Diario della caduta di un regime.
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Re: Diario della caduta di un regime.
Eia, eia, alalà!
https://www.youtube.com/watch?v=ZLI9bSq8yas
Ma gli italiani si sono accorti he da mesi è tornato il:
Ministero della Cultura Popolare
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
https://it.wikipedia.org/wiki/Ministero ... a_Popolare
https://www.youtube.com/watch?v=ZLI9bSq8yas
Ma gli italiani si sono accorti he da mesi è tornato il:
Ministero della Cultura Popolare
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Re: Diario della caduta di un regime.
Zagrebelsky e i governanti “inutilmente spensierati”
23/10/2015 di triskel182
“MOSCACIECA” Il nuovo saggio del giurista Senza progetti,tirano a campare.Per“durare sempre ancora un giorno in più”
C’è il gioco che facevamo, bendati, da bambini. Ma c’è anche la metafora di Wittgenstein: il nuovo libro di Gustavo Zagrebelsky s’intitola Moscacieca. E fa davvero pensare all’insetto nella bottiglia di cui il filosofo austriaco parla nelle Ricerche filosofiche.La mosca si dibatte,in cerca di una via d’uscita. Così noi: “Non siamo sicuri nemmeno di quali siano le incognite con le quali dobbiamo fare i conti. Contrasti e conflitti scoppiano qua e là, per ora perifericamente, ma sempre più numerosi; minacciano esplosioni sempre più grandi e mirano al cuoredelmondocheabbiamo costruito. Il pensiero vacilla. Il caos inghiotte la comprensione e la volontà si smarrisce”.
PROVANDO a guadagnare la salvezza (la via d’uscita attraverso il collo della bottiglia) il panorama non è dei più rassicuranti: “Poteri economico-finanziari e tecnologici mossi da inesausta,illimitata e cieca volontà di potenza che seminano tempeste; organizzazioni criminali che controllano interi settori di attività illegali e accumulano ricchezze ingenti con le quali avvelenano la vita economica e i rapporti politici; circolazione incontrollata di armi micidiali che alimenta conflitti; violenza che dilaga anche in forme terroristiche”. Quadro fosco, foschissimo: dunque l’autore potrebbe essere immaginato nel pantheon dei gufi viste,per esempio, le sue posizioni sulla riforma del Senato (sul tema, indimenticabile l’intervista al Corriere del premier Renzi, quando disse “Si può essere in disaccordo con professoroni o presunti tali senza diventare anticostituzionali. Io ho giurato sulla Costituzione,non su Rodotà o Zagrebelsky”). Invece il movente di questo libro è rasserenante, perché è la ricercadiunastrada per il domani, possiamo dire Contro la dittatura del tempo presente, trappola pericolosa perché trasforma società e governi in cicale dissipatrici. Il potere economico ha sopravanzato quello politico, ci si è alleato subordinandolo: “Negli organi di governo, nelle posizioni-chiave, siedono ormai solo uomini di fiducia dell’oligarchia finanziaria”. Quello dei governi esecutori è anche un Tempo nichilista –comes’intitolauncapitolodi Moscacieca – dove il mezzo e lo scopo coincidono: “Se lo scopo del denaro è sempre altro denaro, la ricerca della sua crescita e dell’accumulazione è una forza devastatrice: nichilista e, al tempo stesso, devastatrice. Con i suoi templi (Wall Street o Piazza Affari), dove gli adepti,perfino i capi di governo,si recano per‘fidelizzarsi’ e ricevere la consacrazione”.E poi“sacerdoti,sacramenti, parole d’ordine, catechesi, vittime sacrificali e capri espiatori, fede ‘cattolica’ con i suoi custodi, propagandisti e missionari (i brokers), le sue Inquisizioni (le agenzie di rating), promesse di vita futura indefinita, se non proprio eterna. Anche se ateo e nichilista , può essere assimilato a una religione, con la sua ortodossia di cui la moneta è il simbolo. Ha le sue liturgie, celebrate in occasioni rituali, meeting, conferenze, forum cui partecipa un pubblico selezionato di persone di sicura fede. Ha modelli di vita esclusiva, pervasivi dell’immaginazione dei deboli, ha i suoi status e sex symbols, i suoi centri di ricerca, scuole di formazione, università degli affari, accademie, think-tank, uffici di marketingpolitico,culturalee commerciale, in cui vivono e prosperano gli ‘intellettuali’ e gli opinionisti del nostro tempo, in realtà consulenti e propagandisti che, consapevoli o inconsapevoli, partecipano alla formazione di una vera e propria ideologia”. Dunque ecco i nostri nuovi Stati confessionali,dove dio è il denaro, i Paesi sono imprese (cfr “l’Azienda Italia”) e dunque possono perfino fallire. E una banca d’affari come JP Morgan (nel Report 2013) può permettersi di manifestare tutta la propria insofferenza nei confronti delle costituzioni democratiche del dopoguerra, “socialiste”, senza che nessuna voce critica si alzi. Del resto anche quando, un anno prima, il presidente Mario Monti disse allo Spiegel che i governi avevano il doveredieducareipropri parlamenti, nessuno (in Italia) proferì parola.
IL RAPPORTO presente-futuro si può leggere anche attraverso la nuova contrapposizione “ottimisti versus pessimisti”. A cui il professore dedica l’epilogo del suo pamphlet. Con quella che solo in apparenza è una battuta, Norberto Bobbio disse:“Non tutti gli ottimisti sono sciocchi, ma certo tutti gli sciocchi sono ottimisti”. Dopo una breve analisi delle categorie possibili (pessimisti, sciocchi e non; ottimisti, sciocchi e non) Zagrebelsky si dedica ai politici:
Articolo intero su Il Fatto Quotidiano del 23710/2015
23/10/2015 di triskel182
“MOSCACIECA” Il nuovo saggio del giurista Senza progetti,tirano a campare.Per“durare sempre ancora un giorno in più”
C’è il gioco che facevamo, bendati, da bambini. Ma c’è anche la metafora di Wittgenstein: il nuovo libro di Gustavo Zagrebelsky s’intitola Moscacieca. E fa davvero pensare all’insetto nella bottiglia di cui il filosofo austriaco parla nelle Ricerche filosofiche.La mosca si dibatte,in cerca di una via d’uscita. Così noi: “Non siamo sicuri nemmeno di quali siano le incognite con le quali dobbiamo fare i conti. Contrasti e conflitti scoppiano qua e là, per ora perifericamente, ma sempre più numerosi; minacciano esplosioni sempre più grandi e mirano al cuoredelmondocheabbiamo costruito. Il pensiero vacilla. Il caos inghiotte la comprensione e la volontà si smarrisce”.
PROVANDO a guadagnare la salvezza (la via d’uscita attraverso il collo della bottiglia) il panorama non è dei più rassicuranti: “Poteri economico-finanziari e tecnologici mossi da inesausta,illimitata e cieca volontà di potenza che seminano tempeste; organizzazioni criminali che controllano interi settori di attività illegali e accumulano ricchezze ingenti con le quali avvelenano la vita economica e i rapporti politici; circolazione incontrollata di armi micidiali che alimenta conflitti; violenza che dilaga anche in forme terroristiche”. Quadro fosco, foschissimo: dunque l’autore potrebbe essere immaginato nel pantheon dei gufi viste,per esempio, le sue posizioni sulla riforma del Senato (sul tema, indimenticabile l’intervista al Corriere del premier Renzi, quando disse “Si può essere in disaccordo con professoroni o presunti tali senza diventare anticostituzionali. Io ho giurato sulla Costituzione,non su Rodotà o Zagrebelsky”). Invece il movente di questo libro è rasserenante, perché è la ricercadiunastrada per il domani, possiamo dire Contro la dittatura del tempo presente, trappola pericolosa perché trasforma società e governi in cicale dissipatrici. Il potere economico ha sopravanzato quello politico, ci si è alleato subordinandolo: “Negli organi di governo, nelle posizioni-chiave, siedono ormai solo uomini di fiducia dell’oligarchia finanziaria”. Quello dei governi esecutori è anche un Tempo nichilista –comes’intitolauncapitolodi Moscacieca – dove il mezzo e lo scopo coincidono: “Se lo scopo del denaro è sempre altro denaro, la ricerca della sua crescita e dell’accumulazione è una forza devastatrice: nichilista e, al tempo stesso, devastatrice. Con i suoi templi (Wall Street o Piazza Affari), dove gli adepti,perfino i capi di governo,si recano per‘fidelizzarsi’ e ricevere la consacrazione”.E poi“sacerdoti,sacramenti, parole d’ordine, catechesi, vittime sacrificali e capri espiatori, fede ‘cattolica’ con i suoi custodi, propagandisti e missionari (i brokers), le sue Inquisizioni (le agenzie di rating), promesse di vita futura indefinita, se non proprio eterna. Anche se ateo e nichilista , può essere assimilato a una religione, con la sua ortodossia di cui la moneta è il simbolo. Ha le sue liturgie, celebrate in occasioni rituali, meeting, conferenze, forum cui partecipa un pubblico selezionato di persone di sicura fede. Ha modelli di vita esclusiva, pervasivi dell’immaginazione dei deboli, ha i suoi status e sex symbols, i suoi centri di ricerca, scuole di formazione, università degli affari, accademie, think-tank, uffici di marketingpolitico,culturalee commerciale, in cui vivono e prosperano gli ‘intellettuali’ e gli opinionisti del nostro tempo, in realtà consulenti e propagandisti che, consapevoli o inconsapevoli, partecipano alla formazione di una vera e propria ideologia”. Dunque ecco i nostri nuovi Stati confessionali,dove dio è il denaro, i Paesi sono imprese (cfr “l’Azienda Italia”) e dunque possono perfino fallire. E una banca d’affari come JP Morgan (nel Report 2013) può permettersi di manifestare tutta la propria insofferenza nei confronti delle costituzioni democratiche del dopoguerra, “socialiste”, senza che nessuna voce critica si alzi. Del resto anche quando, un anno prima, il presidente Mario Monti disse allo Spiegel che i governi avevano il doveredieducareipropri parlamenti, nessuno (in Italia) proferì parola.
