Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la SX?
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
Nel post precedente iospero ha esposto:
Una politica dei diritti e del lavoro che parta da una coalizione sociale è tutta da costruire
Più che vero.!!!!!
Proprio per questo motivo occorre andare oltre il solito modo di agire.
Per un progetto di questo genere, di grande respiro occorre il concorso di molti, di tutti.
E per questo che insisto, più testardo di un mulo, che sul forum devono approdare anche i Landini, i don Ciotti, gli Stefano Rodotà, i Gino Strada, gli Zagrebelsky, le Sandre Bonsanti, le Amalie Signorelli, i Marco Revelli, le Carlassare, ed anche per il contributo successivo, Nadia Urbinati.
E' proprio il suo lavoro che sottopongo alla vostra attenzione, perché l'impresa che si sta delineando non può non trascurare la realtà internazionale, e chi la governa, perché si opporrà con tutte le sue forze affinché in Italia possa consolidarsi una coalizione sociale del genere sopra proposto, perché manda a carte quarantotto il lungo lavorio degli ultimi 20 anni per distruggere la rappresentanza della sinistra.
^^^^^^^
La marcia trionfale dei ricchi globali
Analisi.
Una società divisa tra subalterni dentro lo Stato e plutocrati nei confini del loro potere globale
Nadia Urbinati, il manifesto •
27 feb 15 •
Per i classici, la tirannia era il solo vero rischio anti-democratico, nella forma individuale o di piccoli gruppi (di oligarchi).
La licenza e l’ingordigia per il potere erano le passioni a rischio di sovvertire l’ordine, spesso con il sostegno del più poveri, mesmerizzati dai demagoghi.
Lo scenario che ci possiamo attendere oggi è diverso: non masse anarchiche e in ebollizione, non guerrieri e oligarchi di ceto; ma masse di individui isolati negli stati-nazione e oli-garchi della finanza nei villaggi globali.
Una società divisa tra subalterni dentro i confini statali e plutocrati dentro i confini del loro potere globale.
Alla base, una convergenza di tutti i poteri che originariamente operavano separatamente, secondo il modello liberale classico: il potere economico, quello religioso e quello politico.
Sheldon Wolin ha chiamato questa nuova società un «totalitarismo invertito», nel quale pubblico e privato diventano simbiotici e perdono la loro specifica distintività.
«Invertito» non significa che una sfera prende il posto dell’altra (come col patrimonialismo).
Significa che l’una e l’altra sono in un rapporto di integra-zione totale (come la scuola statale e quella privata parificata che sono dette appartenere a un sistema pubblico integrato).
Convergono e danno luogo a qualche cosa di nuovo, una incorporazione di forme che erano separate.
E que¬sto spiega il lamento per il declino dei corpi intermedi: una società totalizzante.
Mentre alle origini della modernità, l’economia di mercato aveva promosso decentralizzazione e frantumato i monopoli (Adam Smith) stimolando la libertà economica e indirettamente l’espansione dei diritti, civili e politici, nella nostra società assistiamo a un processo molto diverso.
Qui, imprenditori e capitalisti finanziari alimentano il loro potere nella misura in cui cancellano la decentralizzazione e creano una società organica e incorporata, sia a livello nazionale che internazionale.
Si tratta di un ritorno al monopolio, non più nella forma di un bisogno tirannico di accumulo, come nel passato, ma nella forma organizzata da norme e abiti comportamentali che generano una classe di ricchi globali; una società a sé stante di persone che stilano tra loro contratti matrimoniali, che non hanno nazione e vivono nelle stesse città e negli stessi grattacieli.
Che si monitorano a vicenda, cercando di captare i mutamenti di fortuna. E creano istituzioni internazionali loro proprie con le quali determinare la vita degli stati, ovvero della classe dei senza-potere, che vivono dentro gli stati e se varcano i confini lo fanno per emigrare andando a rioccupare la stessa classe nel nuovo paese; una classe di milioni di disaggregati, illusi di essere liberi perché parte di social network.
Questa lettura mostra la traiettoria della modernità dall’individualismo all’olismo, da una società che riposava sul conflitto tra eroi individuali o di casato, e poi tra le classi organizzate in partiti, a una società che è un vero corpo omogeneo e unitario, sia negli strati bassi che in quelli alti.
E se e quando i conflitti esplodono, si tratta di eventi periferici (alcune fasce di precariato, questa o quella regione contro il centro, ecc.) che non cambiano il carattere dell’ordine globale e non ne incrinano l’organicità.
A provarlo basta pensare a questo: molte delle strategie sviluppate nella società moderna per rendere possibile la resistenza individuale a questa logica olistica stanno producendo l’effetto opposto.
Per esempio, i partiti di sinistra del ventesimo secolo avevano lo scopo di rivendicare i diritti dei molti contro l’abuso del potere dei pochi potenti; e usavano la sola arma che i deboli hanno da sempre: l’alleanza, l’unione, l’integrazione delle forze sparse. In questo modo riuscivano a resistere all’oligarchia industriale.
Ma il risultato, che sta sotto i nostri occhi, è molto diverso dalle aspettative o dalle intenzioni originarie: i partiti che si nominano di sinistra operano contro i diritti sociali e la dignità politica delle moltitudini mentre svolgono il ruolo di convincere i senza-potere che quel che occorre fare è assecondare la logica del sistema, quindi lavorare nel rischio e senza diritti e procurarsi una formazione funzionale alla loro oggettiva precarietà. La favola del merito è il nucleo di questa ideologia della subalternità.
La convergenza delle forze nel campo sociale e in quello economico ha vinto sulle resistenze e come esito abbiamo una massa di senza-potere senza organizzazioni di resistenza.
A questo punto resta ai deboli il populismo, che ripropone il vecchio mito collettivo del vox populi vox dei, salvo usarlo, come facevano gli antichi demagoghi, per attuare un cambio di leadership che non cambia la condizione dei molti. È ipocrita gridare allo scandalo contro il populismo, che non è il fenomeno scatenante ma il sintomo, retto sull’illusione data ai senza-potere di mutare la loro sorte.
Una politica dei diritti e del lavoro che parta da una coalizione sociale è tutta da costruire
Più che vero.!!!!!
Proprio per questo motivo occorre andare oltre il solito modo di agire.
Per un progetto di questo genere, di grande respiro occorre il concorso di molti, di tutti.
E per questo che insisto, più testardo di un mulo, che sul forum devono approdare anche i Landini, i don Ciotti, gli Stefano Rodotà, i Gino Strada, gli Zagrebelsky, le Sandre Bonsanti, le Amalie Signorelli, i Marco Revelli, le Carlassare, ed anche per il contributo successivo, Nadia Urbinati.
E' proprio il suo lavoro che sottopongo alla vostra attenzione, perché l'impresa che si sta delineando non può non trascurare la realtà internazionale, e chi la governa, perché si opporrà con tutte le sue forze affinché in Italia possa consolidarsi una coalizione sociale del genere sopra proposto, perché manda a carte quarantotto il lungo lavorio degli ultimi 20 anni per distruggere la rappresentanza della sinistra.
^^^^^^^
La marcia trionfale dei ricchi globali
Analisi.
Una società divisa tra subalterni dentro lo Stato e plutocrati nei confini del loro potere globale
Nadia Urbinati, il manifesto •
27 feb 15 •
Per i classici, la tirannia era il solo vero rischio anti-democratico, nella forma individuale o di piccoli gruppi (di oligarchi).
La licenza e l’ingordigia per il potere erano le passioni a rischio di sovvertire l’ordine, spesso con il sostegno del più poveri, mesmerizzati dai demagoghi.
Lo scenario che ci possiamo attendere oggi è diverso: non masse anarchiche e in ebollizione, non guerrieri e oligarchi di ceto; ma masse di individui isolati negli stati-nazione e oli-garchi della finanza nei villaggi globali.
Una società divisa tra subalterni dentro i confini statali e plutocrati dentro i confini del loro potere globale.
Alla base, una convergenza di tutti i poteri che originariamente operavano separatamente, secondo il modello liberale classico: il potere economico, quello religioso e quello politico.
Sheldon Wolin ha chiamato questa nuova società un «totalitarismo invertito», nel quale pubblico e privato diventano simbiotici e perdono la loro specifica distintività.
«Invertito» non significa che una sfera prende il posto dell’altra (come col patrimonialismo).
Significa che l’una e l’altra sono in un rapporto di integra-zione totale (come la scuola statale e quella privata parificata che sono dette appartenere a un sistema pubblico integrato).
Convergono e danno luogo a qualche cosa di nuovo, una incorporazione di forme che erano separate.
E que¬sto spiega il lamento per il declino dei corpi intermedi: una società totalizzante.
Mentre alle origini della modernità, l’economia di mercato aveva promosso decentralizzazione e frantumato i monopoli (Adam Smith) stimolando la libertà economica e indirettamente l’espansione dei diritti, civili e politici, nella nostra società assistiamo a un processo molto diverso.
Qui, imprenditori e capitalisti finanziari alimentano il loro potere nella misura in cui cancellano la decentralizzazione e creano una società organica e incorporata, sia a livello nazionale che internazionale.
Si tratta di un ritorno al monopolio, non più nella forma di un bisogno tirannico di accumulo, come nel passato, ma nella forma organizzata da norme e abiti comportamentali che generano una classe di ricchi globali; una società a sé stante di persone che stilano tra loro contratti matrimoniali, che non hanno nazione e vivono nelle stesse città e negli stessi grattacieli.
Che si monitorano a vicenda, cercando di captare i mutamenti di fortuna. E creano istituzioni internazionali loro proprie con le quali determinare la vita degli stati, ovvero della classe dei senza-potere, che vivono dentro gli stati e se varcano i confini lo fanno per emigrare andando a rioccupare la stessa classe nel nuovo paese; una classe di milioni di disaggregati, illusi di essere liberi perché parte di social network.
Questa lettura mostra la traiettoria della modernità dall’individualismo all’olismo, da una società che riposava sul conflitto tra eroi individuali o di casato, e poi tra le classi organizzate in partiti, a una società che è un vero corpo omogeneo e unitario, sia negli strati bassi che in quelli alti.
E se e quando i conflitti esplodono, si tratta di eventi periferici (alcune fasce di precariato, questa o quella regione contro il centro, ecc.) che non cambiano il carattere dell’ordine globale e non ne incrinano l’organicità.
A provarlo basta pensare a questo: molte delle strategie sviluppate nella società moderna per rendere possibile la resistenza individuale a questa logica olistica stanno producendo l’effetto opposto.
