Economia
-
- Messaggi: 17353
- Iscritto il: 06/04/2012, 20:00
Re: Economia
ECONOMIA & LOBBY
Pirelli e Fiat, come finisce un grande Paese
di Furio Colombo | 29 marzo 2015 COMMENTI
Ti dicono che le aziende vanno e vengono, cambia la proprietà, la tecnologia, la formazione dei consigli di amministrazione, dei voti prevalenti, il tipo di manager, il modo di arruolare i dipendenti, la natura dei legami, la qualità dei prodotti, le aree di mercato. Salgono e scendono a volte in relazione alle crisi economiche che tormentano tutti, a volte resistendo meglio e da sole, nonostante il vento forte. E vogliono farti credere che questa evoluzione naturale del cambiamento riguarda anche la nazionalità dell’impresa e la nazionalità della proprietà dell’impresa. Che cosa importa la nazionalità dell’azionista se entra e prende il controllo qualcuno autorevole che viene dall’altra parte del mondo?
Primo, garantisce la continuità anche nei giorni difficili. Secondo, rende più facile l’espansione (nuovi mercati, nuove aree, nuovi Paesi). Terzo è una bella garanzia per i dipendenti e i dirigenti che sanno di entrare a far parte di una struttura più grande, che non confina più (soltanto) con il proprio Paese, ma si allarga nel modo e attribuisce un che di universale alla tua fabbrica. Per esempio, in Italia entra la Cina, compra la Pirelli e scrosciano addirittura gli applausi. Come conforto si usa citare il precedente di Krizia, comprata da una avvenente ingegnere (come si dice ingegnere, se è donna? chiedo a Laura Boldrini) di Shanghai, dimenticando la vocazione apolide di quel tipo di impresa, anche quando è grandissima perché è, per vocazione, trasportabile. Il caso Pirelli, un’azienda italiana simbolo mondiale, che improvvisamente diventa di proprietà cinese è come un fortissimo colpo di gong che dà un annuncio. La parte importante di quell’annuncio è che la Pirelli, benché impieghi gli stessi lavoratori italiani e gli stessi manager italiani a tutti i livelli (certo una garanzia per il prodotto e un grado di sicurezza per i dipendenti) non è più un’azienda italiana. E dunque una pedina importante va rimossa dalla tavola del gioco. Qual è il gioco? È un gioco per metà economico, per metà di influenza e prestigio: quanto conti nel mondo? È un gioco meno grossolano di quello che sembra, perché non parliamo di armi e neppure di ricchezza, ma di prestigio. L’Italia ha, e ha avuto, brutti momenti, ma certi aspetti del suo prestigio (per esempio il suo riconosciuto potere industriale e la dimensione di quel potere) ha mantenuto rilevante e rispettabile la sua immagine nonostante il perdurante spettacolo di sangue di mafia, ’ndrangheta e camorra, allo stesso tragico e ridicolo. Ma come fai a non rispettare, anche nelle relazioni internazionali, anche nei confronti delle piccole e minime imprese (piccole ma italiane), anche nei confronti dei suoi scienziati e dei suoi studenti, un Paese che ha la Pirelli e la Fiat? Mentre si apre l’evento di cui stiamo parlando (la Pirelli sarà anche stata un prodigio di ingegneria italiana, ma adesso è cinese, e non c’entra la globalizzazione, c’entra la convenienza di qualcuno a vendere) è impossibile non parlare di Fiat, ovvero di Fca. La Fca possiede alcuni stabilimenti in Italia, ma adesso è una fabbrica di automobili americana.
L’America, come la Cina, è un paese forte, egemone, e sproporzionatamente grande. Questo fatto non è geografico, è culturale e politico. Un Paese che può dominare, domina. Anche se non fosse già scritto nel tipo di riassetto voluto dalla ex proprietà italiana della ex Fiat, e benché il fatto sia negato da tutti coloro che non possono permettersi di perdere pubblicità Fca, l’Italia ha perduto per sempre il prestigio che veniva dall’essere la casa (dunque anche il luogo) della Fiat, con il valore, conosciuto e apprezzato, non solo dei prodotti ma anche delle persone addette alla grande fabbrica mondiale italiana. Infatti, per non creare equivoci, la Fca ha rapidamente americanizzato anche la Ferrari, che aveva dato per decenni al Paese Italia il prestigio che nessun governo e nessuna politica avrebbe mai potuto dare. E ormai si deve dire “ai tempi di Agnelli” e “ai tempi di Montezemolo” per indicare epoche diverse in cui tutto ciò che adesso è americano e quotato alla borsa di New York (ma con tasse pagate a Londra e sede legale in Olanda) era italiano.
Dunque il caso Pirelli (grande impresa-simbolo italiana, che resta teoricamente in Italia benchè diventata di proprietà cinese) e il caso Fiat, che ha radicalmente traslocato nell’altro Paese egemone, gli Usa, pur lasciando fabbriche minori (alcune ferme) in Italia, sono casi identici di amputazione dal corpo italiano di parti essenziali all’identificazione di questo Paese. Si può capire che il governo se ne occupi poco e finga anzi di leggere a rovescio questi due gravissimi episodi di perdita del prestigio industriale italiano (lealmente Marchionne aveva ritirato la Fiat dalla Confindustria prima della rimozione dei suoi punti decisionali, industriale, fiscale, legale) andando a dire che ci comprano perché finalmente siamo desiderabili. Renzi, infatti, come Berlusconi, preferisce fabbricarsi il prestigio da solo attraverso il controllo delle notizie e – mentre perde Fiat e Pirelli – mostra di compiacersi (spero non in buona fede) per i grandi risultati raggiunti. Come è noto, una parte dell’indotto ex Fiat si è accodato all’esodo verso Detroit, e la stessa cosa sta succedendo – verso la Cina – intorno alla Pirelli.
Ma i contraccolpi saranno duri per la piccola e laboriosa e popolatissima Italia dell’industria minore. Chiunque si presenti in giro per il mondo non viene più dal Paese della Fiat, della Pirelli, della Ferrari. Viene da un Paese di vacanze a cui, fuori stagione, non è così urgente prestare attenzione. Ora la grande impresa (vedere il fatturato) resta la malavita, con sede operativa e manodopera tutta italiana.
il Fatto Quotidiano, 29 marzo 2015
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/03 ... e/1547507/
Pirelli e Fiat, come finisce un grande Paese
di Furio Colombo | 29 marzo 2015 COMMENTI
Ti dicono che le aziende vanno e vengono, cambia la proprietà, la tecnologia, la formazione dei consigli di amministrazione, dei voti prevalenti, il tipo di manager, il modo di arruolare i dipendenti, la natura dei legami, la qualità dei prodotti, le aree di mercato. Salgono e scendono a volte in relazione alle crisi economiche che tormentano tutti, a volte resistendo meglio e da sole, nonostante il vento forte. E vogliono farti credere che questa evoluzione naturale del cambiamento riguarda anche la nazionalità dell’impresa e la nazionalità della proprietà dell’impresa. Che cosa importa la nazionalità dell’azionista se entra e prende il controllo qualcuno autorevole che viene dall’altra parte del mondo?
Primo, garantisce la continuità anche nei giorni difficili. Secondo, rende più facile l’espansione (nuovi mercati, nuove aree, nuovi Paesi). Terzo è una bella garanzia per i dipendenti e i dirigenti che sanno di entrare a far parte di una struttura più grande, che non confina più (soltanto) con il proprio Paese, ma si allarga nel modo e attribuisce un che di universale alla tua fabbrica. Per esempio, in Italia entra la Cina, compra la Pirelli e scrosciano addirittura gli applausi. Come conforto si usa citare il precedente di Krizia, comprata da una avvenente ingegnere (come si dice ingegnere, se è donna? chiedo a Laura Boldrini) di Shanghai, dimenticando la vocazione apolide di quel tipo di impresa, anche quando è grandissima perché è, per vocazione, trasportabile. Il caso Pirelli, un’azienda italiana simbolo mondiale, che improvvisamente diventa di proprietà cinese è come un fortissimo colpo di gong che dà un annuncio. La parte importante di quell’annuncio è che la Pirelli, benché impieghi gli stessi lavoratori italiani e gli stessi manager italiani a tutti i livelli (certo una garanzia per il prodotto e un grado di sicurezza per i dipendenti) non è più un’azienda italiana. E dunque una pedina importante va rimossa dalla tavola del gioco. Qual è il gioco? È un gioco per metà economico, per metà di influenza e prestigio: quanto conti nel mondo? È un gioco meno grossolano di quello che sembra, perché non parliamo di armi e neppure di ricchezza, ma di prestigio. L’Italia ha, e ha avuto, brutti momenti, ma certi aspetti del suo prestigio (per esempio il suo riconosciuto potere industriale e la dimensione di quel potere) ha mantenuto rilevante e rispettabile la sua immagine nonostante il perdurante spettacolo di sangue di mafia, ’ndrangheta e camorra, allo stesso tragico e ridicolo. Ma come fai a non rispettare, anche nelle relazioni internazionali, anche nei confronti delle piccole e minime imprese (piccole ma italiane), anche nei confronti dei suoi scienziati e dei suoi studenti, un Paese che ha la Pirelli e la Fiat? Mentre si apre l’evento di cui stiamo parlando (la Pirelli sarà anche stata un prodigio di ingegneria italiana, ma adesso è cinese, e non c’entra la globalizzazione, c’entra la convenienza di qualcuno a vendere) è impossibile non parlare di Fiat, ovvero di Fca. La Fca possiede alcuni stabilimenti in Italia, ma adesso è una fabbrica di automobili americana.