IL RAPPORTO presente-futuro si può leggere anche attraverso la nuova contrapposizione “ottimisti versus pessimisti”. A cui il professore dedica l’epilogo del suo pamphlet. Con quella che solo in apparenza è una battuta, Norberto Bobbio disse:“Non tutti gli ottimisti sono sciocchi, ma certo tutti gli sciocchi sono ottimisti”. Dopo una breve analisi delle categorie possibili (pessimisti, sciocchi e non; ottimisti, sciocchi e non) Zagrebelsky si dedica ai politici:
Articolo intero su Il Fatto Quotidiano del 23710/2015
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Re: Diario della caduta di un regime.
IL MIN CUL POP in azione
P3, Verdini: “Macché loggia. Io ero solo un facilitatore. Sono come Wolf di Pulp Fiction. Dell’Utri? Punto di riferimento”
Giustizia & Impunità
La deposizione in tribunale del senatore ex berlusconiano, ora capo di Ala, imputato per corruzione. Si paragona al personaggio di Pulp Fiction e spiega: "Macché loggia, era solo un coacervo di millanterie. A quel pranzo a casa mia dovevano essere solo in due e invece a mia insaputa si presentarono in 8 tra cui Carboni, Martone e Caliendo. E nessuno mi ha chiesto di intervenire sulla Consulta per il lodo Alfano"
di F. Q. | 23 ottobre 2015
Commenti (22)
Nessuna loggia. Al massimo un “coacervo di millanterie“. Un tavolo al quale parlamentari, alti magistrati e imprenditori giocavano a chi la sparava più grossa. E’ la descrizione che Denis Verdini ha fatto della cosiddetta (e presunta) P3, nel processo in cui è imputato insieme – tra gli altri – a Flavio Carboni (imprenditore, che di logge s’intende) e Marcello Dell’Utri, altro ex Pdl, ora in carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, “una icona e punto di riferimento per me, una figura carismatica, provavo per lui amicizia e stima” dice durante la deposizione lo stesso senatore a capo di Ala, l’unico gruppo di opposizione che ha votato le riforme istituzionali. Verdini, che ha parlato per oltre sei ore, ha aggiunto che il suo ruolo era quello di “occuparsi dell’organizzazione del partito” e si è definito “un facilitatore: risolvo i problemi come Wolf, sono rapido”. Il riferimento è a un personaggio di Pulp Fiction di Quentin Tarantino. Nel film Wolf è una persona in grado di far sparire cadaveri o prove di reati, per conto di alcuni malavitosi, senza lasciare tracce. Il suo biglietto da visita è la battuta con cui si presenta: “Mi chiamo Wolf, risolvo problemi“, che ha fatto presa nell’immaginario cinematografico soprattutto giovanile.
Secondo i pm Verdini, Carboni, Dell’Utri, insieme ad altri politici (tra cui Nicola Cosentino e Giacomo Caliendo) e magistrati (come l’ex presidente della Cassazione Vincenzo Carbone), cercarono di influenzare le attività di pezzi dello Stato. Tra questi la Corte costituzionale che di lì a poco avrebbe dovuto pronunciarsi sul lodo Alfano. “Nessuno mi ha chiesto di intervenire sulla Consulta in merito al Lodo Alfano” ha risposto però Verdini nel dibattimento. Per quanto riguarda Carboni, il senatore lo ha definito come “un personaggio vulcanico, pieno di fantasia e di voglia di fare, un po’ troppo insistente a volte. Con lui avevo il progetto di raccogliere finanziamenti per il Giornale di Toscana, esperienza editoriale da trasferire in Sardegna dopo la nomina di Cappellacci a Governatore”. Tra gli altri obiettivi della P3 c’erano, secondo i pm, la nomina del direttore dell’Arpa Sardegna (e infatti sono imputati l’ex presidente della Regione Ugo Cappellacci e colui che poi ricoprì quell’incarico, Ignazio Farris) e la candidatura a presidente della Regione Campania di Nicola Cosentino (ai danni di Stefano Caldoro, con tanto di produzione di finti dossier delle sue presunte frequentazioni con delle transessuali).
Simbolo di questo accordo, secondo la Procura, fu un pranzo organizzato proprio a casa di Verdini il 23 settembre del 2009. Ma il senatore di Ala e ispiratore del Patto del Nazareno nega che in quell’occasione si fossero messi a punto gli obiettivi dell’associazione segreta. Era piuttosto “un pranzo da niente, da non ricordare: in cui ciascuno parlava dell’argomento che gli stava a cuore, dai convegni con i magistrati al Lodo Alfano, alla riforma della giustizia”, ha spiegato Verdini rispondendo alle domande del pm Mario Palazzi. Anzi, l’aveva messo in piedi solo con Dell’Utri e Arcibaldo Miller, magistrato, capo degli ispettori del ministero della Giustizia. A Miller, secondo la ricostruzione di Verdini, lui e Dell’Utri avrebbero chiesto la disponibilità a candidarsi alle Regionali in Campania. Ma finì malissimo, apparentemente, perché si presentarono, “a mia insaputa, in otto”. Tra questi, dice Verdini, c’erano Flavio Carboni, l’ex assessore comunale di Napoli Arcangelo Martino, l’ex giudice tributario Pasquale Lombardi, l’avvocato generale in Cassazione e ex presidente dell’Anm Antonio Martone e l’allora sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo. Quel pranzo, fu un coacervo di millanterie. Lombardi? Quando lui parla non si capisce un tubo, ci vuole un traduttore. Martino? Era una mummia, non solo come espressione ma anche per le parole. Dissi a Dell’Utri, ma chi mi hai portato?”.
Nel corso dell’interrogatorio a Verdini è stato chiesto anche della nomina di Farris all’Arpa Sardegna. “Su quel nome – ha spiegato – c’era già un accordo tra l’allora governatore Cappellacci e Carboni. Farris avrebbe garantito un continuità sull’affare dell’eolico, la cui normativa era stata introdotta dalla presidenza Soru. Io non sono mai intervenuto nella nomina di Farris che neppure conoscevo. Dovevo fare i conti con le insistenze di Carboni che teneva alla questione e che aveva problemi di rapporti con Cappellacci. Io non mi sono mai interessato nè avevo interesse nell’affare del fotovoltaico. Cappellacci aveva perplessità su Farris perchè lo riteneva vicino a Soru. Era una questione politica, e non tecnica”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/10 ... o/2155534/
P3, Verdini: “Macché loggia. Io ero solo un facilitatore. Sono come Wolf di Pulp Fiction. Dell’Utri? Punto di riferimento”
Giustizia & Impunità
La deposizione in tribunale del senatore ex berlusconiano, ora capo di Ala, imputato per corruzione. Si paragona al personaggio di Pulp Fiction e spiega: "Macché loggia, era solo un coacervo di millanterie. A quel pranzo a casa mia dovevano essere solo in due e invece a mia insaputa si presentarono in 8 tra cui Carboni, Martone e Caliendo. E nessuno mi ha chiesto di intervenire sulla Consulta per il lodo Alfano"
di F. Q. | 23 ottobre 2015
Commenti (22)
Nessuna loggia. Al massimo un “coacervo di millanterie“. Un tavolo al quale parlamentari, alti magistrati e imprenditori giocavano a chi la sparava più grossa. E’ la descrizione che Denis Verdini ha fatto della cosiddetta (e presunta) P3, nel processo in cui è imputato insieme – tra gli altri – a Flavio Carboni (imprenditore, che di logge s’intende) e Marcello Dell’Utri, altro ex Pdl, ora in carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, “una icona e punto di riferimento per me, una figura carismatica, provavo per lui amicizia e stima” dice durante la deposizione lo stesso senatore a capo di Ala, l’unico gruppo di opposizione che ha votato le riforme istituzionali. Verdini, che ha parlato per oltre sei ore, ha aggiunto che il suo ruolo era quello di “occuparsi dell’organizzazione del partito” e si è definito “un facilitatore: risolvo i problemi come Wolf, sono rapido”. Il riferimento è a un personaggio di Pulp Fiction di Quentin Tarantino. Nel film Wolf è una persona in grado di far sparire cadaveri o prove di reati, per conto di alcuni malavitosi, senza lasciare tracce. Il suo biglietto da visita è la battuta con cui si presenta: “Mi chiamo Wolf, risolvo problemi“, che ha fatto presa nell’immaginario cinematografico soprattutto giovanile.
