Renzi
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Re: Renzi
Corriere 6.1.15
«Così hanno stravolto il decreto»
L’ex presidente della Consulta Gallo: hanno cambiato il testo a Palazzo Chigi
Gallo, il capo del team tecnico dell’Economia: norma sbagliata, tenuti all’oscuro
di Dino Martirano
«Il testo era pulito» dice Franco Gallo, ex presidente della Consulta e supertecnico a cui Padoan affidò la redazione del decreto attuativo della delega fiscale. Il suo testo di ottobre non aveva l’articolo 19 bis «aggiunto a Palazzo Chigi» il 24 dicembre
Il giurista che ha preparato la riforma per il Tesoro: un errore, non si sa chi sia stato 1
ROMA Al ministero dell’Economia e delle Finanze lo schema di decreto legislativo che attua la delega fiscale, al quale in extremis verrà aggiunto il vagoncino della soglia di non punibilità sotto il 3% del reddito dichiarato, ha avuto una gestazione apparentemente tranquilla e trasparente. Ma ora è su Via XX Settembre che si addensano minacciosi nuvoloni carichi di veleni.
La commissione tecnica affidata all’ex presidente della Consulta Franco Gallo e all’ex sottosegretario Vieri Ceriani (governo Monti) viene insediata al Mef a luglio 2014 e già in ottobre consegna un testo scritto al ministro Pier Carlo Padoan. In quella prima versione, conferma Gallo che è stato ministro delle Finanze nel governo Ciampi e il cui nome circola da tempo anche per la corsa al Quirinale, non c’era traccia dell’articolo 19 bis comparso in corso d’opera il 24 dicembre a Palazzo Chigi.
«Il testo era pulito. Ho avuto notizia dell’introduzione del detto artic olo 19 bis, nel testo elaborato dalla commissione da me presieduta, solo dopo la seduta del Consiglio dei ministri del 24 dicembre nel quale è stato approvato, appunto, il decreto legislativo». D’altronde Gallo, da luglio a ottobre, lavora con magistrati del massimario della Cassazione, ufficiali della Guardia di Finanza e funzionari della Agenzia delle Entrate: e tutti, davanti alle ipotesi teoriche per addolcire la pillola di «un Fisco buono con i contribuenti», escludono la strada della soglia a percentuale della non punibilità.
Sintetizza il presidente Gallo, entrando nel merito di quella che già qualcuno definisce «la grazia mascherata per Berlusconi»: «Ovviamente è una scelta politica e noi tecnici non dobbiamo fare altro che consegnare il nostro lavoro alla politica, che poi decide. Però ci vuole trasparenza, e a questo punto non si capisce chi sia stato a Palazzo Chigi a modificare il decreto con un‘operazione additiva ed emendativa. Io però quella norma la ritengo radicalmente errata, tecnicamente e in termini di politica legislativa, perché porta con sé la previsione di una soglia di non punibilità per i reati di dichiarazione fraudolenta mediante artificio. E questo non è accettabile. Non solo perché tocca Berlusconi. La frode di per sé richiede una punizione».
Gallo conferma che il testo varato dalla sua commissione è quello trasmesso da Padoan a Palazzo Chigi: «Certo, se gli uffici del Mef su altri aspetti hanno cambiato qualcosa, anche in direzione meno garantista, potevano pure farmi una telefonata...».
Sta di fatto che mentre l’ex presidente della Consulta difende il ministro Padoan, anche i suoi telefoni hanno un sussulto. Perché il sito Dagospia spara nel primo pomeriggio la notizia di un presunto vertice in Via XX Settembre per confezionare l’articolo «salva Berlusco ni», inteso come merce di scambio per ottenere i voti di FI nella corsa al Colle di Padoan: «Presenti alla riunione il ministro, l’avvocato del Cavaliere Coppi, il sottosegretario Lotti e il presidente Gallo».
Gallo è il primo a smentire: «Non so se mettermi a ridere. Smentisco nel modo più categorico di aver partecipato alla fantomatica riunione. Lotti poi non lo conosco neanche, il ministro Padoan non lo vedo da mesi, Coppi è un collega di facoltà e al ministero non ci vado da ottobre». Al professor Franco Coppi, che parla di «notizia falsa», va il primato della migliore battuta: «Io al ministero per suggerire la norma? Se fosse vero, l’avrei scritta certamente meglio. E non temo di essere smentito perché ora non si riescono a individuare neanche gli autori di una norma che, solo perché favorirebbe Berlusconi, va cancellata». Infine arriva la nota del Tesoro: «Notizia destituita di qualsiasi fondamento e frutto esclusivo di fantasia o volontà di diffamazione...».
Il presidente Gallo, ora, ritornerà al Mef già domani per una riunione straordinaria della commissione: «Ci vediamo, così passiamo in rassegna le modifiche apportate rispetto al nostro testo...». Di sicuro, anche se dallo stesso Renzi è stato annunciato uno slittamento della normativa, la soglia di non punibilità del 3% sarà al centro del dibattito.
«Così hanno stravolto il decreto»
L’ex presidente della Consulta Gallo: hanno cambiato il testo a Palazzo Chigi
Gallo, il capo del team tecnico dell’Economia: norma sbagliata, tenuti all’oscuro
di Dino Martirano
«Il testo era pulito» dice Franco Gallo, ex presidente della Consulta e supertecnico a cui Padoan affidò la redazione del decreto attuativo della delega fiscale. Il suo testo di ottobre non aveva l’articolo 19 bis «aggiunto a Palazzo Chigi» il 24 dicembre
Il giurista che ha preparato la riforma per il Tesoro: un errore, non si sa chi sia stato 1
ROMA Al ministero dell’Economia e delle Finanze lo schema di decreto legislativo che attua la delega fiscale, al quale in extremis verrà aggiunto il vagoncino della soglia di non punibilità sotto il 3% del reddito dichiarato, ha avuto una gestazione apparentemente tranquilla e trasparente. Ma ora è su Via XX Settembre che si addensano minacciosi nuvoloni carichi di veleni.
La commissione tecnica affidata all’ex presidente della Consulta Franco Gallo e all’ex sottosegretario Vieri Ceriani (governo Monti) viene insediata al Mef a luglio 2014 e già in ottobre consegna un testo scritto al ministro Pier Carlo Padoan. In quella prima versione, conferma Gallo che è stato ministro delle Finanze nel governo Ciampi e il cui nome circola da tempo anche per la corsa al Quirinale, non c’era traccia dell’articolo 19 bis comparso in corso d’opera il 24 dicembre a Palazzo Chigi.
«Il testo era pulito. Ho avuto notizia dell’introduzione del detto artic olo 19 bis, nel testo elaborato dalla commissione da me presieduta, solo dopo la seduta del Consiglio dei ministri del 24 dicembre nel quale è stato approvato, appunto, il decreto legislativo». D’altronde Gallo, da luglio a ottobre, lavora con magistrati del massimario della Cassazione, ufficiali della Guardia di Finanza e funzionari della Agenzia delle Entrate: e tutti, davanti alle ipotesi teoriche per addolcire la pillola di «un Fisco buono con i contribuenti», escludono la strada della soglia a percentuale della non punibilità.
Sintetizza il presidente Gallo, entrando nel merito di quella che già qualcuno definisce «la grazia mascherata per Berlusconi»: «Ovviamente è una scelta politica e noi tecnici non dobbiamo fare altro che consegnare il nostro lavoro alla politica, che poi decide. Però ci vuole trasparenza, e a questo punto non si capisce chi sia stato a Palazzo Chigi a modificare il decreto con un‘operazione additiva ed emendativa. Io però quella norma la ritengo radicalmente errata, tecnicamente e in termini di politica legislativa, perché porta con sé la previsione di una soglia di non punibilità per i reati di dichiarazione fraudolenta mediante artificio. E questo non è accettabile. Non solo perché tocca Berlusconi. La frode di per sé richiede una punizione».
Gallo conferma che il testo varato dalla sua commissione è quello trasmesso da Padoan a Palazzo Chigi: «Certo, se gli uffici del Mef su altri aspetti hanno cambiato qualcosa, anche in direzione meno garantista, potevano pure farmi una telefonata...».
Sta di fatto che mentre l’ex presidente della Consulta difende il ministro Padoan, anche i suoi telefoni hanno un sussulto. Perché il sito Dagospia spara nel primo pomeriggio la notizia di un presunto vertice in Via XX Settembre per confezionare l’articolo «salva Berlusco ni», inteso come merce di scambio per ottenere i voti di FI nella corsa al Colle di Padoan: «Presenti alla riunione il ministro, l’avvocato del Cavaliere Coppi, il sottosegretario Lotti e il presidente Gallo».
Gallo è il primo a smentire: «Non so se mettermi a ridere. Smentisco nel modo più categorico di aver partecipato alla fantomatica riunione. Lotti poi non lo conosco neanche, il ministro Padoan non lo vedo da mesi, Coppi è un collega di facoltà e al ministero non ci vado da ottobre». Al professor Franco Coppi, che parla di «notizia falsa», va il primato della migliore battuta: «Io al ministero per suggerire la norma? Se fosse vero, l’avrei scritta certamente meglio. E non temo di essere smentito perché ora non si riescono a individuare neanche gli autori di una norma che, solo perché favorirebbe Berlusconi, va cancellata». Infine arriva la nota del Tesoro: «Notizia destituita di qualsiasi fondamento e frutto esclusivo di fantasia o volontà di diffamazione...».
Il presidente Gallo, ora, ritornerà al Mef già domani per una riunione straordinaria della commissione: «Ci vediamo, così passiamo in rassegna le modifiche apportate rispetto al nostro testo...». Di sicuro, anche se dallo stesso Renzi è stato annunciato uno slittamento della normativa, la soglia di non punibilità del 3% sarà al centro del dibattito.
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Re: Renzi
il Fatto 6.1.15
Coppi, il legale del Caimano ammette “Renzi usa il salva-Berlusconi del 3 per cento per il Quirinale”
B. “Matteo mi ha chiamato per gli auguri il 24 dicembre sera”. Subito dopo aver infilato l’articolo-regalo
di Carlo Tecce
Con maniacale cura nel selezionare le parole più adatte, l’avvocato Franco Coppi fa un’annotazione al momento dei saluti: “Mi chiede se la polemica sul 3% per i reati fiscali e sul mio assistito Silvio Berlusconi c’entri con la partita per il Quirinale? E io le rispondo di sì, altrimenti perché Matteo Renzi promette che la pratica sarà rinviata a presidente eletto e dopo la fine dei servizi sociali a Cesano Boscone? ”.