L’America, come la Cina, è un paese forte, egemone, e sproporzionatamente grande. Questo fatto non è geografico, è culturale e politico. Un Paese che può dominare, domina. Anche se non fosse già scritto nel tipo di riassetto voluto dalla ex proprietà italiana della ex Fiat, e benché il fatto sia negato da tutti coloro che non possono permettersi di perdere pubblicità Fca, l’Italia ha perduto per sempre il prestigio che veniva dall’essere la casa (dunque anche il luogo) della Fiat, con il valore, conosciuto e apprezzato, non solo dei prodotti ma anche delle persone addette alla grande fabbrica mondiale italiana. Infatti, per non creare equivoci, la Fca ha rapidamente americanizzato anche la Ferrari, che aveva dato per decenni al Paese Italia il prestigio che nessun governo e nessuna politica avrebbe mai potuto dare. E ormai si deve dire “ai tempi di Agnelli” e “ai tempi di Montezemolo” per indicare epoche diverse in cui tutto ciò che adesso è americano e quotato alla borsa di New York (ma con tasse pagate a Londra e sede legale in Olanda) era italiano.
Dunque il caso Pirelli (grande impresa-simbolo italiana, che resta teoricamente in Italia benchè diventata di proprietà cinese) e il caso Fiat, che ha radicalmente traslocato nell’altro Paese egemone, gli Usa, pur lasciando fabbriche minori (alcune ferme) in Italia, sono casi identici di amputazione dal corpo italiano di parti essenziali all’identificazione di questo Paese. Si può capire che il governo se ne occupi poco e finga anzi di leggere a rovescio questi due gravissimi episodi di perdita del prestigio industriale italiano (lealmente Marchionne aveva ritirato la Fiat dalla Confindustria prima della rimozione dei suoi punti decisionali, industriale, fiscale, legale) andando a dire che ci comprano perché finalmente siamo desiderabili. Renzi, infatti, come Berlusconi, preferisce fabbricarsi il prestigio da solo attraverso il controllo delle notizie e – mentre perde Fiat e Pirelli – mostra di compiacersi (spero non in buona fede) per i grandi risultati raggiunti. Come è noto, una parte dell’indotto ex Fiat si è accodato all’esodo verso Detroit, e la stessa cosa sta succedendo – verso la Cina – intorno alla Pirelli.
Ma i contraccolpi saranno duri per la piccola e laboriosa e popolatissima Italia dell’industria minore. Chiunque si presenti in giro per il mondo non viene più dal Paese della Fiat, della Pirelli, della Ferrari. Viene da un Paese di vacanze a cui, fuori stagione, non è così urgente prestare attenzione. Ora la grande impresa (vedere il fatturato) resta la malavita, con sede operativa e manodopera tutta italiana.
il Fatto Quotidiano, 29 marzo 2015
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/03 ... e/1547507/
-
- Messaggi: 17353
- Iscritto il: 06/04/2012, 20:00
Re: Economia
ZONAEURO
Ripresa economica: nel ‘Truman Shish’ la performance chiamata cilecca
di Fabio Scacciavillani | 29 marzo 2015 COMMENTI
Fabio Scacciavillani
Chief Economist Fondo d'investimenti dell'Oman
Quando il Partito Repubblicano, trascinato dalla popolarità del Presidente del Consiglio Spadolini, raggiunse il 5% alle elezioni politiche, Forattini pubblicò un’iconoclastica vignetta in cui il grande storico e statista fiorentino, dopo essersi rimirato nudo di fronte allo specchio, esultava in tripudio (cito a memoria): “Più 3%, più 3%!”. La satira forattiniana – che con salacia pecoreccia riportava un successo politico mediaticamente pompato alle sue reali proporzioni – si è immanentemente materializzata alla lettura delle nuove previsioni sulla crescita dell’Italia nel 2015: +0,6%.
In un anno in cui i prezzi del petrolio e delle materie prime sono depressi, l’America pare aver ingranato una marcia in più, viene indetto un Giubileo (per rimpinguare le esauste casse di Bergoglio), l’Expo, i tassi di interesse aleggiano rasoterra, la Bce regala soldi ai governi (inclusi quelli incapaci e corrotti), l’economia italiana si limiterebbe ad una performance che nei migliori bar dell’Etruria, verrebbe bollata alla stregua di una cilecca.
Per ricondurre gli eventi alla giusta prospettiva, forse bisogna partire da una rara affermazione sensata profferita dal patinato Varoufakis, eminente esponente bolsce-fico. Tra un soprabito sadomaso e un servizio fotografico su Paris Match con signora in estasi dalla terrazza di casa con vista Partenone (a proposito a quanto ammonta il reddito dichiarato dalla coppia glamour?), il teorico dei giochi ha affermato che l’Italia è in bancarotta quanto la Grecia. Per capire a cosa alludesse, con ellenica perfidia, il Ministro delle Cambiali bisogna esplicitare il concetto di sostenibilità del debito pubblico.
Non esiste una regola ferrea e semplice per determinare quando un paese ha raggiunto il baratro. In termini qualitativi si può affermare che il debito pubblico è sostenibile quando il saldo primario (cioè la differenza tra introiti e spese pubbliche al netto degli interessi), sufficiente per stabilizzare il rapporto debito Pil, è economicamente e politicamente raggiungibile.
Tradurre i termini qualitativi in rigidi parametri quantitativi è impossibile, ma quantomeno si può ricavare un’utile approssimazione seguendo un processo in 5 punti. Chi risentisse ancora dei traumi da interrogazioni di matematica o fosse allergico alle formule può saltare al paragrafo appena dopo la condizione (4).
1) Il punto di partenza è il vincolo di bilancio del governo:
Gt + (1+it)Bt-1 = Tt + Ct (1)
dovep Gt denota la spesa per beni e servizi (inclusi i salari dei dipendenti pubblici) nell’anno in corso, indicato genericamente dal suffisso t, Bt-1 denota il debito accumulato fino all’inizio dell’anno t, it denota il tasso di interesse (ovviamente maggiore di 0), (1 + it)Bt-1 denota il servizio sul debito accumulato, Ct indica il nuovo credito che il governo ottiene nell’anno in corso e Tt denota gli introit fiscali.
2) L’identità (1) spiega che ogni anno il governo può finanziare le spese correnti (incluso il servizio del debito) con tasse ed emissione di nuovo debito. Per inciso, tra gli introiti va incluso anche il signoraggio, cioè le risorse reali che il governo ottiene dalla stampa di moneta. Se dividiamo tutto per Yt, cioè il Pil nell’anno t possiamo ridurre la (1) a
ct = (gt - tt) + ((1+it)Bt-1)/Yt (2)
3) Nell’identità (2) le lettere in minuscolo denotano le quantità in rapporto al Pil, quindi ad esempio gt e tt,rappresentano rispettivamente spesa e introiti pubblici in rapporto al Pil. Per semplificare, la differenza gt - tt , che rappresenta il defict primario (in rapporto al Pil) la indichiamo con dt . Indicando la crescita del Pil con la lettera minuscola yt (e approssimando) otteniamo un’ulteriore semplificazione
ct = (it- yt)bt-1+ dt (3)
4) Usando l’anno 2014 come esempio, un’accezione (quantitativamente verificabile) del concetto di sostenibilità è data dalla condizione che il debito non cresca, vale a dire che ct si azzeri:
d2014 = (y2014 – i2014 )b2013 (4)
In parole povere il rapporto debito/Pil rimarrebbe costante (e sarebbe pertanto sostenible) qualora il bilancio primario in rapporto al Pil fosse uguale alla differenza tra il tasso di crescita nominale del Pil e il tasso di interesse moltiplicato per il rapporto debito/Pil.
Ai lettori allergici alle formule, ma patiti di Formula1, posso spiegare che la sostenibilità del debito è immaginabile come il risultato della corsa tra tasso di crescita del Pil e tasso di interesse sul debito pubblico.