Secondo i pm Verdini, Carboni, Dell’Utri, insieme ad altri politici (tra cui Nicola Cosentino e Giacomo Caliendo) e magistrati (come l’ex presidente della Cassazione Vincenzo Carbone), cercarono di influenzare le attività di pezzi dello Stato. Tra questi la Corte costituzionale che di lì a poco avrebbe dovuto pronunciarsi sul lodo Alfano. “Nessuno mi ha chiesto di intervenire sulla Consulta in merito al Lodo Alfano” ha risposto però Verdini nel dibattimento. Per quanto riguarda Carboni, il senatore lo ha definito come “un personaggio vulcanico, pieno di fantasia e di voglia di fare, un po’ troppo insistente a volte. Con lui avevo il progetto di raccogliere finanziamenti per il Giornale di Toscana, esperienza editoriale da trasferire in Sardegna dopo la nomina di Cappellacci a Governatore”. Tra gli altri obiettivi della P3 c’erano, secondo i pm, la nomina del direttore dell’Arpa Sardegna (e infatti sono imputati l’ex presidente della Regione Ugo Cappellacci e colui che poi ricoprì quell’incarico, Ignazio Farris) e la candidatura a presidente della Regione Campania di Nicola Cosentino (ai danni di Stefano Caldoro, con tanto di produzione di finti dossier delle sue presunte frequentazioni con delle transessuali).
Simbolo di questo accordo, secondo la Procura, fu un pranzo organizzato proprio a casa di Verdini il 23 settembre del 2009. Ma il senatore di Ala e ispiratore del Patto del Nazareno nega che in quell’occasione si fossero messi a punto gli obiettivi dell’associazione segreta. Era piuttosto “un pranzo da niente, da non ricordare: in cui ciascuno parlava dell’argomento che gli stava a cuore, dai convegni con i magistrati al Lodo Alfano, alla riforma della giustizia”, ha spiegato Verdini rispondendo alle domande del pm Mario Palazzi. Anzi, l’aveva messo in piedi solo con Dell’Utri e Arcibaldo Miller, magistrato, capo degli ispettori del ministero della Giustizia. A Miller, secondo la ricostruzione di Verdini, lui e Dell’Utri avrebbero chiesto la disponibilità a candidarsi alle Regionali in Campania. Ma finì malissimo, apparentemente, perché si presentarono, “a mia insaputa, in otto”. Tra questi, dice Verdini, c’erano Flavio Carboni, l’ex assessore comunale di Napoli Arcangelo Martino, l’ex giudice tributario Pasquale Lombardi, l’avvocato generale in Cassazione e ex presidente dell’Anm Antonio Martone e l’allora sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo. Quel pranzo, fu un coacervo di millanterie. Lombardi? Quando lui parla non si capisce un tubo, ci vuole un traduttore. Martino? Era una mummia, non solo come espressione ma anche per le parole. Dissi a Dell’Utri, ma chi mi hai portato?”.
Nel corso dell’interrogatorio a Verdini è stato chiesto anche della nomina di Farris all’Arpa Sardegna. “Su quel nome – ha spiegato – c’era già un accordo tra l’allora governatore Cappellacci e Carboni. Farris avrebbe garantito un continuità sull’affare dell’eolico, la cui normativa era stata introdotta dalla presidenza Soru. Io non sono mai intervenuto nella nomina di Farris che neppure conoscevo. Dovevo fare i conti con le insistenze di Carboni che teneva alla questione e che aveva problemi di rapporti con Cappellacci. Io non mi sono mai interessato nè avevo interesse nell’affare del fotovoltaico. Cappellacci aveva perplessità su Farris perchè lo riteneva vicino a Soru. Era una questione politica, e non tecnica”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/10 ... o/2155534/
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Re: Diario della caduta di un regime.
La Stampa 23.10.15
Troppe leggi favoriscono la corruzione
di Emanuele Felice
L’Italia ha livelli di corruzione anomali rispetto a ogni altro Paese avanzato. Le statistiche internazionali, come quelle fornite da Transparency International, lo certificano al di là di ogni ragionevole dubbio: nel 2014 ci ritroviamo ultimi in Europa, alla pari con Bulgaria e Grecia (che prima erano dietro di noi) e Romania; e siamo sessantanovesimi al mondo, con la Spagna che ci stacca di 32 posizioni, la Francia di 43, la Germania di 57. È forse questo il motivo per cui cresciamo meno? Sicuramente è un fattore determinante. La corruzione pesa come un macigno sulle nostre possibilità di ripresa, minacciando di trascinarci indietro, da quel traguardo di benessere e prosperità faticosamente raggiunto nel secondo dopoguerra, verso i magri standard di un’economia a medio reddito. E la corruzione sembra proprio, in questo nostro Paese, un male endemico. Gli ultimi episodi altro non sono che il nuovo anello di una lunga catena che attraversa tutto il territorio nazionale e tocca ormai un’impressionante varietà di ambiti, ben al di là della politica e del mondo degli appalti (ricordate Calciopoli?).
La corruzione è endemica, è vero, ma la si può sconfiggere, se si capisce da dove viene e si opera di conseguenza.
Come molti altri caratteri nazionali, non è insita nella natura di un popolo, ma rappresenta il risultato di un processo storico: da noi affonda nella Prima Repubblica, nella mancanza di alternanza che quel sistema imponeva e che, da un lato, ammaliava la politica con l’illusione dell’impunità, dall’altro (punto forse meno ovvio) costringeva élite e istanze fra loro conflittuali a convivere in un’unica area di governo, limitando la possibilità di realizzare innovazioni incisive perché bisognava accontentare tutti in una sorta di «compromesso senza riforme» (l’efficace definizione è di Fabrizio Barca). La mancata contendibilità e l’obbligo della coabitazione hanno generato un assetto istituzionale che favorisce la corruzione: perché segnato dalla permanenza ipertrofica di leggi e regolamenti, che gravano la funzione pubblica di intollerabili lungaggini e rendono i tempi della giustizia enormemente dilatati rispetto agli altri Paesi avanzati (basti pensare che i processi civili durano da noi il quadruplo della media Ocse; che per realizzare una grande infrastruttura ci vogliono dieci anni, contro i cinque del resto d’Europa); perché ha frammentato e reso via via più complesso il nostro ordinamento, scindendolo in molteplici amministrazioni parallele presentate come soluzioni tampone e spesso pensate per distribuire potere, che hanno finito per accumularsi come stati sovrapposti e in conflitto reciproco. Tale assetto istituzionale si è andato delineando con nettezza già fra gli Anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, e da allora non siamo mai riusciti veramente a riformarlo. Anzi, per certi versi le cose sono peggiorate, per l’abitudine che una certa politica approssimativa - anche quando meglio intenzionata - ha sempre avuto di mettere una toppa, piuttosto che affrontare i problemi alla radice: i diversi condoni, approvati o anche solo ipotizzati, hanno sistematicamente mandato segnali incoraggianti a chi viola la legge; la figura del commissario straordinario è stata ampiamente abusata tanto che ha finito essa stessa per dare adito a clientelismo e mala gestione, mentre le tare del nostro sistema amministrativo venivano lasciate libere di incancrenirsi.
Spesso poi la politica non era nemmeno bene intenzionata, ma divorata essa stessa da appetiti personali, complice un’opinione pubblica colpevolmente disattenta. Negli anni scorsi, alcune riforme del governo Berlusconi, come la depenalizzazione del falso in bilancio, sono andate nella direzione opposta a quella necessaria. E anche ai nostri giorni, alcuni fra i migliori slanci del Partito democratico si sono arenati nei diversi pantani territoriali di quella compagine - ultimo esempio, il recente suicidio del Pd romano.
