IL LAVORO
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IL LAVORO
WORKERS ACT VS JOBS ACT
di Giulio Marcon, 19 marzo 2015
Una volta — per essere competitivi — si svalutava la moneta, oggi si svaluta il lavoro: meno diritti, meno tutele, meno retribuzione. Le politiche neoliberiste si sono basate in questi decenni su quattro pilastri: la riduzione della spesa pubblica e del ruolo dello Stato; le privatizzazioni e le liberazioni (a partire da quella della circolazione dei capitali); gli investimenti privati (il mercato) e la precarizzazione del mercato del lavoro. La riforma del mercato del lavoro è una di quelle riforme strutturali cui Renzi affida la speranza di rilanciare l’occupazione e l’economia. In realtà, come sappiamo tutti, in questi anni l’esistenza di oltre 45 forme di lavoro atipico non ha incoraggiato ad assumere di più, ma semplicemente a sostituire i contratti di lavoro con tutele con forme di lavoro precario, senza diritti. Non si sono creati posti di lavoro in più, ma solo più lavori precari. Nè queste riforme hanno avuto effetti salvifici sull’economia. Proprio nel Def si dice che l’impatto del Jobs Act sul Pil sarà minimo: non più dello 0,1%. Si tratta di previsioni; e quelle del governo in questi vent’anni sono sempre state troppo ottimistiche e poi inevitabilmente corrette al ribasso.
L’assunto dal quale si parte è noto: bisogna mettere le imprese nelle condizioni di avere meno vincoli e costi possibile. E così potranno assumere. Solo che, probabilmente, i nuovi assunti saranno assai pochi: la maggior parte dei nuovi contratti saranno sostitutivi, cioè trasformeranno rapporti di lavoro pre-esistenti più gravosi in quelli più convenienti introdotti dalla legge di stabilità. Tutte le agevolazioni fiscali di questi anni, le imprese non le hanno utilizzate per fare investimenti nell’economia reale, ma in quella finanziaria e speculativa o per arrotondare i loro profitti.
La realtà è che i governi occidentali di questi anni (e Renzi, oggi), rinunciano ad ogni politica pubblica attiva: non c’è una politica industriale, non c’è una politica degli investimenti pubblici (che in 20 anni si sono dimezzati), non c’è una politica del lavoro.
Non c’è più una politica della domanda (di sostegno, programmazione, investimento), ma solo dell’offerta, dove — per quel che ci riguarda — non è più nemmeno offerta di lavoro, ma offerta di lavoratori alle condizioni più vantaggiose per le imprese. Nel frattempo gli ultimi dati Istat ci dicono che la situazione in Italia continua a peggiorare. E già questo dovrebbe indurre i governi ad un serio ripensamento delle politiche sin qui seguite.
L’idea di lasciare al mercato la creazione di occupazione non funziona e non ha funzionato mai, se non per la produzione di posti di lavoro precari, effimeri, mal retribuiti, senza tutele. Ma quale sistema economico e produttivo può pensare di sopravvivere grazie ad una idea di lavoro così retriva e padronale? Altro che modernità, qui siamo al ritorno all’ottocento, anche se 2.0. Un lavoro senza qualità porta con sè una economia senza futuro. Senza un investimento nel lavoro (in termini di risorse, ma anche di formazione, di tutele, ecc.) non ci può essere alcuna economia di qualità, innovativa, capace di competere. Un’impresa che si serve del lavoro usa e getta, non ha speranze, è di bassa qualità, dura poco: non ’è più impresa, ma solo business di piccolo cabotaggio (anche se magari di grande ritorno affaristico).
Servirebbe invece una politica pubblica per il lavoro: una sorta di piano straordinario del lavoro fondato sugli investimenti pubblici per creare occupazione nella risposta alle grandi emergenze nazionali (lotta al dissesto idrogeologico, edilizia scolastica, piccole opere, ecc) e nelle frontiere delle nuove produzioni della cosiddetta Green Economy (mobilità sostenibile, energie pulite, ecc.). Servirebbe uno Stato che fosse attivo –indirettamente, ma anche direttamente– nella creazione di posti di lavoro, attraverso un’agenzia nazionale come quella (la Works Progress Administration) che fu creata da Franklin Delano Roosvelt durante il New Deal. E servirebbero degli investimenti pazienti (che danno riscontro sul medio periodo) in settori fondamentali per creare buona economia e buona occupazione: nell’innovazione e nella ricerca, nel settore formativo ed educativo e nella coesione sociale. E poi, bisognerebbe riprendere un discorso che oggi può sembrare in controtendenza (sicuramente rispetto alle politiche neoliberiste), ma quanto mai attuale e necessario: la riduzione dell’orario di lavoro. Se il lavoro è poco, bisogna fare in modo che il lavoro sia redistribuito il più possibile. Lasciare milioni di persone nella disoccupazione e nell’inattività è economicamente sbagliato, moralmente disumano e socialmente ingiusto e pericoloso.
