un Impero occidentale nato dalla fusione del mondo occidentale anglosassone ed europeo, i cui primi passi verso la creazione sarebbero attuabili solamente con la presa di coscienza dei governi europei su scenari futuri apocalittici come l'islamizzazione dell'Europa o l'Eurabia che potrebbero portare a uno scontro culturale da cui ne scaturirebbe o l'ascesa del nuovo totalitarismo o del nazismo. Spesso si accusa il risorgente antisemitismo di essere il primo passo verso il ritorno del nazismo al potere. Il totalitarismo mondiale venne paventato anche in caso di espansione del regime stalinista sovietico, che pure aveva combattuto il nazismo, ma che finì per prenderne il posto nell'immaginario collettivo occidentale. Per la sua politica conservatrice, nel 1954 l'Unità definì il cancelliere della Germania Ovest Konrad Adenauer «capo del quarto Reich»[4]. Anche la predominanza della Germania nell'Unione Europea è stata definita dagli euroscettici come mirante al Quarto Reich.[5]
Unione europea[modifica | modifica wikitesto]
Tra i paesi o federazioni accusate di voler ricreare l'ordine nazista v'è l'Unione europea. Chi accusa l'UE di complotti mondiali o contrariamente di debolezza e fragilità interna si trova nei movimenti euroscettici, che designano non un odio contro l'entità ma uno scetticismo nei suoi confronti riguardo alle politiche economiche interne, immigrazione e relazioni interculturali, ritenuta strumento di controllo.[5]
Ma, se da una parte viene accusata di complotti nazisti, dall'altra si viene ad accusare la mancanza di credibilità che potrebbe portare in futuro alla decadenza di essa sotto le ondate migratorie provenienti dai paesi musulmani e alla conseguente islamizzazione.
USA e mondo "occidentale"[modifica | modifica wikitesto]
Viste le politiche anti-islamiche e la legislazione speciale antiterrorismo attuate dai governi successivi e contemporanei agli attentati dell'11 settembre,in molti sostengono che essi siano solo un piano per il risorgimento di un movimento autoritario intenzionato a prendere le redini del mondo unendolo in un Nuovo ordine mondiale di carattere nazifascista[senza fonte]. Piergiorgio Odifreddi dichiara che la politica degli Stati Uniti, interna ed esterna, sia caratterizzata da autoritarismo, razzismo e bellicismo non inferiori a quelle del Reich nazista.[6]
Spesso vengono anche coinvolti le teorie antisemite e lo stato d'Israele, accusato di imperialismo sionista. In quest'ottica vengono fatte rientrare la strategia della tensione avvenuta in Italia durante gli anni di piombo e i falliti colpi di stato in Spagna per riattuare il regime franchista[senza fonte].
L'ultima teoria è stata in origine la base per un libro di Francis Parker Yockey, Imperium: The Philosophy of History and Politics (1947); grazie al quale si è poi estesa nei circoli neonazisti.[7]
http://it.wikipedia.org/wiki/Quarto_Reich
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Manifesto antiamericano, opera del vignettista Carlos Latuff, che presenta lo zio Sam con le fattezze di Adolf Hitler, Führer del Terzo Reich nazista
Quarto Reich (in tedesco Viertes Reich) è un termine che si riferisce alla possibilità di un'ascesa e ritorno al potere in Germania, in Europa e/o nel mondo del regime nazionalsocialista o di un equivalente sogno di dominio del mondo in chiave totalitaria e militarista.[1]
Origine del termine[modifica | modifica wikitesto]
La definizione fu usata per la prima volta nel 1966, quando il politico Kurt Georg Kiesinger fu nominato cancelliere della Germania Ovest.[1] Le critiche mosse nei confronti di Kiesinger, sostenevano che avesse avuto rapporti col regime hitleriano, e che la sua fosse la prima pietra posata per la nascita del Quarto Reich.[1]
Negli Stati Uniti, il termine fu usato dall'investigatore Jim Garrison (capoindagine sull'omicidio del presidente John Fitzgerald Kennedy) in un rapporto per la CIA, chiamato "The rise of the Fourth Reich".
