Diario della caduta di un regime.
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Re: Diario della caduta di un regime.
Corriere 24.11.15
Il segno di debolezza
Polemiche che segnalano le ambiguità del nuovismo
Le perplessità del premier sulle primarie sono un segno di debolezza della rivoluzione tentata nel partito
di Massimo Franco
Non che Antonio Bassolino o Ignazio Marino provochino brividi di rimpianto come sindaci rispettivamente di Napoli e di Roma. Per motivi diversi, hanno rappresentato esperienze controverse, per usare un eufemismo. La regola tesa a escludere la ricandidatura di ex amministratori locali, alla quale sta pensando il Partito democratico, appare però un pasticcio politico. Fa riaffiorare il fantasma delle norme ad personam , stavolta giocate contro qualcuno. E per paradosso, invece di coprire rischia di sottolineare il vuoto di classe dirigente e la confusione strategica che il partito di Matteo Renzi tende a mostrare.
È comprensibile accelerare e favorire un rinnovamento della nomenklatura, che continua a frustrare ogni intenzione del premier di plasmare un Pd a propria immagine e somiglianza. E si capisce anche la volontà di prevenire altri casi Marino o Vincenzo De Luca, il controverso presidente della Campania, emerso come candidato vittorioso per l’indecisione del vertice dei democratici. Ma surrogare ritardi e contraddizioni politiche con leggi decise quasi per reazione dà il senso di un partito a corto di idee; e capace di fermare la vecchia nomenklatura solo per via giuridica.
A ben vedere, infatti, il problema non è che Bassolino voglia ricandidarsi; o che Marino pensi ad una lista civica per il Campidoglio; o che in altre città ci siano esponenti del Pd pronti a presentarsi in polemica con Renzi. C’è da chiedersi piuttosto come sia possibile, dopo quasi due anni di governo «rivoluzionario», nel senso di radicalmente riformista, che alcuni personaggi del passato facciano ancora paura al Pd. Segnano una contraddizione vistosa, che si abbina al «caso per caso» sulle primarie di partito accarezzato a via del Nazareno: benché delle primarie Renzi sia il figlio legittimo.
È come se anche il presidente del Consiglio, una volta al potere, temesse sorprese da quelle che per anni il Pd ha raffigurato come un bagno di democrazia diretta. Gli avversari, e non solo, sospettano che il «caso per caso» significhi accettare i candidati in linea col premier; e ostacolare gli altri. Sarà difficile, per i democratici, sottrarsi all’accusa di gestire il voto di primavera come una questione interna; e di scaricare sulle istituzioni i problemi. «Sono d’accordo con Renzi: le regole non si cambiano, l’ha detto lui», ricorda caustico Bassolino.
Ma il «no» a «inaccettabili discriminazioni» arriva dallo stesso Umberto Ranieri, possibile candidato e avversario storico dell’ex sindaco. E il rifiuto di disciplinare le primarie promette di trasformarsi in un’epidemia di proteste, e in un nuovo strumento polemico della minoranza contro Renzi. Le «primarie decise a Roma» potrebbero diventare la parola d’ordine di cacicchi locali trasformati in eroi da un Pd vittima delle ambiguità del nuovismo. Per questo ora il Pd renziano frena: «È stato un test, non si andrà in fondo».
Il segno di debolezza
Polemiche che segnalano le ambiguità del nuovismo
Le perplessità del premier sulle primarie sono un segno di debolezza della rivoluzione tentata nel partito
di Massimo Franco
Non che Antonio Bassolino o Ignazio Marino provochino brividi di rimpianto come sindaci rispettivamente di Napoli e di Roma. Per motivi diversi, hanno rappresentato esperienze controverse, per usare un eufemismo. La regola tesa a escludere la ricandidatura di ex amministratori locali, alla quale sta pensando il Partito democratico, appare però un pasticcio politico. Fa riaffiorare il fantasma delle norme ad personam , stavolta giocate contro qualcuno. E per paradosso, invece di coprire rischia di sottolineare il vuoto di classe dirigente e la confusione strategica che il partito di Matteo Renzi tende a mostrare.
È comprensibile accelerare e favorire un rinnovamento della nomenklatura, che continua a frustrare ogni intenzione del premier di plasmare un Pd a propria immagine e somiglianza. E si capisce anche la volontà di prevenire altri casi Marino o Vincenzo De Luca, il controverso presidente della Campania, emerso come candidato vittorioso per l’indecisione del vertice dei democratici. Ma surrogare ritardi e contraddizioni politiche con leggi decise quasi per reazione dà il senso di un partito a corto di idee; e capace di fermare la vecchia nomenklatura solo per via giuridica.