Andiamo a verificare questa condizione usando i dati degli ultimi due numeri del World Economic Outlook (Weo) del Fondo Monetario Internazionale. I due grafici mostrano il debito dei maggiori paesi di Eurolandia. La dimensione del cerchio è proporzionale al rapporto debito/Pil, mentre la linea rossa a 45 gradi indica la soglia di sostenibilità del debito espressa dalla condizione (4).
I cerchi al di sopra della linea rossa indicano i debiti pubblici sostenibili, quelli al di sotto i debiti insostenibili. Il primo grafico riporta la situazione secondo i dati del Weo nell’aprile 2014. Il secondo grafico riporta la situazione ad ottobre 2014 (quando è stato eseguito l’ultimo esercizio di previsione del Fmi).
Tre aspetti principali saltano all’occhio.
1) Ad aprile i Piigs erano tutti ben piantati nella zona di insostenibilità.
2) In ottobre l’Irlanda aveva migliorato la propria posizione in modo marcato, la Spagna in modo significativo, Grecia e Portogallo presentavano una situazione leggermente peggiore e l’Italia una posizione notevolmente peggiore.
3) Tra gli altri paesi, la Francia aveva registrato una notevole caduta, ma anche Belgio, Austria e Olanda e Finlandia avevano visto deteriorarsi la loro posizione.
Vedremo fra un paio di settimane come i nuovi dati e le nuove previsioni del Weo cambieranno il quadro, ma è fuori discussione che con la caduta del Pil registrata nel 2014 l’Italia possa aver cambiato verso e pertanto lo +0,6% previsto per il 2015 riporta in auge l’esultanza spadoliniana in salsa nazarena.
L’unico elemento che mostra un miglioramento è il servizio del debito pubblico, grazie alla monetizzazione surretizia operata dalla Bce con il quantitative easing, il cui effetto principale è aver allontanato dalle labbra governative l’amaro calice delle riforme profonde invise alle clientele e ai gruppi di pressione organizzati.
Una volta che il Pantalone di Francoforte stacca assegni cabriolet, i tanti Incalza o Carminati sparsi per l’Europa non sentiranno certo l’esigenza pressante di cambiar registro.
Ma il fastidioso intrudere della realtà probabilmente non scoraggerà gli sceneggiatori del Truman Shish tele-disinformativo, ispirati dalle grandiose opere di camoufflage alla cosiddetta Expo di Milano che copriranno i cantieri mai completati. Insomma ancora una volta bisognera’ ricorrere al lecchinaggio per rimediare alla cilecca.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/03 ... a/1545629/
Ripresa economica: nel ‘Truman Shish’ la performance chiamata cilecca
di Fabio Scacciavillani | 29 marzo 2015 COMMENTI
Fabio Scacciavillani
Chief Economist Fondo d'investimenti dell'Oman
Quando il Partito Repubblicano, trascinato dalla popolarità del Presidente del Consiglio Spadolini, raggiunse il 5% alle elezioni politiche, Forattini pubblicò un’iconoclastica vignetta in cui il grande storico e statista fiorentino, dopo essersi rimirato nudo di fronte allo specchio, esultava in tripudio (cito a memoria): “Più 3%, più 3%!”. La satira forattiniana – che con salacia pecoreccia riportava un successo politico mediaticamente pompato alle sue reali proporzioni – si è immanentemente materializzata alla lettura delle nuove previsioni sulla crescita dell’Italia nel 2015: +0,6%.
In un anno in cui i prezzi del petrolio e delle materie prime sono depressi, l’America pare aver ingranato una marcia in più, viene indetto un Giubileo (per rimpinguare le esauste casse di Bergoglio), l’Expo, i tassi di interesse aleggiano rasoterra, la Bce regala soldi ai governi (inclusi quelli incapaci e corrotti), l’economia italiana si limiterebbe ad una performance che nei migliori bar dell’Etruria, verrebbe bollata alla stregua di una cilecca.
Per ricondurre gli eventi alla giusta prospettiva, forse bisogna partire da una rara affermazione sensata profferita dal patinato Varoufakis, eminente esponente bolsce-fico. Tra un soprabito sadomaso e un servizio fotografico su Paris Match con signora in estasi dalla terrazza di casa con vista Partenone (a proposito a quanto ammonta il reddito dichiarato dalla coppia glamour?), il teorico dei giochi ha affermato che l’Italia è in bancarotta quanto la Grecia. Per capire a cosa alludesse, con ellenica perfidia, il Ministro delle Cambiali bisogna esplicitare il concetto di sostenibilità del debito pubblico.
Non esiste una regola ferrea e semplice per determinare quando un paese ha raggiunto il baratro. In termini qualitativi si può affermare che il debito pubblico è sostenibile quando il saldo primario (cioè la differenza tra introiti e spese pubbliche al netto degli interessi), sufficiente per stabilizzare il rapporto debito Pil, è economicamente e politicamente raggiungibile.
Tradurre i termini qualitativi in rigidi parametri quantitativi è impossibile, ma quantomeno si può ricavare un’utile approssimazione seguendo un processo in 5 punti. Chi risentisse ancora dei traumi da interrogazioni di matematica o fosse allergico alle formule può saltare al paragrafo appena dopo la condizione (4).
1) Il punto di partenza è il vincolo di bilancio del governo:
Gt + (1+it)Bt-1 = Tt + Ct (1)
dovep Gt denota la spesa per beni e servizi (inclusi i salari dei dipendenti pubblici) nell’anno in corso, indicato genericamente dal suffisso t, Bt-1 denota il debito accumulato fino all’inizio dell’anno t, it denota il tasso di interesse (ovviamente maggiore di 0), (1 + it)Bt-1 denota il servizio sul debito accumulato, Ct indica il nuovo credito che il governo ottiene nell’anno in corso e Tt denota gli introit fiscali.
2) L’identità (1) spiega che ogni anno il governo può finanziare le spese correnti (incluso il servizio del debito) con tasse ed emissione di nuovo debito. Per inciso, tra gli introiti va incluso anche il signoraggio, cioè le risorse reali che il governo ottiene dalla stampa di moneta. Se dividiamo tutto per Yt, cioè il Pil nell’anno t possiamo ridurre la (1) a
ct = (gt - tt) + ((1+it)Bt-1)/Yt (2)
3) Nell’identità (2) le lettere in minuscolo denotano le quantità in rapporto al Pil, quindi ad esempio gt e tt,rappresentano rispettivamente spesa e introiti pubblici in rapporto al Pil. Per semplificare, la differenza gt - tt , che rappresenta il defict primario (in rapporto al Pil) la indichiamo con dt . Indicando la crescita del Pil con la lettera minuscola yt (e approssimando) otteniamo un’ulteriore semplificazione
ct = (it- yt)bt-1+ dt (3)
4) Usando l’anno 2014 come esempio, un’accezione (quantitativamente verificabile) del concetto di sostenibilità è data dalla condizione che il debito non cresca, vale a dire che ct si azzeri:
d2014 = (y2014 – i2014 )b2013 (4)
In parole povere il rapporto debito/Pil rimarrebbe costante (e sarebbe pertanto sostenible) qualora il bilancio primario in rapporto al Pil fosse uguale alla differenza tra il tasso di crescita nominale del Pil e il tasso di interesse moltiplicato per il rapporto debito/Pil.
Ai lettori allergici alle formule, ma patiti di Formula1, posso spiegare che la sostenibilità del debito è immaginabile come il risultato della corsa tra tasso di crescita del Pil e tasso di interesse sul debito pubblico.
Andiamo a verificare questa condizione usando i dati degli ultimi due numeri del World Economic Outlook (Weo) del Fondo Monetario Internazionale. I due grafici mostrano il debito dei maggiori paesi di Eurolandia. La dimensione del cerchio è proporzionale al rapporto debito/Pil, mentre la linea rossa a 45 gradi indica la soglia di sostenibilità del debito espressa dalla condizione (4).
I cerchi al di sopra della linea rossa indicano i debiti pubblici sostenibili, quelli al di sotto i debiti insostenibili. Il primo grafico riporta la situazione secondo i dati del Weo nell’aprile 2014. Il secondo grafico riporta la situazione ad ottobre 2014 (quando è stato eseguito l’ultimo esercizio di previsione del Fmi).
Tre aspetti principali saltano all’occhio.
1) Ad aprile i Piigs erano tutti ben piantati nella zona di insostenibilità.
2) In ottobre l’Irlanda aveva migliorato la propria posizione in modo marcato, la Spagna in modo significativo, Grecia e Portogallo presentavano una situazione leggermente peggiore e l’Italia una posizione notevolmente peggiore.
3) Tra gli altri paesi, la Francia aveva registrato una notevole caduta, ma anche Belgio, Austria e Olanda e Finlandia avevano visto deteriorarsi la loro posizione.
Vedremo fra un paio di settimane come i nuovi dati e le nuove previsioni del Weo cambieranno il quadro, ma è fuori discussione che con la caduta del Pil registrata nel 2014 l’Italia possa aver cambiato verso e pertanto lo +0,6% previsto per il 2015 riporta in auge l’esultanza spadoliniana in salsa nazarena.