Per esempio, i partiti di sinistra del ventesimo secolo avevano lo scopo di rivendicare i diritti dei molti contro l’abuso del potere dei pochi potenti; e usavano la sola arma che i deboli hanno da sempre: l’alleanza, l’unione, l’integrazione delle forze sparse. In questo modo riuscivano a resistere all’oligarchia industriale.
Ma il risultato, che sta sotto i nostri occhi, è molto diverso dalle aspettative o dalle intenzioni originarie: i partiti che si nominano di sinistra operano contro i diritti sociali e la dignità politica delle moltitudini mentre svolgono il ruolo di convincere i senza-potere che quel che occorre fare è assecondare la logica del sistema, quindi lavorare nel rischio e senza diritti e procurarsi una formazione funzionale alla loro oggettiva precarietà. La favola del merito è il nucleo di questa ideologia della subalternità.
La convergenza delle forze nel campo sociale e in quello economico ha vinto sulle resistenze e come esito abbiamo una massa di senza-potere senza organizzazioni di resistenza.
A questo punto resta ai deboli il populismo, che ripropone il vecchio mito collettivo del vox populi vox dei, salvo usarlo, come facevano gli antichi demagoghi, per attuare un cambio di leadership che non cambia la condizione dei molti. È ipocrita gridare allo scandalo contro il populismo, che non è il fenomeno scatenante ma il sintomo, retto sull’illusione data ai senza-potere di mutare la loro sorte.
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
Ripropongo un tema già affrontato in passato, ma sempre attualissimo
Eliminare il denaro contante: la strada ineluttabile per una società più giusta e più sicura
La bravissima giornalista Milena Gabanelli, nei giorni scorsi, ha lanciato l'idea di tassare il denaro contante per incentivare i pagamenti elettronici. La proposta è stata ripresa da diversi media ed anche alcune trasmissioni televisive (ieri sera, per citare l'ultima, da “L'Infedele” di Gad Lerner su La7). Lo scalpore che proposte come questa generano (a Settembre proponemmo qualcosa di simile, solo più articolato: “Una riforma radicale del fisco”) derivano in larga parte dalla scarsa conoscenza della materia che talvolta affligge gli stessi sostenitori.
I benefici che deriverebbero dalla totale eliminazione del denaro contante sono talmente enormi che sembra superfluo soffermarcisi troppo. Il denaro contante è la linfa nella quale prospera ogni forma di criminalità e di illegalità: dalle mafie alla criminalità comune, dalla corruzione all'evasione fiscale.
Le obiezioni che solitamente si muovono all'eliminazione del denaro contante riguardano la sfera della libertà individuale e quella della privacy. Entrambe sono totalmente prive di fondamento a patto che i sistemi di pagamento elettronico vengano accuratamente progettati sfruttando le tecnologie moderne.
In primo luogo è necessario ricordare che la maggioranza del denaro esistete nel mondo è già elettronico. Il denaro fisico (monete e banconote) rappresenta meno del 5% della massa monetaria in circolazione che è composta, per la gran parte, da “bit” residenti nei computer delle banche. Il denaro fisico circola molto più velocemente del denaro elettronico e questo è causato essenzialmente dalla tecnologia che solo fino a pochi anni fa non era in grado di produrre un portafoglio elettronico affidabile che potesse sostituire quello fisico. Oggi non è più così.
Oggi la tecnologia consente di produrre dei portafogli elettronici che consentono di scambiarsi moneta elettronica nella massima sicurezza e nel rispetto della privacy. Portafogli che dovrebbero essere “caricati” dal proprio conto corrente (idealmente anche attraverso i “Bancomat”) e che potrebbero trasferire sul portafoglio elettronico ricevente null'altro che l'importo, esattamente come accade per la moneta fisica. Successivamente i portafogli elettronici dovrebbero trasferire la moneta elettronica sul proprio conto corrente. La tecnologia lo consente, si tratta solo di volerlo realizzare.
Ovviamente questi portafogli elettronici sono adatti per i micropagamenti (il ristorante, il bar, il venditore ambulante, ecc.) mentre per i grandi pagamenti si dovrebbero continuare ad utilizzare i sistemi di trasferimento del denaro elettronico già oggi utilizzati e che prevedono la tracciabilità.
Naturalmente i limiti relativi agli importi trasferibili dovrebbero essere configurabili dagli utenti (il portafoglio per il giovane adolescente è diverso da quello del negoziante) seguendo dei regolamenti imposti dallo stato (così come oggi lo stato regolamenta molti dettagli sui trasferimenti elettronici).
Eliminare il contante per i micro-pagamenti è il prerequisito per l'eliminazione totale del denaro contante e quindi dell'impiego del contante per la criminalità e l'illegalità di ogni sorta.
Eliminare il contante è possibile, manca la volontà politica, e si comprende il perché.
La ragione, però, non risiede solo nei fortissimi interessi che questa riforma va a ledere.
Manca anche la presa di coscienza da parte di quella maggioranza della popolazione che ricaverebbe un vantaggio superiore rispetto a qualsiasi altra riforma economica immaginabile.
Ancora non c'è una maggioranza favorevole all'abolizione del denaro contante perché non c'è ancora sufficiente conoscenza della materia. Si dovrebbe necessariamente procedere per gradi, favorendo in tutti i modi la produzione diffusione dei portafogli elettronici.
Solo dopo una capillare diffusione dei portafogli elettronici (a carico delle banche centrali, al pari del denaro contante) si potrebbe procedere con la tassazione dello stesso denaro contante.
Le due cose combinate porterebbero finalmente all'eliminazione del denaro contante in maniera quasi automatica e con essi sparirebbe la maggior parte della criminalità e dell'illegalità.
Eliminare il denaro contante: la strada ineluttabile per una società più giusta e più sicura
La bravissima giornalista Milena Gabanelli, nei giorni scorsi, ha lanciato l'idea di tassare il denaro contante per incentivare i pagamenti elettronici. La proposta è stata ripresa da diversi media ed anche alcune trasmissioni televisive (ieri sera, per citare l'ultima, da “L'Infedele” di Gad Lerner su La7). Lo scalpore che proposte come questa generano (a Settembre proponemmo qualcosa di simile, solo più articolato: “Una riforma radicale del fisco”) derivano in larga parte dalla scarsa conoscenza della materia che talvolta affligge gli stessi sostenitori.
I benefici che deriverebbero dalla totale eliminazione del denaro contante sono talmente enormi che sembra superfluo soffermarcisi troppo. Il denaro contante è la linfa nella quale prospera ogni forma di criminalità e di illegalità: dalle mafie alla criminalità comune, dalla corruzione all'evasione fiscale.
Le obiezioni che solitamente si muovono all'eliminazione del denaro contante riguardano la sfera della libertà individuale e quella della privacy. Entrambe sono totalmente prive di fondamento a patto che i sistemi di pagamento elettronico vengano accuratamente progettati sfruttando le tecnologie moderne.
In primo luogo è necessario ricordare che la maggioranza del denaro esistete nel mondo è già elettronico. Il denaro fisico (monete e banconote) rappresenta meno del 5% della massa monetaria in circolazione che è composta, per la gran parte, da “bit” residenti nei computer delle banche. Il denaro fisico circola molto più velocemente del denaro elettronico e questo è causato essenzialmente dalla tecnologia che solo fino a pochi anni fa non era in grado di produrre un portafoglio elettronico affidabile che potesse sostituire quello fisico. Oggi non è più così.
Oggi la tecnologia consente di produrre dei portafogli elettronici che consentono di scambiarsi moneta elettronica nella massima sicurezza e nel rispetto della privacy. Portafogli che dovrebbero essere “caricati” dal proprio conto corrente (idealmente anche attraverso i “Bancomat”) e che potrebbero trasferire sul portafoglio elettronico ricevente null'altro che l'importo, esattamente come accade per la moneta fisica. Successivamente i portafogli elettronici dovrebbero trasferire la moneta elettronica sul proprio conto corrente. La tecnologia lo consente, si tratta solo di volerlo realizzare.
Ovviamente questi portafogli elettronici sono adatti per i micropagamenti (il ristorante, il bar, il venditore ambulante, ecc.) mentre per i grandi pagamenti si dovrebbero continuare ad utilizzare i sistemi di trasferimento del denaro elettronico già oggi utilizzati e che prevedono la tracciabilità.
Naturalmente i limiti relativi agli importi trasferibili dovrebbero essere configurabili dagli utenti (il portafoglio per il giovane adolescente è diverso da quello del negoziante) seguendo dei regolamenti imposti dallo stato (così come oggi lo stato regolamenta molti dettagli sui trasferimenti elettronici).
Eliminare il contante per i micro-pagamenti è il prerequisito per l'eliminazione totale del denaro contante e quindi dell'impiego del contante per la criminalità e l'illegalità di ogni sorta.
Eliminare il contante è possibile, manca la volontà politica, e si comprende il perché.
La ragione, però, non risiede solo nei fortissimi interessi che questa riforma va a ledere.
Manca anche la presa di coscienza da parte di quella maggioranza della popolazione che ricaverebbe un vantaggio superiore rispetto a qualsiasi altra riforma economica immaginabile.
Ancora non c'è una maggioranza favorevole all'abolizione del denaro contante perché non c'è ancora sufficiente conoscenza della materia. Si dovrebbe necessariamente procedere per gradi, favorendo in tutti i modi la produzione diffusione dei portafogli elettronici.
Solo dopo una capillare diffusione dei portafogli elettronici (a carico delle banche centrali, al pari del denaro contante) si potrebbe procedere con la tassazione dello stesso denaro contante.
Le due cose combinate porterebbero finalmente all'eliminazione del denaro contante in maniera quasi automatica e con essi sparirebbe la maggior parte della criminalità e dell'illegalità.
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
Eliminato il contante resterebbe da fare
Una riforma radicale del fisco
di Alessandro Pedone
Paul Watzlawick ci ha insegnato che quando un problema è incancrenito, tentare di risolverlo con “soluzioni” che appartengono alla stessa “dimensione” del problema che si cerca di risolvere non fa altro che aggravarlo. Se un determinato problema non ha trovato una soluzione dopo molti tentativi, l'unico modo per risolverlo è un cambio di paradigma. Bisogna “uscire” dalla logica di fondo che ha dominato sia il “problema” che i “tentativi di soluzione” ed agire su una diversa dimensione.
Il fisco, o meglio l'evasione fiscale, è senza alcun dubbio un esempio tipico di problema incancrenito. In Italia il problema è di dimensioni colossali, ma –con diverse proporzioni– l'evasione fiscale è una piaga che colpisce un po' tutte le nazioni.