Il professor Coppi inizia da lontano, cita Giulio Andreotti, un suo ex cliente: “Mi ripeteva che le notizie non vanno corrette o smentite, è dannoso. Ma io un ragionamento lo voglio fare”. E allora, avvocato, l’ormai famosa norma salva evasori e frodatori, avrebbe riabilitato il condannato Silvio Berlusconi? “Occorre valutare, forse sì, adesso non mi sembra più una questione attuale. E vi assicuro che non sono in disaccordo con Niccolò Ghedini (la considerava inutile per B.), difendiamo assieme Berlusconi, altrimenti sembriamo due cretini. E aggiungo che non ho mai incontrato il ministro Pier Carlo Padoan (riferimento a Dagospia). Quel che posso evidenziare è che il Tesoro e Palazzo Chigi non potevano non sapere l’esistenza del codice. E mi domando: perché ieri ritenevano giusta la legge e oggi è sbagliata? Colpa sempre di Berlusconi? ”.
Era smaccatamente un dono infiocchettato per il suo assistito, non tema però, Renzi dice che vuole aspettare l’elezione del capo dello Stato.
“Questo è l’aspetto che mi preoccupa e comprendo chi lo solleva: il provvedimento appare legato alle trattative per il Quirinale, utilizzato come un messaggio mentre ci avviciniamo all’appuntamento per la successione di Giorgio Napolitano. È scorretto per i cittadini che potrebbero beneficiare della soglia del 3% e per il Berlusconi politico. Per fortuna, il problema non mi riguarda”.
Vertice ad Arcore di B. e la telefonata con Matteo
Il professor Coppi offre lo spunto per ricostruire una faccenda con tante comparse ancora ignote – chi ha modificato e valutato il decreto legislativo in materia fiscale e chi l’ha vergato? – e due insigni protagonisti: i contraenti del patto del Nazareno, l’anziano Silvio Berlusconi e il giovane Matteo Renzi. Per lo scafato Coppi, la mossa del giovane è servita a rassicurare l’anziano. Anche in villa San Martino di Arcore, l’apparizione e la scomparsa dell’articolo 19 bis, che conteneva la scappatoia per l’ex Cavaliere, sono fenomeni che vengono interpretati come un segnale per il capo di Forza Italia. Un po’ di riguardo, perché fa intendere che Renzi potrebbe ripristinare completamente l’attività politica dell’alleato del Nazareno. E un po’ sovviene la sensazione che il regalo natalizio, licenziato dal Cdm il 24 dicembre di vigilia, sia stato sfruttato per pressare Berlusconi in vista del Colle. Non è soltanto una suggestione di Augusto Minzolini, ma un pensiero comune tra i dirigenti forzisti.
L’ex Cavaliere, ieri pomeriggio, ha convocato i capigruppo di Camera (Renato Brunetta) e Senato (Paolo Romani), onnipresente il mai defilato Denis Verdini, per delineare le tattiche sul Quirinale e per imbracare un partito che cade a pezzi e ha rivelato, per l’occasione, di aver ricevuto una telefonata di Renzi proprio la sera del 24 dicembre, mentre il pacco di Palazzo Chigi era pronto per essere consegnato all’ex Cavaliere.
Il pacco che avrebbe cancellato la sentenza Mediaset a quattro anni di reclusione e, soprattutto, gli effetti della legge Severino che lo rendono in-candidabile per sei. Automatico supporre che Renzi, se non fosse davvero così distratto, abbia informato Berlusconi e che il colloquio non sia terminato solo con i tradizionali auguri di buon Natale.
Stavolta, l’ex Cavaliere non fa la vittima, non accusa l’inquilino di palazzo Chigi (che incontrerà a breve), quasi come se già fosse al corrente del canovaccio di questa vicenda, che l’ha prima improvvisamente liberato e poi immediatamente rinchiuso in gabbia. In sintesi: Berlusconi ha apprezzato lo sforzo di Renzi, e spera che in futuro sia più incisivo. Ovvio che debba inondare i suoi parlamentari con lo sfogo contro la sinistra che lo ricatta per il Quirinale, mescolando eventi politici a sventure private. E pure questo va registrato, incluso un flebile piano per sostenere Pier Ferdinando Casini al Colle. Per riconquistare l’agibilità politica, rabbonito da Ghedini, Berlusconi confida nella Corte di Strasburgo, che esaminerà il ricorso contro la Severino. E poi c’è l’amico di Firenze.
Il ruolo di Lotti e Verdini e gli esecutori a Chigi
Nonostante la sospetta generosità che ha spinto Renzi ad assumersi la responsabilità del miracolo natalizio per Berlusconi, prosegue la finta caccia ai responsabili. Quelli materiali sono facili da individuare: l’ex vigilessa Antonella Manzione, che dirige l’ufficio legislativo di Palazzo Chigi, e i tecnici che l’assistono. Oltre all’ex sindaco di Firenze, i mandati sono della stessa zona. È indiscrezione diffusa che le conseguenze del decreto fossero comprese dai toscani Luca Lotti e Denis Verdini, il sottosegretario di Renzi e l’emissario di Berlusconi sono i custodi dell’accordo del Nazareno. Appena il trucco è stato scoperto, però, è montata (l’artificiosa) armonia tra il Tesoro di Padoan a Palazzo Chigi. L’articolo 19 bis, imbarcato dal Consiglio dei ministri senza che fosse notato, ora se lo ricordano in Via XX Settembre: “Impianto condiviso, effetti sconosciuti”.
Non conviene allargare la distanza tra l’Economia e Palazzo Chigi, non alle pendici di un mese che sarà una scalata. L’agenda non lo permette.
Il faccia a faccia con i deputati e i senatori
L’esordio per Renzi è un esame con i parlamentari democratici, domani. L’ordine: timbrare l’Italicum a Palazzo Madama e la riforma costituzionale a Montecitorio. E poi, in coincidenza, tocca al Quirinale. Gli schieramenti sono i soliti: Lotti a sinistra, Verdini a destra, i franchi tiratori al centro, ovunque. Questi sono giorni da elenchi fatti e rifatti, mediazioni per raccattare i grandi elettori. Renzi ne dispone circa 450, e molti li perderà. Berlusconi non dà cifre esatte. Quelli di Forza Italia sono 150, così recitano le carte, le somme algebriche, senza contare le truppe di Raffaele Fitto. Ecco perché, prima di affrontare il Colle, occorre che Silvio&Matteo siano affiatati. La pendenza per l’ambita residenza va oltre il 3% dell’evasione fiscale.
Coppi, il legale del Caimano ammette “Renzi usa il salva-Berlusconi del 3 per cento per il Quirinale”
B. “Matteo mi ha chiamato per gli auguri il 24 dicembre sera”. Subito dopo aver infilato l’articolo-regalo
di Carlo Tecce
Con maniacale cura nel selezionare le parole più adatte, l’avvocato Franco Coppi fa un’annotazione al momento dei saluti: “Mi chiede se la polemica sul 3% per i reati fiscali e sul mio assistito Silvio Berlusconi c’entri con la partita per il Quirinale? E io le rispondo di sì, altrimenti perché Matteo Renzi promette che la pratica sarà rinviata a presidente eletto e dopo la fine dei servizi sociali a Cesano Boscone? ”.
Il professor Coppi inizia da lontano, cita Giulio Andreotti, un suo ex cliente: “Mi ripeteva che le notizie non vanno corrette o smentite, è dannoso. Ma io un ragionamento lo voglio fare”. E allora, avvocato, l’ormai famosa norma salva evasori e frodatori, avrebbe riabilitato il condannato Silvio Berlusconi? “Occorre valutare, forse sì, adesso non mi sembra più una questione attuale. E vi assicuro che non sono in disaccordo con Niccolò Ghedini (la considerava inutile per B.), difendiamo assieme Berlusconi, altrimenti sembriamo due cretini. E aggiungo che non ho mai incontrato il ministro Pier Carlo Padoan (riferimento a Dagospia). Quel che posso evidenziare è che il Tesoro e Palazzo Chigi non potevano non sapere l’esistenza del codice. E mi domando: perché ieri ritenevano giusta la legge e oggi è sbagliata? Colpa sempre di Berlusconi? ”.
Era smaccatamente un dono infiocchettato per il suo assistito, non tema però, Renzi dice che vuole aspettare l’elezione del capo dello Stato.
“Questo è l’aspetto che mi preoccupa e comprendo chi lo solleva: il provvedimento appare legato alle trattative per il Quirinale, utilizzato come un messaggio mentre ci avviciniamo all’appuntamento per la successione di Giorgio Napolitano. È scorretto per i cittadini che potrebbero beneficiare della soglia del 3% e per il Berlusconi politico. Per fortuna, il problema non mi riguarda”.
Vertice ad Arcore di B. e la telefonata con Matteo
Il professor Coppi offre lo spunto per ricostruire una faccenda con tante comparse ancora ignote – chi ha modificato e valutato il decreto legislativo in materia fiscale e chi l’ha vergato? – e due insigni protagonisti: i contraenti del patto del Nazareno, l’anziano Silvio Berlusconi e il giovane Matteo Renzi. Per lo scafato Coppi, la mossa del giovane è servita a rassicurare l’anziano. Anche in villa San Martino di Arcore, l’apparizione e la scomparsa dell’articolo 19 bis, che conteneva la scappatoia per l’ex Cavaliere, sono fenomeni che vengono interpretati come un segnale per il capo di Forza Italia. Un po’ di riguardo, perché fa intendere che Renzi potrebbe ripristinare completamente l’attività politica dell’alleato del Nazareno. E un po’ sovviene la sensazione che il regalo natalizio, licenziato dal Cdm il 24 dicembre di vigilia, sia stato sfruttato per pressare Berlusconi in vista del Colle. Non è soltanto una suggestione di Augusto Minzolini, ma un pensiero comune tra i dirigenti forzisti.