A ben vedere, infatti, il problema non è che Bassolino voglia ricandidarsi; o che Marino pensi ad una lista civica per il Campidoglio; o che in altre città ci siano esponenti del Pd pronti a presentarsi in polemica con Renzi. C’è da chiedersi piuttosto come sia possibile, dopo quasi due anni di governo «rivoluzionario», nel senso di radicalmente riformista, che alcuni personaggi del passato facciano ancora paura al Pd. Segnano una contraddizione vistosa, che si abbina al «caso per caso» sulle primarie di partito accarezzato a via del Nazareno: benché delle primarie Renzi sia il figlio legittimo.
È come se anche il presidente del Consiglio, una volta al potere, temesse sorprese da quelle che per anni il Pd ha raffigurato come un bagno di democrazia diretta. Gli avversari, e non solo, sospettano che il «caso per caso» significhi accettare i candidati in linea col premier; e ostacolare gli altri. Sarà difficile, per i democratici, sottrarsi all’accusa di gestire il voto di primavera come una questione interna; e di scaricare sulle istituzioni i problemi. «Sono d’accordo con Renzi: le regole non si cambiano, l’ha detto lui», ricorda caustico Bassolino.
Ma il «no» a «inaccettabili discriminazioni» arriva dallo stesso Umberto Ranieri, possibile candidato e avversario storico dell’ex sindaco. E il rifiuto di disciplinare le primarie promette di trasformarsi in un’epidemia di proteste, e in un nuovo strumento polemico della minoranza contro Renzi. Le «primarie decise a Roma» potrebbero diventare la parola d’ordine di cacicchi locali trasformati in eroi da un Pd vittima delle ambiguità del nuovismo. Per questo ora il Pd renziano frena: «È stato un test, non si andrà in fondo».
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Re: Diario della caduta di un regime.
Repubblica 24.11.15
Il boomerang ad personam
Selezioni interne prive di regole certe. E così si trasformano in una trappola
La strettoia irrisolta dei veterani locali e del renzismo povero di talenti
Legittimo voler tenere fuori Bassolino, però accettando la sfida delle urne
Il ritorno dell’ex sindaco riflette l’incapacità di proporre nomi più forti del suo
di Stefano Folli
Le primarie si confermano la strettoia più insidiosa sul sentiero del partito renziano. A due anni dall’inizio della segreteria, il leader non ha saputo o non ha voluto stabilire un sistema di regole certe. Di fatto, non ce ne sono; o almeno, non ci sono quelle che servirebbero a evitare troppi colpi di scena, per cui un meccanismo di democrazia si trasforma in una trappola per il gruppo dirigente.
La candidatura di Antonio Bassolino a Napoli non è esattamente una sorpresa. Era nell’aria da tempo ed è stata preparata con una certa cura. Ma in via del Nazareno si sono sottovalutati tutti i segnali. In base al principio sottinteso che i cosiddetti “rottamati” non hanno alcuna possibilità di riaffacciarsi alla vita pubblica, dal momento che il partito avrebbe nei loro confronti una reazione di rigetto. In realtà le cose sono più complicate. Come è stato ripetuto mille volte, il Pd ha un volto a Roma e un altro volto molto più articolato nelle città e nelle regioni. Il “partito di Renzi” esiste là dove il presidente del Consiglio esercita il suo potere, ma poi si presenta sfilacciato e contraddittorio a livello locale. E personaggi che a Roma, nel circuito ristretto dei renziani, vengono considerati antidiluviani, in realtà hanno un loro seguito e una precisa identità nei municipi, in qualche caso nelle regioni. È chiaro che nella visione del “partito della nazione” c’è posto per Sala a Milano e non per Bassolino a Napoli. Ma le primarie hanno una loro logica e sprigionano un’energia politica non comprimibile: lo sa bene Renzi che delle primarie è figlio, avendo convinto l’allora segretario Bersani a correggere lo statuto del Pd che gli avrebbe precluso la partecipazione.
Ecco quindi che Bassolino nella sua città ritiene di avere i numeri e la competenza per partecipare. Sconfiggerlo si può (nell’ottica di Renzi, si deve), ma solo in campo aperto, ossia nel rispetto della filosofia delle primarie.