L’unico elemento che mostra un miglioramento è il servizio del debito pubblico, grazie alla monetizzazione surretizia operata dalla Bce con il quantitative easing, il cui effetto principale è aver allontanato dalle labbra governative l’amaro calice delle riforme profonde invise alle clientele e ai gruppi di pressione organizzati.
Una volta che il Pantalone di Francoforte stacca assegni cabriolet, i tanti Incalza o Carminati sparsi per l’Europa non sentiranno certo l’esigenza pressante di cambiar registro.
Ma il fastidioso intrudere della realtà probabilmente non scoraggerà gli sceneggiatori del Truman Shish tele-disinformativo, ispirati dalle grandiose opere di camoufflage alla cosiddetta Expo di Milano che copriranno i cantieri mai completati. Insomma ancora una volta bisognera’ ricorrere al lecchinaggio per rimediare alla cilecca.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/03 ... a/1545629/
-
- Messaggi: 1079
- Iscritto il: 19/04/2012, 12:04
Re: Economia
Articolo interessante e ineccepibile dal punto di vista tecnico, purtroppo non ci fa capire il perché siamo giunti in questa situazione.
In alcuni paesi la situazione è arrivata a questo punto per eccessivo ottimismo verso un sistema sociale che doveva mantenere la pace sociale mentre da noi (e in altri PIGS) siamo giunti a questo punto di non ritorno per le ruberie sconsiderate e continue della classe politico/dirigenziale del nostro paese.
Qui non si rimedia più alla "cilecca" qui siamo arrivati all'ultimo atto e solo la fortunata coincidenza di un risparmio privato che nei 50 anni precedenti ha accumulato molto ci sta salvando dalla rivolta civile ma non potrà durare ancora per molto.
Io rimango basito dalla "pazienza" e talvolta "ignavia" delle nuove generazioni che pur private del loro futuro da scelte demenziali/criminali fatte negli anni 80 e ribadite nei decenni seguenti, continuano a rimanere calme sopite quasi "anestetizzate"; la fortuna dei Governi degli ultimi vent'anni è tutta lì in questa "calma apparente".
Non so cosa accadrà quando si compirà totalmente il ricambio generazionale ma sicuramente sarà tardi per invertire una tendenza che ha portato l'Italia al punto più basso della sua Storia.
In alcuni paesi la situazione è arrivata a questo punto per eccessivo ottimismo verso un sistema sociale che doveva mantenere la pace sociale mentre da noi (e in altri PIGS) siamo giunti a questo punto di non ritorno per le ruberie sconsiderate e continue della classe politico/dirigenziale del nostro paese.
Qui non si rimedia più alla "cilecca" qui siamo arrivati all'ultimo atto e solo la fortunata coincidenza di un risparmio privato che nei 50 anni precedenti ha accumulato molto ci sta salvando dalla rivolta civile ma non potrà durare ancora per molto.
Io rimango basito dalla "pazienza" e talvolta "ignavia" delle nuove generazioni che pur private del loro futuro da scelte demenziali/criminali fatte negli anni 80 e ribadite nei decenni seguenti, continuano a rimanere calme sopite quasi "anestetizzate"; la fortuna dei Governi degli ultimi vent'anni è tutta lì in questa "calma apparente".
Non so cosa accadrà quando si compirà totalmente il ricambio generazionale ma sicuramente sarà tardi per invertire una tendenza che ha portato l'Italia al punto più basso della sua Storia.
-
- Messaggi: 17353
- Iscritto il: 06/04/2012, 20:00
Re: Economia
ECONOMIA
Disoccupazione, nell'Eurozona il futuro è ancora nero
La Bce prevede che il tasso rimarrà di oltre il 10 per cento anche dopo il programma di acquisto di titoli di Stato. Le profonde cicatrici della crisi nell'analisi del Financial Times
DI CLAIRE JONES
31 marzo 2015
Un lavoratore su dieci nell'eurozona resterà disoccupato anche dopo che gli effetti del programma di acquisto di obbligazioni della Banca centrale europea avranno raggiunto tutti gli ambiti dell'economia.
Lo dicono le proiezioni della stessa Bce, evidenziando le profonde cicatrici lasciate dalla crisi finanziaria e del debito nell'area della moneta unica.
Mario Draghi, il presidente della Bce, ha spiegato al Parlamento europeo che in questa regione "la crescita sta accelerando". "L'alleggerimento delle condizioni del credito va di pari passo con una ripresa della domanda di credito destinata agli investimenti del settore produttivo", ha detto Draghi. "In una prospettiva di lungo termine ciò darà potenzialmente una spinta alla produzione".
Sorge la domanda, tuttavia, su quanto la ripresa beneficerà chi più è stato colpito da vari anni di recessione e di quasi stagnazione. La disoccupazione nell'eurozona è ancora dell'11,2 per cento. Le ultime previsioni della Bce suggeriscono che la gravità della crisi nell'area dell'euro sia stata tale che, anche dopo la totale implementazione del programma di alleggerimento quantitativo da 1.100 miliardi di euro, i tassi di disoccupazione non scenderanno sotto il 10 per cento.
Negli Stati Uniti, invece, a febbraio si è registrata una percentuale di disoccupati del 5,5 per cento e si prevede che nell'anno scenda sotto il 5 per cento. Nel Regno Unito, secondo le stime, la disoccupazione dovrebbe alleggerirsi nel corso dell'anno a meno del 5,3 per cento.
"In sostanza, è estremamente deludente che i decisori politici dell'eurozona continuino a tollerare un livello di disoccupazione alto in maniera inaccettabile e pericoloso", dice Jonathan Portes, direttore dell'Istituto britannico per l'economia e la ricerca sociale. Le previsioni mensili fanno pensare che gli economisti della Bce stiano mettendo in conto uno scenario per fine 2017 – il momento in cui la Bce prevede che si sarà completata la ripresa ciclica della regione – in cui un 9,9 per cento della forza lavoro non avrà ancora trovato una occupazione.
Per alcuni economisti le previsioni della Bce sono troppo pessimistiche, ma molti ritengono che il livello di disoccupazione nell'area euro rimarrà ben al di sopra di quello più basso toccato all'inizio del 2008, del 7,2 per cento.
"A causa del protratto periodo di alta disoccupazione, in Europa assistiamo ora a una erosione delle capacità della forza lavoro", dice Lucrezia Reichlin, economista, professore presso la London Business School. “Io credo nella ripresa dell'eurozona, ma è una ripresa modesta. Ciò significa che non recupereremo mai una buona parte di quel che si è perduto in termini di produzione e di occupazione".
Il tasso di disoccupazione riferito all'area euro complessivamente maschera, inoltre, i profondi divari che esistono tra aree ricche e aree povere. I giovani hanno finora pagato il prezzo più alto della crisi, percentuali di disoccupati tra gli under 25 in Spagna e Grecia di oltre il 50 per cento, rispetto a circa un quarto della forza lavoro totale.
La Bce sostiene che i governi possano contribuire ad attenuare la disoccupazione insistendo sulle riforme che rendono i rispettivi mercati del lavoro più flessibili e competitivi. Alcuni economisti, invece, premono affinché la politica, inclusi i banchieri centrali, faccia di più.
11.2 per cento -Il tasso di disoccupazione attuale nell'eurozona
5.5 per cento - Il tasso di disoccupazione negli Usa a febbraio
Copyright The Financial Times Limited, 2015.
© 2015 The Financial Times Limited
Tag
http://espresso.repubblica.it/plus/arti ... =HEF_RULLO
Disoccupazione, nell'Eurozona il futuro è ancora nero
La Bce prevede che il tasso rimarrà di oltre il 10 per cento anche dopo il programma di acquisto di titoli di Stato. Le profonde cicatrici della crisi nell'analisi del Financial Times
DI CLAIRE JONES
31 marzo 2015
Un lavoratore su dieci nell'eurozona resterà disoccupato anche dopo che gli effetti del programma di acquisto di obbligazioni della Banca centrale europea avranno raggiunto tutti gli ambiti dell'economia.
Lo dicono le proiezioni della stessa Bce, evidenziando le profonde cicatrici lasciate dalla crisi finanziaria e del debito nell'area della moneta unica.
Mario Draghi, il presidente della Bce, ha spiegato al Parlamento europeo che in questa regione "la crescita sta accelerando". "L'alleggerimento delle condizioni del credito va di pari passo con una ripresa della domanda di credito destinata agli investimenti del settore produttivo", ha detto Draghi. "In una prospettiva di lungo termine ciò darà potenzialmente una spinta alla produzione".