Quasi a nessuno piace pagare le tasse. Per cercare di stanare gli evasori si spendono –giustamente– moltissimi soldi e si creano una serie infinita di regole che costano moltissimo, in termini di tempo e non solo, e che gravano principalmente su coloro che le tasse le pagano.
Il risultato è che ogni nazione ha una quota di sommerso più o meno grande, ma sempre molto significativa. Casi come l'Italia e la Grecia sono clamorosi, ma anche nelle nazioni più “virtuose” l'evasione rappresenta comunque quote significative del PIL e le risorse impiegate per gestire i prelievi fiscali sono molto ingenti.
Un po' in tutte le nazioni economicamente sviluppate, le entrate fiscali sono costituite principalmente dalla tassazione sul reddito prodotto e dalla così detta “imposta sul valore aggiunto”, ovvero l'IVA.
In Italia, dei circa 410 miliardi di euro di entrate tributarie, circa 180 sono imposte sui redditi delle persone fisiche. Circa 40 miliardi sono imposte sui redditi delle imprese. Circa 100 miliardi vengono dell'IVA, il resto da tasse varie (accise, gioco d'azzardo, imposte di registro, bolli, successioni, ecc.).
Le stime relative all'economia sommersa variano da un circa 15% del PIL fino ad arrivare al 35-40%. Qualunque sia la stima corretta, vi sono spazi enormi di abbassamento delle aliquote se tutti pagassero le tasse, ma ridurre pressoché a zero l'evasione fiscale, in questo conteso, è del tutto utopistico.
Chi paga le tasse è soggetto ad un carico fiscale enorme (in rapporto ai propri redditi) e chi non le paga, si giustifica, moralmente, sostenendo che la percentuale di tassazione è impossibile da sostenere. Sarebbe necessario fare un salto logico, cambiare le regole del gioco.
Tassare i redditi: ingiusto e inefficace
Tradizionalmente si è sempre ritenuto che ciascuno contribuente dovesse pagare le tasse sulla base del reddito che produce. Questo è l'errore di fondo del sistema fiscale (non solo italiano).
La produzione di reddito ed il valore aggiunto dei beni e servizi scambiati non devono essere tassati. Produrre reddito e valore aggiunto dovrebbe essere incentivato, non tassato.
Il possesso di beni, al contrario, è una base imponibile (se l'aliquota è ovviamente molto contenuta e perfettamente sostenibile) più rispondente al concetto di “parità dei punti di partenza, non dei punti di arrivo”.
E' un principio comune a molte democrazie, comprese la nostra, che i cittadini debbano contribuire alle spese dello Stato “in ragione della loro capacità contributiva” (art. 53 della Costituzione italiana). Per capacità contributiva si è quasi esclusivamente fatto sempre riferimento ai redditi, ma ciò è ingiusto.
Se una persona, oltre al reddito di 50.000 euro lordi possiede tre appartamenti e un milione di euro in banca, si può dire che abbia la stessa capacità contributiva di una persona che ha lo stesso reddito, una casa con un mutuo e 10.000 euro in banca?
La capacità contributiva dovrebbe essere valutata principalmente per ciò che un cittadino possiede, non per il reddito che produce. Il reddito si tradurrà in patrimonio ed in quel momento deve essere tassato. Se si tassa maggiormente chi produce e non chi possiede, si ottiene il risultato di premiare il possesso improduttivo e penalizzare la capacità di produzione.
C'è un secondo fattore da considerare. Le funzioni principali dello Stato sono quelle di garantire alcuni servizi essenziali come sicurezza, giustizia (nel senso di soluzione delle controversie), infrastrutture, salute ed istruzione. Togliendo le ultime due, si può affermare che coloro che possiedono di più usufruiscono maggiormente –direttamente o indirettamente– delle funzioni essenziali dello Stato. Chi possiede molti immobili, ad esempio, ha più interesse a veder tutelato il proprio patrimonio sia in termini di sicurezza, infrastrutture, tutela giuridica, ecc. E' giusto che chi possiede di più, partecipi allo spese dello stato in proporzione maggiore anche perché ne usufruisce di più.
Se si può discutere circa l'equità della tassazione sui redditi, è indiscutibile che questa forma di imposizione fiscale presti il fianco ad una serie infinita di comportamenti elusivi ed evasivi. Giusta o non giusta che sia, la tassazione sui redditi semplicemente non funziona!
I grandi numeri di una rivoluzione radicale del fisco
Una rivoluzione radicale del fisco dovrebbe partire quindi dall'eliminazione dell'IRE (ex IRPEF) e dell'IVA.
Nessuna dichiarazione dei redditi per le persone fisiche! Questo può apparire utopistico, ma non è così.
I numeri dimostrano che sarebbe possibile sostituire il gettito di queste imposte con due tipologie di tasse: 1) l'imposta sul possesso di beni immobili e finanziari e 2) imposta sulle transazioni monetarie. Vediamo un po' di numeri.
Gli italiani possiedono circa 6.300 miliardi di euro di immobili residenziali.
Questa è una stima effettuata dall'Agenzia del Territorio, incrociando i dati catastali e quelli dalle dichiarazione dei redditi.
Non esistono dati altrettanto ufficiali sul valore degli immobili non residenziali. Secondo i dati di uffici studi specializzati e affidabili (come Nomisma e Scenari Immobiliari) il valore del settore non residenziale è circa un quarto del residenziale. Il valore complessivo del patrimonio immobiliare, residenziale e non residenziale italiano, in mano ai privati, si aggira quindi sui 7.800 miliardi di euro.
Il patrimonio finanziario delle famiglie italiane, secondo la Banca d'Italia, si aggira intorno a 3.500 miliardi di euro. Non esistono dati simili relativi al complesso delle imprese (i bilanci non sono sufficienti perché la maggior parte delle imprese non sono di capitali).
Il complesso delle transazioni bancarie (in prevalenza bonifici) che vengono effettuate ogni anno, -sempre secondo la Banca d'Italia- si aggira intorno ai 10.000 miliardi di euro, escludendo le carte di credito che sono poca cosa. I pagamenti effettuati in moneta sono stimati in circa 4.500 miliardi.
Da questi numeri si evince che un'aliquota media relativamente contenuta, nell'ordine dell' 1,6-2%, sul patrimonio e dello 0,75-1% sulle transazioni monetarie (sia per chi riceve che per chi trasferisce) consentirebbero di avere un gettito fiscale complessivo identico a quello attuale, cioè intorno ai 410 miliardi di euro. Applicando queste due imposte si potrebbero eliminare tutte le altre tasse. Niente più complicazioni fiscali, con tutti i costi -diretti e indiretti– che essa implica, nessuna possibilità di evadere, ma sopratutto un vantaggio enorme in termini di libertà economica ed una spinta all'economia potentissima.
Proviamo ad immaginare gli effetti della contemporanea eliminazione dell'IVA e della tassazione sui redditi. L'impulso che ciò provocherebbe alla capacità di spesa sarebbe potentissimo.
Chi paga tutte queste tasse evitate? Per una buona parte tutti coloro che precedentemente non pagavano tasse (l'economia sommersa che riemergerebbe immediatamente sotto la forma di transazione monetaria e possesso di beni) e che in questo sistema si troverebbero a pagare una percentuale di tasse assolutamente accettabile. Per il resto, si attuerebbe una significativa traslazione del carico fiscale verso i cittadini che hanno un patrimonio elevato rispetto ai cittadini senza patrimonio.
]Imposta sul possesso
Anche uno schema tributario estremamente semplice, basato su due sole imposte, richiede ovviamente un'ampia diversificazione delle aliquote per tenere nella giusta considerazione una serie di casistiche. Sarebbe abbastanza ingiusto, ad esempio, tassare molto di più il proprietario di un bilocale a Milano rispetto al possessore di una villetta in un paesino montano a causa del fatto che il valore del bilocale in centro a Milano è superiore.
L'aliquota sul possesso non potrebbe essere unica. Dovrebbe essere diversificata sia in base al bene (la prima casa, ad esempio, non può essere equiparata alle case successive, né una casa in affitto dovrebbe avere la stessa aliquota di una casa di villeggiatura) ed il valore dell'immobile dovrebbe essere in parte legato al valore di mercato ed in parte legato alla consistenza, alle caratteristiche ed alla destinazione. Dovrebbero essere affrontati e regolamentati i casi di coloro che perdono momentaneamente le fonti di reddito.
Mediamente comunque, l'aliquota sul possesso può oscillare tra l'1% ed il 2% annuo.
Nel rispetto del principio costituzionale di progressività, inoltre, si dovrebbero prevedere delle aliquote progressivamente superiori all'aumentare del patrimonio complessivo del contribuente.
Si potrebbe pensare che la tassazione sul possesso di beni finanziari ponga delle problematiche legate alla fuga di capitali all'estero. A ben vedere, però, una tassazione contenuta, nell'ordine dell'1-2% massimo del patrimonio finanziario, in congiunzione con un'appropriata politica fiscale sui trasferimenti monetari (si veda il paragrafo successivo) non dovrebbe implicare movimenti significativi di capitali all'estero, potrebbero esservi anche casi di convenienza al rientro dei capitali.
C'è da considerare che la tassazione sul possesso dei beni finanziari elimina la tassazione sulle rendite finanziarie che attualmente è pari al 20% (dal 2012). Ciò significa che, ipotizzando un rendimento del 5%, il patrimonio subirebbe comunque, anche nel contesto attuale, una tassazione dell'1%.
Il gettito derivante dalla tassazione delle patrimonio finanziario, comunque, è pari solo al 15% del gettito complessivo. Si potrebbe quindi procedere con gradualità monitorando gli effetti.
Imposta sulle transazioni
Ipotizzando un'aliquota media per i trasferimenti monetari dello 0,75%, circa il 50% del gettito fiscale complessivo ipotizzato dovrebbe arrivare dall'imposta sulle transazioni monetarie. Il grosso delle transazioni monetarie ufficiali avviene per bonifici bancari od altre forme di transazioni bancarie e postali (assegni, vaglia, carte di credito, ecc). Le transazioni in contanti, per ovvie ragioni, possono essere solo stimate e secondo le indagini della Banca d'Italia sono nell'ordine del 45% delle transazioni bancarie.
E' ovvio che le transazioni in contanti dovrebbero essere fortemente scoraggiate.
La progressiva eliminazione del denaro contante avrebbe effetti estremamente positivi anche sul piano della lotta alla criminalità ed alla corruzione.
E' possibile ridurre drasticamente l'uso del denaro contante applicando un'imposta molto elevata, nell'ordine del 5%, ai versamenti ed ai prelievi in contanti superiori ad una certa soglia, diciamo – a titolo d'esempio - 500 euro giornalieri o 2.500 euro mensili. Agli esercizi commerciali si potrebbe consentire di praticare un sovrapprezzo per i pagamenti in contati pari alla differenza fra l'imposta sui versamenti in contanti ed l'imposta sulla transazioni bancarie.