Eppure qualcosa si muove. La leadership di Renzi, se risulta fiacca e contraddittoria sul piano locale, appare invece molto attiva a livello nazionale, nella più alta opera di revisione strutturale del sistema. Ad agosto è diventata legge una riforma della pubblica amministrazione davvero ambiziosa, che potrebbe ridurre grandemente i margini per la corruzione: semplificando le procedure, rendendole più trasparenti, disinnescando il conflitto fra i diversi enti, attribuendo più chiare responsabilità. Sottovalutata dai media, su questo giornale siamo stati i primi a prestarle la dovuta attenzione. Ma quella riforma ha bisogno di essere attuata. E attuata anche bene, con coerenza e mezzi adeguati, altrimenti gli effetti potrebbero essere addirittura controproducenti (come nel caso del silenzio assenso). I decreti attuativi, promessi dal governo a settembre, sono slittati; forse a novembre. Il tema gode, per così dire, dell’indifferenza generale. Ma noi lo ripetiamo: su questo si gioca una partita decisiva per il futuro dell’Italia.
Troppe leggi favoriscono la corruzione
di Emanuele Felice
L’Italia ha livelli di corruzione anomali rispetto a ogni altro Paese avanzato. Le statistiche internazionali, come quelle fornite da Transparency International, lo certificano al di là di ogni ragionevole dubbio: nel 2014 ci ritroviamo ultimi in Europa, alla pari con Bulgaria e Grecia (che prima erano dietro di noi) e Romania; e siamo sessantanovesimi al mondo, con la Spagna che ci stacca di 32 posizioni, la Francia di 43, la Germania di 57. È forse questo il motivo per cui cresciamo meno? Sicuramente è un fattore determinante. La corruzione pesa come un macigno sulle nostre possibilità di ripresa, minacciando di trascinarci indietro, da quel traguardo di benessere e prosperità faticosamente raggiunto nel secondo dopoguerra, verso i magri standard di un’economia a medio reddito. E la corruzione sembra proprio, in questo nostro Paese, un male endemico. Gli ultimi episodi altro non sono che il nuovo anello di una lunga catena che attraversa tutto il territorio nazionale e tocca ormai un’impressionante varietà di ambiti, ben al di là della politica e del mondo degli appalti (ricordate Calciopoli?).
La corruzione è endemica, è vero, ma la si può sconfiggere, se si capisce da dove viene e si opera di conseguenza.
Come molti altri caratteri nazionali, non è insita nella natura di un popolo, ma rappresenta il risultato di un processo storico: da noi affonda nella Prima Repubblica, nella mancanza di alternanza che quel sistema imponeva e che, da un lato, ammaliava la politica con l’illusione dell’impunità, dall’altro (punto forse meno ovvio) costringeva élite e istanze fra loro conflittuali a convivere in un’unica area di governo, limitando la possibilità di realizzare innovazioni incisive perché bisognava accontentare tutti in una sorta di «compromesso senza riforme» (l’efficace definizione è di Fabrizio Barca). La mancata contendibilità e l’obbligo della coabitazione hanno generato un assetto istituzionale che favorisce la corruzione: perché segnato dalla permanenza ipertrofica di leggi e regolamenti, che gravano la funzione pubblica di intollerabili lungaggini e rendono i tempi della giustizia enormemente dilatati rispetto agli altri Paesi avanzati (basti pensare che i processi civili durano da noi il quadruplo della media Ocse; che per realizzare una grande infrastruttura ci vogliono dieci anni, contro i cinque del resto d’Europa); perché ha frammentato e reso via via più complesso il nostro ordinamento, scindendolo in molteplici amministrazioni parallele presentate come soluzioni tampone e spesso pensate per distribuire potere, che hanno finito per accumularsi come stati sovrapposti e in conflitto reciproco. Tale assetto istituzionale si è andato delineando con nettezza già fra gli Anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, e da allora non siamo mai riusciti veramente a riformarlo. Anzi, per certi versi le cose sono peggiorate, per l’abitudine che una certa politica approssimativa - anche quando meglio intenzionata - ha sempre avuto di mettere una toppa, piuttosto che affrontare i problemi alla radice: i diversi condoni, approvati o anche solo ipotizzati, hanno sistematicamente mandato segnali incoraggianti a chi viola la legge; la figura del commissario straordinario è stata ampiamente abusata tanto che ha finito essa stessa per dare adito a clientelismo e mala gestione, mentre le tare del nostro sistema amministrativo venivano lasciate libere di incancrenirsi.
Spesso poi la politica non era nemmeno bene intenzionata, ma divorata essa stessa da appetiti personali, complice un’opinione pubblica colpevolmente disattenta. Negli anni scorsi, alcune riforme del governo Berlusconi, come la depenalizzazione del falso in bilancio, sono andate nella direzione opposta a quella necessaria. E anche ai nostri giorni, alcuni fra i migliori slanci del Partito democratico si sono arenati nei diversi pantani territoriali di quella compagine - ultimo esempio, il recente suicidio del Pd romano.
Eppure qualcosa si muove. La leadership di Renzi, se risulta fiacca e contraddittoria sul piano locale, appare invece molto attiva a livello nazionale, nella più alta opera di revisione strutturale del sistema. Ad agosto è diventata legge una riforma della pubblica amministrazione davvero ambiziosa, che potrebbe ridurre grandemente i margini per la corruzione: semplificando le procedure, rendendole più trasparenti, disinnescando il conflitto fra i diversi enti, attribuendo più chiare responsabilità. Sottovalutata dai media, su questo giornale siamo stati i primi a prestarle la dovuta attenzione. Ma quella riforma ha bisogno di essere attuata. E attuata anche bene, con coerenza e mezzi adeguati, altrimenti gli effetti potrebbero essere addirittura controproducenti (come nel caso del silenzio assenso). I decreti attuativi, promessi dal governo a settembre, sono slittati; forse a novembre. Il tema gode, per così dire, dell’indifferenza generale. Ma noi lo ripetiamo: su questo si gioca una partita decisiva per il futuro dell’Italia.
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Re: Diario della caduta di un regime.
Repubblica 23.10.15
La Costituzione e le tasse sulla casa
di Nadia Urbinati
A BRUXELLES si discute in questi giorni la scelta del governo italiano di tagliare le tasse sulla prima casa. Il ministro Pier Carlo Padoan ha riconosciuto che «c’è una tassa oggetto di dibattito» e di dissenso, non solo dentro il Pd. E l’esito di questo dibattito e di questo dissenso è stata la dichiarazione di Matteo Renzi per cui viene abolita la tassa sulla prima casa se la prima casa non è assimilabile a un castello o comunque non è di lusso. Come sappiamo, la rimozione della tassa sulla prima casa ha sempre incontrato resistenze, non solo nella sinistra del Pd, ma anche negli organismi internazionali (l’Fmi, l’Ocse, la Commissione Ue), favorevoli sì a un taglio delle imposte, ma in primo luogo sul lavoro e per incentivare i consumi. E in Italia, come già Mario Monti ebbe a dire quando introdusse l’Imu, la tassa sulla casa è l’unica vera imposta patrimoniale: un tentativo di riequilibrare i divari di ricchezza e un antidoto all’evasione, in quanto nella nostra società le proprietà sono più rintracciabili dei redditi. Vi sono dunque ragioni di equità che hanno motivato la discussione sulla scelta fiscale del governo. Ragioni che mettono in luce la differenza fra proporzionalità (flat tax o imposte piatte) e progressività.
Il principio di progressività è prima di tutto costituzionale. Il secondo comma dell’articolo 53 stabilisce che “Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Vale la pena menzionare le parole dell’on. Meuccio Ruini, presidente della Commissione che redasse quell’articolo: «Lasciandosi guidare da un sano realismo, non si può negare che una Costituzione la quale, come la nostra, si informa a princìpi di democrazia e di solidarietà sociale, debba dare la preferenza al principio della progressività... Si può discutere sulla misura e sui limiti della progressione; non sul principio».
A partire dal 1948, quando entrò in vigore la Costituzione, leader politici di ogni schieramento, da Ezio Vanoni a Aldo Moro a Sandro Pertini a Enrico Berlinguer, hanno difeso il concetto di perequazione tributaria. Che ai loro occhi era democratico e costituzionale, situato prima di ogni schieramento ideologico. Ezio Vanoni, che fu tra i redattori della Costituzione, considerava essenziale che le leggi stimolassero nei cittadini la consapevolezza del valore morale e sociale dell’obbligo tributario (un’idea che abbiamo sentito ripetere da Tommaso Padoa-Schioppa, ministro nel secondo Governo Prodi). Queste le parole da lui pronunciate in una seduta parlamentare del 1956: «Possiamo risolvere gran parte dei problemi del nostro Paese e li risolveremo nella misura nella quale sapremo chiedere ad ognuno la sua parte di sacrificio, proporzionata alla sua capacità di sopportazione».
Affidandosi al principio di equità, i Costituenti misero nero su bianco la differenza tra proporzionalità (flat tax) e progressività. Lo scontro tra “proporzionalità” e “progressività” è diventata nel corso degli anni uno scontro sulla funzione pubblica nell’economia, e quindi sull’impegno diretto del governo nel sistema di welfare. Circa dunque la proposta di eliminazione della tassa sulla prima casa, la logica della proporzionalità avrebbe significato che, appunto, chi possedeva una casa signorile avrebbe avuto tanto più da guadagnare (e meno da sopportare) di chi possedeva una casa modesta o popolare o non ne possedeva alcuna. La progressività è non questione ideologica dunque, bensì di equità e di coerenza con la Costituzione.