L’ex Cavaliere, ieri pomeriggio, ha convocato i capigruppo di Camera (Renato Brunetta) e Senato (Paolo Romani), onnipresente il mai defilato Denis Verdini, per delineare le tattiche sul Quirinale e per imbracare un partito che cade a pezzi e ha rivelato, per l’occasione, di aver ricevuto una telefonata di Renzi proprio la sera del 24 dicembre, mentre il pacco di Palazzo Chigi era pronto per essere consegnato all’ex Cavaliere.
Il pacco che avrebbe cancellato la sentenza Mediaset a quattro anni di reclusione e, soprattutto, gli effetti della legge Severino che lo rendono in-candidabile per sei. Automatico supporre che Renzi, se non fosse davvero così distratto, abbia informato Berlusconi e che il colloquio non sia terminato solo con i tradizionali auguri di buon Natale.
Stavolta, l’ex Cavaliere non fa la vittima, non accusa l’inquilino di palazzo Chigi (che incontrerà a breve), quasi come se già fosse al corrente del canovaccio di questa vicenda, che l’ha prima improvvisamente liberato e poi immediatamente rinchiuso in gabbia. In sintesi: Berlusconi ha apprezzato lo sforzo di Renzi, e spera che in futuro sia più incisivo. Ovvio che debba inondare i suoi parlamentari con lo sfogo contro la sinistra che lo ricatta per il Quirinale, mescolando eventi politici a sventure private. E pure questo va registrato, incluso un flebile piano per sostenere Pier Ferdinando Casini al Colle. Per riconquistare l’agibilità politica, rabbonito da Ghedini, Berlusconi confida nella Corte di Strasburgo, che esaminerà il ricorso contro la Severino. E poi c’è l’amico di Firenze.
Il ruolo di Lotti e Verdini e gli esecutori a Chigi
Nonostante la sospetta generosità che ha spinto Renzi ad assumersi la responsabilità del miracolo natalizio per Berlusconi, prosegue la finta caccia ai responsabili. Quelli materiali sono facili da individuare: l’ex vigilessa Antonella Manzione, che dirige l’ufficio legislativo di Palazzo Chigi, e i tecnici che l’assistono. Oltre all’ex sindaco di Firenze, i mandati sono della stessa zona. È indiscrezione diffusa che le conseguenze del decreto fossero comprese dai toscani Luca Lotti e Denis Verdini, il sottosegretario di Renzi e l’emissario di Berlusconi sono i custodi dell’accordo del Nazareno. Appena il trucco è stato scoperto, però, è montata (l’artificiosa) armonia tra il Tesoro di Padoan a Palazzo Chigi. L’articolo 19 bis, imbarcato dal Consiglio dei ministri senza che fosse notato, ora se lo ricordano in Via XX Settembre: “Impianto condiviso, effetti sconosciuti”.
Non conviene allargare la distanza tra l’Economia e Palazzo Chigi, non alle pendici di un mese che sarà una scalata. L’agenda non lo permette.
Il faccia a faccia con i deputati e i senatori
L’esordio per Renzi è un esame con i parlamentari democratici, domani. L’ordine: timbrare l’Italicum a Palazzo Madama e la riforma costituzionale a Montecitorio. E poi, in coincidenza, tocca al Quirinale. Gli schieramenti sono i soliti: Lotti a sinistra, Verdini a destra, i franchi tiratori al centro, ovunque. Questi sono giorni da elenchi fatti e rifatti, mediazioni per raccattare i grandi elettori. Renzi ne dispone circa 450, e molti li perderà. Berlusconi non dà cifre esatte. Quelli di Forza Italia sono 150, così recitano le carte, le somme algebriche, senza contare le truppe di Raffaele Fitto. Ecco perché, prima di affrontare il Colle, occorre che Silvio&Matteo siano affiatati. La pendenza per l’ambita residenza va oltre il 3% dell’evasione fiscale.
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Re: Renzi
La strage di Parigi - Puntata 08/01/2015
0:05 / 1:57:00
08/01/2015
Pier Luigi Bersani, Vittorio Feltri, Marco Damilano, Alessandro Margelletti (presidente Ce.S.I.), Maurizio Gasparri, Stefano Dambruoso, Stefano Bonaccini sono gli ospiti di Myrta Merlino
Bersani: 'Dissi, chiudete sti telefonini'
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Bersani: 'Decreto fiscale valga anche per Berlusconi'
GUARDA IL VIDEO
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Bersani: 'Duri con i lavoratori, morbidi con gli evasori'
http://www.la7.it/laria-che-tira/rivedi ... 015-144552
0:05 / 1:57:00
08/01/2015
Pier Luigi Bersani, Vittorio Feltri, Marco Damilano, Alessandro Margelletti (presidente Ce.S.I.), Maurizio Gasparri, Stefano Dambruoso, Stefano Bonaccini sono gli ospiti di Myrta Merlino
Bersani: 'Dissi, chiudete sti telefonini'
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Bersani: 'Decreto fiscale valga anche per Berlusconi'
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Bersani: 'Duri con i lavoratori, morbidi con gli evasori'
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Re: Renzi
Perché Pittibimbo interessa tanto a Silvietto e a Verdini.
Perché i media a livello nazionale tacciono???
Ieri sera anche i Tg hanno citato la caduta dell'intonaco in una scuola materna di Sesto San Giovanni. Fatto decisamente grave. Ma anche questo salvataggio lo è.
L'ex cavaliere Banana non era al corrente??? E Verdini???
E' per questo che lo tengono per le palle e gli fanno fare quello che vogliono dietro le quinte????
LO STATO PAGA I DEBITI DI PAPÀ RENZI
(Davide Vecchi).
08/01/2015 di triskel182
FIDI TOSCANA SALDA PARTE DEL MUTUO DELLA CHIL POST E VIENE RIMBORSATA DAL TESORO DONZELLI (FDI): “UN USO INDECENTE DEI SOLDI PUBBLICI A FINI FAMILIARI DA PARTE DEL PREMIER”.
A saldare i debiti del padre ci pensa il governo del figlio. Debiti, tra l’altro, concessi da una banca guidata da un fedelissimo del figlio, già in società con il fratello del cognato, a sua volta socio in un’altra azienda di famiglia riconducibile alla madre.
Cose che capitano in casa Renzi. La vicenda è complessa e gli intrecci sono molti, come gli attori coinvolti.
Tutto ruota attorno alla Chil post, la società di Tiziano Renzi, dichiarata fallita nel marzo 2013 e sulla quale la Procura di Genova ha aperto un fascicolo iscrivendo nel registro degli indagati il padre del premier con l’accusa di bancarotta fraudolenta.
Secondo i magistrati liguri, Tiziano avrebbe ceduto la parte sana dell’azienda alla Eventi 6 intestata alla moglie, Laura Bovoli, società che all’epoca dei fatti aveva tra i propri soci anche Alessandro Conticini, fratello di Andrea, marito di Matilde Renzi, sorella del premier e a sua volta socia nella Eventi 6.
ALLA CHIL POST rimangono così solo i debiti tra cui un mutuo di 496.717,65 euro stipulato nel luglio 2009 con il Credito Cooperativo di Pontassieve.
Una cifra sostanziosa, concessa con un mutuo chirografario: senza accensione di ipoteche, quindi, ma solo basato sulle garanzie. La banca è guidata da Matteo Spanò, grande amico e sostenitore del premier.
Nel 2005, Spanò era stato nominato direttore generale della Florence Multimedia, società della Provincia di Firenze creata dal neoeletto Renzi per la comunicazione e poi finita nel mirino della Corte dei conti che ha inizialmente ipotizzato un danno erariale di 10 milioni di euro.
Non solo. Spanò era anche socio di Conticini nella Dot Media, società che ha ricevuto appalti diretti dal Comune, negli anni in cui Renzi è stato sindaco, e da altre controllate come la Firenze Parcheggi guidata dal fidatissimo Marco Carrai.
Dot Media oggi cura fra l’altro la campagna elettorale dell’eurodeputata Alessandra Moretti candidata alla presidenza della Regione Veneto.
Diventato presidente della banca, Spanò elargisce il prestito alla Chil post di Tiziano Renzi che per ottenerlo riceve la copertura a garanzia del fondo per le piccole e medie imprese da Fidi Toscana spa della Regione guidata da Enrico Rossi e partecipata anche da Provincia e Comune di Firenze oltre alla Cassa di Risparmio nel cui board siede Carrai.
Fidi Toscana delibera la copertura dell’80% e il 13 agosto 2009 la banca versa i soldi alla Chil. I ratei vengono regolarmente pagati per due anni.
Poi la società, nel frattempo svuotata della parte sana e poi ceduta ad altri titolari (ora indagati assieme a Tiziano Renzi), non rispetta più i versamenti e dichiara il fallimento.
Così nell’estate 2013, la banca, ammessa al passivo dal Tribunale fallimentare di Genova, si rivolge a Fidi ottenendo il versamento di 263.114,70 euro, l’80% dell’esposizione complessiva.
E la vicenda potrebbe chiudersi qui. Invece, il 18 giugno 2014, il ministero dell’Economia delibera di rifondare Fidi di 236.803,23 euro e liquida la somma il 30 ottobre successivo attraverso il Fondo centrale di garanzia.
E così il debito contratto dal padre di Renzi è stato coperto dallo Stato.
“La perdita sofferta sull’operazione per noi è stata di 26 mila euro”, afferma Gabriella Gori, alla guida di Fidi da appena una settimana.
Si è insediata il 29 dicembre a seguito delle dimissioni di Leonardo Zamparella costretto dal Cda a lasciare l’incarico perché condannato in primo grado a 2 anni e 4 mesi per concorso in bancarotta come vicedirettore vicario del settore leasing e factoring di Monte dei Paschi.
(Ma che bella compagnia di giro - ndt)
Il cambio al timone è stato determinante per avere accesso alle informazioni sulla Chil a seguito delle richieste formulate in merito dal consigliere regionale Giovanni Donzelli, oggi candidato presidente della Toscana per Fratelli d’Italia.
Le risposte sono arrivate il 30 dicembre: Gori ha redatto un documento in cui riassume l’intera vicenda, con la specifica dei versamenti da parte del Tesoro.