In un contesto del genere l'uso del denaro liquido verrebbe drasticamente ridimensionato.
Progressivamente, anche per gli acquisti minuti come il giornale ed il caffè l'uso del denaro elettronico potrebbe diventare prassi.
Radicale, ma graduale
E' evidente che, a regime, un sistema tributario basato su due sole imposte, quella sul possesso e quella sulle transazioni monetarie, sarebbe radicalmente diverso dal sistema attuale. E' possibile, però, ipotizzare un sistema nel quale conviva l'attuale con un embrione di nuovo sistema tributario che nasca da una sorta di patto fiscale con i cittadini. I passi potrebbero essere i seguenti.
1) La prima fase è necessariamente di tipo culturale. E' indispensabile un dibattito di molti mesi su un progetto del genere con il contributo del maggior numero di voci possibili. Alla fine di questa fase si dovrebbe giungere all'obiettivo condiviso di eliminazione totale di tutte le imposte attuali e l'introduzione delle due nuove imposte (sul patrimonio e sulle transazioni monetarie) nell'arco di alcuni anni.
2) Nella prima fase, della durata di 3 anni, si introducono queste due imposte, con un'aliquota minimale valida per tutti pari allo 0,1%. Questa fase dovrebbe servire a rodare il nuovo sistema sulla base dei numeri effettivi. L'aliquota dello 0,1% dovrebbe produrrebbe un gettito intorno a 20 miliardi all'anno che sarebbero integralmente destinati a ridurre il debito pubblico.
3) Superata la prima fase di tre anni, si ridurrebbe, IRE (ex IRPEF) e l'IVA del 30% e si eliminerebbero completamente tutte le altre tasse minori (come le accise sulla benzina, ticket sulla sanità, ecc) che non hanno una funzione regolatrice dell'accesso ai servizi pubblici. Si aumenterebbero le aliquote delle nuove imposte iniziando a modularle sulla base delle informazioni acquisite nei tre anni precedenti e sugli obiettivi di equità fiscale che si desidera raggiungere. In questa fase si dovrebbe introdurre anche l'imposta sul versamento ed i prelievi di contanti nella misura almeno del 1% per monitorare l'impatto che questa misura ha sull'uso del contante. Questa fase avrebbe una durata di 2 anni.
4) La penultima fase vedrebbe l'abbattimento dell'IVA ed una riduzione significativa e dell'IRE (ex IRPEF) con conseguente aumento delle aliquote delle due nuove imposte nonché un aumento consistente, intorno al 3% per l'imposta sui versamenti e prelievi di contanti. Questa fase dovrebbe durare alcuni anni (dai 3 ai 5) in modo da monitorare l'impatto di questa nuova fiscalità al variare del ciclo economico. Uno degli aspetti da considerare, infatti, è l'eventuale volatilità del gettito. In presenza di fenomeni di volatilità significativa, andrebbero apportati correttivi al bilancio pubblico al fine creare aggiustamenti contabili per il ciclo economico.
5) L'ultima fase, come è ovvio, vedrebbe l'eliminazione completa delle imposte sui redditi ed il conseguente innalzamento delle aliquote dell'imposta sui trasferimenti e di quella sul possesso al livello che dovrebbe essere definitivo. Nel caso in cui il fenomeno dell'uso massiccio del contante non fosse ancora debellato, si dovrebbe innalzare la tassazione sui versamenti e prelievi a livelli molto scoraggianti nell'ordine del 5%.
La soluzione del problema del debito pubblico
Al termine di questo processo graduale, il risultato dovrebbe essere un significativo aumento del gettito fiscale ed al contempo un aumento significativo del PIL, non solo per lo stimolo all'attività economica che deriverebbe dall'aumento del potere di acquisto della maggior parte della popolazione, ma anche per l'emersione di una fetta importante di economia sommersa che esiste ma non fa PIL perché non è rilevata dalle statistiche (il PIL include una parte di sommerso, ma le stime dell'ISTAT sono decisamente troppo “conservative” secondo molti altri studiosi della materia).
Come è noto, le tre leve sulle quali è necessario agire per riportare il rapporto Debito/Pil a livelli accettabili (inferiore al 60%) sono:
- ridurre l'enorme costo della macchina pubblica (è intollerabile che lo stato assorba circa la metà del PIL!)
- aumentare il gettito fiscale
- aumentare il PIL
La radicale riforma fiscale proposta agirebbe su due delle tre leve con buone speranze di riportarlo a livelli accettabili nell'arco di un decennio circa (a patto che si riesca – quantomeno – a contenere l'intollerabile ingordigia dell'apparato statale, ovviamente).
Conclusioni
Ho studiato a lungo i dettagli di questa possibile riforma radicale del fisco. E' evidente che questo meccanismo non è esente da difetti, come nessun sistema fiscale è esente da difetti. I vantaggi di un sistema del genere, però, a mio avviso sarebbero enormi rispetto ai problemi e soprattutto rispetto agli enormi svantaggi del sistema attuale. Tecnicamente i numeri ci dicono che sarebbe sufficiente applicare un'aliquota più che accettabile, mediamente inferiore al 2% all'anno sul patrimonio e inferiore all'1% sui trasferimenti monetari per arrivare al gettito fiscale attuale, eliminando completamente l'imposta sui redditi delle persone fisiche e l'imposta sul valore aggiunto (IVA). Mi sembra un dato di conoscenza molto significativo.
Una riforma radicale del fisco
di Alessandro Pedone
Paul Watzlawick ci ha insegnato che quando un problema è incancrenito, tentare di risolverlo con “soluzioni” che appartengono alla stessa “dimensione” del problema che si cerca di risolvere non fa altro che aggravarlo. Se un determinato problema non ha trovato una soluzione dopo molti tentativi, l'unico modo per risolverlo è un cambio di paradigma. Bisogna “uscire” dalla logica di fondo che ha dominato sia il “problema” che i “tentativi di soluzione” ed agire su una diversa dimensione.
Il fisco, o meglio l'evasione fiscale, è senza alcun dubbio un esempio tipico di problema incancrenito. In Italia il problema è di dimensioni colossali, ma –con diverse proporzioni– l'evasione fiscale è una piaga che colpisce un po' tutte le nazioni.
Quasi a nessuno piace pagare le tasse. Per cercare di stanare gli evasori si spendono –giustamente– moltissimi soldi e si creano una serie infinita di regole che costano moltissimo, in termini di tempo e non solo, e che gravano principalmente su coloro che le tasse le pagano.
Il risultato è che ogni nazione ha una quota di sommerso più o meno grande, ma sempre molto significativa. Casi come l'Italia e la Grecia sono clamorosi, ma anche nelle nazioni più “virtuose” l'evasione rappresenta comunque quote significative del PIL e le risorse impiegate per gestire i prelievi fiscali sono molto ingenti.
Un po' in tutte le nazioni economicamente sviluppate, le entrate fiscali sono costituite principalmente dalla tassazione sul reddito prodotto e dalla così detta “imposta sul valore aggiunto”, ovvero l'IVA.
In Italia, dei circa 410 miliardi di euro di entrate tributarie, circa 180 sono imposte sui redditi delle persone fisiche. Circa 40 miliardi sono imposte sui redditi delle imprese. Circa 100 miliardi vengono dell'IVA, il resto da tasse varie (accise, gioco d'azzardo, imposte di registro, bolli, successioni, ecc.).
Le stime relative all'economia sommersa variano da un circa 15% del PIL fino ad arrivare al 35-40%. Qualunque sia la stima corretta, vi sono spazi enormi di abbassamento delle aliquote se tutti pagassero le tasse, ma ridurre pressoché a zero l'evasione fiscale, in questo conteso, è del tutto utopistico.
Chi paga le tasse è soggetto ad un carico fiscale enorme (in rapporto ai propri redditi) e chi non le paga, si giustifica, moralmente, sostenendo che la percentuale di tassazione è impossibile da sostenere. Sarebbe necessario fare un salto logico, cambiare le regole del gioco.
Tassare i redditi: ingiusto e inefficace
Tradizionalmente si è sempre ritenuto che ciascuno contribuente dovesse pagare le tasse sulla base del reddito che produce. Questo è l'errore di fondo del sistema fiscale (non solo italiano).
La produzione di reddito ed il valore aggiunto dei beni e servizi scambiati non devono essere tassati. Produrre reddito e valore aggiunto dovrebbe essere incentivato, non tassato.
Il possesso di beni, al contrario, è una base imponibile (se l'aliquota è ovviamente molto contenuta e perfettamente sostenibile) più rispondente al concetto di “parità dei punti di partenza, non dei punti di arrivo”.
E' un principio comune a molte democrazie, comprese la nostra, che i cittadini debbano contribuire alle spese dello Stato “in ragione della loro capacità contributiva” (art. 53 della Costituzione italiana). Per capacità contributiva si è quasi esclusivamente fatto sempre riferimento ai redditi, ma ciò è ingiusto.
Se una persona, oltre al reddito di 50.000 euro lordi possiede tre appartamenti e un milione di euro in banca, si può dire che abbia la stessa capacità contributiva di una persona che ha lo stesso reddito, una casa con un mutuo e 10.000 euro in banca?
La capacità contributiva dovrebbe essere valutata principalmente per ciò che un cittadino possiede, non per il reddito che produce. Il reddito si tradurrà in patrimonio ed in quel momento deve essere tassato. Se si tassa maggiormente chi produce e non chi possiede, si ottiene il risultato di premiare il possesso improduttivo e penalizzare la capacità di produzione.
C'è un secondo fattore da considerare. Le funzioni principali dello Stato sono quelle di garantire alcuni servizi essenziali come sicurezza, giustizia (nel senso di soluzione delle controversie), infrastrutture, salute ed istruzione. Togliendo le ultime due, si può affermare che coloro che possiedono di più usufruiscono maggiormente –direttamente o indirettamente– delle funzioni essenziali dello Stato. Chi possiede molti immobili, ad esempio, ha più interesse a veder tutelato il proprio patrimonio sia in termini di sicurezza, infrastrutture, tutela giuridica, ecc. E' giusto che chi possiede di più, partecipi allo spese dello stato in proporzione maggiore anche perché ne usufruisce di più.
Se si può discutere circa l'equità della tassazione sui redditi, è indiscutibile che questa forma di imposizione fiscale presti il fianco ad una serie infinita di comportamenti elusivi ed evasivi. Giusta o non giusta che sia, la tassazione sui redditi semplicemente non funziona!