Il primo comma dell’articolo 53 ci dice infine che alle ragioni di equità si affiancano ragioni di giustizia, il nucleo della lotta all’evasione, una battaglia di buon governo: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva». Ha detto il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che mentre rivede la posizione sull’abolizione della tassa sulla prima casa, non la rivedrà sul limite del contante, che passerà da mille a tremila euro. E che questa decisione non lascerà una porta aperta all’evasione, aggiungendo che pagare meno tasse dovrebbe essere l’obiettivo cui tendere, stimolando comportamenti virtuosi.
Sarebbe ragionevole pensare che se tutti pagassero le tasse, tutti potrebbero pagare meno. Ma la logica ipotetica qui non aiuta molto; le decisioni politiche devono partire da quel che c’è per poter incentivare comportamenti virtuosi e scoraggiare quelli opposti. Nella direzione della lotta all’evasione è andata la scelta degli ultimi governi, e anche di questo, se è vero che Padoan stesso, tempo fa, aveva sostenuto che «la scelta di limitare la circolazione del contante e di procedere ad un progressivo abbassamento della soglia, è motivata dall’esigenza di fare emergere le economie sommerse per contrastare il riciclaggio dei capitali di provenienza illecita, l’evasione e l’elusione fiscale». Ciò di cui il nostro Paese ha bisogno è quindi tornare alla Costituzione, la quale in un articolo solo ci ricorda che equità e legalità stanno insieme.
La Costituzione e le tasse sulla casa
di Nadia Urbinati
A BRUXELLES si discute in questi giorni la scelta del governo italiano di tagliare le tasse sulla prima casa. Il ministro Pier Carlo Padoan ha riconosciuto che «c’è una tassa oggetto di dibattito» e di dissenso, non solo dentro il Pd. E l’esito di questo dibattito e di questo dissenso è stata la dichiarazione di Matteo Renzi per cui viene abolita la tassa sulla prima casa se la prima casa non è assimilabile a un castello o comunque non è di lusso. Come sappiamo, la rimozione della tassa sulla prima casa ha sempre incontrato resistenze, non solo nella sinistra del Pd, ma anche negli organismi internazionali (l’Fmi, l’Ocse, la Commissione Ue), favorevoli sì a un taglio delle imposte, ma in primo luogo sul lavoro e per incentivare i consumi. E in Italia, come già Mario Monti ebbe a dire quando introdusse l’Imu, la tassa sulla casa è l’unica vera imposta patrimoniale: un tentativo di riequilibrare i divari di ricchezza e un antidoto all’evasione, in quanto nella nostra società le proprietà sono più rintracciabili dei redditi. Vi sono dunque ragioni di equità che hanno motivato la discussione sulla scelta fiscale del governo. Ragioni che mettono in luce la differenza fra proporzionalità (flat tax o imposte piatte) e progressività.
Il principio di progressività è prima di tutto costituzionale. Il secondo comma dell’articolo 53 stabilisce che “Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Vale la pena menzionare le parole dell’on. Meuccio Ruini, presidente della Commissione che redasse quell’articolo: «Lasciandosi guidare da un sano realismo, non si può negare che una Costituzione la quale, come la nostra, si informa a princìpi di democrazia e di solidarietà sociale, debba dare la preferenza al principio della progressività... Si può discutere sulla misura e sui limiti della progressione; non sul principio».
A partire dal 1948, quando entrò in vigore la Costituzione, leader politici di ogni schieramento, da Ezio Vanoni a Aldo Moro a Sandro Pertini a Enrico Berlinguer, hanno difeso il concetto di perequazione tributaria. Che ai loro occhi era democratico e costituzionale, situato prima di ogni schieramento ideologico. Ezio Vanoni, che fu tra i redattori della Costituzione, considerava essenziale che le leggi stimolassero nei cittadini la consapevolezza del valore morale e sociale dell’obbligo tributario (un’idea che abbiamo sentito ripetere da Tommaso Padoa-Schioppa, ministro nel secondo Governo Prodi). Queste le parole da lui pronunciate in una seduta parlamentare del 1956: «Possiamo risolvere gran parte dei problemi del nostro Paese e li risolveremo nella misura nella quale sapremo chiedere ad ognuno la sua parte di sacrificio, proporzionata alla sua capacità di sopportazione».
Affidandosi al principio di equità, i Costituenti misero nero su bianco la differenza tra proporzionalità (flat tax) e progressività. Lo scontro tra “proporzionalità” e “progressività” è diventata nel corso degli anni uno scontro sulla funzione pubblica nell’economia, e quindi sull’impegno diretto del governo nel sistema di welfare. Circa dunque la proposta di eliminazione della tassa sulla prima casa, la logica della proporzionalità avrebbe significato che, appunto, chi possedeva una casa signorile avrebbe avuto tanto più da guadagnare (e meno da sopportare) di chi possedeva una casa modesta o popolare o non ne possedeva alcuna. La progressività è non questione ideologica dunque, bensì di equità e di coerenza con la Costituzione.
Il primo comma dell’articolo 53 ci dice infine che alle ragioni di equità si affiancano ragioni di giustizia, il nucleo della lotta all’evasione, una battaglia di buon governo: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva». Ha detto il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che mentre rivede la posizione sull’abolizione della tassa sulla prima casa, non la rivedrà sul limite del contante, che passerà da mille a tremila euro. E che questa decisione non lascerà una porta aperta all’evasione, aggiungendo che pagare meno tasse dovrebbe essere l’obiettivo cui tendere, stimolando comportamenti virtuosi.
Sarebbe ragionevole pensare che se tutti pagassero le tasse, tutti potrebbero pagare meno. Ma la logica ipotetica qui non aiuta molto; le decisioni politiche devono partire da quel che c’è per poter incentivare comportamenti virtuosi e scoraggiare quelli opposti. Nella direzione della lotta all’evasione è andata la scelta degli ultimi governi, e anche di questo, se è vero che Padoan stesso, tempo fa, aveva sostenuto che «la scelta di limitare la circolazione del contante e di procedere ad un progressivo abbassamento della soglia, è motivata dall’esigenza di fare emergere le economie sommerse per contrastare il riciclaggio dei capitali di provenienza illecita, l’evasione e l’elusione fiscale». Ciò di cui il nostro Paese ha bisogno è quindi tornare alla Costituzione, la quale in un articolo solo ci ricorda che equità e legalità stanno insieme.
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Re: Diario della caduta di un regime.
GLI INTOCCABILI E INAMOVIBILI
Perché Alfano è intoccabile e inamovibile???
l’inchiesta sull’anas / «Usiamo i soldi dalla cassa nostra. Si deve smuovere tutto il mondo».
Parlamentari e ministri nell’agenda della «Dama nera». Il caso di Delrio
I contatti politici della Accroglianò: il ministro dei Trasporti citato in un dialogo. Lui replica: «Meduri l’ho visto solo in Transatlantico»
di Fiorenza Sarzanini
http://www.corriere.it/cronache/15_otto ... b3bf.shtml
Perché Alfano è intoccabile e inamovibile???
l’inchiesta sull’anas / «Usiamo i soldi dalla cassa nostra. Si deve smuovere tutto il mondo».
Parlamentari e ministri nell’agenda della «Dama nera». Il caso di Delrio
I contatti politici della Accroglianò: il ministro dei Trasporti citato in un dialogo. Lui replica: «Meduri l’ho visto solo in Transatlantico»
di Fiorenza Sarzanini
http://www.corriere.it/cronache/15_otto ... b3bf.shtml
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Re: Diario della caduta di un regime.
Alfano: “Invece di fare autocritica ci attaccano”
QUANDO LA DEMOCRAZIA E'UN RICORDO DEL BEL TEMPO CHE FU. ANCHE SE DOVEVA ESSERE ANCORA COMPLETATA, E LA COSTITUZIONE ERA STATA APPLICATA SOLO A META'.
Il Terzo potere dello Stato ha bisogno di essere revisionato. Ma il suo stato dell'arte non è assolutamente paragonabile agli alti due poteri, quello legislativo e quello esecutivo ormai completamente rasi al suolo come dopo un bombardamento della Seconda Guerra Mondiale.