Per carità: tutto secondo protocollo, nulla di illecito. IERI, DONZELLI assieme ad altri due consiglieri di minoranza, Paolo Marcheschi e Marina Staccioli, ha presentato un’interrogazione al governatore Rossi per chiedere spiegazioni.
“Ci appare a dir poco indecente che i debiti creati dall’azienda di famiglia del premier siano stati pagati con soldi pubblici concessi in un momento in cui la crisi porta un imprenditore al suicidio ogni cinque giorni e in un Paese in cui l’accesso al credito è una delle maggiori difficoltà, insieme alla pressione fiscale, che riscontrano le aziende”, dice Donzelli. Da Rossi, prosegue, “vorremmo sapere perché la gestione dei fondi è stata affidata a Fidi senza alcuna gara, se e come ha valutato la domanda presentata da Chil, se la garanzia non deve essere revocata in caso di modifiche aziendali che trasformano radicalmente la società come è avvenuto alla Chil e, infine, se reputa corretto ed etico il comportamento della famiglia Renzi”.
Secondo Donzelli “non dovrebbe essere prerogativa della Regione pagare, tramite fidi, i debiti dell’azienda di famiglia del presidente del Consiglio e del segretario del partito di maggioranza. E men che meno prerogativa dello Stato”.
Da Il Fatto Quotidiano del 08/01/2015.
Perché i media a livello nazionale tacciono???
Ieri sera anche i Tg hanno citato la caduta dell'intonaco in una scuola materna di Sesto San Giovanni. Fatto decisamente grave. Ma anche questo salvataggio lo è.
L'ex cavaliere Banana non era al corrente??? E Verdini???
E' per questo che lo tengono per le palle e gli fanno fare quello che vogliono dietro le quinte????
LO STATO PAGA I DEBITI DI PAPÀ RENZI
(Davide Vecchi).
08/01/2015 di triskel182
FIDI TOSCANA SALDA PARTE DEL MUTUO DELLA CHIL POST E VIENE RIMBORSATA DAL TESORO DONZELLI (FDI): “UN USO INDECENTE DEI SOLDI PUBBLICI A FINI FAMILIARI DA PARTE DEL PREMIER”.
A saldare i debiti del padre ci pensa il governo del figlio. Debiti, tra l’altro, concessi da una banca guidata da un fedelissimo del figlio, già in società con il fratello del cognato, a sua volta socio in un’altra azienda di famiglia riconducibile alla madre.
Cose che capitano in casa Renzi. La vicenda è complessa e gli intrecci sono molti, come gli attori coinvolti.
Tutto ruota attorno alla Chil post, la società di Tiziano Renzi, dichiarata fallita nel marzo 2013 e sulla quale la Procura di Genova ha aperto un fascicolo iscrivendo nel registro degli indagati il padre del premier con l’accusa di bancarotta fraudolenta.
Secondo i magistrati liguri, Tiziano avrebbe ceduto la parte sana dell’azienda alla Eventi 6 intestata alla moglie, Laura Bovoli, società che all’epoca dei fatti aveva tra i propri soci anche Alessandro Conticini, fratello di Andrea, marito di Matilde Renzi, sorella del premier e a sua volta socia nella Eventi 6.
ALLA CHIL POST rimangono così solo i debiti tra cui un mutuo di 496.717,65 euro stipulato nel luglio 2009 con il Credito Cooperativo di Pontassieve.
Una cifra sostanziosa, concessa con un mutuo chirografario: senza accensione di ipoteche, quindi, ma solo basato sulle garanzie. La banca è guidata da Matteo Spanò, grande amico e sostenitore del premier.
Nel 2005, Spanò era stato nominato direttore generale della Florence Multimedia, società della Provincia di Firenze creata dal neoeletto Renzi per la comunicazione e poi finita nel mirino della Corte dei conti che ha inizialmente ipotizzato un danno erariale di 10 milioni di euro.
Non solo. Spanò era anche socio di Conticini nella Dot Media, società che ha ricevuto appalti diretti dal Comune, negli anni in cui Renzi è stato sindaco, e da altre controllate come la Firenze Parcheggi guidata dal fidatissimo Marco Carrai.
Dot Media oggi cura fra l’altro la campagna elettorale dell’eurodeputata Alessandra Moretti candidata alla presidenza della Regione Veneto.
Diventato presidente della banca, Spanò elargisce il prestito alla Chil post di Tiziano Renzi che per ottenerlo riceve la copertura a garanzia del fondo per le piccole e medie imprese da Fidi Toscana spa della Regione guidata da Enrico Rossi e partecipata anche da Provincia e Comune di Firenze oltre alla Cassa di Risparmio nel cui board siede Carrai.
Fidi Toscana delibera la copertura dell’80% e il 13 agosto 2009 la banca versa i soldi alla Chil. I ratei vengono regolarmente pagati per due anni.
Poi la società, nel frattempo svuotata della parte sana e poi ceduta ad altri titolari (ora indagati assieme a Tiziano Renzi), non rispetta più i versamenti e dichiara il fallimento.
Così nell’estate 2013, la banca, ammessa al passivo dal Tribunale fallimentare di Genova, si rivolge a Fidi ottenendo il versamento di 263.114,70 euro, l’80% dell’esposizione complessiva.
E la vicenda potrebbe chiudersi qui. Invece, il 18 giugno 2014, il ministero dell’Economia delibera di rifondare Fidi di 236.803,23 euro e liquida la somma il 30 ottobre successivo attraverso il Fondo centrale di garanzia.
E così il debito contratto dal padre di Renzi è stato coperto dallo Stato.
“La perdita sofferta sull’operazione per noi è stata di 26 mila euro”, afferma Gabriella Gori, alla guida di Fidi da appena una settimana.
Si è insediata il 29 dicembre a seguito delle dimissioni di Leonardo Zamparella costretto dal Cda a lasciare l’incarico perché condannato in primo grado a 2 anni e 4 mesi per concorso in bancarotta come vicedirettore vicario del settore leasing e factoring di Monte dei Paschi.
(Ma che bella compagnia di giro - ndt)
Il cambio al timone è stato determinante per avere accesso alle informazioni sulla Chil a seguito delle richieste formulate in merito dal consigliere regionale Giovanni Donzelli, oggi candidato presidente della Toscana per Fratelli d’Italia.
Le risposte sono arrivate il 30 dicembre: Gori ha redatto un documento in cui riassume l’intera vicenda, con la specifica dei versamenti da parte del Tesoro.
Per carità: tutto secondo protocollo, nulla di illecito. IERI, DONZELLI assieme ad altri due consiglieri di minoranza, Paolo Marcheschi e Marina Staccioli, ha presentato un’interrogazione al governatore Rossi per chiedere spiegazioni.
“Ci appare a dir poco indecente che i debiti creati dall’azienda di famiglia del premier siano stati pagati con soldi pubblici concessi in un momento in cui la crisi porta un imprenditore al suicidio ogni cinque giorni e in un Paese in cui l’accesso al credito è una delle maggiori difficoltà, insieme alla pressione fiscale, che riscontrano le aziende”, dice Donzelli. Da Rossi, prosegue, “vorremmo sapere perché la gestione dei fondi è stata affidata a Fidi senza alcuna gara, se e come ha valutato la domanda presentata da Chil, se la garanzia non deve essere revocata in caso di modifiche aziendali che trasformano radicalmente la società come è avvenuto alla Chil e, infine, se reputa corretto ed etico il comportamento della famiglia Renzi”.
Secondo Donzelli “non dovrebbe essere prerogativa della Regione pagare, tramite fidi, i debiti dell’azienda di famiglia del presidente del Consiglio e del segretario del partito di maggioranza. E men che meno prerogativa dello Stato”.
Da Il Fatto Quotidiano del 08/01/2015.
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Re: Renzi
POLITICA
Semestre europeo, il flop di Matteo Renzi
E le promesse rimangono solo degli slogan
La presidenza europea dell'Italia si chiude con pochi risultati, nessun fuoco d'artificio e tanti errori. Spesso nati dal protagonismo del premier. Che ora sul Quirinale si gioca tutto
DI MARCO DAMILANO
12 gennaio 2015
Più che un semestre di presidenza italiana dell’Unione europea è stato un semestre bianco per la politica nazionale, in cui il Parlamento non poteva essere sciolto e il presidente della Repubblica non si poteva dimettere. E anche un semestre in bianco: «In Europa siamo riusciti a cambiare il vocabolario, ora aspettiamo le realizzazioni», ha ammesso il presidente di turno. Matteo Renzi.
Atteso con il solito carico di enfasi che grava sugli eventi internazionali con l’Italia protagonista (in arrivo il prossimo: l’Expo 2015), il semestre di presidenza del Consiglio dell’Unione europea che sta terminando (il 13 gennaio ci sarà il rapporto finale di Renzi di fronte al Parlamento Ue) è destinato a non lasciare tracce di particolare rilevanza nel Palazzo Justus Lipsius a Bruxelles, sede del Consiglio. Tutto è pronto per voltare pagina. Il prossimo paese presidente di turno, la Lettonia, ha inaugurato il suo semestre a Riga con una pièce del compositore Eriks Esenvalds, “After the Storm”. “Dopo la tempesta”, ma non è un riferimento al predecessore italiano. Per Renzi, anzi, la bufera deve ancora venire.
Ritardi, mancanza di comunicazione, cambi in corsa. La presidenza italiana giudicata da diplomatici ed esperti. "Vengono confermati tutti gli stereotipi negativi sul Paese"
Non se l’aspettava così l’uomo di Palazzo Chigi la fine del suo semestre di presidenza Ue.
L’inizio coincise con una cavalcata trionfale, con il suo Pd al 40,8 per cento e undici milioni di voti raccolti alle elezioni europee del 25 maggio.
Con il discorso di apertura il 2 luglio 2014 di fronte al Parlamento Ue in cui il premier si paragonava a un eroe dell’Odissea: «La generazione nuova che abita oggi l’Europa ha il dovere di riscoprirsi Telemaco, di meritare l’eredità dei padri dell’Europa...».
Oggi Renzi-Telemaco termina il viaggio con un magro bilancio e con una situazione interna di imprevista difficoltà, dopo il pasticcio del decreto fiscale con la norma salva-Berlusconi approvato da Palazzo Chigi e poi maldestramente ritirato e rimandato al 20 febbraio, dopo l’elezione del nuovo presidente della Repubblica.