da il manifesto del 20 marzo 2015
di Giulio Marcon, 19 marzo 2015
Una volta — per essere competitivi — si svalutava la moneta, oggi si svaluta il lavoro: meno diritti, meno tutele, meno retribuzione. Le politiche neoliberiste si sono basate in questi decenni su quattro pilastri: la riduzione della spesa pubblica e del ruolo dello Stato; le privatizzazioni e le liberazioni (a partire da quella della circolazione dei capitali); gli investimenti privati (il mercato) e la precarizzazione del mercato del lavoro. La riforma del mercato del lavoro è una di quelle riforme strutturali cui Renzi affida la speranza di rilanciare l’occupazione e l’economia. In realtà, come sappiamo tutti, in questi anni l’esistenza di oltre 45 forme di lavoro atipico non ha incoraggiato ad assumere di più, ma semplicemente a sostituire i contratti di lavoro con tutele con forme di lavoro precario, senza diritti. Non si sono creati posti di lavoro in più, ma solo più lavori precari. Nè queste riforme hanno avuto effetti salvifici sull’economia. Proprio nel Def si dice che l’impatto del Jobs Act sul Pil sarà minimo: non più dello 0,1%. Si tratta di previsioni; e quelle del governo in questi vent’anni sono sempre state troppo ottimistiche e poi inevitabilmente corrette al ribasso.
L’assunto dal quale si parte è noto: bisogna mettere le imprese nelle condizioni di avere meno vincoli e costi possibile. E così potranno assumere. Solo che, probabilmente, i nuovi assunti saranno assai pochi: la maggior parte dei nuovi contratti saranno sostitutivi, cioè trasformeranno rapporti di lavoro pre-esistenti più gravosi in quelli più convenienti introdotti dalla legge di stabilità. Tutte le agevolazioni fiscali di questi anni, le imprese non le hanno utilizzate per fare investimenti nell’economia reale, ma in quella finanziaria e speculativa o per arrotondare i loro profitti.
La realtà è che i governi occidentali di questi anni (e Renzi, oggi), rinunciano ad ogni politica pubblica attiva: non c’è una politica industriale, non c’è una politica degli investimenti pubblici (che in 20 anni si sono dimezzati), non c’è una politica del lavoro.
Non c’è più una politica della domanda (di sostegno, programmazione, investimento), ma solo dell’offerta, dove — per quel che ci riguarda — non è più nemmeno offerta di lavoro, ma offerta di lavoratori alle condizioni più vantaggiose per le imprese. Nel frattempo gli ultimi dati Istat ci dicono che la situazione in Italia continua a peggiorare. E già questo dovrebbe indurre i governi ad un serio ripensamento delle politiche sin qui seguite.
L’idea di lasciare al mercato la creazione di occupazione non funziona e non ha funzionato mai, se non per la produzione di posti di lavoro precari, effimeri, mal retribuiti, senza tutele. Ma quale sistema economico e produttivo può pensare di sopravvivere grazie ad una idea di lavoro così retriva e padronale? Altro che modernità, qui siamo al ritorno all’ottocento, anche se 2.0. Un lavoro senza qualità porta con sè una economia senza futuro. Senza un investimento nel lavoro (in termini di risorse, ma anche di formazione, di tutele, ecc.) non ci può essere alcuna economia di qualità, innovativa, capace di competere. Un’impresa che si serve del lavoro usa e getta, non ha speranze, è di bassa qualità, dura poco: non ’è più impresa, ma solo business di piccolo cabotaggio (anche se magari di grande ritorno affaristico).
Servirebbe invece una politica pubblica per il lavoro: una sorta di piano straordinario del lavoro fondato sugli investimenti pubblici per creare occupazione nella risposta alle grandi emergenze nazionali (lotta al dissesto idrogeologico, edilizia scolastica, piccole opere, ecc) e nelle frontiere delle nuove produzioni della cosiddetta Green Economy (mobilità sostenibile, energie pulite, ecc.). Servirebbe uno Stato che fosse attivo –indirettamente, ma anche direttamente– nella creazione di posti di lavoro, attraverso un’agenzia nazionale come quella (la Works Progress Administration) che fu creata da Franklin Delano Roosvelt durante il New Deal. E servirebbero degli investimenti pazienti (che danno riscontro sul medio periodo) in settori fondamentali per creare buona economia e buona occupazione: nell’innovazione e nella ricerca, nel settore formativo ed educativo e nella coesione sociale. E poi, bisognerebbe riprendere un discorso che oggi può sembrare in controtendenza (sicuramente rispetto alle politiche neoliberiste), ma quanto mai attuale e necessario: la riduzione dell’orario di lavoro. Se il lavoro è poco, bisogna fare in modo che il lavoro sia redistribuito il più possibile. Lasciare milioni di persone nella disoccupazione e nell’inattività è economicamente sbagliato, moralmente disumano e socialmente ingiusto e pericoloso.
da il manifesto del 20 marzo 2015
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Re: IL LAVORO
.«La mancanza di lavoro ci toglie dignità»
Poi il tema del lavoro: «Un segno negativo del nostro tempo è la mancanza del lavoro per i giovani. Piu’ del 40 per cento dei giovani dai 25 anni in giù non ha lavoro», spiega. «Che futuro ha un giovane senza lavoro e che strada di vita sceglie. Una responsabilità non solo della citta’, del paese ma anche del mondo. c’è un sistema economico che scarta la gente».