I grandi numeri di una rivoluzione radicale del fisco
Una rivoluzione radicale del fisco dovrebbe partire quindi dall'eliminazione dell'IRE (ex IRPEF) e dell'IVA.
Nessuna dichiarazione dei redditi per le persone fisiche! Questo può apparire utopistico, ma non è così.
I numeri dimostrano che sarebbe possibile sostituire il gettito di queste imposte con due tipologie di tasse: 1) l'imposta sul possesso di beni immobili e finanziari e 2) imposta sulle transazioni monetarie. Vediamo un po' di numeri.
Gli italiani possiedono circa 6.300 miliardi di euro di immobili residenziali.
Questa è una stima effettuata dall'Agenzia del Territorio, incrociando i dati catastali e quelli dalle dichiarazione dei redditi.
Non esistono dati altrettanto ufficiali sul valore degli immobili non residenziali. Secondo i dati di uffici studi specializzati e affidabili (come Nomisma e Scenari Immobiliari) il valore del settore non residenziale è circa un quarto del residenziale. Il valore complessivo del patrimonio immobiliare, residenziale e non residenziale italiano, in mano ai privati, si aggira quindi sui 7.800 miliardi di euro.
Il patrimonio finanziario delle famiglie italiane, secondo la Banca d'Italia, si aggira intorno a 3.500 miliardi di euro. Non esistono dati simili relativi al complesso delle imprese (i bilanci non sono sufficienti perché la maggior parte delle imprese non sono di capitali).
Il complesso delle transazioni bancarie (in prevalenza bonifici) che vengono effettuate ogni anno, -sempre secondo la Banca d'Italia- si aggira intorno ai 10.000 miliardi di euro, escludendo le carte di credito che sono poca cosa. I pagamenti effettuati in moneta sono stimati in circa 4.500 miliardi.
Da questi numeri si evince che un'aliquota media relativamente contenuta, nell'ordine dell' 1,6-2%, sul patrimonio e dello 0,75-1% sulle transazioni monetarie (sia per chi riceve che per chi trasferisce) consentirebbero di avere un gettito fiscale complessivo identico a quello attuale, cioè intorno ai 410 miliardi di euro. Applicando queste due imposte si potrebbero eliminare tutte le altre tasse. Niente più complicazioni fiscali, con tutti i costi -diretti e indiretti– che essa implica, nessuna possibilità di evadere, ma sopratutto un vantaggio enorme in termini di libertà economica ed una spinta all'economia potentissima.
Proviamo ad immaginare gli effetti della contemporanea eliminazione dell'IVA e della tassazione sui redditi. L'impulso che ciò provocherebbe alla capacità di spesa sarebbe potentissimo.
Chi paga tutte queste tasse evitate? Per una buona parte tutti coloro che precedentemente non pagavano tasse (l'economia sommersa che riemergerebbe immediatamente sotto la forma di transazione monetaria e possesso di beni) e che in questo sistema si troverebbero a pagare una percentuale di tasse assolutamente accettabile. Per il resto, si attuerebbe una significativa traslazione del carico fiscale verso i cittadini che hanno un patrimonio elevato rispetto ai cittadini senza patrimonio.
]Imposta sul possesso
Anche uno schema tributario estremamente semplice, basato su due sole imposte, richiede ovviamente un'ampia diversificazione delle aliquote per tenere nella giusta considerazione una serie di casistiche. Sarebbe abbastanza ingiusto, ad esempio, tassare molto di più il proprietario di un bilocale a Milano rispetto al possessore di una villetta in un paesino montano a causa del fatto che il valore del bilocale in centro a Milano è superiore.
L'aliquota sul possesso non potrebbe essere unica. Dovrebbe essere diversificata sia in base al bene (la prima casa, ad esempio, non può essere equiparata alle case successive, né una casa in affitto dovrebbe avere la stessa aliquota di una casa di villeggiatura) ed il valore dell'immobile dovrebbe essere in parte legato al valore di mercato ed in parte legato alla consistenza, alle caratteristiche ed alla destinazione. Dovrebbero essere affrontati e regolamentati i casi di coloro che perdono momentaneamente le fonti di reddito.
Mediamente comunque, l'aliquota sul possesso può oscillare tra l'1% ed il 2% annuo.
Nel rispetto del principio costituzionale di progressività, inoltre, si dovrebbero prevedere delle aliquote progressivamente superiori all'aumentare del patrimonio complessivo del contribuente.
Si potrebbe pensare che la tassazione sul possesso di beni finanziari ponga delle problematiche legate alla fuga di capitali all'estero. A ben vedere, però, una tassazione contenuta, nell'ordine dell'1-2% massimo del patrimonio finanziario, in congiunzione con un'appropriata politica fiscale sui trasferimenti monetari (si veda il paragrafo successivo) non dovrebbe implicare movimenti significativi di capitali all'estero, potrebbero esservi anche casi di convenienza al rientro dei capitali.
C'è da considerare che la tassazione sul possesso dei beni finanziari elimina la tassazione sulle rendite finanziarie che attualmente è pari al 20% (dal 2012). Ciò significa che, ipotizzando un rendimento del 5%, il patrimonio subirebbe comunque, anche nel contesto attuale, una tassazione dell'1%.
Il gettito derivante dalla tassazione delle patrimonio finanziario, comunque, è pari solo al 15% del gettito complessivo. Si potrebbe quindi procedere con gradualità monitorando gli effetti.
Imposta sulle transazioni
Ipotizzando un'aliquota media per i trasferimenti monetari dello 0,75%, circa il 50% del gettito fiscale complessivo ipotizzato dovrebbe arrivare dall'imposta sulle transazioni monetarie. Il grosso delle transazioni monetarie ufficiali avviene per bonifici bancari od altre forme di transazioni bancarie e postali (assegni, vaglia, carte di credito, ecc). Le transazioni in contanti, per ovvie ragioni, possono essere solo stimate e secondo le indagini della Banca d'Italia sono nell'ordine del 45% delle transazioni bancarie.
E' ovvio che le transazioni in contanti dovrebbero essere fortemente scoraggiate.
La progressiva eliminazione del denaro contante avrebbe effetti estremamente positivi anche sul piano della lotta alla criminalità ed alla corruzione.
E' possibile ridurre drasticamente l'uso del denaro contante applicando un'imposta molto elevata, nell'ordine del 5%, ai versamenti ed ai prelievi in contanti superiori ad una certa soglia, diciamo – a titolo d'esempio - 500 euro giornalieri o 2.500 euro mensili. Agli esercizi commerciali si potrebbe consentire di praticare un sovrapprezzo per i pagamenti in contati pari alla differenza fra l'imposta sui versamenti in contanti ed l'imposta sulla transazioni bancarie.
In un contesto del genere l'uso del denaro liquido verrebbe drasticamente ridimensionato.
Progressivamente, anche per gli acquisti minuti come il giornale ed il caffè l'uso del denaro elettronico potrebbe diventare prassi.
Radicale, ma graduale
E' evidente che, a regime, un sistema tributario basato su due sole imposte, quella sul possesso e quella sulle transazioni monetarie, sarebbe radicalmente diverso dal sistema attuale. E' possibile, però, ipotizzare un sistema nel quale conviva l'attuale con un embrione di nuovo sistema tributario che nasca da una sorta di patto fiscale con i cittadini. I passi potrebbero essere i seguenti.
1) La prima fase è necessariamente di tipo culturale. E' indispensabile un dibattito di molti mesi su un progetto del genere con il contributo del maggior numero di voci possibili. Alla fine di questa fase si dovrebbe giungere all'obiettivo condiviso di eliminazione totale di tutte le imposte attuali e l'introduzione delle due nuove imposte (sul patrimonio e sulle transazioni monetarie) nell'arco di alcuni anni.
2) Nella prima fase, della durata di 3 anni, si introducono queste due imposte, con un'aliquota minimale valida per tutti pari allo 0,1%. Questa fase dovrebbe servire a rodare il nuovo sistema sulla base dei numeri effettivi. L'aliquota dello 0,1% dovrebbe produrrebbe un gettito intorno a 20 miliardi all'anno che sarebbero integralmente destinati a ridurre il debito pubblico.
3) Superata la prima fase di tre anni, si ridurrebbe, IRE (ex IRPEF) e l'IVA del 30% e si eliminerebbero completamente tutte le altre tasse minori (come le accise sulla benzina, ticket sulla sanità, ecc) che non hanno una funzione regolatrice dell'accesso ai servizi pubblici. Si aumenterebbero le aliquote delle nuove imposte iniziando a modularle sulla base delle informazioni acquisite nei tre anni precedenti e sugli obiettivi di equità fiscale che si desidera raggiungere. In questa fase si dovrebbe introdurre anche l'imposta sul versamento ed i prelievi di contanti nella misura almeno del 1% per monitorare l'impatto che questa misura ha sull'uso del contante. Questa fase avrebbe una durata di 2 anni.
4) La penultima fase vedrebbe l'abbattimento dell'IVA ed una riduzione significativa e dell'IRE (ex IRPEF) con conseguente aumento delle aliquote delle due nuove imposte nonché un aumento consistente, intorno al 3% per l'imposta sui versamenti e prelievi di contanti. Questa fase dovrebbe durare alcuni anni (dai 3 ai 5) in modo da monitorare l'impatto di questa nuova fiscalità al variare del ciclo economico. Uno degli aspetti da considerare, infatti, è l'eventuale volatilità del gettito. In presenza di fenomeni di volatilità significativa, andrebbero apportati correttivi al bilancio pubblico al fine creare aggiustamenti contabili per il ciclo economico.
5) L'ultima fase, come è ovvio, vedrebbe l'eliminazione completa delle imposte sui redditi ed il conseguente innalzamento delle aliquote dell'imposta sui trasferimenti e di quella sul possesso al livello che dovrebbe essere definitivo. Nel caso in cui il fenomeno dell'uso massiccio del contante non fosse ancora debellato, si dovrebbe innalzare la tassazione sui versamenti e prelievi a livelli molto scoraggianti nell'ordine del 5%.
La soluzione del problema del debito pubblico
Al termine di questo processo graduale, il risultato dovrebbe essere un significativo aumento del gettito fiscale ed al contempo un aumento significativo del PIL, non solo per lo stimolo all'attività economica che deriverebbe dall'aumento del potere di acquisto della maggior parte della popolazione, ma anche per l'emersione di una fetta importante di economia sommersa che esiste ma non fa PIL perché non è rilevata dalle statistiche (il PIL include una parte di sommerso, ma le stime dell'ISTAT sono decisamente troppo “conservative” secondo molti altri studiosi della materia).