Un sotterfugio, una svista. Peggio, un blitz di Natale per blindare il patto del Nazareno. Che si è capovolto in un imbarazzante stop per Renzi, l’uomo che non può fermarsi mai. Proprio ora che si avvicina il Big Game. Chiuso finalmente il semestre, le dimissioni di Giorgio Napolitano daranno ufficialmente il via alle manovre per la successione al Quirinale, in corso in modo sotterraneo da settimane.
Tutto il semestre renziano, in realtà, è stato giocato sulle esigenze domestiche. L’Europa come vincolo per far passare le riforme in Italia: l’eliminazione del Senato elettivo, il Jobs Act sul mercato del lavoro, l’abolizione dell’articolo 18. In questo il governo Renzi ha cambiato pochissimo verso rispetto ai suoi predecessori.
«L’Europa ce lo chiede», è il refrain di tutti i governanti italiani da Maastricht in poi. Il Renzi style si è visto nell’approccio polemico verso le istituzioni europee. «In questi sei mesi abbiamo vissuto due presidenze in una», raccontano a Bruxelles. «C’era la presidenza italiana intesa come macchina diplomatica, grigia e tradizionale. E c’era il presidente Renzi, aggressivo contro la burocrazia europea». Una presidenza dottor Jekyll e mister Hyde, con la diplomazia guidata dal rappresentante permanente Stefano Sannino chiamato a un super-lavoro per coprire le uscite renziane. E i suoi errori.
Primo errore: i ripetuti attacchi contro gli euro-burocrati. «L’Italia non ne può più di andare in Europa e sentirsi fare la lezione da solerti tecnici e oscuri funzionari», ha ripetuto Renzi per sei mesi. Mettendo nel mirino anche gli italiani. Anzi, loro più degli altri: «Ci sono funzionari italiani che pensano che possono fare carriera a Bruxelles parlando male dell’Italia: è un riflesso pavloviano», li ha sbugiardati il premier al raduno della stazione Leopolda. C’è molto di vero, ma il problema è che la maggior parte di loro ha dovuto affidarsi alle istituzioni europee per fare carriera, non potendo contare in nessun modo sull’appoggio del loro governo nazionale, a differenza di quanto accade ai loro colleghi delle altre cancellerie.
L’italiano più alto in grado tra i funzionari della Commissione, il bolognese Stefano Manservisi, capo di gabinetto di Federica Mogherini nell’ufficio di vice-presidente della Commissione e Alto rappresentante per la politica estera, non deve nulla all’attuale governo, è da più di venti anni a Bruxelles e ha ricoperto in passato lo stesso incarico con il presidente Romano Prodi e con il commissario Mario Monti. È l’unico capo di gabinetto italiano.
Il sottosegretario con delega agli Affari europei Sandro Gozi, anche lui con un passato in commissione Ue e nella squadra di Prodi, ha vantato il record di venti italiani nei gabinetti della commissione contro i 14 della gestione precedente, tra cui 4 vice-capi di gabinetto, ma nessuno di loro è in un portafoglio chiave (Concorrenza, Commercio, Industria, Trasporti) mentre la Germania vanta 5 capi di gabinetto, a partire dal potentissimo Martin Selmayr che affianca il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, la Gran Bretagna tre, la Spagna e la Finlandia due.
«Gli altri governi si sono tenuti le caselle più importanti e hanno concesso a Renzi il dicastero che tanto gli stava a cuore, la politica estera per la Mogherini», spiegano nella Commissione. «Lei è giudicata qui antipatica ma brava, il problema è che la congiuntura non gioca a suo favore, non è tempo di politica estera comune in Europa».
I direttori generali tricolori sono in estinzione appena tre. Ci sarebbero stati, a rappresentare l’embrione di una nuova leva italiana a Bruxelles, i venti giovani assunti per il semestre come assistenti e collaboratori e catapultati a occupare incarichipiù impegnativi. Salvo scoprire, a semestre finito, che nessuno ha pensato a loro. Neppure un ordine di servizio o un lettera di referenza. La macchina della presidenza italiana si è retta sui distaccati, una dozzina, dai ministeri o da altri organismi nazionali. E dire che la presidenza del Lussemburgo che partirà a luglio ha arruolato come esperta giuridica un’italiana.
Secondo errore: puntare tutto sul Consiglio europeo e snobbare la Commissione. «Capotavola è dove mi siedo io», teorizzava quando era in auge Massimo D’Alema. Coerente con questo imperativo, Renzi si è concentrato sulle dispute interne al Consiglio da lui presieduto: le schermaglie con la Merkel, il gioco delle alleanze con Hollande. Mentre ha riservato soltanto battutacce contro la vecchia Commissione Barroso e la nuova presieduta dall’eterno lussemburghese Juncker. Una predilezione che l’Italia rischia di pagare cara. Nel Consiglio dominano i tedeschi, la tela diplomatica degli interessi italiani si è sempre tessuta nella Commissione e nel Parlamento, due fronti ora lasciati sguarniti.
Infine, i dossier su cui si era impegnata la presidenza italiana. Un flop l’agenda digitale, su cui Renzi si era mobilitato personalmente con il vertice di Venezia: ancora indietro il progetto Continente connesso, l’Italia resta agli ultimi posti in classifica per uso di Internet, più di un terzo degli italiani non l’ha mai usato. Un buon risultato sulle politiche ambientali, con la posizione unitaria dell’Europa sugli Ogm alla conferenza Onu di Lima costruita dall’Italia. Sulla questione politicamente più calda, l’immigrazione, l’Italia ha portato a casa la chiusura di Mare Nostrum e l’avvio del programma Triton partito il primo novembre, con 17 paesi coinvolti, che costerà tre milioni al mese a carico dell’agenzia europea Frontex anziché i 9 milioni che pesavano sull’Italia.
Ma gli sbarchi sono ripartiti: 270mila immigrati irregolari entrati in Europa nel 2014, il 60 per cento in più rispetto al 2013, con Frontex e la stampa europea («Record di irregolari in Europa, la metà passano dall’Italia», ha scritto in prima pagina il quotidiano progressista spagnolo “El País” il 3 gennaio) che punta il dito contro il governo italiano, non la Lega di Matteo Salvini. Il lavoro? Nulla di fatto, o quasi. Tutto affidato alle parole magiche flessibilità e crescita e al piano Juncker da 315 miliardi. In attesa di riaprire, almeno, i margini dei trattati per allargare le spese per gli investimenti, come previsto nel documento conclusivo dell’ultimo vertice della presidenza italiana, il 18 dicembre. Infine, niente di memorabile sul piano culturale. Un anno fa, di questi tempi, un gruppo di lavoro messo in piedi a Palazzo Chigi era all’opera per organizzare un mega-convegno internazionale sull’identità europea, con i grandi nomi dell’intellettualità, alcuni dei quali scomparsi nei mesi successivi, da Jacques Le Goff a Ulrich Beck. All’epoca il premier era Enrico Letta, Renzi fece cadere l’idea. Più che il passato contava il futuro. Il suo.
Sei mesi che rispecchiano la figura dell’euro-populista Renzi, pochissimo interessato a un’azione pedagogica sull’opinione pubblica interna sulle radici dell’Europa. Il semestre italiano è passato, il premier lo archivia senza tanti rimpianti, gli effetti speciali sono mancati. E ora, nel giro di poche settimane, ci saranno le elezioni in Grecia, il voto sul Quirinale, e poi il possibile tentativo italiano di forzare i trattati dell’Unione. Il vero semestre di Renzi comincia ora.
http://espresso.repubblica.it/palazzo/2 ... =HEF_RULLO
Semestre europeo, il flop di Matteo Renzi
E le promesse rimangono solo degli slogan
La presidenza europea dell'Italia si chiude con pochi risultati, nessun fuoco d'artificio e tanti errori. Spesso nati dal protagonismo del premier. Che ora sul Quirinale si gioca tutto
DI MARCO DAMILANO
12 gennaio 2015
Più che un semestre di presidenza italiana dell’Unione europea è stato un semestre bianco per la politica nazionale, in cui il Parlamento non poteva essere sciolto e il presidente della Repubblica non si poteva dimettere. E anche un semestre in bianco: «In Europa siamo riusciti a cambiare il vocabolario, ora aspettiamo le realizzazioni», ha ammesso il presidente di turno. Matteo Renzi.
Atteso con il solito carico di enfasi che grava sugli eventi internazionali con l’Italia protagonista (in arrivo il prossimo: l’Expo 2015), il semestre di presidenza del Consiglio dell’Unione europea che sta terminando (il 13 gennaio ci sarà il rapporto finale di Renzi di fronte al Parlamento Ue) è destinato a non lasciare tracce di particolare rilevanza nel Palazzo Justus Lipsius a Bruxelles, sede del Consiglio. Tutto è pronto per voltare pagina. Il prossimo paese presidente di turno, la Lettonia, ha inaugurato il suo semestre a Riga con una pièce del compositore Eriks Esenvalds, “After the Storm”. “Dopo la tempesta”, ma non è un riferimento al predecessore italiano. Per Renzi, anzi, la bufera deve ancora venire.
Ritardi, mancanza di comunicazione, cambi in corsa. La presidenza italiana giudicata da diplomatici ed esperti. "Vengono confermati tutti gli stereotipi negativi sul Paese"
Non se l’aspettava così l’uomo di Palazzo Chigi la fine del suo semestre di presidenza Ue.
L’inizio coincise con una cavalcata trionfale, con il suo Pd al 40,8 per cento e undici milioni di voti raccolti alle elezioni europee del 25 maggio.
Con il discorso di apertura il 2 luglio 2014 di fronte al Parlamento Ue in cui il premier si paragonava a un eroe dell’Odissea: «La generazione nuova che abita oggi l’Europa ha il dovere di riscoprirsi Telemaco, di meritare l’eredità dei padri dell’Europa...».
Oggi Renzi-Telemaco termina il viaggio con un magro bilancio e con una situazione interna di imprevista difficoltà, dopo il pasticcio del decreto fiscale con la norma salva-Berlusconi approvato da Palazzo Chigi e poi maldestramente ritirato e rimandato al 20 febbraio, dopo l’elezione del nuovo presidente della Repubblica.