Il 7 maggio 1945 viene firmata la resa delle 3 Sezioni della Wehrmacht dal colonnello generale Jodl e dal generale ammiraglio von Friedeburg a nome del Grande Ammiraglio Dönitz, presso il comando alleato del fronte occidentale a Reims, davanti ai rappresentanti militari delle potenze vincitrici. Dönitz fu scelto da Adolf Hitler come suo successore a Presidente del Reich e in tale veste, dopo il suicidio del Führer il 30 aprile 1945, divenne l’ultimo capo della Germania nazista nel cosiddetto “Governo di Flensburg”. La resa fu firmata a nome di Dönitz che era capo militare, ma al contempo anche politico del Reich. Formalmente però fu una resa militare dell'esercito, non politica del 3º Reich. Hitler, nel testamento che lasciò prima del suicidio, incaricò Donitz di continuare la sua opera e le future generazioni di tedeschi di contribuire a una nuova Germania nazionalsocialista.[2]
Accuse di nuovi regimi[modifica | modifica wikitesto]
La presunta volontà di rinascita del Terzo Reich[modifica | modifica wikitesto]
Per chi crede alle teorie cospirative che vedono scenari possibili al ritorno del nazismo come potenza mondiale, esistono vari scritti al riguardo che hanno studiato le azioni e le politiche che potrebbero un giorno far avverare questa distopia.[3]
Nei circoli neonazisti si discute non solo del nuovo nazismo ma anche di un Impero occidentale nato dalla fusione del mondo occidentale anglosassone ed europeo, i cui primi passi verso la creazione sarebbero attuabili solamente con la presa di coscienza dei governi europei su scenari futuri apocalittici come l'islamizzazione dell'Europa o l'Eurabia che potrebbero portare a uno scontro culturale da cui ne scaturirebbe o l'ascesa del nuovo totalitarismo o del nazismo. Spesso si accusa il risorgente antisemitismo di essere il primo passo verso il ritorno del nazismo al potere. Il totalitarismo mondiale venne paventato anche in caso di espansione del regime stalinista sovietico, che pure aveva combattuto il nazismo, ma che finì per prenderne il posto nell'immaginario collettivo occidentale. Per la sua politica conservatrice, nel 1954 l'Unità definì il cancelliere della Germania Ovest Konrad Adenauer «capo del quarto Reich»[4]. Anche la predominanza della Germania nell'Unione Europea è stata definita dagli euroscettici come mirante al Quarto Reich.[5]
Unione europea[modifica | modifica wikitesto]
Tra i paesi o federazioni accusate di voler ricreare l'ordine nazista v'è l'Unione europea. Chi accusa l'UE di complotti mondiali o contrariamente di debolezza e fragilità interna si trova nei movimenti euroscettici, che designano non un odio contro l'entità ma uno scetticismo nei suoi confronti riguardo alle politiche economiche interne, immigrazione e relazioni interculturali, ritenuta strumento di controllo.[5]
Ma, se da una parte viene accusata di complotti nazisti, dall'altra si viene ad accusare la mancanza di credibilità che potrebbe portare in futuro alla decadenza di essa sotto le ondate migratorie provenienti dai paesi musulmani e alla conseguente islamizzazione.
USA e mondo "occidentale"[modifica | modifica wikitesto]
Viste le politiche anti-islamiche e la legislazione speciale antiterrorismo attuate dai governi successivi e contemporanei agli attentati dell'11 settembre,in molti sostengono che essi siano solo un piano per il risorgimento di un movimento autoritario intenzionato a prendere le redini del mondo unendolo in un Nuovo ordine mondiale di carattere nazifascista[senza fonte]. Piergiorgio Odifreddi dichiara che la politica degli Stati Uniti, interna ed esterna, sia caratterizzata da autoritarismo, razzismo e bellicismo non inferiori a quelle del Reich nazista.[6]
Spesso vengono anche coinvolti le teorie antisemite e lo stato d'Israele, accusato di imperialismo sionista. In quest'ottica vengono fatte rientrare la strategia della tensione avvenuta in Italia durante gli anni di piombo e i falliti colpi di stato in Spagna per riattuare il regime franchista[senza fonte].
L'ultima teoria è stata in origine la base per un libro di Francis Parker Yockey, Imperium: The Philosophy of History and Politics (1947); grazie al quale si è poi estesa nei circoli neonazisti.[7]
http://it.wikipedia.org/wiki/Quarto_Reich
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