Come è noto, le tre leve sulle quali è necessario agire per riportare il rapporto Debito/Pil a livelli accettabili (inferiore al 60%) sono:
- ridurre l'enorme costo della macchina pubblica (è intollerabile che lo stato assorba circa la metà del PIL!)
- aumentare il gettito fiscale
- aumentare il PIL
La radicale riforma fiscale proposta agirebbe su due delle tre leve con buone speranze di riportarlo a livelli accettabili nell'arco di un decennio circa (a patto che si riesca – quantomeno – a contenere l'intollerabile ingordigia dell'apparato statale, ovviamente).
Conclusioni
Ho studiato a lungo i dettagli di questa possibile riforma radicale del fisco. E' evidente che questo meccanismo non è esente da difetti, come nessun sistema fiscale è esente da difetti. I vantaggi di un sistema del genere, però, a mio avviso sarebbero enormi rispetto ai problemi e soprattutto rispetto agli enormi svantaggi del sistema attuale. Tecnicamente i numeri ci dicono che sarebbe sufficiente applicare un'aliquota più che accettabile, mediamente inferiore al 2% all'anno sul patrimonio e inferiore all'1% sui trasferimenti monetari per arrivare al gettito fiscale attuale, eliminando completamente l'imposta sui redditi delle persone fisiche e l'imposta sul valore aggiunto (IVA). Mi sembra un dato di conoscenza molto significativo.
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
Fatte le due riforme sopra esposte, cioè l'annullamento del denaro contante e una riforma radicale del Fisco, non essendoci più il segreto bancario, diventerebbe tutto più facile per armonizzare la vita dei cittadini.
Per tornare a
Una politica dei diritti e del lavoro che parta da una coalizione sociale è tutta da costruire
io credo sia POSSIBILE solo quando tutti i lavoratori sarebbero nudi di fonte allo Stato, il quale in questo caso potrebbe finalmente intervenire in modo equo nel confronto di tutti.
Certo fare queste riforme sarebbe possibile e credo anche accettabili da parte della maggioranza se sufficientemente spiegate, ma a tanti conviene l'attuale confusione !!!
Per tornare a
Una politica dei diritti e del lavoro che parta da una coalizione sociale è tutta da costruire
io credo sia POSSIBILE solo quando tutti i lavoratori sarebbero nudi di fonte allo Stato, il quale in questo caso potrebbe finalmente intervenire in modo equo nel confronto di tutti.
Certo fare queste riforme sarebbe possibile e credo anche accettabili da parte della maggioranza se sufficientemente spiegate, ma a tanti conviene l'attuale confusione !!!
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
IL “FRONTE POP” PROPOSTA INCLUSIVA PER 5 OBIETTIVI
di Gallegati, Pianta, Notarianni, Stramaccioni, 26 febbraio 2015
L’articolo di Giorgio Airaudo e Giulio Marcon “Un Fronte Pop” (martedì su manifesto e sbilanciamoci.info) si pone le domande giuste: come possiamo costruire in Italia una forza politica analoga a Syriza e Podemos?
Come può nascere una forza che riunifichi protesta sociale e azione politica con un’agenda di cambiamento? Sono domande non nuove, i tentativi di risposta in questi anni sono stati diversi e mai risolutivi – l’ultimo è stata la Lista “Un’altra Europa con Tsipras” alle elezioni europee, che ha avuto il merito di allargare l’orizzonte all’alternativa rappresentata da Syriza.
L’urgenza di una risposta risolutiva è accentuata oggi da tre novità.
La prima è la continua accelerazione del “renzismo”. In pochi giorni, ha introdotto nuovi decreti del Jobs Act che sono particolarmente punitivi per i lavoratori (e ha attaccato personalmente Maurizio Landini e la Fiom). Ha colpito i magistrati in un modo pesante. Ha affrontato la questione delle televisioni non per affrontare il conflitto d’interessi di Berlusconi, ma per rafforzare il potere di Mediaset con la cessione di Raiways. E sta per invadere la scuola con un nuovo decreto.
La seconda novità è nella reazione sociale che inizia a mostrarsi – dopo lo sciopero generale di Cgil e Uil – con il sindacato di Susanna Camusso che si prepara allo scontro frontale sul Jobs Act e la Fiom di Maurizio Landini che apre oggi l’assemblea dei delegati a Cervia con un’agenda di mobilitazioni sociali.
La terza novità è la tenuta del governo di Alexis Tsipras nel suo scontro con i poteri europei. Pur con un negoziato difficilissimo, con molte concessioni e destinato a durare a lungo, la Grecia di Syriza ha messo all’ordine del giorno il superamento dell’austerità in Europa. Ha aperto uno spazio politico anche per noi: la Commissione europea non a caso ha dato il via libera l’altroieri ai conti di Italia, Francia e altri paesi senza interferire ulteriormente. Ma questo spazio ha bisogno di sviluppi politici che cambino i rapporti di forza in tutti i paesi: con le prossime elezioni in Gran Bretagna, Irlanda, Spagna e con un allontanamento dei governi di Parigi e Roma dalle posizioni di Berlino: senza di questo, la stessa Grecia non potrà farcela.
Airaudo e Marcon scrivono che ci sono «segni di risveglio sociale, che tuttavia sono ancora frammentati, senza una cornice che trasformi le mobilitazioni in risposta politica». Anche noi pensiamo che la costruzione di una cornice politica e sociale forte, di una convergenza organizzativa, sia oggi essenziale. Le disponibilità e le iniziative di tanti, espresse in queste settimane, sono pezzi importanti, ma nessuno è risolutivo. Siamo chiamati a un “salto di scala”, a un nuovo modo di pensare l’azione collettiva, fuori dai perimetri che sono fin qui costruiti, nei partiti, nei sindacati e nei movimenti.
Il “Fronte Pop” proposto da Airaudo e Marcon è la proposta più inclusiva che sia emersa finora. Chiede a tutti un passo indietro e offre un balzo in avanti. Potrebbe far cessare l’entropia di iniziative che vanno in direzioni diverse, strumentalizzate dai giornali. Il nome non piacerà a chi ricorda la sconfitta del Fronte democratico popolare di socialisti e comunisti nel 1948. Ma è un nome che definisce una convergenza tra soggetti diversi – un Fronte, non un partito – e che ci richiama alle radici popolari che il nostro lavoro deve avere: mobilitazioni dal basso, auto-organizzazione sociale, difesa dei più deboli, dei precari, dei giovani, delle vittime della crisi. E’ solo così che potremo sottrarre consenso ai populismi contrapposti di Beppe Grillo e Matteo Salvini. Sono le cose che hanno fatto Syriza e Podemos.
I nomi possono cambiare, ma questa ci sembra la strada giusta. E le cinque campagne indicate da Airaudo e Marcon sono quelle essenziali: l’Europa da cambiare, il lavoro da difendere, l’ambiente da salvare, i diritti civili e il welfare da affermare, la pace da costruire. Con in più l’affermazione della legalità: un contrasto vero a mafie e corruzione. Le mille iniziative che già esistono su questi temi hanno bisogno di una cornice più forte, di “sfondare” nella politica, di cambiare le decisioni di Palazzo Chigi e di Bruxelles.
L’assemblea Fiom di questi giorni è un passaggio importante, a cui far seguire una fase costituente che definisca come realizzare questa convergenza politica e sociale. Il difficile, lo sappiamo già, è nei modi che tengano insieme tutti: la pratica di una nuova politica insieme alle mobilitazioni sociali e sindacali; le forme di organizzazione collettiva con le motivazioni e l’impegno delle persone che vogliono, finalmente, contare.
Proviamoci.
da il manifesto 27 febbraio 2015
di Gallegati, Pianta, Notarianni, Stramaccioni, 26 febbraio 2015
L’articolo di Giorgio Airaudo e Giulio Marcon “Un Fronte Pop” (martedì su manifesto e sbilanciamoci.info) si pone le domande giuste: come possiamo costruire in Italia una forza politica analoga a Syriza e Podemos?
Come può nascere una forza che riunifichi protesta sociale e azione politica con un’agenda di cambiamento? Sono domande non nuove, i tentativi di risposta in questi anni sono stati diversi e mai risolutivi – l’ultimo è stata la Lista “Un’altra Europa con Tsipras” alle elezioni europee, che ha avuto il merito di allargare l’orizzonte all’alternativa rappresentata da Syriza.
L’urgenza di una risposta risolutiva è accentuata oggi da tre novità.
La prima è la continua accelerazione del “renzismo”. In pochi giorni, ha introdotto nuovi decreti del Jobs Act che sono particolarmente punitivi per i lavoratori (e ha attaccato personalmente Maurizio Landini e la Fiom). Ha colpito i magistrati in un modo pesante. Ha affrontato la questione delle televisioni non per affrontare il conflitto d’interessi di Berlusconi, ma per rafforzare il potere di Mediaset con la cessione di Raiways. E sta per invadere la scuola con un nuovo decreto.
La seconda novità è nella reazione sociale che inizia a mostrarsi – dopo lo sciopero generale di Cgil e Uil – con il sindacato di Susanna Camusso che si prepara allo scontro frontale sul Jobs Act e la Fiom di Maurizio Landini che apre oggi l’assemblea dei delegati a Cervia con un’agenda di mobilitazioni sociali.
La terza novità è la tenuta del governo di Alexis Tsipras nel suo scontro con i poteri europei. Pur con un negoziato difficilissimo, con molte concessioni e destinato a durare a lungo, la Grecia di Syriza ha messo all’ordine del giorno il superamento dell’austerità in Europa. Ha aperto uno spazio politico anche per noi: la Commissione europea non a caso ha dato il via libera l’altroieri ai conti di Italia, Francia e altri paesi senza interferire ulteriormente. Ma questo spazio ha bisogno di sviluppi politici che cambino i rapporti di forza in tutti i paesi: con le prossime elezioni in Gran Bretagna, Irlanda, Spagna e con un allontanamento dei governi di Parigi e Roma dalle posizioni di Berlino: senza di questo, la stessa Grecia non potrà farcela.
Airaudo e Marcon scrivono che ci sono «segni di risveglio sociale, che tuttavia sono ancora frammentati, senza una cornice che trasformi le mobilitazioni in risposta politica». Anche noi pensiamo che la costruzione di una cornice politica e sociale forte, di una convergenza organizzativa, sia oggi essenziale. Le disponibilità e le iniziative di tanti, espresse in queste settimane, sono pezzi importanti, ma nessuno è risolutivo. Siamo chiamati a un “salto di scala”, a un nuovo modo di pensare l’azione collettiva, fuori dai perimetri che sono fin qui costruiti, nei partiti, nei sindacati e nei movimenti.