Un sotterfugio, una svista. Peggio, un blitz di Natale per blindare il patto del Nazareno. Che si è capovolto in un imbarazzante stop per Renzi, l’uomo che non può fermarsi mai. Proprio ora che si avvicina il Big Game. Chiuso finalmente il semestre, le dimissioni di Giorgio Napolitano daranno ufficialmente il via alle manovre per la successione al Quirinale, in corso in modo sotterraneo da settimane.
Tutto il semestre renziano, in realtà, è stato giocato sulle esigenze domestiche. L’Europa come vincolo per far passare le riforme in Italia: l’eliminazione del Senato elettivo, il Jobs Act sul mercato del lavoro, l’abolizione dell’articolo 18. In questo il governo Renzi ha cambiato pochissimo verso rispetto ai suoi predecessori.
«L’Europa ce lo chiede», è il refrain di tutti i governanti italiani da Maastricht in poi. Il Renzi style si è visto nell’approccio polemico verso le istituzioni europee. «In questi sei mesi abbiamo vissuto due presidenze in una», raccontano a Bruxelles. «C’era la presidenza italiana intesa come macchina diplomatica, grigia e tradizionale. E c’era il presidente Renzi, aggressivo contro la burocrazia europea». Una presidenza dottor Jekyll e mister Hyde, con la diplomazia guidata dal rappresentante permanente Stefano Sannino chiamato a un super-lavoro per coprire le uscite renziane. E i suoi errori.
Primo errore: i ripetuti attacchi contro gli euro-burocrati. «L’Italia non ne può più di andare in Europa e sentirsi fare la lezione da solerti tecnici e oscuri funzionari», ha ripetuto Renzi per sei mesi. Mettendo nel mirino anche gli italiani. Anzi, loro più degli altri: «Ci sono funzionari italiani che pensano che possono fare carriera a Bruxelles parlando male dell’Italia: è un riflesso pavloviano», li ha sbugiardati il premier al raduno della stazione Leopolda. C’è molto di vero, ma il problema è che la maggior parte di loro ha dovuto affidarsi alle istituzioni europee per fare carriera, non potendo contare in nessun modo sull’appoggio del loro governo nazionale, a differenza di quanto accade ai loro colleghi delle altre cancellerie.
L’italiano più alto in grado tra i funzionari della Commissione, il bolognese Stefano Manservisi, capo di gabinetto di Federica Mogherini nell’ufficio di vice-presidente della Commissione e Alto rappresentante per la politica estera, non deve nulla all’attuale governo, è da più di venti anni a Bruxelles e ha ricoperto in passato lo stesso incarico con il presidente Romano Prodi e con il commissario Mario Monti. È l’unico capo di gabinetto italiano.
Il sottosegretario con delega agli Affari europei Sandro Gozi, anche lui con un passato in commissione Ue e nella squadra di Prodi, ha vantato il record di venti italiani nei gabinetti della commissione contro i 14 della gestione precedente, tra cui 4 vice-capi di gabinetto, ma nessuno di loro è in un portafoglio chiave (Concorrenza, Commercio, Industria, Trasporti) mentre la Germania vanta 5 capi di gabinetto, a partire dal potentissimo Martin Selmayr che affianca il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, la Gran Bretagna tre, la Spagna e la Finlandia due.
«Gli altri governi si sono tenuti le caselle più importanti e hanno concesso a Renzi il dicastero che tanto gli stava a cuore, la politica estera per la Mogherini», spiegano nella Commissione. «Lei è giudicata qui antipatica ma brava, il problema è che la congiuntura non gioca a suo favore, non è tempo di politica estera comune in Europa».
I direttori generali tricolori sono in estinzione appena tre. Ci sarebbero stati, a rappresentare l’embrione di una nuova leva italiana a Bruxelles, i venti giovani assunti per il semestre come assistenti e collaboratori e catapultati a occupare incarichipiù impegnativi. Salvo scoprire, a semestre finito, che nessuno ha pensato a loro. Neppure un ordine di servizio o un lettera di referenza. La macchina della presidenza italiana si è retta sui distaccati, una dozzina, dai ministeri o da altri organismi nazionali. E dire che la presidenza del Lussemburgo che partirà a luglio ha arruolato come esperta giuridica un’italiana.
Secondo errore: puntare tutto sul Consiglio europeo e snobbare la Commissione. «Capotavola è dove mi siedo io», teorizzava quando era in auge Massimo D’Alema. Coerente con questo imperativo, Renzi si è concentrato sulle dispute interne al Consiglio da lui presieduto: le schermaglie con la Merkel, il gioco delle alleanze con Hollande. Mentre ha riservato soltanto battutacce contro la vecchia Commissione Barroso e la nuova presieduta dall’eterno lussemburghese Juncker. Una predilezione che l’Italia rischia di pagare cara. Nel Consiglio dominano i tedeschi, la tela diplomatica degli interessi italiani si è sempre tessuta nella Commissione e nel Parlamento, due fronti ora lasciati sguarniti.
Infine, i dossier su cui si era impegnata la presidenza italiana. Un flop l’agenda digitale, su cui Renzi si era mobilitato personalmente con il vertice di Venezia: ancora indietro il progetto Continente connesso, l’Italia resta agli ultimi posti in classifica per uso di Internet, più di un terzo degli italiani non l’ha mai usato. Un buon risultato sulle politiche ambientali, con la posizione unitaria dell’Europa sugli Ogm alla conferenza Onu di Lima costruita dall’Italia. Sulla questione politicamente più calda, l’immigrazione, l’Italia ha portato a casa la chiusura di Mare Nostrum e l’avvio del programma Triton partito il primo novembre, con 17 paesi coinvolti, che costerà tre milioni al mese a carico dell’agenzia europea Frontex anziché i 9 milioni che pesavano sull’Italia.
Ma gli sbarchi sono ripartiti: 270mila immigrati irregolari entrati in Europa nel 2014, il 60 per cento in più rispetto al 2013, con Frontex e la stampa europea («Record di irregolari in Europa, la metà passano dall’Italia», ha scritto in prima pagina il quotidiano progressista spagnolo “El País” il 3 gennaio) che punta il dito contro il governo italiano, non la Lega di Matteo Salvini. Il lavoro? Nulla di fatto, o quasi. Tutto affidato alle parole magiche flessibilità e crescita e al piano Juncker da 315 miliardi. In attesa di riaprire, almeno, i margini dei trattati per allargare le spese per gli investimenti, come previsto nel documento conclusivo dell’ultimo vertice della presidenza italiana, il 18 dicembre. Infine, niente di memorabile sul piano culturale. Un anno fa, di questi tempi, un gruppo di lavoro messo in piedi a Palazzo Chigi era all’opera per organizzare un mega-convegno internazionale sull’identità europea, con i grandi nomi dell’intellettualità, alcuni dei quali scomparsi nei mesi successivi, da Jacques Le Goff a Ulrich Beck. All’epoca il premier era Enrico Letta, Renzi fece cadere l’idea. Più che il passato contava il futuro. Il suo.
Sei mesi che rispecchiano la figura dell’euro-populista Renzi, pochissimo interessato a un’azione pedagogica sull’opinione pubblica interna sulle radici dell’Europa. Il semestre italiano è passato, il premier lo archivia senza tanti rimpianti, gli effetti speciali sono mancati. E ora, nel giro di poche settimane, ci saranno le elezioni in Grecia, il voto sul Quirinale, e poi il possibile tentativo italiano di forzare i trattati dell’Unione. Il vero semestre di Renzi comincia ora.
http://espresso.repubblica.it/palazzo/2 ... =HEF_RULLO
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Re: Renzi
80 EURO Il grande flop certificato pure dal Tesoro
(Stefano Feltri).
14/01/2015 di triskel182
SE NON CI FOSSE STATO l’eccidio di Parigi, le prime pagine dei giornali in questi giorni sarebbero andate al flop degli 80 euro, ora definitivamente certificato dall’Istat e ammesso dal ministero del Tesoro.
Il 9 gennaio l’Istituto di statistica ha pubblicato il documento “Reddito e risparmio delle famiglie e profitti delle società”. La parte importante è questa: tra il secondo e il terzo trimestre 2016 (cioè luglio-settembre confrontato con aprile-giugno) il reddito lordo delle famiglie è aumentato dell’1,8 per cento.
Grazie ai prezzi stabili o in calo, il potere d’acquisto (cioè il reddito al netto dell’inflazione) è salito addirittura dell’1,9. Il merito è del bonus da 80 euro che Renzi ha fatto trovare in busta paga ai lavoratori dipendenti a reddito medio-basso da maggio.
Di quanto è aumentata la spesa per consumi finali, cioè la cosiddetta “domanda interna”? Zero. Anzi: “0,0”. C’è un piccolo aumento dello 0,4 per cento tra terzo trimestre 2014 e terzo 2013, ma per definire un successo la scelta del governo l’aumento doveva essere rispetto ai mesi precedenti.
Qualche settimana fa, in un’intervista al Fatto, lo psicologo Paolo Legrenzi aveva spiegato bene il problema: in questa crisi gli italiani hanno visto ridursi i risparmi (crolli di Borsa), intaccati anche per compensare il calo dei redditi dovuti alla perdita di lavoro, e perfino le case hanno iniziato a scendere di valore.
Le ricerche sulla psicologia degli investitori dimostrano che le perdite sono percepite molto più dei guadagni. Appena possibile, gli italiani hanno cercato di ricostruire quel cuscinetto di risparmi che considerano prioritario rispetto all’aumento dei consumi.
Il Tesoro, con un comunicato, non solo ammette questo meccanismo, ma specifica che “non sorprende”. Si legge che “il ministro Padoan ha più volte sostenuto che le famiglie tendono a ricostruire lo stock di risparmio intaccato durante la crisi prima di riprendere il livello adeguato di consumi e investimenti”.
Ma se Padoan lo sapeva, perché ha avallato una misura che costa 10 miliardi all’anno e il cui unico scopo (a parte far vincere le europee al Pd) è stimolare i consumi interni?
L’ex ministro Enrico Giovannini ha spiegato che con la somma spesa per il bonus da 80 euro si sarebbe potuta azzerare la povertà assoluta in Italia (la soglia varia dagli 820 euro per una persona nelle grandi città ai 549 del Sud), cioè permettere un livello di consumi dignitoso a chi oggi non può affrontarlo.