D’altra parte, il ritorno dell’ex sindaco è il prevedibile risultato di una politica debole e di un Pd incapace di vivere fino in fondo il rinnovamento renziano, al di là di un certo opportunismo. Qualora a Napoli esistessero candidati ben radicati nel territorio - come si dice oggi - e forti di un loro consenso, la bandiera di Bassolino non farebbe paura. Infatti, se l’uomo risulta credibile nella sua nuova, tardiva discesa in campo, lo si deve soprattutto all’assenza nel Pd di altre figure capaci di raccogliere l’attenzione dell’elettorato, interpretando a Napoli il messaggio renziano. Per meglio dire, nomi come quelli di Gennaro Migliore e Umberto Ranieri, pur figli di storie opposte, hanno una loro indiscussa dignità, ma devono ancora dimostrare di essere in sintonia con la città, dopo gli anni tormentati di De Magistriis.
Si capisce quindi che l’idea di fabbricare in tutta fretta una regoletta “ad personam” per impedire a Bassolino o a Ignazio Marino di candidarsi, rischiava di essere un errore politico. E Renzi è stato svelto ad allontanare la patata bollente di un paio di mesi, fino a gennaio: il che equivale di fatto a rinunciare all’ipotesi di una tagliola contro i candidati scomodi. Del resto, i casi Bassolino e Marino non sono paragonabili fra loro. Il primo appartiene, pur con i suoi errori, alla storia napoletana. Il secondo, uscito di scena senza gloria, non ha mai dato l’impressione di appartenere a Roma. Tanto che oggi accarezza l’idea di presentarsi alle primarie, oppure “tout court” alle elezioni municipali, al solo scopo di danneggiare il Pd e fargli perdere quei 6-7 punti che equivarrebbero al colpo di grazia.
Come se ne esce? La stessa idea che la “rottamazione” sia un mero strumento di potere da brandire oppure accantonare a seconda delle convenienze, può essere dannosa per il premier-segretario. D’altra parte, peggio delle primarie abolite per timore dei risultati, ci sono solo le primarie addomesticate. Quando invece l’unica via d’uscita consiste nel creare un sistema di regole condivise entro cui far svolgere il confronto fra candidati. Una cornice neutrale. Ma forse andava predisposta prima: adesso sembra, e in effetti è, un tentativo maldestro di condizionare la gara.
Il boomerang ad personam
Selezioni interne prive di regole certe. E così si trasformano in una trappola
La strettoia irrisolta dei veterani locali e del renzismo povero di talenti
Legittimo voler tenere fuori Bassolino, però accettando la sfida delle urne
Il ritorno dell’ex sindaco riflette l’incapacità di proporre nomi più forti del suo
di Stefano Folli
Le primarie si confermano la strettoia più insidiosa sul sentiero del partito renziano. A due anni dall’inizio della segreteria, il leader non ha saputo o non ha voluto stabilire un sistema di regole certe. Di fatto, non ce ne sono; o almeno, non ci sono quelle che servirebbero a evitare troppi colpi di scena, per cui un meccanismo di democrazia si trasforma in una trappola per il gruppo dirigente.
La candidatura di Antonio Bassolino a Napoli non è esattamente una sorpresa. Era nell’aria da tempo ed è stata preparata con una certa cura. Ma in via del Nazareno si sono sottovalutati tutti i segnali. In base al principio sottinteso che i cosiddetti “rottamati” non hanno alcuna possibilità di riaffacciarsi alla vita pubblica, dal momento che il partito avrebbe nei loro confronti una reazione di rigetto. In realtà le cose sono più complicate. Come è stato ripetuto mille volte, il Pd ha un volto a Roma e un altro volto molto più articolato nelle città e nelle regioni. Il “partito di Renzi” esiste là dove il presidente del Consiglio esercita il suo potere, ma poi si presenta sfilacciato e contraddittorio a livello locale. E personaggi che a Roma, nel circuito ristretto dei renziani, vengono considerati antidiluviani, in realtà hanno un loro seguito e una precisa identità nei municipi, in qualche caso nelle regioni. È chiaro che nella visione del “partito della nazione” c’è posto per Sala a Milano e non per Bassolino a Napoli. Ma le primarie hanno una loro logica e sprigionano un’energia politica non comprimibile: lo sa bene Renzi che delle primarie è figlio, avendo convinto l’allora segretario Bersani a correggere lo statuto del Pd che gli avrebbe precluso la partecipazione.