Francesco a Napoli.
Altro che il Job Act del PAV.
Poi il tema del lavoro: «Un segno negativo del nostro tempo è la mancanza del lavoro per i giovani. Piu’ del 40 per cento dei giovani dai 25 anni in giù non ha lavoro», spiega. «Che futuro ha un giovane senza lavoro e che strada di vita sceglie. Una responsabilità non solo della citta’, del paese ma anche del mondo. c’è un sistema economico che scarta la gente».
Francesco a Napoli.
Altro che il Job Act del PAV.
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Re: IL LAVORO
Taylorismo digitale, finta creatività e schiavitù informatica
Scritto il 29/3/15 • nella Categoria: idee
Com’è noto, l’organizzazione scientifica del lavoro teorizzata da Taylor consisteva in una serie di pratiche di quantificazione/misurazione di ogni gesto lavorativo – pratiche che servivano a definire (e successivamente imporre) il “modo migliore” (cioè più veloce, efficiente e produttivo di valore per l’impresa) di effettuare una determinata mansione.
Negli ultimi anni è prevalsa la convinzione che lo spirito del taylorismo sia tramontato assieme alla fabbrica fordista, sostituito da un modo di produrre che – grazie alle tecnologie di rete – si fonda sulla creatività e sull’autonoma capacità di cooperare dei lavoratori autonomi.
Questa visione ottimista è andata in crisi a mano a mano che ci si è resi conto del fatto che le tecnologie digitali – in particolare gli algoritmi del software – incorporano una serie di regole, procedure e schemi cognitivi che sono in grado di controllare/disciplinare i comportamenti del lavoro “creativo” (più o meno “autonomo”) in misura non inferiore a quella in cui la catena di montaggio subordinava il lavoro dell’operaio fordista.
Si è così iniziato a parlare di “taylorismo digitale”, ma questa metafora, al pari di quella – cara ai teorici post-operaisti – che parla di “vita messa al lavoro”, appare insufficiente a descrivere il salto qualitativo che il capitalismo si appresta a compiere a mano a mano che il mezzo di lavoro computer viene sostituito dagli smartphone e altre tecnologie “indossabili” (ma soprattutto dalle “app” che animano questi dispositivi).
Per rendersene conto basta seguire il dibattito americano sul concetto di “Quantified Self” (letteralmente: sé quantificato, o misurato). Il termine è stato coniato da Gary Wolf e Kevin Kelly, noto apologeta della “rivoluzione” digitale fin dalla metà dei ’90. Riferendosi alla capacità dei dispositivi in questione di raccogliere dati su salute, performance fisiche e mentali e gestualità (oltre che sull’ambiente ad essi circostante) di coloro che li indossano, i due parlano della chance di attivare una sorta di autoanalisi della vita quotidiana per “migliorarsi” e aiutare gli altri (visto che i dati possono, anzi devono, essere condivisi) a fare lo stesso.
Mikey Siegel, un ex ingegnere della Nasa laureatosi al Mit, è il guru di una versione New Age di questo “movimento”. Tenere traccia dei propri passi, consumo di calorie, sonno, numero di volte in cui si controllano le mail, sostiene Siegel, è un potente strumento per ottenere un allargamento della coscienza, un’attenzione focalizzata sul proprio sé complementare a quella che si può raggiungere attraverso la meditazione.
Così, conclude, anche noi occidentali capiremo che le cause delle nostre sofferenze, paure, angosce, stanno nella psiche e non nel mondo che ci circonda (cioè in bazzecole come miseria, disuguaglianze, sfruttamento, violenza, oppressione dell’uomo sull’uomo).
Se poi nemmeno così riusciremo a superare il disagio provocato dall’eccesso di alternative che una realtà iperconsumistica ci offre, rendendoci incapaci di scegliere, ecco venirci in soccorso un’altra generazione di nuove “app”, capaci di trovare sempre la soluzione migliore per noi.
Per farla breve: qui siamo ben oltre il taylorismo digitale, andiamo verso uno scenario in cui si tenterà di garantire pace sociale, massimizzazione produttiva, autocontrollo e autodisciplina attraverso la disponibilità dei singoli soggetti di “godere” della consulenza operativa, psicologica e morale dei propri gadget e degli “spiritelli” che li abitano.
Uno scenario in cui il capitale non si limiterebbe ad appropriarsi a posteriori della libera e spontanea creatività del lavoro cognitivo, ma ne spegnerebbe a priori ogni reale margine di autonomia (Marx avrebbe parlato di transizione dalla subordinazione formale alla subordinazione sostanziale del lavoro al capitale).
Ma gli algoritmi non servono solo a disciplinare/controllare la vita messa al lavoro: sono al centro delle strategie di repressione delle “classi pericolose” escluse o confinate ai margini del processo produttivo.