Magari l’impatto politico sarebbe stato minore, ma quello economico superiore: i poveri, per definizione, non possono risparmiare. Renzi però ha scelto un’altra strada e Padoan, pur sapendo evidentemente che era sbagliata, ha applicato la scelta.
Da Il Fatto Quotidiano del 14/01/2015.
(Stefano Feltri).
14/01/2015 di triskel182
SE NON CI FOSSE STATO l’eccidio di Parigi, le prime pagine dei giornali in questi giorni sarebbero andate al flop degli 80 euro, ora definitivamente certificato dall’Istat e ammesso dal ministero del Tesoro.
Il 9 gennaio l’Istituto di statistica ha pubblicato il documento “Reddito e risparmio delle famiglie e profitti delle società”. La parte importante è questa: tra il secondo e il terzo trimestre 2016 (cioè luglio-settembre confrontato con aprile-giugno) il reddito lordo delle famiglie è aumentato dell’1,8 per cento.
Grazie ai prezzi stabili o in calo, il potere d’acquisto (cioè il reddito al netto dell’inflazione) è salito addirittura dell’1,9. Il merito è del bonus da 80 euro che Renzi ha fatto trovare in busta paga ai lavoratori dipendenti a reddito medio-basso da maggio.
Di quanto è aumentata la spesa per consumi finali, cioè la cosiddetta “domanda interna”? Zero. Anzi: “0,0”. C’è un piccolo aumento dello 0,4 per cento tra terzo trimestre 2014 e terzo 2013, ma per definire un successo la scelta del governo l’aumento doveva essere rispetto ai mesi precedenti.
Qualche settimana fa, in un’intervista al Fatto, lo psicologo Paolo Legrenzi aveva spiegato bene il problema: in questa crisi gli italiani hanno visto ridursi i risparmi (crolli di Borsa), intaccati anche per compensare il calo dei redditi dovuti alla perdita di lavoro, e perfino le case hanno iniziato a scendere di valore.
Le ricerche sulla psicologia degli investitori dimostrano che le perdite sono percepite molto più dei guadagni. Appena possibile, gli italiani hanno cercato di ricostruire quel cuscinetto di risparmi che considerano prioritario rispetto all’aumento dei consumi.
Il Tesoro, con un comunicato, non solo ammette questo meccanismo, ma specifica che “non sorprende”. Si legge che “il ministro Padoan ha più volte sostenuto che le famiglie tendono a ricostruire lo stock di risparmio intaccato durante la crisi prima di riprendere il livello adeguato di consumi e investimenti”.
Ma se Padoan lo sapeva, perché ha avallato una misura che costa 10 miliardi all’anno e il cui unico scopo (a parte far vincere le europee al Pd) è stimolare i consumi interni?
L’ex ministro Enrico Giovannini ha spiegato che con la somma spesa per il bonus da 80 euro si sarebbe potuta azzerare la povertà assoluta in Italia (la soglia varia dagli 820 euro per una persona nelle grandi città ai 549 del Sud), cioè permettere un livello di consumi dignitoso a chi oggi non può affrontarlo.
Magari l’impatto politico sarebbe stato minore, ma quello economico superiore: i poveri, per definizione, non possono risparmiare. Renzi però ha scelto un’altra strada e Padoan, pur sapendo evidentemente che era sbagliata, ha applicato la scelta.
Da Il Fatto Quotidiano del 14/01/2015.
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Re: Renzi
E' il solito problema della guerra fra ceti poveri. Chi beneficia degli 80 euro non credo che possa risparmiare più di tanto. Piuttosto non si doveva prevedere il bonus per chi fa dei figli, quindi per degli individui che ancora non esistono, e con una soglia di reddito familiare alta.
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Re: Renzi
IL BOMBA IN AZIONE
«Le famiglie italiane si sono arricchite», la frase di Renzi che fa arrabbiare il web
Nella replica del premier al termine del dibattito all’Europarlamento per la chiusura del semestre italiano - Vista /CorriereTv
http://video.corriere.it/famiglie-itali ... b467c58d7f
«Le famiglie italiane si sono arricchite», la frase di Renzi che fa arrabbiare il web
Nella replica del premier al termine del dibattito all’Europarlamento per la chiusura del semestre italiano - Vista /CorriereTv
http://video.corriere.it/famiglie-itali ... b467c58d7f
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Re: Renzi
Azienda di famiglia Renzi, Regione Toscana: “Regolamento su iter finanziamenti violato”
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http://tv.ilfattoquotidiano.it/2015/01/ ... to/329830/
“Quando ho detto che i debiti contratti dall’azienda di famiglia di Renzi erano stati ripianati dal governo Renzi, davo per scontato che almeno l’iter di concessione fosse stato corretto. Invece emerge che non è così”. Giovanni Donzelli, capogruppo FdI nel consiglio regionale della Toscana, parla della ‘Chil’ - l’azienda di famiglia del premier Matteo Renzi – che attualmente ha cambiato nome. Pochi giorni fa, fuori dalla sede di Fidi Toscana, la finanziaria regionale che avrebbe reso possibile un prestito alla Chil di circa 400 mila euro, Donzelli aveva spiegato: “Dopo la scissione del ramo aziendale, il finanziamento è stato lasciato alla ‘bad company’ che è andata in fallimento. I soldi ce li ha rimessi Fidi, che aveva però una controgaranzia: il Fondo di garanzia nazionale. Quindi l’erogatore finale è stato il governo Renzi”. Oggi la questione passa dal piano politico a quello del rispetto delle norme. L’assessore regionale alle attività produttive, Gianfranco Simoncini (Pd), rispondendo ad un’interrogazione sulla ‘Chil’, afferma: “Fidi Toscana avrebbe dovuto essere informata della cessione del ramo di azienda, infatti il regolamento prevede che la banca finanziatrice ha l’obbligo di comunicare le informazioni in suo possesso. Tali informazioni non sono state comunicate”. La banca è la Bcc di Pontassieve, attualmente presieduta da Matteo Spanò, amico e sostenitore del premier. Poi l’assessore aggiunge: “Nel caso in cui le verifiche effettuate sulle imprese risultino non rispettate dal regolamento, l’impresa è tenuta a corrispondere un importo pari a due volte l’agevolazione ricevuta”. Il governatore della Toscana, Enrico Rossi (Pd), interrogato sulla questione, risponde: “Se ci sarà da prendere azioni e provvedimenti lo faremo, senza scadere nella strumentalizzazione politica che mi sembra piuttosto ampia su questa vicenda”
di Max Brod
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“Quando ho detto che i debiti contratti dall’azienda di famiglia di Renzi erano stati ripianati dal governo Renzi, davo per scontato che almeno l’iter di concessione fosse stato corretto. Invece emerge che non è così”. Giovanni Donzelli, capogruppo FdI nel consiglio regionale della Toscana, parla della ‘Chil’ - l’azienda di famiglia del premier Matteo Renzi – che attualmente ha cambiato nome. Pochi giorni fa, fuori dalla sede di Fidi Toscana, la finanziaria regionale che avrebbe reso possibile un prestito alla Chil di circa 400 mila euro, Donzelli aveva spiegato: “Dopo la scissione del ramo aziendale, il finanziamento è stato lasciato alla ‘bad company’ che è andata in fallimento. I soldi ce li ha rimessi Fidi, che aveva però una controgaranzia: il Fondo di garanzia nazionale. Quindi l’erogatore finale è stato il governo Renzi”. Oggi la questione passa dal piano politico a quello del rispetto delle norme. L’assessore regionale alle attività produttive, Gianfranco Simoncini (Pd), rispondendo ad un’interrogazione sulla ‘Chil’, afferma: “Fidi Toscana avrebbe dovuto essere informata della cessione del ramo di azienda, infatti il regolamento prevede che la banca finanziatrice ha l’obbligo di comunicare le informazioni in suo possesso. Tali informazioni non sono state comunicate”. La banca è la Bcc di Pontassieve, attualmente presieduta da Matteo Spanò, amico e sostenitore del premier. Poi l’assessore aggiunge: “Nel caso in cui le verifiche effettuate sulle imprese risultino non rispettate dal regolamento, l’impresa è tenuta a corrispondere un importo pari a due volte l’agevolazione ricevuta”. Il governatore della Toscana, Enrico Rossi (Pd), interrogato sulla questione, risponde: “Se ci sarà da prendere azioni e provvedimenti lo faremo, senza scadere nella strumentalizzazione politica che mi sembra piuttosto ampia su questa vicenda”
di Max Brod
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Re: Renzi
Chil Post, lo Stato rimborsa il mutuo non pagato del papà di Renzi
Politica & Palazzo
Fidi Toscana ha saldato 236mila euro, parte del prestito concesso alla società di Tiziano Renzi. Ad ottobre è stata rimborsata dal ministero del Tesoro. Donzelli (Fdi): “Uso indecente dei soldi pubblici a fini familiari"
di Davide Vecchi | 10 gennaio 2015 COMMENTI
A saldare i debiti del padre ci pensa il governo del figlio. Debiti, tra l’altro, concessi da una banca guidata da un fedelissimo del figlio, già in società con il fratello del cognato, a sua volta socio in un’altra azienda di famiglia riconducibile alla madre. Cose che capitano in casa Renzi. La vicenda è complessa e gli intrecci sono molti, come gli attori coinvolti. Tutto ruota attorno alla Chil post, la società di Tiziano Renzi, dichiarata fallita nel marzo 2013 e sulla quale la Procura di Genova ha aperto un fascicolo iscrivendo nel registro degli indagati il padre del premier con l’accusa di bancarotta fraudolenta. Secondo i magistrati liguri, Tiziano avrebbe ceduto la parte sana dell’azienda alla Eventi 6 intestata alla moglie, Laura Bovoli, società che all’epoca dei fatti aveva tra i propri soci anche Alessandro Conticini, fratello di Andrea, marito di Matilde Renzi, sorella del premier e a sua volta socia nella Eventi 6.