Il “Fronte Pop” proposto da Airaudo e Marcon è la proposta più inclusiva che sia emersa finora. Chiede a tutti un passo indietro e offre un balzo in avanti. Potrebbe far cessare l’entropia di iniziative che vanno in direzioni diverse, strumentalizzate dai giornali. Il nome non piacerà a chi ricorda la sconfitta del Fronte democratico popolare di socialisti e comunisti nel 1948. Ma è un nome che definisce una convergenza tra soggetti diversi – un Fronte, non un partito – e che ci richiama alle radici popolari che il nostro lavoro deve avere: mobilitazioni dal basso, auto-organizzazione sociale, difesa dei più deboli, dei precari, dei giovani, delle vittime della crisi. E’ solo così che potremo sottrarre consenso ai populismi contrapposti di Beppe Grillo e Matteo Salvini. Sono le cose che hanno fatto Syriza e Podemos.
I nomi possono cambiare, ma questa ci sembra la strada giusta. E le cinque campagne indicate da Airaudo e Marcon sono quelle essenziali: l’Europa da cambiare, il lavoro da difendere, l’ambiente da salvare, i diritti civili e il welfare da affermare, la pace da costruire. Con in più l’affermazione della legalità: un contrasto vero a mafie e corruzione. Le mille iniziative che già esistono su questi temi hanno bisogno di una cornice più forte, di “sfondare” nella politica, di cambiare le decisioni di Palazzo Chigi e di Bruxelles.
L’assemblea Fiom di questi giorni è un passaggio importante, a cui far seguire una fase costituente che definisca come realizzare questa convergenza politica e sociale. Il difficile, lo sappiamo già, è nei modi che tengano insieme tutti: la pratica di una nuova politica insieme alle mobilitazioni sociali e sindacali; le forme di organizzazione collettiva con le motivazioni e l’impegno delle persone che vogliono, finalmente, contare.
Proviamoci.
da il manifesto 27 febbraio 2015
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- Iscritto il: 06/04/2012, 20:00
Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
Airaudo e Marcon – Il Fronte Pop - 1
I 5 punti:
1) L’Europa da cambiare
2) Il Lavoro da difendere
3) L’ambiente da salvare
4) I diritti civili e il welfare da affermare
5) La pace da costruire
Di questi 5 punti occorre fare l’analisi di fattibilità e stabilire le priorità. Non che non debbano non essere prese in considerazione in contemporanea, ma qualche punto deve avere la priorità assoluta.
1) Il Lavoro da difendere
2) I diritti civili e il welfare da affermare
3) La pace da costruire
4) L’ambiente da salvare
5) L’Europa da cambiare
1) Il lavoro da difendere
Questo punto ha la priorità assoluta, perché si tratta della vita di milioni di italiani.
2) I diritti civili e il welfare da affermare
Gustavo Zagrebelsky, classe 1943, giurista ed ex presidente della Corte Costituzionale, è l’uomo che più si è battuto negli ultimi tre anni nella difesa della Costituzione e dell’ordine repubblicano.
I casi sono due. O lo si ritiene un emerito cretino quando afferma che siamo prossimi allo zero della democrazia in questo stramaledetto Paese, oppure no.
Inoltre, Zagrebelsky con l’intervento dell’estate scorsa sul Fatto Quotidiano, e Nadia Urbinati l’altro ieri sul Manifesto, delineano un quadro preciso di come funziona il potere a livello internazionale, e di conseguenza a livello nazionale.
Nell’articolo si accenna all’accelerazione del renzismo. Ma in pratica si rifiutano di vedere che si tratta di un nuovo fascismo. Se si pensa a cosa è stato il ventennio e si pensa che debbano riproporsi gli scenari di allora, si sbaglia di grosso. Tutto è adattato agli scenari dell’inizio del XXI secolo. E’ per questo che Renzi va stoppato subito se non si vuol vivere un’esperienza di questo genere.
3) La pace da costruire
Questo tema va attenzionato ma non è di certo a questi livello che si stabilisce : Guerra o Pace.
4) Certamente che anche l’ambiente non è un tema da trascurare, ma prima vengono i punti precedenti
5) L’Europa da cambiare
Certo che l’Europa è da cambiare, ma se fino ad adesso ha vinto il mondo della finanza e degli affari, significa che si tratta di una guerra lunga e dispendiosa. Non si risolve così sui due piedi.
I 5 punti:
1) L’Europa da cambiare
2) Il Lavoro da difendere
3) L’ambiente da salvare
4) I diritti civili e il welfare da affermare
5) La pace da costruire
Di questi 5 punti occorre fare l’analisi di fattibilità e stabilire le priorità. Non che non debbano non essere prese in considerazione in contemporanea, ma qualche punto deve avere la priorità assoluta.
1) Il Lavoro da difendere
2) I diritti civili e il welfare da affermare
3) La pace da costruire
4) L’ambiente da salvare
5) L’Europa da cambiare
1) Il lavoro da difendere
Questo punto ha la priorità assoluta, perché si tratta della vita di milioni di italiani.
2) I diritti civili e il welfare da affermare
Gustavo Zagrebelsky, classe 1943, giurista ed ex presidente della Corte Costituzionale, è l’uomo che più si è battuto negli ultimi tre anni nella difesa della Costituzione e dell’ordine repubblicano.
I casi sono due. O lo si ritiene un emerito cretino quando afferma che siamo prossimi allo zero della democrazia in questo stramaledetto Paese, oppure no.
Inoltre, Zagrebelsky con l’intervento dell’estate scorsa sul Fatto Quotidiano, e Nadia Urbinati l’altro ieri sul Manifesto, delineano un quadro preciso di come funziona il potere a livello internazionale, e di conseguenza a livello nazionale.
Nell’articolo si accenna all’accelerazione del renzismo. Ma in pratica si rifiutano di vedere che si tratta di un nuovo fascismo. Se si pensa a cosa è stato il ventennio e si pensa che debbano riproporsi gli scenari di allora, si sbaglia di grosso. Tutto è adattato agli scenari dell’inizio del XXI secolo. E’ per questo che Renzi va stoppato subito se non si vuol vivere un’esperienza di questo genere.
3) La pace da costruire
Questo tema va attenzionato ma non è di certo a questi livello che si stabilisce : Guerra o Pace.
4) Certamente che anche l’ambiente non è un tema da trascurare, ma prima vengono i punti precedenti
5) L’Europa da cambiare
Certo che l’Europa è da cambiare, ma se fino ad adesso ha vinto il mondo della finanza e degli affari, significa che si tratta di una guerra lunga e dispendiosa. Non si risolve così sui due piedi.
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
Sull'uso del contante gli altri stati hanno delle soglie più alte e poi l'uso della moneta elettronica comporta un radicale cambiamento del modo di vivere. Sulla tassazione dei patrimoni quello immobiliare è tassatissimo e il capitale è bloccato quindi è capace che chi lo possiede di liquido, finché l'ha venduto (diventando più povero), non abbia nulla. Restano gli altri modi di utilizzo del patrimonio e non so come fare per impedire che vengano occultati; si deve domandare una collaborazione a Merkel, visto che vuole prima che può il parametro del 60% e una manovra di cinquanta miliardi all'anno. Una volta c'era l'Invim e ritengo che si potrebbe reintrodurre, può essere che qualche cosa faccia.
Ultima modifica di cielo 70 il 01/03/2015, 11:35, modificato 1 volta in totale.
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
Mi sono chestto chi è Alessandro Pedone
Alessandro Pedone Dopo una breve esperienza come promotore finanziario ha fondato, nel 2002, la Tekta Consulting Srl (www.tekta.it), societa' che si avvale di diverse figure professionali (dottori commercialisti, pianificatori finanziari e avvocati) per svolgere consulenze sia in materia aziendale che di gestione dei patrimoni privati.
Svolge attivita' di formazione per professionisti nel settore della finanza e collabora con riviste del settore (Investire e Investimenti Finanziari).
certamente, ma se lo Stato interviene in modo tale che il costo delle carte di credito sia a costo zero e obbligatorio renderebbe la vita più semplice per tutticielo 70
l'uso della moneta elettronica comporta un radicale cambiamento del modo di vivere
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
Nel post precedente iospero ha esposto:
Una politica dei diritti e del lavoro che parta da una coalizione sociale è tutta da costruire
DEI QUALI ben poco si può sapere e nel complesso è un mondo complesso con tante variabili.
Solo dopo una serie di riforme come quelle sopra citate (azzeramento del contante, riforma radicale del fisco, niente segreto bancario) sarebbe possibile una coesione sociale di tutto il mondo del lavoro.
Credo che un approfondimento sul tema sia necessario
Una politica dei diritti e del lavoro che parta da una coalizione sociale è tutta da costruire
Purtroppo una coesione sociale del mondo del lavoro è molto difficile fin tanto che da UN LATO HAI I LAVORATORI DIPENDENTI , dei quali il Fisco sa tutto, DALL'ALTRO HAI I LAVORATORI AUTONOMI,camillobenso
Più che vero.!!!!!
Proprio per questo motivo occorre andare oltre il solito modo di agire.
Per un progetto di questo genere, di grande respiro occorre il concorso di molti, di tutti.
E per questo che insisto, più testardo di un mulo, che sul forum devono approdare anche i Landini, i don Ciotti, gli Stefano Rodotà, i Gino Strada, gli Zagrebelsky, le Sandre Bonsanti, le Amalie Signorelli, i Marco Revelli, le Carlassare, ed anche per il contributo successivo, Nadia Urbinati.
E' proprio il suo lavoro che sottopongo alla vostra attenzione, perché l'impresa che si sta delineando non può non trascurare la realtà internazionale, e chi la governa, perché si opporrà con tutte le sue forze affinché in Italia possa consolidarsi una coalizione sociale del genere sopra proposto, perché manda a carte quarantotto il lungo lavorio degli ultimi 20 anni per distruggere la rappresentanza della sinistra.
DEI QUALI ben poco si può sapere e nel complesso è un mondo complesso con tante variabili.
Solo dopo una serie di riforme come quelle sopra citate (azzeramento del contante, riforma radicale del fisco, niente segreto bancario) sarebbe possibile una coesione sociale di tutto il mondo del lavoro.
Credo che un approfondimento sul tema sia necessario
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
da " L'Altra Europa..