Sorge la domanda, tuttavia, su quanto la ripresa beneficerà chi più è stato colpito da vari anni di recessione e di quasi stagnazione. La disoccupazione nell'eurozona è ancora dell'11,2 per cento. Le ultime previsioni della Bce suggeriscono che la gravità della crisi nell'area dell'euro sia stata tale che, anche dopo la totale implementazione del programma di alleggerimento quantitativo da 1.100 miliardi di euro, i tassi di disoccupazione non scenderanno sotto il 10 per cento.
Negli Stati Uniti, invece, a febbraio si è registrata una percentuale di disoccupati del 5,5 per cento e si prevede che nell'anno scenda sotto il 5 per cento. Nel Regno Unito, secondo le stime, la disoccupazione dovrebbe alleggerirsi nel corso dell'anno a meno del 5,3 per cento.
"In sostanza, è estremamente deludente che i decisori politici dell'eurozona continuino a tollerare un livello di disoccupazione alto in maniera inaccettabile e pericoloso", dice Jonathan Portes, direttore dell'Istituto britannico per l'economia e la ricerca sociale. Le previsioni mensili fanno pensare che gli economisti della Bce stiano mettendo in conto uno scenario per fine 2017 – il momento in cui la Bce prevede che si sarà completata la ripresa ciclica della regione – in cui un 9,9 per cento della forza lavoro non avrà ancora trovato una occupazione.
Per alcuni economisti le previsioni della Bce sono troppo pessimistiche, ma molti ritengono che il livello di disoccupazione nell'area euro rimarrà ben al di sopra di quello più basso toccato all'inizio del 2008, del 7,2 per cento.
"A causa del protratto periodo di alta disoccupazione, in Europa assistiamo ora a una erosione delle capacità della forza lavoro", dice Lucrezia Reichlin, economista, professore presso la London Business School. “Io credo nella ripresa dell'eurozona, ma è una ripresa modesta. Ciò significa che non recupereremo mai una buona parte di quel che si è perduto in termini di produzione e di occupazione".
Il tasso di disoccupazione riferito all'area euro complessivamente maschera, inoltre, i profondi divari che esistono tra aree ricche e aree povere. I giovani hanno finora pagato il prezzo più alto della crisi, percentuali di disoccupati tra gli under 25 in Spagna e Grecia di oltre il 50 per cento, rispetto a circa un quarto della forza lavoro totale.
La Bce sostiene che i governi possano contribuire ad attenuare la disoccupazione insistendo sulle riforme che rendono i rispettivi mercati del lavoro più flessibili e competitivi. Alcuni economisti, invece, premono affinché la politica, inclusi i banchieri centrali, faccia di più.
11.2 per cento -Il tasso di disoccupazione attuale nell'eurozona
5.5 per cento - Il tasso di disoccupazione negli Usa a febbraio
Copyright The Financial Times Limited, 2015.
© 2015 The Financial Times Limited
Tag
http://espresso.repubblica.it/plus/arti ... =HEF_RULLO
-
- Messaggi: 17353
- Iscritto il: 06/04/2012, 20:00
Re: Economia
Nessun tweet di Bufala Bill
RAPPORTO ISTAT
La pressione fiscale sale ancora
Imprese, mai cosi male dal ’95
Dati in chiaroscuro sul 2014. Si ferma il calo del potere d’acquisto
delle famiglie. Il rapporto deficit/Pil rivede il 3%
di Paola Pica
Il 2014 si conferma l’annus horribilis delle imprese, almeno quelle che non svolgono attività finanziaria. Informa l’Istat che la «quota di profitti», un indicatore utilizzato da Eurostat che misura un rapporto assimilabile al margine operativo, è risultato pari allo 0,46% nel 2014, ai minimi dal 1995, l’ anno in cui sono iniziate le serie storiche. La riduzione sul 2013 è di 0,8 punti percentuali. Per la prima volta dal 2007, cioè dall’inizio della lunga crisi, ha smesso invece di scendere il potere d’acquisto degli italiani. Tenuto conto dell’andamento dell’inflazione, la capacità di spesa delle famiglie consumatrici è scesa dello 0,5% nel quarto trimestre del 2014 rispetto al trimestre precedente ma è aumentata dello 0,8% rispetto al quarto trimestre del 2013. L’anno scorso, il reddito disponibile delle famiglie è aumentato dello 0,2%.
Tasse e tassi
Sale poi la pressione fiscale già record in Italia. Nel quarto trimestre dell’anno scorso è risultata pari al 50,3%, in aumento di 0,1 punti percentuali sull’ultimo scorcio del 2013 (50,2%). Nell’intero 2014 è risultata pari al 43,5%, in aumento anche in questo caso di 0,1 punti percentuali rispetto all’anno precedente (quando si era attestata al 43,4%). La buona notizia è la minor spesa dello Stato per gli interessi passivi che grazie al calo dei tassi e dello è risultata in calo del 4,6%, passando da circa 20,7 miliardi di euro a circa 19,7 miliardi di euro , sempre nel quarto trimestre del 2014.
Deficit Pil
Nell’intero 2014 il rapporto tra deficit e Pil è stato pari al 3,0%, in aumento di 0,1 punti percentuali rispetto a quello del 2013, quando il parametro sul disavanzo statale tenuto sotto stretto controllo dalla Ue si è attestato al 2,9%. Quanto a entrate e uscite nel quarto trimestre dell’anno scorso sono aumentate entrambe. Le uscite totali sono salite del 2,6%; la loro incidenza rispetto al Pil è stata del 57,6% (56,1% nel corrispondente trimestre dell’anno precedente). Le uscite correnti sono aumentate del 2,3% e quelle in conto capitale del 6,6%. Le entrate totali, nel quarto trimestre, sono aumentate, in termini tendenziali, dello 0,8% con un’incidenza sul Pil del 55,3%, superiore di 0,5 punti percentuali rispetto al corrispondente trimestre del 2013.
2 aprile 2015 | 10:35
© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/economia/15_apri ... cbb1.shtml
RAPPORTO ISTAT
La pressione fiscale sale ancora
Imprese, mai cosi male dal ’95
Dati in chiaroscuro sul 2014. Si ferma il calo del potere d’acquisto
delle famiglie. Il rapporto deficit/Pil rivede il 3%
di Paola Pica
Il 2014 si conferma l’annus horribilis delle imprese, almeno quelle che non svolgono attività finanziaria. Informa l’Istat che la «quota di profitti», un indicatore utilizzato da Eurostat che misura un rapporto assimilabile al margine operativo, è risultato pari allo 0,46% nel 2014, ai minimi dal 1995, l’ anno in cui sono iniziate le serie storiche. La riduzione sul 2013 è di 0,8 punti percentuali. Per la prima volta dal 2007, cioè dall’inizio della lunga crisi, ha smesso invece di scendere il potere d’acquisto degli italiani. Tenuto conto dell’andamento dell’inflazione, la capacità di spesa delle famiglie consumatrici è scesa dello 0,5% nel quarto trimestre del 2014 rispetto al trimestre precedente ma è aumentata dello 0,8% rispetto al quarto trimestre del 2013. L’anno scorso, il reddito disponibile delle famiglie è aumentato dello 0,2%.
Tasse e tassi
Sale poi la pressione fiscale già record in Italia. Nel quarto trimestre dell’anno scorso è risultata pari al 50,3%, in aumento di 0,1 punti percentuali sull’ultimo scorcio del 2013 (50,2%). Nell’intero 2014 è risultata pari al 43,5%, in aumento anche in questo caso di 0,1 punti percentuali rispetto all’anno precedente (quando si era attestata al 43,4%). La buona notizia è la minor spesa dello Stato per gli interessi passivi che grazie al calo dei tassi e dello è risultata in calo del 4,6%, passando da circa 20,7 miliardi di euro a circa 19,7 miliardi di euro , sempre nel quarto trimestre del 2014.
Deficit Pil
Nell’intero 2014 il rapporto tra deficit e Pil è stato pari al 3,0%, in aumento di 0,1 punti percentuali rispetto a quello del 2013, quando il parametro sul disavanzo statale tenuto sotto stretto controllo dalla Ue si è attestato al 2,9%. Quanto a entrate e uscite nel quarto trimestre dell’anno scorso sono aumentate entrambe. Le uscite totali sono salite del 2,6%; la loro incidenza rispetto al Pil è stata del 57,6% (56,1% nel corrispondente trimestre dell’anno precedente). Le uscite correnti sono aumentate del 2,3% e quelle in conto capitale del 6,6%. Le entrate totali, nel quarto trimestre, sono aumentate, in termini tendenziali, dello 0,8% con un’incidenza sul Pil del 55,3%, superiore di 0,5 punti percentuali rispetto al corrispondente trimestre del 2013.
2 aprile 2015 | 10:35
© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/economia/15_apri ... cbb1.shtml
-
- Messaggi: 17353
- Iscritto il: 06/04/2012, 20:00
Re: Economia
MAGHI E MAGIE
NEL PAESI DEI SANTI, DEI POETI, DEI NAVIGATORI, E DEGLI OTELMA.