ALLA CHIL POST rimangono così solo i debiti tra cui un mutuo di 496.717,65 euro stipulato nel luglio 2009 con il Credito Cooperativo di Pontassieve. Una cifra sostanziosa, concessa con un mutuo chirografario: senza accensione di ipoteche, quindi, ma solo basato sulle garanzie. La banca è guidata da Matteo Spanò, grande amico e sostenitore del premier. Nel 2005, Spanò era stato nominato direttore generale della Florence Multimedia, società della Provincia di Firenze creata dal neoeletto Renzi per la comunicazione e poi finita nel mirino della Corte dei conti che ha inizialmente ipotizzato un danno erariale di 10 milioni di euro. Non solo. Spanò era anche socio di Conticini nella Dot Media, società che ha ricevuto appalti diretti dal Comune, negli anni in cui Renzi è stato sindaco, e da altre controllate come la Firenze Parcheggi guidata dal fidatissimo Marco Carrai. Dot Media oggi cura fra l’altro la campagna elettorale dell’eurodeputata Alessandra Moretti candidata alla presidenza della Regione Veneto.
Diventato presidente della banca, Spanò elargisce il prestito alla Chil post di Tiziano Renzi che per ottenerlo riceve la copertura a garanzia del fondo per le piccole e medie imprese da Fidi Toscana spa della Regione guidata da Enrico Rossi e partecipata anche da Provincia e Comune di Firenze oltre alla Cassa di Risparmio nel cui board siede Carrai. Fidi Toscana delibera la copertura dell’80% e il 13 agosto 2009 la banca versa i soldi alla Chil. I ratei vengono regolarmente pagati per due anni. Poi la società, nel frattempo svuotata della parte sana e poi ceduta ad altri titolari (ora indagati assieme a Tiziano Renzi), non rispetta più i versamenti e dichiara il fallimento. Così nell’estate 2013, la banca, ammessa al passivo dal Tribunale fallimentare di Genova, si rivolge a Fidi ottenendo il versamento di 263.114,70 euro, l’80% dell’esposizione complessiva. E la vicenda potrebbe chiudersi qui. Invece, il 18 giugno 2014, il ministero dell’Economia delibera di rifondare Fidi di 236.803,23 euro e liquida la somma il 30 ottobre successivo attraverso il Fondo centrale di garanzia. E così il debito contratto dal padre di Renzi è stato coperto dallo Stato.
“La perdita sofferta sull’operazione per noi è stata di 26 mila euro”, afferma Gabriella Gori, alla guida di Fidi da appena una settimana. Si è insediata il 29 dicembre a seguito delle dimissioni di Leonardo Zamparella, costretto dal Cda a lasciare l’incarico perché condannato in primo grado a 2 anni e 4 mesi per concorso in bancarotta come vicedirettore vicario del settore leasing e factoring di Monte dei Paschi. Il cambio al timone è stato determinante per avere accesso alle informazioni sulla Chil a seguito delle richieste formulate in merito dal consigliere regionale Giovanni Donzelli, oggi candidato presidente della Toscana per Fratelli d’Italia. Le risposte sono arrivate il 30 dicembre: Gori ha redatto un documento in cui riassume l’intera vicenda, con la specifica dei versamenti da parte del Tesoro. Per carità: tutto secondo protocollo, nulla di illecito.
MERCOLEDI’, DONZELLI assieme ad altri due consiglieri di minoranza, Paolo Marcheschi e Marina Staccioli, ha presentato un’interrogazione al governatore Rossi per chiedere spiegazioni. “Ci appare a dir poco indecente che i debiti creati dall’azienda di famiglia del premier siano stati pagati con soldi pubblici concessi in un momento in cui la crisi porta un imprenditore al suicidio ogni cinque giorni e in un Paese in cui l’accesso al credito è una delle maggiori difficoltà, insieme alla pressione fiscale, che riscontrano le aziende”, dice Donzelli. Da Rossi, prosegue, “vorremmo sapere perché la gestione dei fondi è stata affidata a Fidi senza alcuna gara, se e come ha valutato la domanda presentata da Chil, se la garanzia non deve essere revocata in caso di modifiche aziendali che trasformano radicalmente la società come è avvenuto alla Chil e, infine, se reputa corretto ed etico il comportamento della famiglia Renzi”. Secondo Donzelli “non dovrebbe essere prerogativa della Regione pagare, tramite fidi, i debiti dell’azienda di famiglia del presidente del Consiglio e del segretario del partito di maggioranza. E men che meno prerogativa dello Stato”.
d.vecchi@ilfattoquotidiano.it
da il Fatto Quotidiano dell’8 gennaio 2015
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/01 ... i/1328628/
Politica & Palazzo
Fidi Toscana ha saldato 236mila euro, parte del prestito concesso alla società di Tiziano Renzi. Ad ottobre è stata rimborsata dal ministero del Tesoro. Donzelli (Fdi): “Uso indecente dei soldi pubblici a fini familiari"
di Davide Vecchi | 10 gennaio 2015 COMMENTI
A saldare i debiti del padre ci pensa il governo del figlio. Debiti, tra l’altro, concessi da una banca guidata da un fedelissimo del figlio, già in società con il fratello del cognato, a sua volta socio in un’altra azienda di famiglia riconducibile alla madre. Cose che capitano in casa Renzi. La vicenda è complessa e gli intrecci sono molti, come gli attori coinvolti. Tutto ruota attorno alla Chil post, la società di Tiziano Renzi, dichiarata fallita nel marzo 2013 e sulla quale la Procura di Genova ha aperto un fascicolo iscrivendo nel registro degli indagati il padre del premier con l’accusa di bancarotta fraudolenta. Secondo i magistrati liguri, Tiziano avrebbe ceduto la parte sana dell’azienda alla Eventi 6 intestata alla moglie, Laura Bovoli, società che all’epoca dei fatti aveva tra i propri soci anche Alessandro Conticini, fratello di Andrea, marito di Matilde Renzi, sorella del premier e a sua volta socia nella Eventi 6.
ALLA CHIL POST rimangono così solo i debiti tra cui un mutuo di 496.717,65 euro stipulato nel luglio 2009 con il Credito Cooperativo di Pontassieve. Una cifra sostanziosa, concessa con un mutuo chirografario: senza accensione di ipoteche, quindi, ma solo basato sulle garanzie. La banca è guidata da Matteo Spanò, grande amico e sostenitore del premier. Nel 2005, Spanò era stato nominato direttore generale della Florence Multimedia, società della Provincia di Firenze creata dal neoeletto Renzi per la comunicazione e poi finita nel mirino della Corte dei conti che ha inizialmente ipotizzato un danno erariale di 10 milioni di euro. Non solo. Spanò era anche socio di Conticini nella Dot Media, società che ha ricevuto appalti diretti dal Comune, negli anni in cui Renzi è stato sindaco, e da altre controllate come la Firenze Parcheggi guidata dal fidatissimo Marco Carrai. Dot Media oggi cura fra l’altro la campagna elettorale dell’eurodeputata Alessandra Moretti candidata alla presidenza della Regione Veneto.
Diventato presidente della banca, Spanò elargisce il prestito alla Chil post di Tiziano Renzi che per ottenerlo riceve la copertura a garanzia del fondo per le piccole e medie imprese da Fidi Toscana spa della Regione guidata da Enrico Rossi e partecipata anche da Provincia e Comune di Firenze oltre alla Cassa di Risparmio nel cui board siede Carrai. Fidi Toscana delibera la copertura dell’80% e il 13 agosto 2009 la banca versa i soldi alla Chil. I ratei vengono regolarmente pagati per due anni. Poi la società, nel frattempo svuotata della parte sana e poi ceduta ad altri titolari (ora indagati assieme a Tiziano Renzi), non rispetta più i versamenti e dichiara il fallimento. Così nell’estate 2013, la banca, ammessa al passivo dal Tribunale fallimentare di Genova, si rivolge a Fidi ottenendo il versamento di 263.114,70 euro, l’80% dell’esposizione complessiva. E la vicenda potrebbe chiudersi qui. Invece, il 18 giugno 2014, il ministero dell’Economia delibera di rifondare Fidi di 236.803,23 euro e liquida la somma il 30 ottobre successivo attraverso il Fondo centrale di garanzia. E così il debito contratto dal padre di Renzi è stato coperto dallo Stato.
“La perdita sofferta sull’operazione per noi è stata di 26 mila euro”, afferma Gabriella Gori, alla guida di Fidi da appena una settimana. Si è insediata il 29 dicembre a seguito delle dimissioni di Leonardo Zamparella, costretto dal Cda a lasciare l’incarico perché condannato in primo grado a 2 anni e 4 mesi per concorso in bancarotta come vicedirettore vicario del settore leasing e factoring di Monte dei Paschi. Il cambio al timone è stato determinante per avere accesso alle informazioni sulla Chil a seguito delle richieste formulate in merito dal consigliere regionale Giovanni Donzelli, oggi candidato presidente della Toscana per Fratelli d’Italia. Le risposte sono arrivate il 30 dicembre: Gori ha redatto un documento in cui riassume l’intera vicenda, con la specifica dei versamenti da parte del Tesoro. Per carità: tutto secondo protocollo, nulla di illecito.
MERCOLEDI’, DONZELLI assieme ad altri due consiglieri di minoranza, Paolo Marcheschi e Marina Staccioli, ha presentato un’interrogazione al governatore Rossi per chiedere spiegazioni. “Ci appare a dir poco indecente che i debiti creati dall’azienda di famiglia del premier siano stati pagati con soldi pubblici concessi in un momento in cui la crisi porta un imprenditore al suicidio ogni cinque giorni e in un Paese in cui l’accesso al credito è una delle maggiori difficoltà, insieme alla pressione fiscale, che riscontrano le aziende”, dice Donzelli. Da Rossi, prosegue, “vorremmo sapere perché la gestione dei fondi è stata affidata a Fidi senza alcuna gara, se e come ha valutato la domanda presentata da Chil, se la garanzia non deve essere revocata in caso di modifiche aziendali che trasformano radicalmente la società come è avvenuto alla Chil e, infine, se reputa corretto ed etico il comportamento della famiglia Renzi”. Secondo Donzelli “non dovrebbe essere prerogativa della Regione pagare, tramite fidi, i debiti dell’azienda di famiglia del presidente del Consiglio e del segretario del partito di maggioranza. E men che meno prerogativa dello Stato”.
d.vecchi@ilfattoquotidiano.it
da il Fatto Quotidiano dell’8 gennaio 2015
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/01 ... i/1328628/
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