Ecco quindi che Bassolino nella sua città ritiene di avere i numeri e la competenza per partecipare. Sconfiggerlo si può (nell’ottica di Renzi, si deve), ma solo in campo aperto, ossia nel rispetto della filosofia delle primarie.
D’altra parte, il ritorno dell’ex sindaco è il prevedibile risultato di una politica debole e di un Pd incapace di vivere fino in fondo il rinnovamento renziano, al di là di un certo opportunismo. Qualora a Napoli esistessero candidati ben radicati nel territorio - come si dice oggi - e forti di un loro consenso, la bandiera di Bassolino non farebbe paura. Infatti, se l’uomo risulta credibile nella sua nuova, tardiva discesa in campo, lo si deve soprattutto all’assenza nel Pd di altre figure capaci di raccogliere l’attenzione dell’elettorato, interpretando a Napoli il messaggio renziano. Per meglio dire, nomi come quelli di Gennaro Migliore e Umberto Ranieri, pur figli di storie opposte, hanno una loro indiscussa dignità, ma devono ancora dimostrare di essere in sintonia con la città, dopo gli anni tormentati di De Magistriis.
Si capisce quindi che l’idea di fabbricare in tutta fretta una regoletta “ad personam” per impedire a Bassolino o a Ignazio Marino di candidarsi, rischiava di essere un errore politico. E Renzi è stato svelto ad allontanare la patata bollente di un paio di mesi, fino a gennaio: il che equivale di fatto a rinunciare all’ipotesi di una tagliola contro i candidati scomodi. Del resto, i casi Bassolino e Marino non sono paragonabili fra loro. Il primo appartiene, pur con i suoi errori, alla storia napoletana. Il secondo, uscito di scena senza gloria, non ha mai dato l’impressione di appartenere a Roma. Tanto che oggi accarezza l’idea di presentarsi alle primarie, oppure “tout court” alle elezioni municipali, al solo scopo di danneggiare il Pd e fargli perdere quei 6-7 punti che equivarrebbero al colpo di grazia.
Come se ne esce? La stessa idea che la “rottamazione” sia un mero strumento di potere da brandire oppure accantonare a seconda delle convenienze, può essere dannosa per il premier-segretario. D’altra parte, peggio delle primarie abolite per timore dei risultati, ci sono solo le primarie addomesticate. Quando invece l’unica via d’uscita consiste nel creare un sistema di regole condivise entro cui far svolgere il confronto fra candidati. Una cornice neutrale. Ma forse andava predisposta prima: adesso sembra, e in effetti è, un tentativo maldestro di condizionare la gara.
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Re: Diario della caduta di un regime.
L’INTERVISTA
Il ministro Padoan:
«La paura del terrorismo può pesare sulla crescita»
«Lo 0,9% è una previsione, c’è il rischio di doverla rivedere. ma al momento non abbiamo elementi concreti. Chiediamo flessibilità alla Ue sulle emergenze. Se non arriverà ci adegueremo»
di LORENZO SALVIA 43
Ministro Pier Calo Padoan, la paura del terrorismo avrà effetti anche sull’economia? Ci dobbiamo aspettare una ripresa più debole del previsto?
«La fiducia delle famiglie e delle imprese è un elemento essenziale per l’andamento dell’economia. Ed è molto importante, come ci ha appena detto l’Istat, che questo dato sia in crescita».
Quel dato, però, era stato rilevato prima degli attentati di Parigi. Oggi sarebbe ben diverso, non crede?
«Certo, il clima seguito ai terribili fatti di Parigi è negativo e questo potrà avere effetti sulla ripresa. Ma gli italiani hanno la corretta percezione che stiamo uscendo dalla crisi. E questo conta molto, sia per la fiducia sia per l’economia».
L’obiettivo per il 2015 resta una crescita dello 0,9% del Pil, il prodotto interno lordo?
«Non è un obiettivo, è una previsione. E quando si fa una previsione c’è sempre il rischio di doverla rivedere al rialzo o al ribasso. Non dimentichiamoci che influisce anche un rallentamento delle economie di altri Paesi, cominciato ben prima degli attentati».
Quindi la crescita dello 0,9%, indicata dal governo nel Def, non ci sarà?