IL CASO
Quella tendenza a sovrastimare il Pil In 7 anni la differenza arriva al 14%
Il divario realtà-previsioni. Francia e Germania, l’errore è del 6 e del 3,6%
di Enrico Marro
ARTICOLO + DIAGRAMMA
http://www.corriere.it/economia/15_apri ... d8a1.shtml
NEL PAESI DEI SANTI, DEI POETI, DEI NAVIGATORI, E DEGLI OTELMA.
IL CASO
Quella tendenza a sovrastimare il Pil In 7 anni la differenza arriva al 14%
Il divario realtà-previsioni. Francia e Germania, l’errore è del 6 e del 3,6%
di Enrico Marro
ARTICOLO + DIAGRAMMA
http://www.corriere.it/economia/15_apri ... d8a1.shtml
-
- Messaggi: 17353
- Iscritto il: 06/04/2012, 20:00
Re: Economia
CHI INVESTE IN ITALIA
Unioncamere, boom di imprese gestite da stranieri
Sono cresciute di 23mila unità quelle individuali costituite da cittadini provenienti da Paesi extracomunitari
Mario Valenza - Mar, 07/04/2015 - 12:57
L’indagine trimestrale condotta da Unioncamere/ InfoCamere sui dati del Registro delle imprese delle Camere di commercio segnala che le aziende individuali di cittadini stranieri provenienti dalla Cina sono presenti soprattutto nella manifattura (16.000), in particolare tessile e concentrata in Toscana ma in forte crescita anche tra i parrucchieri e nelle attività di servizio alla persona.
Si conferma la forte presenza egiziana nella ristorazione (2.500, secondi dopo i cinesi) e degli albanesi nelle costruzioni (oltre 23.000, primi nel settore). In valori assoluti, il primato della crescita spetta però al Bangladesh che, con un aumento di 4.900 imprese, supera le 25.000 imprese individuali (+24%), fortemente concentrate nei servizi alle imprese (call center, copisterie, ecc.).
Le iscrizioni delle imprese guidate da cittadini extra Ue sono state 48.2444 a fronte di 25.174 cessazioni (saldo positivo per 23.070 unità) mentre le cessazioni delle ditte individuali di italiani (213.587) sono state superiori alle iscrizioni (178.109) con un saldo negativo di 35.478 (migliore comunque del saldo negativo 2013 che superò le 51.000 unità). Le ditte di marocchini sono oltre il 19% del totale delle imprese straniere mentre quelle di cittadini cinesi sono il 14% del totale. La provincia nella quale le imprese guidate da stranieri sono più diffuse è Prato con 6.718 aziende (il 39,89% del totale delle aziende sul territorio) seguita da Milano (27.804, il 22,1% del totale), Firenze (10.210, il 19,23% del totale), Reggio Emilia (il 18,93%) e Roma (il 17,85%). La provincia italiana con meno imprese guidate da stranieri è Enna con 184 imprese e l’1,67% del totale.
Nel settore manifatturiero le imprese cinesi sono largamente in testa (16.402 seguite da quelle marocchine con 1.546 unità) mentre nelle costruzioni gli albanesi contano 23.296 aziende seguite dai marocchini con 8.617 imprese. Nel commercio le imprese di persone provenienti dal Marocco sono 47.277 seguite dalle 19.294 di cittadini cinesi. I cittadini del Bangladesh sono in cima alla graduatoria delle imprese straniere nel noleggio, agenzie di viaggio e servizi alle imprese mentre nella ristorazione gli egiziani si piazzano dietro ai cinesi con 2.501 imprese (5.609 quelle di cittadini cinesi).
http://www.ilgiornale.it/news/cronache/ ... 13752.html
Unioncamere, boom di imprese gestite da stranieri
Sono cresciute di 23mila unità quelle individuali costituite da cittadini provenienti da Paesi extracomunitari
Mario Valenza - Mar, 07/04/2015 - 12:57
L’indagine trimestrale condotta da Unioncamere/ InfoCamere sui dati del Registro delle imprese delle Camere di commercio segnala che le aziende individuali di cittadini stranieri provenienti dalla Cina sono presenti soprattutto nella manifattura (16.000), in particolare tessile e concentrata in Toscana ma in forte crescita anche tra i parrucchieri e nelle attività di servizio alla persona.
Si conferma la forte presenza egiziana nella ristorazione (2.500, secondi dopo i cinesi) e degli albanesi nelle costruzioni (oltre 23.000, primi nel settore). In valori assoluti, il primato della crescita spetta però al Bangladesh che, con un aumento di 4.900 imprese, supera le 25.000 imprese individuali (+24%), fortemente concentrate nei servizi alle imprese (call center, copisterie, ecc.).
Le iscrizioni delle imprese guidate da cittadini extra Ue sono state 48.2444 a fronte di 25.174 cessazioni (saldo positivo per 23.070 unità) mentre le cessazioni delle ditte individuali di italiani (213.587) sono state superiori alle iscrizioni (178.109) con un saldo negativo di 35.478 (migliore comunque del saldo negativo 2013 che superò le 51.000 unità). Le ditte di marocchini sono oltre il 19% del totale delle imprese straniere mentre quelle di cittadini cinesi sono il 14% del totale. La provincia nella quale le imprese guidate da stranieri sono più diffuse è Prato con 6.718 aziende (il 39,89% del totale delle aziende sul territorio) seguita da Milano (27.804, il 22,1% del totale), Firenze (10.210, il 19,23% del totale), Reggio Emilia (il 18,93%) e Roma (il 17,85%). La provincia italiana con meno imprese guidate da stranieri è Enna con 184 imprese e l’1,67% del totale.
Nel settore manifatturiero le imprese cinesi sono largamente in testa (16.402 seguite da quelle marocchine con 1.546 unità) mentre nelle costruzioni gli albanesi contano 23.296 aziende seguite dai marocchini con 8.617 imprese. Nel commercio le imprese di persone provenienti dal Marocco sono 47.277 seguite dalle 19.294 di cittadini cinesi. I cittadini del Bangladesh sono in cima alla graduatoria delle imprese straniere nel noleggio, agenzie di viaggio e servizi alle imprese mentre nella ristorazione gli egiziani si piazzano dietro ai cinesi con 2.501 imprese (5.609 quelle di cittadini cinesi).
http://www.ilgiornale.it/news/cronache/ ... 13752.html
-
- Messaggi: 17353
- Iscritto il: 06/04/2012, 20:00
Re: Economia
E adesso come la mettiamo?
COME AUMENTA L’OCCUPAZIONE: NEI PRIMI DUE MESI DEL 2015 13 CONTRATTI IN PIU’ RISPETTO AL 2014
(vediamo quali saranno i commenti di Leopoldo Paràkulos in materia - ndt)
Lavoro, dietrofront del Fondo monetario
“Flessibilità mercato non spinge l’economia”
Documento del Fmi smentisce il dogma della deregolamentazione: “Nessuna correlazione” con crescita
Economia & Lobby
Liberalizzare il mercato del lavoro non aiuta la crescita. Ad attestarlo è il Fondo monetario internazionale che compie così una svolta a U rispetto a quanto professato per anni. Poche righe mimetizzate a pagina 37 del capitolo 3 del prossimo World Economic Outlook che uscirà il 14 aprile. Vi si legge che “il livello deregolamentazione del mercato del lavoro non ha evidenziato correlazioni statisticamente significative con la produttività complessiva”. Un teorema che lo stesso Fondo, insieme a Bce e Commissione Ue, cavalca da anni. E che è il fondamento teorico del Jobs Act
hp di IFQ
^^^^^^^^
Lavoro, l’Fmi ci ripensa: “Liberalizzare il mercato non spinge l’economia”
Economia
Nel World Economic Outlook che uscirà il 14 aprile si legge che non ci sono "correlazioni statisticamente significative" tra la deregolamentazione di assunzioni e licenziamenti e la capacità di crescita dell'economia. Un teorema che lo stesso Fondo, insieme a Bce e Commissione Ue, cavalca da anni. E che è il fondamento teorico del Jobs Act
di Mauro Del Corno | 10 aprile 2015 COMMENTI
Fermi tutti, come non detto. Liberalizzare il mercato del lavoro non aiuta la crescita economica.
E ad attestarlo è il Fondo monetario internazionale, che compie così una svolta a U rispetto a quanto energicamente professato per anni.
La rivoluzione è contenuta in poche righe, mimetizzate a pagina 37 del capitolo 3 del prossimo World Economic Outlook che uscirà in versione integrale il 14 aprile.
Vi si legge che “il livello di regolamentazione del mercato del lavoro non ha evidenziato correlazioni statisticamente significative con la produttività complessiva”.