Giustizia, Anm: “Fondate critiche su corruzione”
Alfano: “Invece di fare autocritica ci attaccano”
Nuovo scontro tra associazione magistrati ed esecutivo. Il segretario Carbone: “Ci ribelliamo alla delegittimazione”. Il ministro: “Ci vuole faccia e coraggio”. E Orlando: “Attaccano perché sono divisi”
Politica
“Credo che ci voglia coraggio e una certa faccia per attaccare questo governo. Invece dell’autocritica arrivano gli attacchi”. Alfano va all’attacco dell’Anm, all’indomani delle parole del presidente Rodolfo Sabelli che ha attaccato l’esecutivo di Renzi e la riforma sulla responsabilità civile, e insistito sul maggiore interesse del governo rispetto alle intercettazioni rispetto a quello sulla mafia. Anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando minimizza gli attacchi dell’Anm, già bollati come “ingenerosi” dal Pd. “Quei toni, e qualche accento acuto – ha detto – sono il tentativo di tenere insieme la magistratura in un momento in cui ci sono scontri significativi al suo interno”
http://www.ilfattoquotidiano.it/?refresh_ce
^^^^^
Giustizia, Alfano contro Anm: “Ci vuole coraggio per attaccare questo governo”
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/10 ... o/2156999/
QUANDO LA DEMOCRAZIA E'UN RICORDO DEL BEL TEMPO CHE FU. ANCHE SE DOVEVA ESSERE ANCORA COMPLETATA, E LA COSTITUZIONE ERA STATA APPLICATA SOLO A META'.
Il Terzo potere dello Stato ha bisogno di essere revisionato. Ma il suo stato dell'arte non è assolutamente paragonabile agli alti due poteri, quello legislativo e quello esecutivo ormai completamente rasi al suolo come dopo un bombardamento della Seconda Guerra Mondiale.
Giustizia, Anm: “Fondate critiche su corruzione”
Alfano: “Invece di fare autocritica ci attaccano”
Nuovo scontro tra associazione magistrati ed esecutivo. Il segretario Carbone: “Ci ribelliamo alla delegittimazione”. Il ministro: “Ci vuole faccia e coraggio”. E Orlando: “Attaccano perché sono divisi”
Politica
“Credo che ci voglia coraggio e una certa faccia per attaccare questo governo. Invece dell’autocritica arrivano gli attacchi”. Alfano va all’attacco dell’Anm, all’indomani delle parole del presidente Rodolfo Sabelli che ha attaccato l’esecutivo di Renzi e la riforma sulla responsabilità civile, e insistito sul maggiore interesse del governo rispetto alle intercettazioni rispetto a quello sulla mafia. Anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando minimizza gli attacchi dell’Anm, già bollati come “ingenerosi” dal Pd. “Quei toni, e qualche accento acuto – ha detto – sono il tentativo di tenere insieme la magistratura in un momento in cui ci sono scontri significativi al suo interno”
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Giustizia, Alfano contro Anm: “Ci vuole coraggio per attaccare questo governo”
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Re: Diario della caduta di un regime.
Repubblica 24.10.15
La spina di Marino nel fianco del Pd
Sui dem la spada di Damocle di Marino
Nel Pd non potranno restare a lungo inerti. Il rischio è che tra i dem prenda il via un’agonia piena di ricatti
di Stefano Folli
NELLO STRANO caso di Ignazio Marino quasi nulla è come appare.
A cominciare dal sindaco dimissionario che non è affatto quel personaggio ingenuo capitato per caso nella fossa dei leoni.
Marino segue una sua logica fatta di passaggi imprevedibili e scarti improvvisi, ma all’interno di uno schema a suo modo coerente.
Viceversa, a chi segue uno schema classico, per esempio il Pd romano, il comportamento del personaggio sembra indecifrabile, l’agire inconsulto di un uomo che ha perso la testa.
Non è proprio così.
Nell’intervista data a questo giornale, Marino non dà mai l’impressione di essere fuori controllo.
Al contrario, ogni frase contiene parole pesate una a una.
L’obiettivo sembra chiaro: è il suo ex partito, reo di averlo abbandonato a un destino amaro, fatto di discredito personale come premessa dell’oblio.
Al Pd il sindaco vuol far pagare tutto con gli interessi.
Ha capito di avere in mano alcune carte rilevanti, poiché le dimissioni in teoria si possono ritirare e alle primarie del centrosinistra ci si può presentare con l’intento di creare la massima confusione.
Quanto meno lo si può minacciare per vedere l’effetto che fa.
Non solo.
È evidente che il Pd vuole evitare a tutti i costi di dover sfiduciare il “suo” sindaco con un voto nell’assemblea capitolina.
Vorrebbe dire trovarsi in compagnia dei partiti che di lì a poco saranno gli avversari nella campagna elettorale, dalla destra della Meloni ai Cinque Stelle.
Già oggi i sondaggi danno il partito di Renzi e Orfini in grande affanno.
Un pubblico suicidio indotto dalla resistenza di Marino sarebbe il colpo di grazia alle speranze, peraltro assai esigue, di risalire la china.
Il sindaco dimissionario è, sì, un “impolitico”, ma non è uno sprovveduto.
Dispone di una certa astuzia e se ne serve all’occorrenza.
Le sue uscite sono temerarie, ma non superano mai l’invisibile confine che le trasformerebbero in vuoto vaneggiare.
Sono tipiche di un uomo che non ha più un futuro davanti, almeno nel mondo della politica, ma ha ancora l’energia per vendicarsi.
Nessuno gli ha offerto un paracadute o quanto meno l’onore delle armi.
Nessuno ha blandito il suo egocentrismo fuori del comune.
Al tempo stesso, egli è diventato suo malgrado — e non si sa per quanto tempo — il beniamino di una fetta di elettorato che vede in lui la vittima di un gioco di palazzo.
È un mondo che detesta il Pd romano ed è probabilmente pronto a votare i Cinque Stelle fra sei mesi.
Ma intanto sostiene Marino e gli chiede di “non mollare” perché ha ben compreso, come del resto il sindaco, che questo è il modo più crudele per tenere aperta la ferita del centrosinistra.
Sulla carta, questi sostenitori costituiscono la base elettorale del supposto ribelle, benché sul piano pratico per lui presentarsi alle primarie sarà più facile a dirsi che a farsi.
Ma il solo parlarne genera ulteriori conflitti e manda in affanno il piccolo “establishment” di un partito che oggi non è in grado nemmeno di garantire la rielezione dei consiglieri comunali.
SULLO SFONDO si staglia l’insidia peggiore, benché allo stato poco verosimile: escluso dalle primarie, Marino potrebbe presentarsi da solo alle elezioni.
Raccoglierebbe quel tanto di voti sufficienti a rendere clamorosa la disfatta del Pd.
Per ottenere lo scopo, il dimissionario deve continuare sulla linea inaugurata ormai da mesi: presentarsi come la vittima dei poteri criminali, lo sceriffo solitario che ha liberato Roma dalla mafia e poi è stato tradito dal suo partito.
Un messaggio obliquo tutt’altro che oscuro benché poco consistente, dal momento che tutti conoscono le inchieste del procuratore Pignatone e sanno bene chi e come ha debellato la rete dei Carminati e dei Buzzi.
Resta il fatto che il Marino degli ultimi giorni, in apparenza prigioniero dei suoi rancori, sta mostrando un’abilità comunicativa superiore ai suoi nemici, specie quelli del centrosinistra.
Non avendo più niente da perdere, il sindaco galoppa.
Ma nel Pd non potranno ancora a lungo restare inerti.
Ormai il dado è tratto e Marino dovrà uscire di scena, quale che sia il prezzo politico ed elettorale che nel partito di Renzi si dovrà pagare.
Tutto è meglio di un’agonia costellata di ricatti.
La spina di Marino nel fianco del Pd
Sui dem la spada di Damocle di Marino
Nel Pd non potranno restare a lungo inerti. Il rischio è che tra i dem prenda il via un’agonia piena di ricatti
di Stefano Folli
NELLO STRANO caso di Ignazio Marino quasi nulla è come appare.
A cominciare dal sindaco dimissionario che non è affatto quel personaggio ingenuo capitato per caso nella fossa dei leoni.
Marino segue una sua logica fatta di passaggi imprevedibili e scarti improvvisi, ma all’interno di uno schema a suo modo coerente.
Viceversa, a chi segue uno schema classico, per esempio il Pd romano, il comportamento del personaggio sembra indecifrabile, l’agire inconsulto di un uomo che ha perso la testa.
Non è proprio così.
Nell’intervista data a questo giornale, Marino non dà mai l’impressione di essere fuori controllo.
Al contrario, ogni frase contiene parole pesate una a una.
L’obiettivo sembra chiaro: è il suo ex partito, reo di averlo abbandonato a un destino amaro, fatto di discredito personale come premessa dell’oblio.
Al Pd il sindaco vuol far pagare tutto con gli interessi.
Ha capito di avere in mano alcune carte rilevanti, poiché le dimissioni in teoria si possono ritirare e alle primarie del centrosinistra ci si può presentare con l’intento di creare la massima confusione.
Quanto meno lo si può minacciare per vedere l’effetto che fa.
Non solo.
È evidente che il Pd vuole evitare a tutti i costi di dover sfiduciare il “suo” sindaco con un voto nell’assemblea capitolina.
Vorrebbe dire trovarsi in compagnia dei partiti che di lì a poco saranno gli avversari nella campagna elettorale, dalla destra della Meloni ai Cinque Stelle.