«Non ho detto questo. Degli effetti sono possibili ma al momento non abbiamo elementi concreti che ci inducano a rivedere quella cifra. E poi bisogna tener conto anche delle misure di reazione decise dal governo, con i 2 miliardi sugli interventi per la sicurezza e la cultura».
Buona parte della ripresa di quest’estate era stata trainata dal turismo. Difficile sperare che in quel settore non ci siano conseguenze.
«Non è detto. Sta cominciando la stagione sciistica, e le previsioni mi sembrano ottime».
A Roma sta per cominciare il Giubileo. Turisti non ce ne sono, i ristoranti sono vuoti.
«Staremo a vedere».
Ma lei, personalmente, ha paura che accada qualcosa, ha cambiato abitudini?
«Le mie abitudini sono cambiate, molto cambiate, da quando sono diventato ministro. Ma le voglio dire una cosa: a Parigi ho vissuto per sette anni, quando lavoravo all’Ocse. Le immagini che ho visto alla tv mi hanno colpito parecchio, perché quelle strade le conosco bene. Se abitassi ancora a Parigi non cambierei il mio stile di vita nemmeno di una virgola, perché quello sarebbe il primo segno di cedimento al terrorismo».
E in Italia, a Roma?
«Tanto meno».
Lei citava prima i 2 miliardi per sicurezza e la cultura. In realtà l’impegno di quelle risorse è condizionato al via libera dell’Unione europea sulla famosa flessibilità. Il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, dice che dall’Italia arrivano «troppe richieste di flessibilità». Non proprio un bel segnale.
«Noi non chiediamo nulla che non sia già previsto dalle regole sulla flessibilità che parlano di investimenti e di circostanze eccezionali, come i migranti e il terrorismo. È vero che sulle clausole di flessibilità l’Italia ha chiesto più degli altri Paesi. Non perché siamo indisciplinati ma perché gli altri Paesi non hanno le stesse condizioni di eligibilità, cioè di accesso, per queste clausole. Sono cose che lo stesso Dijsselbloem conosce bene: erano scritte nello statement proprio dell’Eurogruppo, di cui è presidente».
Ma cosa succederà se Bruxelles dovesse dire no?
«Ci adegueremmo alle regole, come abbiamo sempre fatto».
Nessuno sfondamento del tetto del 3% sul deficit/Pil?
«No, il deficit continuerà a scendere e da qui a primavera l’Italia dimostrerà che ci sono tutti i requisiti per il via libera. Non ci sarà nessuna procedura d’infrazione, non siamo mica andati allo sbaraglio».
Bad bank, e il decreto di domenica scorsa per salvare le quattro banche vicine al fallimento per i crediti in sofferenza, cioè difficili da riscuotere. Gli istituti riaprono ma azionisti e obbligazionisti hanno perso tutto. Possono sperare in qualcosa?
«Abbiamo anticipato le procedure di risoluzione bancaria che saranno introdotte dal primo gennaio. In questo modo è stato possibile proteggere chi aveva depositato i soldi presso quei quattro istituti».
Resta il fatto che la Germania ha usato direttamente una grande quantità di denaro pubblico per salvare le sue banche senza incorrere nell’accusa di aiuti di Stato.
«Sì, 247 miliardi di euro. Ma l’ha fatto quando questo era possibile, prima del 2013. Quando questo governo ha cercato di rafforzare il regime di protezione del sistema bancario le regole non lo consentivano più».
Considerando tutte le banche le sofferenze sfiorano i 200 miliardi. Ci sarà una o più bad bank per tutto il sistema?
«Qualcosa si sta già muovendo. Le grandi banche hanno avviato i loro meccanismi di cessione delle sofferenze ai fondi interessati. Abbiamo accelerato i tempi per la soluzione dei crediti e messo fine al problema dei crediti d’imposta nei confronti della pubblica amministrazione. Quello che manca è un’eventuale garanzia per agevolare lo scambio sul mercato dei cosiddetti crediti non performanti».
Interverrà la Cassa depositi e prestiti ed è in arrivo un decreto entro dicembre?
«Ci sono varie ipotesi. Ma non decideremo entro la fine dell’anno: prima c’è da guidare in porto la legge di Stabilità».
Ecco, uno dei nodi ancora da sciogliere è il piano per il Sud. Ci sarà? E che misure prevede?