Al contrario, spiega l’Fmi, a spingere la crescita sono la liberalizzazione del mercato dei beni, il livello delle competenze dei lavoratori, il livello degli investimenti e le spese per ricerca e sviluppo.
Il peso di questi quattro fattori varia a seconda dei settori produttivi. In ogni caso la palla passa sostanzialmente agli imprenditori.
Le conclusioni a cui giungono i ricercatori di Washington si basano sull’analisi dei dati di 16 Paesi del G20 nell’ambito di un più ampio sforzo di ricerca che tenta di spiegare il rallentamento della crescita potenziale nei paesi sviluppati e in quelli emergenti.
Ne risulta che a zavorrare l’economia sono l’invecchiamento della popolazione, la debolezza degli investimenti e appunto il basso incremento della produttività, che non dipenderebbe però dal grado di liberalizzazione del mercato del lavoro. Il Fondo tenta poi di correggere il tiro spiegando che non sempre i dati relativi ai diversi Paesi sono facilmente confrontabili.
E in modo un po’ contraddittorio continua a suggerire agli emergenti anche la deregolamentazione del mercato del lavoro.
Negli anni recenti la tesi “meno vincoli sul lavoro uguale più crescita economica” è stata sposata con entusiasmo dalle principali istituzioni europee.
Basti ricordare la lettera a firma Jean Claude Trichet e Mario Draghi inviata all’Italia il 5 agosto del 2011, in cui si chiedevano tra l’altro misure di liberalizzazione del mercato del lavoro e in particolare “una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti”.
Invito pienamente recepito dal governo nel Jobs Act, che secondo il presidente del Consiglio Matteo Renzi “porterà crescita e occupazione” e secondo il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan rappresenta “un successo storico”.
Interventi di forte deregolamentazione del mercato del lavoro e di riduzione delle tutele sono stati imposti da Fmi, Bce e commissione Ue anche alla Grecia, che dopo sei anni di feroce recessione ha chiuso il 2014 con un modestissimo +0,6%.
E’ improbabile che lo studio dell’Fmi ponga fine a un dibattito che dura da tempo su una materia oggettivamente difficile da indagare, che comprensibilmente scalda gli animi e su cui esistono studi contraddittori.
Tuttavia, uno dei tradizionali cavalli di battaglia degli economisti di area liberista viene azzoppato proprio da chi lo aveva cavalcato per anni.
Alcune certezze, o presunte tali, iniziano a vacillare ed è possibile che anche le future politiche economiche ne vengano presto o tardi influenzate.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/04 ... a/1577281/
COME AUMENTA L’OCCUPAZIONE: NEI PRIMI DUE MESI DEL 2015 13 CONTRATTI IN PIU’ RISPETTO AL 2014
(vediamo quali saranno i commenti di Leopoldo Paràkulos in materia - ndt)
Lavoro, dietrofront del Fondo monetario
“Flessibilità mercato non spinge l’economia”
Documento del Fmi smentisce il dogma della deregolamentazione: “Nessuna correlazione” con crescita
Economia & Lobby
Liberalizzare il mercato del lavoro non aiuta la crescita. Ad attestarlo è il Fondo monetario internazionale che compie così una svolta a U rispetto a quanto professato per anni. Poche righe mimetizzate a pagina 37 del capitolo 3 del prossimo World Economic Outlook che uscirà il 14 aprile. Vi si legge che “il livello deregolamentazione del mercato del lavoro non ha evidenziato correlazioni statisticamente significative con la produttività complessiva”. Un teorema che lo stesso Fondo, insieme a Bce e Commissione Ue, cavalca da anni. E che è il fondamento teorico del Jobs Act
hp di IFQ
^^^^^^^^
Lavoro, l’Fmi ci ripensa: “Liberalizzare il mercato non spinge l’economia”
Economia
Nel World Economic Outlook che uscirà il 14 aprile si legge che non ci sono "correlazioni statisticamente significative" tra la deregolamentazione di assunzioni e licenziamenti e la capacità di crescita dell'economia. Un teorema che lo stesso Fondo, insieme a Bce e Commissione Ue, cavalca da anni. E che è il fondamento teorico del Jobs Act
di Mauro Del Corno | 10 aprile 2015 COMMENTI
Fermi tutti, come non detto. Liberalizzare il mercato del lavoro non aiuta la crescita economica.
E ad attestarlo è il Fondo monetario internazionale, che compie così una svolta a U rispetto a quanto energicamente professato per anni.
La rivoluzione è contenuta in poche righe, mimetizzate a pagina 37 del capitolo 3 del prossimo World Economic Outlook che uscirà in versione integrale il 14 aprile.
Vi si legge che “il livello di regolamentazione del mercato del lavoro non ha evidenziato correlazioni statisticamente significative con la produttività complessiva”.
Al contrario, spiega l’Fmi, a spingere la crescita sono la liberalizzazione del mercato dei beni, il livello delle competenze dei lavoratori, il livello degli investimenti e le spese per ricerca e sviluppo.
Il peso di questi quattro fattori varia a seconda dei settori produttivi. In ogni caso la palla passa sostanzialmente agli imprenditori.
Le conclusioni a cui giungono i ricercatori di Washington si basano sull’analisi dei dati di 16 Paesi del G20 nell’ambito di un più ampio sforzo di ricerca che tenta di spiegare il rallentamento della crescita potenziale nei paesi sviluppati e in quelli emergenti.
Ne risulta che a zavorrare l’economia sono l’invecchiamento della popolazione, la debolezza degli investimenti e appunto il basso incremento della produttività, che non dipenderebbe però dal grado di liberalizzazione del mercato del lavoro. Il Fondo tenta poi di correggere il tiro spiegando che non sempre i dati relativi ai diversi Paesi sono facilmente confrontabili.
E in modo un po’ contraddittorio continua a suggerire agli emergenti anche la deregolamentazione del mercato del lavoro.
Negli anni recenti la tesi “meno vincoli sul lavoro uguale più crescita economica” è stata sposata con entusiasmo dalle principali istituzioni europee.
Basti ricordare la lettera a firma Jean Claude Trichet e Mario Draghi inviata all’Italia il 5 agosto del 2011, in cui si chiedevano tra l’altro misure di liberalizzazione del mercato del lavoro e in particolare “una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti”.
Invito pienamente recepito dal governo nel Jobs Act, che secondo il presidente del Consiglio Matteo Renzi “porterà crescita e occupazione” e secondo il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan rappresenta “un successo storico”.
Interventi di forte deregolamentazione del mercato del lavoro e di riduzione delle tutele sono stati imposti da Fmi, Bce e commissione Ue anche alla Grecia, che dopo sei anni di feroce recessione ha chiuso il 2014 con un modestissimo +0,6%.
E’ improbabile che lo studio dell’Fmi ponga fine a un dibattito che dura da tempo su una materia oggettivamente difficile da indagare, che comprensibilmente scalda gli animi e su cui esistono studi contraddittori.
Tuttavia, uno dei tradizionali cavalli di battaglia degli economisti di area liberista viene azzoppato proprio da chi lo aveva cavalcato per anni.
Alcune certezze, o presunte tali, iniziano a vacillare ed è possibile che anche le future politiche economiche ne vengano presto o tardi influenzate.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/04 ... a/1577281/
-
- Messaggi: 17353
- Iscritto il: 06/04/2012, 20:00
Re: Economia
ANSA.it
Economia
Bankitalia: debito pubblico sale a 2.169 mld, è record
A febbraio +3,3 mld rispetto a gennaio 2015
Redazione ANSA
ROMA
14 aprile 2015
15:51
NEWS
Istat: A marzo deflazione ferma a -0,1%
Banca d'Italia
Il debito delle Amministrazioni pubbliche è aumentato a febbraio di 3,3 miliardi rispetto a gennaio, salendo a 2.169,2 miliardi e raggiungendo il massimo storico, sopra il precedente picco di 2.167,7 miliardi del luglio 2014. Lo comunica Bankitalia nel supplemento al Bollettino statistico: 'Finanza pubblica, fabbisogno e debito'.
Entrate tributarie ferme - Nel primo bimestre - scrive ancora Bankitalia - le entrate tributarie contabilizzate nel bilancio dello Stato sono state pari a 58 miliardi, rimaste sostanzialmente invariate rispetto allo stesso periodo del 2014. Nei primi due mesi del 2015 le entrate sono state pari a 57,95 miliardi a fronte dei 58,21 dei primi due mesi 2014.
Invariata richiesta prestiti imprese - Resta invariata, nel primo trimestre, la domanda delle imprese per gli investimenti fissi mentre aumenta quella per scorte/capitale circolante e ristrutturazione e rinegoziazione del debito. E' quanto emerge dall'indagine sul credito della Banca d'Italia effettuata sulle principali banche italiane. Ferma anche quella per fusioni e acquisizioni.