Come racconta Massimo Gaggi in un articolo (“L’algoritmo che anticipa in crimini?”) apparso sul “Corriere della Sera” dell’8 marzo, le polizie di 58 città americane pattugliano ormai solo le sezioni di territorio che il software della società Predictive Policing (un marchio sinistramente evocativo del racconto “Minority Report” di Philip Dick, che descrive un regime totalitario in cui i criminali vengono arrestati “prima” che possano delinquere) seleziona come quelle statisticamente più esposte a ospitare reati.
E indovinate chi merita di finire sotto lo sguardo di questo Panopticon digitale? Neri e Latinos.
(Carlo Formenti, “Le insidie del taylorismo digitale”, da “Micromega” del 9 marzo 2015).
Scritto il 29/3/15 • nella Categoria: idee
Com’è noto, l’organizzazione scientifica del lavoro teorizzata da Taylor consisteva in una serie di pratiche di quantificazione/misurazione di ogni gesto lavorativo – pratiche che servivano a definire (e successivamente imporre) il “modo migliore” (cioè più veloce, efficiente e produttivo di valore per l’impresa) di effettuare una determinata mansione.
Negli ultimi anni è prevalsa la convinzione che lo spirito del taylorismo sia tramontato assieme alla fabbrica fordista, sostituito da un modo di produrre che – grazie alle tecnologie di rete – si fonda sulla creatività e sull’autonoma capacità di cooperare dei lavoratori autonomi.
Questa visione ottimista è andata in crisi a mano a mano che ci si è resi conto del fatto che le tecnologie digitali – in particolare gli algoritmi del software – incorporano una serie di regole, procedure e schemi cognitivi che sono in grado di controllare/disciplinare i comportamenti del lavoro “creativo” (più o meno “autonomo”) in misura non inferiore a quella in cui la catena di montaggio subordinava il lavoro dell’operaio fordista.
Si è così iniziato a parlare di “taylorismo digitale”, ma questa metafora, al pari di quella – cara ai teorici post-operaisti – che parla di “vita messa al lavoro”, appare insufficiente a descrivere il salto qualitativo che il capitalismo si appresta a compiere a mano a mano che il mezzo di lavoro computer viene sostituito dagli smartphone e altre tecnologie “indossabili” (ma soprattutto dalle “app” che animano questi dispositivi).
Per rendersene conto basta seguire il dibattito americano sul concetto di “Quantified Self” (letteralmente: sé quantificato, o misurato). Il termine è stato coniato da Gary Wolf e Kevin Kelly, noto apologeta della “rivoluzione” digitale fin dalla metà dei ’90. Riferendosi alla capacità dei dispositivi in questione di raccogliere dati su salute, performance fisiche e mentali e gestualità (oltre che sull’ambiente ad essi circostante) di coloro che li indossano, i due parlano della chance di attivare una sorta di autoanalisi della vita quotidiana per “migliorarsi” e aiutare gli altri (visto che i dati possono, anzi devono, essere condivisi) a fare lo stesso.
Mikey Siegel, un ex ingegnere della Nasa laureatosi al Mit, è il guru di una versione New Age di questo “movimento”. Tenere traccia dei propri passi, consumo di calorie, sonno, numero di volte in cui si controllano le mail, sostiene Siegel, è un potente strumento per ottenere un allargamento della coscienza, un’attenzione focalizzata sul proprio sé complementare a quella che si può raggiungere attraverso la meditazione.
Così, conclude, anche noi occidentali capiremo che le cause delle nostre sofferenze, paure, angosce, stanno nella psiche e non nel mondo che ci circonda (cioè in bazzecole come miseria, disuguaglianze, sfruttamento, violenza, oppressione dell’uomo sull’uomo).
Se poi nemmeno così riusciremo a superare il disagio provocato dall’eccesso di alternative che una realtà iperconsumistica ci offre, rendendoci incapaci di scegliere, ecco venirci in soccorso un’altra generazione di nuove “app”, capaci di trovare sempre la soluzione migliore per noi.
Per farla breve: qui siamo ben oltre il taylorismo digitale, andiamo verso uno scenario in cui si tenterà di garantire pace sociale, massimizzazione produttiva, autocontrollo e autodisciplina attraverso la disponibilità dei singoli soggetti di “godere” della consulenza operativa, psicologica e morale dei propri gadget e degli “spiritelli” che li abitano.
Uno scenario in cui il capitale non si limiterebbe ad appropriarsi a posteriori della libera e spontanea creatività del lavoro cognitivo, ma ne spegnerebbe a priori ogni reale margine di autonomia (Marx avrebbe parlato di transizione dalla subordinazione formale alla subordinazione sostanziale del lavoro al capitale).
Ma gli algoritmi non servono solo a disciplinare/controllare la vita messa al lavoro: sono al centro delle strategie di repressione delle “classi pericolose” escluse o confinate ai margini del processo produttivo.
Come racconta Massimo Gaggi in un articolo (“L’algoritmo che anticipa in crimini?”) apparso sul “Corriere della Sera” dell’8 marzo, le polizie di 58 città americane pattugliano ormai solo le sezioni di territorio che il software della società Predictive Policing (un marchio sinistramente evocativo del racconto “Minority Report” di Philip Dick, che descrive un regime totalitario in cui i criminali vengono arrestati “prima” che possano delinquere) seleziona come quelle statisticamente più esposte a ospitare reati.