Già oggi i sondaggi danno il partito di Renzi e Orfini in grande affanno.
Un pubblico suicidio indotto dalla resistenza di Marino sarebbe il colpo di grazia alle speranze, peraltro assai esigue, di risalire la china.
Il sindaco dimissionario è, sì, un “impolitico”, ma non è uno sprovveduto.
Dispone di una certa astuzia e se ne serve all’occorrenza.
Le sue uscite sono temerarie, ma non superano mai l’invisibile confine che le trasformerebbero in vuoto vaneggiare.
Sono tipiche di un uomo che non ha più un futuro davanti, almeno nel mondo della politica, ma ha ancora l’energia per vendicarsi.
Nessuno gli ha offerto un paracadute o quanto meno l’onore delle armi.
Nessuno ha blandito il suo egocentrismo fuori del comune.
Al tempo stesso, egli è diventato suo malgrado — e non si sa per quanto tempo — il beniamino di una fetta di elettorato che vede in lui la vittima di un gioco di palazzo.
È un mondo che detesta il Pd romano ed è probabilmente pronto a votare i Cinque Stelle fra sei mesi.
Ma intanto sostiene Marino e gli chiede di “non mollare” perché ha ben compreso, come del resto il sindaco, che questo è il modo più crudele per tenere aperta la ferita del centrosinistra.
Sulla carta, questi sostenitori costituiscono la base elettorale del supposto ribelle, benché sul piano pratico per lui presentarsi alle primarie sarà più facile a dirsi che a farsi.
Ma il solo parlarne genera ulteriori conflitti e manda in affanno il piccolo “establishment” di un partito che oggi non è in grado nemmeno di garantire la rielezione dei consiglieri comunali.
SULLO SFONDO si staglia l’insidia peggiore, benché allo stato poco verosimile: escluso dalle primarie, Marino potrebbe presentarsi da solo alle elezioni.
Raccoglierebbe quel tanto di voti sufficienti a rendere clamorosa la disfatta del Pd.
Per ottenere lo scopo, il dimissionario deve continuare sulla linea inaugurata ormai da mesi: presentarsi come la vittima dei poteri criminali, lo sceriffo solitario che ha liberato Roma dalla mafia e poi è stato tradito dal suo partito.
Un messaggio obliquo tutt’altro che oscuro benché poco consistente, dal momento che tutti conoscono le inchieste del procuratore Pignatone e sanno bene chi e come ha debellato la rete dei Carminati e dei Buzzi.
Resta il fatto che il Marino degli ultimi giorni, in apparenza prigioniero dei suoi rancori, sta mostrando un’abilità comunicativa superiore ai suoi nemici, specie quelli del centrosinistra.
Non avendo più niente da perdere, il sindaco galoppa.
Ma nel Pd non potranno ancora a lungo restare inerti.
Ormai il dado è tratto e Marino dovrà uscire di scena, quale che sia il prezzo politico ed elettorale che nel partito di Renzi si dovrà pagare.
Tutto è meglio di un’agonia costellata di ricatti.
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Re: Diario della caduta di un regime.
Maria Teresa Meli è una sponda renziana del Corriere,....e si sente. Se avesse letto Stefano Folli avrebbe scritto quello che ha scritto????
Corriere 24.10.15
Non votare il bilancio, l’arma finale del Nazareno
I timori che il sindaco dimissionario possa correre con una sua lista
di Maria Teresa Meli
ROMA È una resa senza condizioni quella che il Partito democratico chiede a Ignazio Marino.
Se il sindaco di Roma, ventilando l’ipotesi di ritirare le proprie dimissioni, pensava di andare in pressing su Matteo Renzi ha dovuto ricredersi.
«Niente trattative», è la parola d’ordine che si sente sussurrare nel quartier generale del Pd.
Il presidente del Consiglio, del resto, considera questa giunta un capitolo già chiuso.
Prima di partire, con i suoi, è stato netto: «Il tema per noi è Roma, non Marino. Concentriamoci sulla Capitale e lasciamo perdere il passato».
I renziani sono quindi inamovibili e hanno interrotto i contatti con il primo cittadino.
Nessuno parla più con Marino.
Il premier non lo faceva già da tempo.
Il suo braccio destro e sinistro, Luca Lotti, è sulla stessa linea.
Anche il vicesegretario Lorenzo Guerini, che pure in un primo momento aveva cercato di mediare, non alza più il telefono per sentire il sindaco.
Matteo Orfini, commissario del partito romano, fresco di proroga, ha interrotto tutti i contatti poco dopo la vicenda degli scontrini.
Marco Causi, assessore al Bilancio dimissionario, è l’unico ufficiale di collegamento tra il Pd e il Campidoglio, ma anche lui ieri si è spazientito con il sindaco.
Insomma, quello che il primo cittadino della Capitale sperava di ottenere, ossia un abboccamento con il presidente del Consiglio, non c’è stato.
E difficilmente ci sarà.
Dicono che ora Marino punti sulla mediazione di Graziano Delrio per ottenere quell’uscita con l’onore delle armi che gli sta tanto a cuore.
A Palazzo Chigi come al Nazareno sono convinti che, alla fine, il sindaco non ritirerà le dimissioni: «Senza il Partito democratico non c’è una maggioranza nel consiglio comunale, quindi Marino non potrà andare avanti», è la spiegazione che viene data.
Ma è anche vero che, dopo i tira e molla del primo cittadino della Capitale, nessuno è più disposto a mettere la mano sul fuoco sul fatto che il sindaco lascerà il Campidoglio.
Perciò, nel frattempo, si studiano tutte le possibili contromosse.
Fino all’arma estrema: quella di non votare il bilancio preventivo che va approvato entro fine anno, nel caso in cui Marino non si dimetta.
In questo modo scatterebbero delle procedure che porterebbero al commissariamento.
Ma è chiaro che si tratta di una extrema ratio , perché quello che vorrebbe veramente il premier è chiudere questa storia al più presto, limitando, per quanto è possibile, i danni che sono già stati fatti all’immagine del Pd, e buttandosi a capo fitto sull’operazione Giubileo.
Ma anche se tutto filasse liscio, se questo tormentone romano avesse fine entro il due novembre e Marino confermasse le dimissioni, potrebbero ancora esserci dei problemi.
Non tanto quelli legati all’annuncio del sindaco che non esclude di partecipare alle primarie, perché non è affatto detto che a Roma si tengano quelle consultazioni.
Infatti, se si trovasse un nome di peso, su cui tutti o quasi si trovassero d’accordo, le primarie potrebbero diventare superflue.
I timori di una parte del Pd riguardano invece la possibilità che Marino decida di presentasi in proprio, con una lista civica, anche se gli uomini a lui più vicini negano che il sindaco abbia intenzione di ingaggiare una battaglia elettorale contro il proprio partito.
E, per esempio, la stessa Sel è divisa. Un pezzo di quel movimento immagina di poter costruire una «Cosa rossa» attorno alla candidatura di Marino.
Ma il capogruppo di Sel alla Camera Arturo Scotto lo esclude: «Non possiamo andare alle elezioni con lui, è bruciato».
Corriere 24.10.15
Non votare il bilancio, l’arma finale del Nazareno
I timori che il sindaco dimissionario possa correre con una sua lista
di Maria Teresa Meli
ROMA È una resa senza condizioni quella che il Partito democratico chiede a Ignazio Marino.
Se il sindaco di Roma, ventilando l’ipotesi di ritirare le proprie dimissioni, pensava di andare in pressing su Matteo Renzi ha dovuto ricredersi.
«Niente trattative», è la parola d’ordine che si sente sussurrare nel quartier generale del Pd.
Il presidente del Consiglio, del resto, considera questa giunta un capitolo già chiuso.
Prima di partire, con i suoi, è stato netto: «Il tema per noi è Roma, non Marino. Concentriamoci sulla Capitale e lasciamo perdere il passato».
I renziani sono quindi inamovibili e hanno interrotto i contatti con il primo cittadino.
Nessuno parla più con Marino.
Il premier non lo faceva già da tempo.
Il suo braccio destro e sinistro, Luca Lotti, è sulla stessa linea.
Anche il vicesegretario Lorenzo Guerini, che pure in un primo momento aveva cercato di mediare, non alza più il telefono per sentire il sindaco.
Matteo Orfini, commissario del partito romano, fresco di proroga, ha interrotto tutti i contatti poco dopo la vicenda degli scontrini.
Marco Causi, assessore al Bilancio dimissionario, è l’unico ufficiale di collegamento tra il Pd e il Campidoglio, ma anche lui ieri si è spazientito con il sindaco.
Insomma, quello che il primo cittadino della Capitale sperava di ottenere, ossia un abboccamento con il presidente del Consiglio, non c’è stato.
E difficilmente ci sarà.
Dicono che ora Marino punti sulla mediazione di Graziano Delrio per ottenere quell’uscita con l’onore delle armi che gli sta tanto a cuore.