«Ci sarà e sul tavolo ci sono tre ipotesi. Il credito d’imposta per gli investimenti che ha il vantaggio di essere automatico, cioè non ha bisogno di essere notificato a Bruxelles. L’estensione dello sconto sui contributi per il lavoro, che invece a Bruxelles va notificato e questo potrebbe allungare i tempi. E poi il super ammortamento, cioè lo sconto fiscale per chi investe nella propria azienda, che al Sud potrebbe essere ancora più forte».
Preferisce la prima ipotesi?
«Non esiste la misura ideale. Tutte hanno vantaggi e svantaggi. L’importante è che producano effetti strutturali».
E le pensioni? Renzi ha detto che l’anno prossimo si tornerà a parlare di flessibilità. Lei è favorevole o contrario al fatto che un lavoratore vada in pensione prima accettando un assegno più basso?
«Il nostro sistema pensionistico è molto solido. Si può migliorare e io sono aperto a ogni discussione. Ma stiamo attenti a non indebolirlo anche perché il nostro debito pubblico, come ci ricordano ogni cinque minuti, è molto elevato, anche se comincia a scendere dal 2016».
Per diminuirlo siete pronti anche alla privatizzazione delle Ferrovie. Quanto contate di incassare?
«Impossibile dirlo oggi. Ma, oltre a quelli sul debito pubblico, ci sono almeno altri due benefici che verranno dall’operazione: esporre il management alle pressioni della concorrenza con vantaggi per gli utilizzatori e ridurre i trasferimenti da parte dello Stato perché l’azienda potrà finanziarsi sul mercato».
La rete verrà scorporata?
«La proprietà delle rete resterà pubblica, su questo c’è totale accordo. Altra cosa è la gestione della rete: ci stiamo ancora ragionando. Ma in ogni caso è chiaro che sulla rete ci deve essere competizione».
Ha fatto discutere la frase del suo collega Poletti: l’orario di lavoro è un attrezzo vecchio. Lei è d’accordo?
«Detto così può sembrare fuori luogo. Ma leggendo tutta la frase, e conoscendo Giuliano, sono d’accordo con lui. L’orario di lavoro rimane una variabile importante ma non è più l’unica, nemmeno per un Paese manifatturiero come il nostro, dove però continua a crescere l’importanza dei servizi e quella che chiamiamo l’economia della conoscenza. Introdurre strumenti di misurazione della produttività non serve a punire il lavoratore. Al contrario, serve a trasformare la produttività in qualcosa che finisce nelle tasche del lavoratore».
29 novembre 2015 (modifica il 29 novembre 2015 | 07:30)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/15_nove ... 7ac8.shtml
Il ministro Padoan:
«La paura del terrorismo può pesare sulla crescita»
«Lo 0,9% è una previsione, c’è il rischio di doverla rivedere. ma al momento non abbiamo elementi concreti. Chiediamo flessibilità alla Ue sulle emergenze. Se non arriverà ci adegueremo»
di LORENZO SALVIA 43
Ministro Pier Calo Padoan, la paura del terrorismo avrà effetti anche sull’economia? Ci dobbiamo aspettare una ripresa più debole del previsto?
«La fiducia delle famiglie e delle imprese è un elemento essenziale per l’andamento dell’economia. Ed è molto importante, come ci ha appena detto l’Istat, che questo dato sia in crescita».
Quel dato, però, era stato rilevato prima degli attentati di Parigi. Oggi sarebbe ben diverso, non crede?
«Certo, il clima seguito ai terribili fatti di Parigi è negativo e questo potrà avere effetti sulla ripresa. Ma gli italiani hanno la corretta percezione che stiamo uscendo dalla crisi. E questo conta molto, sia per la fiducia sia per l’economia».
L’obiettivo per il 2015 resta una crescita dello 0,9% del Pil, il prodotto interno lordo?
«Non è un obiettivo, è una previsione. E quando si fa una previsione c’è sempre il rischio di doverla rivedere al rialzo o al ribasso. Non dimentichiamoci che influisce anche un rallentamento delle economie di altri Paesi, cominciato ben prima degli attentati».
Quindi la crescita dello 0,9%, indicata dal governo nel Def, non ci sarà?
«Non ho detto questo. Degli effetti sono possibili ma al momento non abbiamo elementi concreti che ci inducano a rivedere quella cifra. E poi bisogna tener conto anche delle misure di reazione decise dal governo, con i 2 miliardi sugli interventi per la sicurezza e la cultura».