E indovinate chi merita di finire sotto lo sguardo di questo Panopticon digitale? Neri e Latinos.
(Carlo Formenti, “Le insidie del taylorismo digitale”, da “Micromega” del 9 marzo 2015).
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Re: IL LAVORO
Ferroviere licenziato perché non voleva guidare da solo. Il giudice gli dà ragione
Lavoro & Precari
Non si era presentato a lavoro dopo che Trenitalia aveva eliminato la figura del secondo macchinista: se avesse avuto un malore nessuno poteva guidare il convoglio incontro ai soccorsi. Il Tribunale di Genova ha annullato il licenziamento e 'bocciato' la strategia dell'azienda
di Ilaria Lonigro | 29 marzo 2015 COMMENTI
Il ferroviere Silvio Lorenzoni non voleva guidare senza il secondo macchinista. Come migliaia di colleghi temeva che, in caso di emergenza o se si fosse sentito male trovandosi in un tunnel o su un viadotto, un’ambulanza non lo avrebbe mai raggiunto: ci sarebbe stato bisogno di un collega che portasse il treno incontro ai soccorsi. Per questo Trenitalia lo ha sospeso e licenziato. Ma il Tribunale di Genova gli ha dato ragione.
Il problema del doppio macchinista
Trenitalia, come altre aziende del trasporto ferroviario, dal 2009 ha introdotto l’agente solo per il trasporto viaggiatori e dal 2010 ha progressivamente tagliato i doppi macchinisti a bordo dei treni merci, affiancando a un unico conducente il cosiddetto tecnico polivalente. Questo, in caso di malore del macchinista, ferma il treno e chiama i soccorsi, ma non è in grado di guidare. Una misura presa per rendere più efficiente il lavoro, dopo la liberalizzazione del trasporto ferroviario. “Allora furono 7mila, sui 10mila macchinisti totali che ci sono in Italia, a firmare contro questa misura. Ma in un clima segnato da sospensioni e licenziamenti, in pochi sono stati coerenti e hanno continuato a rifiutarsi di guidare. Uno di questi è Lorenzoni” fa sapere a ilfattoquotidiano.it il ferroviere genovese Antonino Catalano, responsabile del sindacato Cat (Coordinamento autorganizzato trasporti).
Pubblicità
Addetto alla Divisione Cargo dell’Area Nord Ovest, Lorenzoni era abituato a guidare su tratte piene di tunnel, come quelle liguri. Da solo non voleva lavorare: sarebbe stato troppo pericoloso in caso di malore. Lo aveva messo anche nero su bianco, con una lettera indirizzata alla direzione di Trenitalia il 22 febbraio 2011. Avvertiva che avrebbe potuto “astenersi dal compiere l’attività di condotta richiesta in tali condizioni di degrado, a tutela della propria incolumità”. E ha mantenuto la promessa. Nel 2012 era stato sospeso per due volte, perché, non lavorando, aveva causato ritardi e quindi danni patrimoniali all’azienda. Nel 2014 lo aveva fatto di nuovo, quattro volte. Dopo le sanzioni disciplinari (oltre 30 giorni senza lavoro e senza paga), Trenitalia è passata al licenziamento, il 5 settembre 2014.
Una decisione storica che potrebbe cambiare il trasporto ferroviario
A distanza di sei mesi, il tribunale di Genova non si limita ad annullare il licenziamento con un’ordinanza immediatamente esecutiva, ma entra nel merito della questione. Secondo il giudice Marcello Basilico, l’azienda non può aumentare i rischi per i lavoratori per motivi di “economicità” ed “efficienza”. Se lo fa, è da considerarsi responsabile. “Sono più di 200 i macchinisti sanzionati con giorni di sospensione perché si sono rifiutati di guidare senza un collega pronto a sostituirli in caso di malore; in tribunale hanno perso in primo grado, aspettano l‘appello. Ma questa ordinanza potrebbe cambiare tutto” spiega ancora il ferroviere e sindacalista Catalano.