Prestiti più facili per famiglie e imprese - L'istituto, dopo un'indagine sul credito nell'eurozona segnala inoltre come "nel primo trimestre 2015 sia proseguito l'allentamento dei criteri di offerta dei prestiti a imprese e famiglie", in scia alla "maggiore concorrenza tra le banche e al miglioramento della liquidità degli intermediari". Per il trimestre in corso le banche "si attendono un ulteriore, lieve allentamento delle condizioni di offerta dei prestiti alle imprese". "Il miglioramento delle politiche creditizie si è tradotto soprattutto in una ulteriore riduzione dei margini applicati alla media dei prestiti e, per le erogazioni alle imprese, in un lieve aumento dell'ammontare concesso", spiega Bankitalia, sottolineando che "secondo le valutazioni degli intermediari, la domanda di prestiti da parte delle imprese è rimasta invariata, quella delle famiglie è aumentata. Nel trimestre in corso la domanda di finanziamenti, sia delle imprese sia delle famiglie, si rafforzerebbe in misura significativa". I criteri di offerta per i prestiti alle famiglie rimarrebbero invece invariati.
RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA
http://www.ansa.it/sito/notizie/economi ... 75475.html
Economia
Bankitalia: debito pubblico sale a 2.169 mld, è record
A febbraio +3,3 mld rispetto a gennaio 2015
Redazione ANSA
ROMA
14 aprile 2015
15:51
NEWS
Istat: A marzo deflazione ferma a -0,1%
Banca d'Italia
Il debito delle Amministrazioni pubbliche è aumentato a febbraio di 3,3 miliardi rispetto a gennaio, salendo a 2.169,2 miliardi e raggiungendo il massimo storico, sopra il precedente picco di 2.167,7 miliardi del luglio 2014. Lo comunica Bankitalia nel supplemento al Bollettino statistico: 'Finanza pubblica, fabbisogno e debito'.
Entrate tributarie ferme - Nel primo bimestre - scrive ancora Bankitalia - le entrate tributarie contabilizzate nel bilancio dello Stato sono state pari a 58 miliardi, rimaste sostanzialmente invariate rispetto allo stesso periodo del 2014. Nei primi due mesi del 2015 le entrate sono state pari a 57,95 miliardi a fronte dei 58,21 dei primi due mesi 2014.
Invariata richiesta prestiti imprese - Resta invariata, nel primo trimestre, la domanda delle imprese per gli investimenti fissi mentre aumenta quella per scorte/capitale circolante e ristrutturazione e rinegoziazione del debito. E' quanto emerge dall'indagine sul credito della Banca d'Italia effettuata sulle principali banche italiane. Ferma anche quella per fusioni e acquisizioni.
Prestiti più facili per famiglie e imprese - L'istituto, dopo un'indagine sul credito nell'eurozona segnala inoltre come "nel primo trimestre 2015 sia proseguito l'allentamento dei criteri di offerta dei prestiti a imprese e famiglie", in scia alla "maggiore concorrenza tra le banche e al miglioramento della liquidità degli intermediari". Per il trimestre in corso le banche "si attendono un ulteriore, lieve allentamento delle condizioni di offerta dei prestiti alle imprese". "Il miglioramento delle politiche creditizie si è tradotto soprattutto in una ulteriore riduzione dei margini applicati alla media dei prestiti e, per le erogazioni alle imprese, in un lieve aumento dell'ammontare concesso", spiega Bankitalia, sottolineando che "secondo le valutazioni degli intermediari, la domanda di prestiti da parte delle imprese è rimasta invariata, quella delle famiglie è aumentata. Nel trimestre in corso la domanda di finanziamenti, sia delle imprese sia delle famiglie, si rafforzerebbe in misura significativa". I criteri di offerta per i prestiti alle famiglie rimarrebbero invece invariati.
RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA
http://www.ansa.it/sito/notizie/economi ... 75475.html
-
- Messaggi: 17353
- Iscritto il: 06/04/2012, 20:00
Re: Economia
FINCHE' CI SONO MERLI C'E' SPERANZA
Nessuno, ma proprio nessuno del “trombon system”, Camera, Senato, Esecutivo, al gran completo, si è mai permesso di dichiarare che non possiamo risolvere all’origine il problema dei migranti, perché dobbiamo salvare il businnes con i Paesi dell’Africa, perennemente in guerra. La nostra lobby delle armi è ultrapotente. Prima i dané.
“Ghe pensi mi 1.0 “ ne ha sparata una delle sue, in materia. Togliere il motore alle imbarcazioni che trasportano i barconi.
^
Forza Italia, Berlusconi: "Italia irrilevante sull'emergenza ...
http://www.ilgiornale.it/.../forza-ital ... llemergenz...
4 giorni fa - Le pugnalate alle spalle dei maestri di solidarietà ... risolvere impedendo che ci siano imbarcazioni che portino i migranti in Italia. ... che togliesse il motore alle barche con le quali si vorrebbero trasportare i migranti". ... con gli scafisti e regolano gli arrivi in base a come e quando si liberano dei posti perché ...
^
Una vera genialata degna della mummia cinese brianzola. Perché non ci ha pensato prima quando governava lui mandando le truppe d’assalto capitanate da Brunetta, Gasparri e la Santanché a togliere i motori alle imbarcazioni??????
Non aveva il tempo di pensare per troppa attività ginnica con le Olgettine?????????????????
“Ghe pensi mi 2.0” manco a parlarne. Non vuole mettersi contro la potentissima lobby delle armi, che farebbe di tutto per rispedirlo a casa al solo cenno di interrompere il businnes con i Paesi africani.
Il felpato con la scritta Rimini-Rimini, pensa solo a far fessi i merloni giganti. Dichiara, appena può, che i migranti bisogna aiutarli a casa propria. Si limita però solo al titolo. Non si avventura neppure lui a contrastare la lobby delle armi. Non si sa mai cosa ti può succedere quando metti giù il piede dal marciapiede per attraversare la strada.
Il felpato va a Platì e sacramenta contro la Mafia per raggranellare qualche voto. Ma si è sempre guardato bene dal dire e fare qualcosa per liberare Milano dalla ‘ndrangheta, che ha fatto del capoluogo lombardo la sua capitale nazionale, abbandonando Reggio Calabria.
Neppure i 5 stelle si preoccupano di denunciare che noi non possiamo stabilizzare quei Paesi, perché c’è chi ci guadagna da noi.
Continua
Nessuno, ma proprio nessuno del “trombon system”, Camera, Senato, Esecutivo, al gran completo, si è mai permesso di dichiarare che non possiamo risolvere all’origine il problema dei migranti, perché dobbiamo salvare il businnes con i Paesi dell’Africa, perennemente in guerra. La nostra lobby delle armi è ultrapotente. Prima i dané.
“Ghe pensi mi 1.0 “ ne ha sparata una delle sue, in materia. Togliere il motore alle imbarcazioni che trasportano i barconi.
^
Forza Italia, Berlusconi: "Italia irrilevante sull'emergenza ...
http://www.ilgiornale.it/.../forza-ital ... llemergenz...
4 giorni fa - Le pugnalate alle spalle dei maestri di solidarietà ... risolvere impedendo che ci siano imbarcazioni che portino i migranti in Italia. ... che togliesse il motore alle barche con le quali si vorrebbero trasportare i migranti". ... con gli scafisti e regolano gli arrivi in base a come e quando si liberano dei posti perché ...
^
Una vera genialata degna della mummia cinese brianzola. Perché non ci ha pensato prima quando governava lui mandando le truppe d’assalto capitanate da Brunetta, Gasparri e la Santanché a togliere i motori alle imbarcazioni??????
Non aveva il tempo di pensare per troppa attività ginnica con le Olgettine?????????????????
“Ghe pensi mi 2.0” manco a parlarne. Non vuole mettersi contro la potentissima lobby delle armi, che farebbe di tutto per rispedirlo a casa al solo cenno di interrompere il businnes con i Paesi africani.
Il felpato con la scritta Rimini-Rimini, pensa solo a far fessi i merloni giganti. Dichiara, appena può, che i migranti bisogna aiutarli a casa propria. Si limita però solo al titolo. Non si avventura neppure lui a contrastare la lobby delle armi. Non si sa mai cosa ti può succedere quando metti giù il piede dal marciapiede per attraversare la strada.
Il felpato va a Platì e sacramenta contro la Mafia per raggranellare qualche voto. Ma si è sempre guardato bene dal dire e fare qualcosa per liberare Milano dalla ‘ndrangheta, che ha fatto del capoluogo lombardo la sua capitale nazionale, abbandonando Reggio Calabria.
Neppure i 5 stelle si preoccupano di denunciare che noi non possiamo stabilizzare quei Paesi, perché c’è chi ci guadagna da noi.
Continua
Ultima modifica di camillobenso il 24/05/2015, 5:50, modificato 5 volte in totale.
Chi c’è in linea
Visitano il forum: Nessuno e 3 ospiti