LA FABBRICA DEL CAMBIAMENTO: INSIEME PER UN NUOVO INIZIO
di Marco Revelli, 28 febbraio 2015
Lunedì a Torino, nella grande sala della “Fabbrica delle E” del gruppo Abele, si svolgerà l’assemblea Atene – Torino. La sinistra riparte dalle lotte sociali. La convocazione arriva da persone delle variegate realtà, sociali e politiche, che condividono l’esigenza di una risposta adeguata alle sfide di questo delicatissimo, drammatico ma anche entusiasmante, momento. Un incontro con lavoratori delle fabbriche in crisi, giovani precari, militanti della Fiom e della Cgil, de L’Altra Europa e delle forze politiche che la sostennero europee, del Movimento No TaV e del volontariato contro le povertà.
Sarà una prima occasione, pubblica e di massa, per verificare la possibilità che abbia inizio una vera fase costituente di quello che Airaudo e Marcon, sul manifesto di martedì scorso, hanno definito come «un nuovo modello di aggregazione politica e sociale». E che noi dell’Altra Europa con Tsipras abbiamo chiamato la «casa comune della sinistra e dei democratici». Insomma, di quella «forza che unifichi protesta sociale e azione politica con un’agenda di cambiamento» richiamata ieri, su questo giornale, da Gallegati, Pianta, Notarianni e Stramaccioni.
Quanto quell’esigenza – potremmo anche dire quella possibilità – sia sentita, e quanto sia cresciuta negli ultimi mesi e nelle ultime settimane, è dimostrato dal grado di affollamento del dibattito pubblico, da parte di voci spesso diverse (apparentemente anche molto diverse) e tuttavia convergenti su quel problema: sull’insufficienza di ciò che è. Sulla necessità di ciò che deve venire. E sulla comune certezza che questo dovrà essere grande, tanto grande da apparire credibile nel reggere la portata della sfida. E “inedito”: tanto innovativo nel linguaggio, nelle pratiche, nelle modalità organizzative, nelle stesse persone che ne interpretano il messaggio, da vincere la consolidata diffidenza e la disillusione di una parte sempre più ampia di società e di elettorato.
Penso alle recenti prese di posizione di Maurizio Landini, di Stefano Rodotà, dello stesso Sergio Cofferati. Penso al dibattito, anche aspro, dell’assemblea bolognese de L’Altra Europa o al messaggio uscito dalla tre giorni di Human Factor. Un caleidoscopio di posizioni che possono apparire eterogenee, ma che in realtà dimostrano l’alto grado di urgenza e di maturità della questione, lungo vettori diversi: la coscienza da parte del mondo del lavoro della caduta “storica” di quello che era stato, per un lunghissimo ciclo, il suo riferimento politico.
La verifica, da parte della parte più consapevole e sensibile dell’ “intellettualità” democratica, del livello di degrado delle nostre istituzioni rappresentative, fino a configurare, sotto la spinta dell’accelerazione autoritaria renziana, un’emergenza democratica tanto profonda da veder compromessa la stessa forma partito, tradizionale strumento di partecipazione.
L’autocoscienza, da parte di ciò che resta della estrema sinistra politica, della propria insufficienza, e della necessità di un “nuovo inizio”.
In questo quadro sarebbe tragico se ci si dividesse sull’antitesi (fittizia) tra coalizione sociale e coalizione politica. O, peggio, tra costruzione dall’alto e costruzione dal basso, senza riflettere sull’esperienza del passato che dimostra, con un’evidenza luciferina, come ogni tentativo di rendere autonomi i due aspetti si sia rivelato disastroso, con i “movimenti” inchiodati a terra dalla propria mancanza di sponda nelle sedi decisionali, e le organizzazioni politiche troppo spesso isterilite in pratiche burocratiche e drammaticamente minoritarie. O comunque esposte all’assimilazione populista con tutto ciò che sta in alto e che sa di estraneità e privilegio.
Per contrasto, le vicende che stanno “riaprendo il tempo” in Grecia come in Spagna — Syriza e Podemos pur nelle loro differenze -, dimostrano come la chiave del successo sia, oggi, la capacità di innestare, sull’orizzontalità del conflitto sociale, l’asse verticale della rappresentanza, mettendo in connessione basso e alto. Trasferendo anche dentro il cuore delle sedi decisionali – quelle vere, quelle che operano nello spazio politico contemporaneo, la “fortezza-Europa” — la forza dirompente della rivolta e della resistenza sociale.
Quelle stesse vicende, d’altra parte, tendono a favorire – per chi ne vuole capire il messaggio — i processi di possibile ricomposizione politica, affermando, con la perentorietà dei fatti storici, che il tempo è ora. E mostrando come il superamento della frammentazione e delle fratture è la precondizione di un processo costituente credibile e vincente, non il suo esito finale.
Per questo un processo che lavori “per campagne”, come suggerito negli interventi precedenti, e non per negoziazioni o proclami, e che sulla capacità di ripresa di parola da parte dei soggetti reali fondi la riattivazione dell’iniziativa politica su scala ampia, trans-nazionale, perché transnazionale è il comando, può permetterci di uscire dalla gabbia incapacitante della comunicazione virtuale.
E di tentare la grande scommessa di ridare rappresentanza e visibilità all’area sconfinata che le oligarchie del potere lasciano sotto le loro rovine.
Di questo si parlerà a Torino. Con l’obiettivo di non fare solo un bell’evento, ma di dare origine a una serie di interventi sul territorio, radicati nelle pieghe sell’emergenza sociale, impegnativi per tutti.
LA FABBRICA DEL CAMBIAMENTO: INSIEME PER UN NUOVO INIZIO
di Marco Revelli, 28 febbraio 2015
Lunedì a Torino, nella grande sala della “Fabbrica delle E” del gruppo Abele, si svolgerà l’assemblea Atene – Torino. La sinistra riparte dalle lotte sociali. La convocazione arriva da persone delle variegate realtà, sociali e politiche, che condividono l’esigenza di una risposta adeguata alle sfide di questo delicatissimo, drammatico ma anche entusiasmante, momento. Un incontro con lavoratori delle fabbriche in crisi, giovani precari, militanti della Fiom e della Cgil, de L’Altra Europa e delle forze politiche che la sostennero europee, del Movimento No TaV e del volontariato contro le povertà.
Sarà una prima occasione, pubblica e di massa, per verificare la possibilità che abbia inizio una vera fase costituente di quello che Airaudo e Marcon, sul manifesto di martedì scorso, hanno definito come «un nuovo modello di aggregazione politica e sociale». E che noi dell’Altra Europa con Tsipras abbiamo chiamato la «casa comune della sinistra e dei democratici». Insomma, di quella «forza che unifichi protesta sociale e azione politica con un’agenda di cambiamento» richiamata ieri, su questo giornale, da Gallegati, Pianta, Notarianni e Stramaccioni.
Quanto quell’esigenza – potremmo anche dire quella possibilità – sia sentita, e quanto sia cresciuta negli ultimi mesi e nelle ultime settimane, è dimostrato dal grado di affollamento del dibattito pubblico, da parte di voci spesso diverse (apparentemente anche molto diverse) e tuttavia convergenti su quel problema: sull’insufficienza di ciò che è. Sulla necessità di ciò che deve venire. E sulla comune certezza che questo dovrà essere grande, tanto grande da apparire credibile nel reggere la portata della sfida. E “inedito”: tanto innovativo nel linguaggio, nelle pratiche, nelle modalità organizzative, nelle stesse persone che ne interpretano il messaggio, da vincere la consolidata diffidenza e la disillusione di una parte sempre più ampia di società e di elettorato.
Penso alle recenti prese di posizione di Maurizio Landini, di Stefano Rodotà, dello stesso Sergio Cofferati. Penso al dibattito, anche aspro, dell’assemblea bolognese de L’Altra Europa o al messaggio uscito dalla tre giorni di Human Factor. Un caleidoscopio di posizioni che possono apparire eterogenee, ma che in realtà dimostrano l’alto grado di urgenza e di maturità della questione, lungo vettori diversi: la coscienza da parte del mondo del lavoro della caduta “storica” di quello che era stato, per un lunghissimo ciclo, il suo riferimento politico.
La verifica, da parte della parte più consapevole e sensibile dell’ “intellettualità” democratica, del livello di degrado delle nostre istituzioni rappresentative, fino a configurare, sotto la spinta dell’accelerazione autoritaria renziana, un’emergenza democratica tanto profonda da veder compromessa la stessa forma partito, tradizionale strumento di partecipazione.
L’autocoscienza, da parte di ciò che resta della estrema sinistra politica, della propria insufficienza, e della necessità di un “nuovo inizio”.
In questo quadro sarebbe tragico se ci si dividesse sull’antitesi (fittizia) tra coalizione sociale e coalizione politica. O, peggio, tra costruzione dall’alto e costruzione dal basso, senza riflettere sull’esperienza del passato che dimostra, con un’evidenza luciferina, come ogni tentativo di rendere autonomi i due aspetti si sia rivelato disastroso, con i “movimenti” inchiodati a terra dalla propria mancanza di sponda nelle sedi decisionali, e le organizzazioni politiche troppo spesso isterilite in pratiche burocratiche e drammaticamente minoritarie. O comunque esposte all’assimilazione populista con tutto ciò che sta in alto e che sa di estraneità e privilegio.
Per contrasto, le vicende che stanno “riaprendo il tempo” in Grecia come in Spagna — Syriza e Podemos pur nelle loro differenze -, dimostrano come la chiave del successo sia, oggi, la capacità di innestare, sull’orizzontalità del conflitto sociale, l’asse verticale della rappresentanza, mettendo in connessione basso e alto. Trasferendo anche dentro il cuore delle sedi decisionali – quelle vere, quelle che operano nello spazio politico contemporaneo, la “fortezza-Europa” — la forza dirompente della rivolta e della resistenza sociale.
Quelle stesse vicende, d’altra parte, tendono a favorire – per chi ne vuole capire il messaggio — i processi di possibile ricomposizione politica, affermando, con la perentorietà dei fatti storici, che il tempo è ora. E mostrando come il superamento della frammentazione e delle fratture è la precondizione di un processo costituente credibile e vincente, non il suo esito finale.
Per questo un processo che lavori “per campagne”, come suggerito negli interventi precedenti, e non per negoziazioni o proclami, e che sulla capacità di ripresa di parola da parte dei soggetti reali fondi la riattivazione dell’iniziativa politica su scala ampia, trans-nazionale, perché transnazionale è il comando, può permetterci di uscire dalla gabbia incapacitante della comunicazione virtuale.
E di tentare la grande scommessa di ridare rappresentanza e visibilità all’area sconfinata che le oligarchie del potere lasciano sotto le loro rovine.
Di questo si parlerà a Torino. Con l’obiettivo di non fare solo un bell’evento, ma di dare origine a una serie di interventi sul territorio, radicati nelle pieghe sell’emergenza sociale, impegnativi per tutti.
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