L’ultimo caso due giorni fa, in Sardegna: infarto del conducente
A meno che il treno non si trovi nella Pianura Padana, lontano da gallerie, il conducente rischia grosso se si sente male sul lavoro. Come è accaduto il 26 marzo sulla linea Iglesias-Cagliari, quando l’uomo alla guida di un regionale ha accusato sintomi di infarto. Fortuna che tra i passeggeri c’era un collega fuori servizio, che ha portato il treno alla stazione più vicina. Soccorso dall’ambulanza, il macchinista è giunto in ospedale e operato di urgenza. Se c’è stato un lieto fine, lo si deve solo al caso
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/03 ... a/1548521/
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Re: IL LAVORO
DA REPUBBLICA.IT
Disoccupazione: Istat, il tasso a febbraio risale al 12,7%
Dopo i segnali positivi di dicembre e gennaio, il mercato del lavoro italiano subisce una battuta d'arresto: 67mila disoccupati in più rispetto al febbraio 2014. I giovani disoccupati aumentano di 11mila nel mese, per un tasso del 42,6%: cresce di 1,3 punti. Grillo attacca: "Crescono le balle del governo". Poletti: "Nessuna contraddizione"
31 marzo
Ha poco da gongolarsi il governo con questi numeri anche se Poletti cerca di destreggiarsi-
Disoccupazione: Istat, il tasso a febbraio risale al 12,7%
Dopo i segnali positivi di dicembre e gennaio, il mercato del lavoro italiano subisce una battuta d'arresto: 67mila disoccupati in più rispetto al febbraio 2014. I giovani disoccupati aumentano di 11mila nel mese, per un tasso del 42,6%: cresce di 1,3 punti. Grillo attacca: "Crescono le balle del governo". Poletti: "Nessuna contraddizione"
31 marzo
Ha poco da gongolarsi il governo con questi numeri anche se Poletti cerca di destreggiarsi-
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Re: IL LAVORO
La Stampa 1.4.15
Ma i giovani rischiano di restare fuori dal nuovo contratto a tutele crescenti
Le imprese preferiscono lavoratori già esperti. E molti ragazzi scelgono la partita Iva
di Walter Passerini
I messaggi sono contrastanti, da elettrocardiogramma impazzito. Oggi i punti fermi Istat sono: il 12,7% di disoccupazione generale, il 42,6% di disoccupazione giovanile. Dovremo rassegnarci: leggere ogni mese i dati ci rende prigionieri delle montagne russe, costringendoci a emozioni e colpi di scena a ritmo serrato.
Solo lunedì il governo celebrava 79mila assunzioni a gennaio e febbraio 2015, ma ieri l’Istat ha precisato che sono dati non confrontabili perché «sono di diversa natura e non necessariamente significano nuovi occupati; possono anche essere transizioni dal tempo determinato e altri tipi di contratti». La lotteria dei numeri crea sconcerto e offusca le tendenze. A febbraio sono calati di 44 mila unità gli occupati, quasi tutte donne, rispetto a gennaio, ma a preoccupare è la disoccupazione giovanile salita di 1,3 punti su gennaio, proprio nel bimestre in cui trionfano gli incentivi della legge di Stabilità (sconto di 8060 euro l’anno per assunto, 24 mila euro nel triennio). Evidentemente il doping da solo non basta, dobbiamo attendere il boom dei contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti partito il 7 marzo.
La spia delle difficoltà
È la questione giovanile la spia e la metafora delle difficoltà, anche perché il mitico e miracoloso contratto per neo-assunti non è detto che darà lavoro soprattutto ai più giovani. Intanto a febbraio i giovani occupati sono sempre pochi (868 mila tra 15-24 anni), 40 mila in meno rispetto all’anno precedente e 34 mila in meno su gennaio. Il tasso di disoccupazione è al 43%, mentre l’occupazione scende al 14,6% (solo un giovane su sette lavora). E nel contempo salgono gli inattivi a 4,4 milioni, aumentando di 35 mila unità in un anno e di 20 mila in un mese (dentro ci sono 2 milioni di Neet). Ma le fotografie non servono, ci vuole la macchina da presa che colga il movimento e la nascita di un nuovo dualismo tra tutelati e non. Ora le attese sono sul contratto a tutele crescenti e senza l’articolo 18, che metterà il turbo anche grazie agli sconti contributivi. Un anno fa aveva fatto terra bruciata il contratto a tempo determinato, reso più facile e passepartout di tutte le assunzioni: tre anni di flessibilità senza causale.
Non a caso il contratto a termine ha cannibalizzato gli altri contratti (sette su dieci). Ora il nuovo contratto lo sostituirà? Diventerà la formula regina? Forse, ma i giovani potrebbero venire emarginati. L’ipotesi viene ventilata dal mondo delle imprese che, cercando di trarre il massimo vantaggio dalle novità, faranno sì assunzioni con il nuovo contratto superscontato, ma sceglieranno bene le persone da assumere con grande selettività.
Problema di competitività
Il problema delle aziende è oggi la concorrenza e la competitività: otterranno più produttività facendo rientrare in parte i cassintegrati e assumendo risorse esterne più esperte che giovani, più competenti che da formare. La fretta giocherà il resto, nella rincorsa al massimo di produttività. La selezione segmenterà e riposizionerà il mercato: a farne le spese potrebbero essere i giovani, per i quali si profila un futuro di precarietà, viste le troppe formule che non sono state disboscate. Si ripropone così, nonostante il nuovo contratto, quel dualismo del mercato del lavoro che è fonte di ambiguità. Le evidenze sono la spinosa stabilizzazione dei cocopro, ma anche la ripresa dei contratti in somministrazione (ex interinali, crescono al 9% e registrano 300mila occupati al mese, in gran parte giovani), la stabilità dell’apprendistato (fortemente incentivato), l’aumento di stage e tirocini (spesso fuorilegge), job on call e voucher. Ma anche l’aumento delle partite Iva giovanili dovuta a ragioni fiscali (regime dei minimi), che fa sì che a oggi 700mila under 35enni abbiano scelto la via dell’auto-impresa.