A Palazzo Chigi come al Nazareno sono convinti che, alla fine, il sindaco non ritirerà le dimissioni: «Senza il Partito democratico non c’è una maggioranza nel consiglio comunale, quindi Marino non potrà andare avanti», è la spiegazione che viene data.
Ma è anche vero che, dopo i tira e molla del primo cittadino della Capitale, nessuno è più disposto a mettere la mano sul fuoco sul fatto che il sindaco lascerà il Campidoglio.
Perciò, nel frattempo, si studiano tutte le possibili contromosse.
Fino all’arma estrema: quella di non votare il bilancio preventivo che va approvato entro fine anno, nel caso in cui Marino non si dimetta.
In questo modo scatterebbero delle procedure che porterebbero al commissariamento.
Ma è chiaro che si tratta di una extrema ratio , perché quello che vorrebbe veramente il premier è chiudere questa storia al più presto, limitando, per quanto è possibile, i danni che sono già stati fatti all’immagine del Pd, e buttandosi a capo fitto sull’operazione Giubileo.
Ma anche se tutto filasse liscio, se questo tormentone romano avesse fine entro il due novembre e Marino confermasse le dimissioni, potrebbero ancora esserci dei problemi.
Non tanto quelli legati all’annuncio del sindaco che non esclude di partecipare alle primarie, perché non è affatto detto che a Roma si tengano quelle consultazioni.
Infatti, se si trovasse un nome di peso, su cui tutti o quasi si trovassero d’accordo, le primarie potrebbero diventare superflue.
I timori di una parte del Pd riguardano invece la possibilità che Marino decida di presentasi in proprio, con una lista civica, anche se gli uomini a lui più vicini negano che il sindaco abbia intenzione di ingaggiare una battaglia elettorale contro il proprio partito.
E, per esempio, la stessa Sel è divisa. Un pezzo di quel movimento immagina di poter costruire una «Cosa rossa» attorno alla candidatura di Marino.
Ma il capogruppo di Sel alla Camera Arturo Scotto lo esclude: «Non possiamo andare alle elezioni con lui, è bruciato».
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Re: Diario della caduta di un regime.
L'uomo della P2-P3 e di Licio Gelli, buono per tutte le stagioni. O almeno lui crede.
Finché ci sono convinti ex Pci che credono che La Qualunque sia di sinistra, il piano di Gelli prosegue. Potrebbe essere a buon punto con quel tipo di merli giganti.
Repubblica 24.10.15
Denis Verdini
“Sarò presentabile anche per il Pd”
intervista di Tommaso Ciriaco
ROMA Tre Marlboro rosse di fila, praticamente senza respirare. Poi Denis Verdini si lascia andare, in un angolo del cortile del tribunale: «Che fatica questo interrogatorio, ma combatto. In questo processo non c’è davvero un cavolo, mi creda. Però mi devo difendere, l’ho sempre fatto. E d’ora in poi lo farò su tutto». In effetti l’ex coordinatore berlusconiano ha bisogno di uscire indenne da questo corpo a corpo con la giustizia. Inevitabile, per chi bussa alla porta del Pd, ha un piede e mezzo nella maggioranza di Matteo Renzi e sogna un posto al sole nel partito della Nazione: «Certo che lo faccio anche per una questione di “presentabilità” politica, come la chiama lei. Ed è ovvio che in questa fase sono esposto. Ma, mi creda, lo faccio soprattutto per una questione di onorabilità personale». Bisogna rientrare in aula, la prima pausa concessa dal tribunale è già finita. «Non mi sono mai sottratto ai giudici. Politica e giustizia restano, per me, due binari separati».
È arrivato a piazzale Clodio poco dopo le nove. Completo blu, cravatta tendente al viola, bretelle nere. Tra i suoi legali c’è il professor Coppi, a cui indirizza lo sguardo con ostentata noncuranza prima di rispondere ai quesiti più delicati. A un certo punto incrocia il faccendiere Flavio Carboni, anche lui imputato per la P3, descritto come un simpatico guascone: «Scusi, signor capo del governo»..., scherza il faccendiere. E Verdini: «Se lo dici di nuovo — sorride — ci arrestano a tutti e due...».
Vuole conquistare i giudici. Come? «Spiego la politica, che è il mio lavoro». Racconta la dura attività da Mister Wolf di Fivizzano. Sangue e merda, diceva Rino Formica. «Fare il politico è una cosa tosta, c’ho sempre la gente addosso... Godo negativamente dell’immagine dell’uomo dal carattere forte, che manda a quel paese e si fa rispettare. È il mio linguaggio, non lo filtro. Parlavo con tutti, bastava una telefonata. Tutti avevano bisogno di me». Costruisce l’immagine di un potente spregiudicato che decide e magari calpesta, ma che non ha certo bisogno di una banda di millantatori: «Non per fare l’arrogante, ma è il mio mestiere scontentare qualcuno. Sa, lui diceva di sì a tutti, poi intervenivo io». E alza il dito verso l’alto, tanto che i giudici domandano: «Lui chi?». «Lui, Berlusconi».
A pranzo siede al ristorante con Coppi. Poi torna di fronte ai giudici. Gesticola molto, studia i tempi come fosse a un talk: «Visto che in sala ci sono giornalisti mi lasci dire... ». «Si rivolga a me!», lo riprende il pm. Per smorzare la tensione il neorenziano cita il “Quarto potere” di Orson Welles, poi Guicciardini. Ogni tanto la discussione vira verso altri dossier. La premessa è standard: «Di questo sto discutendo in un altro processo». Una, due, tre volte. Quattro, come i suoi guai giudiziari.
Finché ci sono convinti ex Pci che credono che La Qualunque sia di sinistra, il piano di Gelli prosegue. Potrebbe essere a buon punto con quel tipo di merli giganti.
Repubblica 24.10.15
Denis Verdini
“Sarò presentabile anche per il Pd”
intervista di Tommaso Ciriaco
ROMA Tre Marlboro rosse di fila, praticamente senza respirare. Poi Denis Verdini si lascia andare, in un angolo del cortile del tribunale: «Che fatica questo interrogatorio, ma combatto. In questo processo non c’è davvero un cavolo, mi creda. Però mi devo difendere, l’ho sempre fatto. E d’ora in poi lo farò su tutto». In effetti l’ex coordinatore berlusconiano ha bisogno di uscire indenne da questo corpo a corpo con la giustizia. Inevitabile, per chi bussa alla porta del Pd, ha un piede e mezzo nella maggioranza di Matteo Renzi e sogna un posto al sole nel partito della Nazione: «Certo che lo faccio anche per una questione di “presentabilità” politica, come la chiama lei. Ed è ovvio che in questa fase sono esposto. Ma, mi creda, lo faccio soprattutto per una questione di onorabilità personale». Bisogna rientrare in aula, la prima pausa concessa dal tribunale è già finita. «Non mi sono mai sottratto ai giudici. Politica e giustizia restano, per me, due binari separati».
È arrivato a piazzale Clodio poco dopo le nove. Completo blu, cravatta tendente al viola, bretelle nere. Tra i suoi legali c’è il professor Coppi, a cui indirizza lo sguardo con ostentata noncuranza prima di rispondere ai quesiti più delicati. A un certo punto incrocia il faccendiere Flavio Carboni, anche lui imputato per la P3, descritto come un simpatico guascone: «Scusi, signor capo del governo»..., scherza il faccendiere. E Verdini: «Se lo dici di nuovo — sorride — ci arrestano a tutti e due...».
Vuole conquistare i giudici. Come? «Spiego la politica, che è il mio lavoro». Racconta la dura attività da Mister Wolf di Fivizzano. Sangue e merda, diceva Rino Formica. «Fare il politico è una cosa tosta, c’ho sempre la gente addosso... Godo negativamente dell’immagine dell’uomo dal carattere forte, che manda a quel paese e si fa rispettare. È il mio linguaggio, non lo filtro. Parlavo con tutti, bastava una telefonata. Tutti avevano bisogno di me». Costruisce l’immagine di un potente spregiudicato che decide e magari calpesta, ma che non ha certo bisogno di una banda di millantatori: «Non per fare l’arrogante, ma è il mio mestiere scontentare qualcuno. Sa, lui diceva di sì a tutti, poi intervenivo io». E alza il dito verso l’alto, tanto che i giudici domandano: «Lui chi?». «Lui, Berlusconi».
A pranzo siede al ristorante con Coppi. Poi torna di fronte ai giudici. Gesticola molto, studia i tempi come fosse a un talk: «Visto che in sala ci sono giornalisti mi lasci dire... ». «Si rivolga a me!», lo riprende il pm. Per smorzare la tensione il neorenziano cita il “Quarto potere” di Orson Welles, poi Guicciardini. Ogni tanto la discussione vira verso altri dossier. La premessa è standard: «Di questo sto discutendo in un altro processo». Una, due, tre volte. Quattro, come i suoi guai giudiziari.
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