Tra le strategie giovanili alternative c’è così il passaggio dal lavoro dipendente al lavoro autonomo. Insieme al trasferimento all’estero (l’anno scorso ha coinvolto 100mila italiani di cui la metà sotto i 40 anni): scelta più matura e consapevole, sempre meno fuga da emarginati. Mentre grida vendetta il flop della Garanzia giovani (1,5 miliardi di finanziamento), icona d’impotenza e dagherrotipo dell’immobilismo dell’Italia che fu.
Ma i giovani rischiano di restare fuori dal nuovo contratto a tutele crescenti
Le imprese preferiscono lavoratori già esperti. E molti ragazzi scelgono la partita Iva
di Walter Passerini
I messaggi sono contrastanti, da elettrocardiogramma impazzito. Oggi i punti fermi Istat sono: il 12,7% di disoccupazione generale, il 42,6% di disoccupazione giovanile. Dovremo rassegnarci: leggere ogni mese i dati ci rende prigionieri delle montagne russe, costringendoci a emozioni e colpi di scena a ritmo serrato.
Solo lunedì il governo celebrava 79mila assunzioni a gennaio e febbraio 2015, ma ieri l’Istat ha precisato che sono dati non confrontabili perché «sono di diversa natura e non necessariamente significano nuovi occupati; possono anche essere transizioni dal tempo determinato e altri tipi di contratti». La lotteria dei numeri crea sconcerto e offusca le tendenze. A febbraio sono calati di 44 mila unità gli occupati, quasi tutte donne, rispetto a gennaio, ma a preoccupare è la disoccupazione giovanile salita di 1,3 punti su gennaio, proprio nel bimestre in cui trionfano gli incentivi della legge di Stabilità (sconto di 8060 euro l’anno per assunto, 24 mila euro nel triennio). Evidentemente il doping da solo non basta, dobbiamo attendere il boom dei contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti partito il 7 marzo.
La spia delle difficoltà
È la questione giovanile la spia e la metafora delle difficoltà, anche perché il mitico e miracoloso contratto per neo-assunti non è detto che darà lavoro soprattutto ai più giovani. Intanto a febbraio i giovani occupati sono sempre pochi (868 mila tra 15-24 anni), 40 mila in meno rispetto all’anno precedente e 34 mila in meno su gennaio. Il tasso di disoccupazione è al 43%, mentre l’occupazione scende al 14,6% (solo un giovane su sette lavora). E nel contempo salgono gli inattivi a 4,4 milioni, aumentando di 35 mila unità in un anno e di 20 mila in un mese (dentro ci sono 2 milioni di Neet). Ma le fotografie non servono, ci vuole la macchina da presa che colga il movimento e la nascita di un nuovo dualismo tra tutelati e non. Ora le attese sono sul contratto a tutele crescenti e senza l’articolo 18, che metterà il turbo anche grazie agli sconti contributivi. Un anno fa aveva fatto terra bruciata il contratto a tempo determinato, reso più facile e passepartout di tutte le assunzioni: tre anni di flessibilità senza causale.
Non a caso il contratto a termine ha cannibalizzato gli altri contratti (sette su dieci). Ora il nuovo contratto lo sostituirà? Diventerà la formula regina? Forse, ma i giovani potrebbero venire emarginati. L’ipotesi viene ventilata dal mondo delle imprese che, cercando di trarre il massimo vantaggio dalle novità, faranno sì assunzioni con il nuovo contratto superscontato, ma sceglieranno bene le persone da assumere con grande selettività.
Problema di competitività
Il problema delle aziende è oggi la concorrenza e la competitività: otterranno più produttività facendo rientrare in parte i cassintegrati e assumendo risorse esterne più esperte che giovani, più competenti che da formare. La fretta giocherà il resto, nella rincorsa al massimo di produttività. La selezione segmenterà e riposizionerà il mercato: a farne le spese potrebbero essere i giovani, per i quali si profila un futuro di precarietà, viste le troppe formule che non sono state disboscate. Si ripropone così, nonostante il nuovo contratto, quel dualismo del mercato del lavoro che è fonte di ambiguità. Le evidenze sono la spinosa stabilizzazione dei cocopro, ma anche la ripresa dei contratti in somministrazione (ex interinali, crescono al 9% e registrano 300mila occupati al mese, in gran parte giovani), la stabilità dell’apprendistato (fortemente incentivato), l’aumento di stage e tirocini (spesso fuorilegge), job on call e voucher. Ma anche l’aumento delle partite Iva giovanili dovuta a ragioni fiscali (regime dei minimi), che fa sì che a oggi 700mila under 35enni abbiano scelto la via dell’auto-impresa.
Tra le strategie giovanili alternative c’è così il passaggio dal lavoro dipendente al lavoro autonomo. Insieme al trasferimento all’estero (l’anno scorso ha coinvolto 100mila italiani di cui la metà sotto i 40 anni): scelta più matura e consapevole, sempre meno fuga da emarginati. Mentre grida vendetta il flop della Garanzia giovani (1,5 miliardi di finanziamento), icona d’impotenza e dagherrotipo dell’immobilismo dell’Italia che fu.
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Re: IL LAVORO
Una volta — per essere competitivi — si svalutava la moneta, oggi si svaluta il lavoro: meno diritti, meno tutele, meno retribuzione. Le politiche neoliberiste si sono basate in questi decenni su quattro pilastri: la riduzione della spesa pubblica e del ruolo dello Stato; le privatizzazioni e le liberazioni (a partire da quella della circolazione dei capitali); gli investimenti privati (il mercato) e la precarizzazione del mercato del lavoro.
Giulio Marcon
Dal dibattito di Omnibus di domenica scorsa, la domanda di rito è diventata questa: "Vuoi più lavoro o più diritti?"
Giulio Marcon
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Re: IL LAVORO
Tg7 delle 14,00 - Cronache
In 12.000 stamani all'Ospedale di Niguarda di Milano, per un concorso per 25 posti da infermiere.
Qualche riflessione è d'obbligo.
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Re: IL LAVORO
QUANDO IL MENEFREGHISMO GENERALE ARRIVA A QUESTI LIVELLI
I 147 cristiani trucidati in Kenia hanno lasciato il segno ai dinosauri presenti stamani alla Biblioteca centrale. Tardivamente, ma almeno se ne è discusso.
Varrà lo stesso domani per quanto accaduto a Lucca??? Oppure due famiglie e più, distrutte dalla crisi per il momento non preoccupa più di tanto????
E cos'ha twettato, prontamente, in proposito Leopoldo Paràkulos????
Il miracoloso Job act, non comprende questi casi????
IL CASO
Lucca, operaio uccide il suo capo
Temeva di essere licenziato
Un uomo di 52 anni, caporeparto alla cartiera Lucart di Porcari, è stato atteso e ucciso all’alba in piazza sotto casa a colpi di pistola da un dipendente della stessa azienda. Il killer poi si è costituito. La moglie della vittima era alla finestra
di Simone Dinelli, Simone Innocenti
I 147 cristiani trucidati in Kenia hanno lasciato il segno ai dinosauri presenti stamani alla Biblioteca centrale. Tardivamente, ma almeno se ne è discusso.
Varrà lo stesso domani per quanto accaduto a Lucca??? Oppure due famiglie e più, distrutte dalla crisi per il momento non preoccupa più di tanto????
E cos'ha twettato, prontamente, in proposito Leopoldo Paràkulos????
Il miracoloso Job act, non comprende questi casi????
IL CASO
Lucca, operaio uccide il suo capo
Temeva di essere licenziato
Un uomo di 52 anni, caporeparto alla cartiera Lucart di Porcari, è stato atteso e ucciso all’alba in piazza sotto casa a colpi di pistola da un dipendente della stessa azienda. Il killer poi si è costituito. La moglie della vittima era alla finestra
di Simone Dinelli, Simone Innocenti
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Re: IL LAVORO
Whirlpool chiude tre fabbriche: 1350 esuberi
Per Renzi l’acquisizione di Indesit era ‘fantastica’
Il gruppo Usa ferma gli stabilimenti di Caserta, None e Albacina. Governo: “Forte contrarietà”. A luglio
il premier aveva rivendicato: “Non conta il passaporto, ma il piano industriale”. Operai occupano strade
Lavoro & Precari
Il 13 luglio scorso, dopo l’annuncio dell’acquisizione della marchigiana Indesit da parte del gruppo statunitense Whirlpool, Matteo Renzi aveva definito l’operazione “fantastica” rivendicando di aver “parlato personalmente con gli americani a Palazzo Chigi”. “Noi, se ci riusciamo, vogliamo portare aziende da tutto il mondo a Taranto, a Termini Imerese, nel Sulcis, come nel Veneto. Il punto non è il passaporto, ma il piano industriale”. Ora il piano industriale di Whirlpool è arrivato, ma è ben diverso dagli auspici del presidente del Consiglio: chiusura di tre siti produttivi e 1.350 esuberi
hp. F.Q.
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Articolo + video
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/04 ... i/1597054/
Per Renzi l’acquisizione di Indesit era ‘fantastica’
Il gruppo Usa ferma gli stabilimenti di Caserta, None e Albacina. Governo: “Forte contrarietà”. A luglio
il premier aveva rivendicato: “Non conta il passaporto, ma il piano industriale”. Operai occupano strade
Lavoro & Precari
Il 13 luglio scorso, dopo l’annuncio dell’acquisizione della marchigiana Indesit da parte del gruppo statunitense Whirlpool, Matteo Renzi aveva definito l’operazione “fantastica” rivendicando di aver “parlato personalmente con gli americani a Palazzo Chigi”. “Noi, se ci riusciamo, vogliamo portare aziende da tutto il mondo a Taranto, a Termini Imerese, nel Sulcis, come nel Veneto. Il punto non è il passaporto, ma il piano industriale”. Ora il piano industriale di Whirlpool è arrivato, ma è ben diverso dagli auspici del presidente del Consiglio: chiusura di tre siti produttivi e 1.350 esuberi
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