Buona parte della ripresa di quest’estate era stata trainata dal turismo. Difficile sperare che in quel settore non ci siano conseguenze.
«Non è detto. Sta cominciando la stagione sciistica, e le previsioni mi sembrano ottime».
A Roma sta per cominciare il Giubileo. Turisti non ce ne sono, i ristoranti sono vuoti.
«Staremo a vedere».
Ma lei, personalmente, ha paura che accada qualcosa, ha cambiato abitudini?
«Le mie abitudini sono cambiate, molto cambiate, da quando sono diventato ministro. Ma le voglio dire una cosa: a Parigi ho vissuto per sette anni, quando lavoravo all’Ocse. Le immagini che ho visto alla tv mi hanno colpito parecchio, perché quelle strade le conosco bene. Se abitassi ancora a Parigi non cambierei il mio stile di vita nemmeno di una virgola, perché quello sarebbe il primo segno di cedimento al terrorismo».
E in Italia, a Roma?
«Tanto meno».
Lei citava prima i 2 miliardi per sicurezza e la cultura. In realtà l’impegno di quelle risorse è condizionato al via libera dell’Unione europea sulla famosa flessibilità. Il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, dice che dall’Italia arrivano «troppe richieste di flessibilità». Non proprio un bel segnale.
«Noi non chiediamo nulla che non sia già previsto dalle regole sulla flessibilità che parlano di investimenti e di circostanze eccezionali, come i migranti e il terrorismo. È vero che sulle clausole di flessibilità l’Italia ha chiesto più degli altri Paesi. Non perché siamo indisciplinati ma perché gli altri Paesi non hanno le stesse condizioni di eligibilità, cioè di accesso, per queste clausole. Sono cose che lo stesso Dijsselbloem conosce bene: erano scritte nello statement proprio dell’Eurogruppo, di cui è presidente».
Ma cosa succederà se Bruxelles dovesse dire no?
«Ci adegueremmo alle regole, come abbiamo sempre fatto».
Nessuno sfondamento del tetto del 3% sul deficit/Pil?
«No, il deficit continuerà a scendere e da qui a primavera l’Italia dimostrerà che ci sono tutti i requisiti per il via libera. Non ci sarà nessuna procedura d’infrazione, non siamo mica andati allo sbaraglio».
Bad bank, e il decreto di domenica scorsa per salvare le quattro banche vicine al fallimento per i crediti in sofferenza, cioè difficili da riscuotere. Gli istituti riaprono ma azionisti e obbligazionisti hanno perso tutto. Possono sperare in qualcosa?
«Abbiamo anticipato le procedure di risoluzione bancaria che saranno introdotte dal primo gennaio. In questo modo è stato possibile proteggere chi aveva depositato i soldi presso quei quattro istituti».
Resta il fatto che la Germania ha usato direttamente una grande quantità di denaro pubblico per salvare le sue banche senza incorrere nell’accusa di aiuti di Stato.
«Sì, 247 miliardi di euro. Ma l’ha fatto quando questo era possibile, prima del 2013. Quando questo governo ha cercato di rafforzare il regime di protezione del sistema bancario le regole non lo consentivano più».
Considerando tutte le banche le sofferenze sfiorano i 200 miliardi. Ci sarà una o più bad bank per tutto il sistema?
«Qualcosa si sta già muovendo. Le grandi banche hanno avviato i loro meccanismi di cessione delle sofferenze ai fondi interessati. Abbiamo accelerato i tempi per la soluzione dei crediti e messo fine al problema dei crediti d’imposta nei confronti della pubblica amministrazione. Quello che manca è un’eventuale garanzia per agevolare lo scambio sul mercato dei cosiddetti crediti non performanti».
Interverrà la Cassa depositi e prestiti ed è in arrivo un decreto entro dicembre?
«Ci sono varie ipotesi. Ma non decideremo entro la fine dell’anno: prima c’è da guidare in porto la legge di Stabilità».
Ecco, uno dei nodi ancora da sciogliere è il piano per il Sud. Ci sarà? E che misure prevede?
«Ci sarà e sul tavolo ci sono tre ipotesi. Il credito d’imposta per gli investimenti che ha il vantaggio di essere automatico, cioè non ha bisogno di essere notificato a Bruxelles. L’estensione dello sconto sui contributi per il lavoro, che invece a Bruxelles va notificato e questo potrebbe allungare i tempi. E poi il super ammortamento, cioè lo sconto fiscale per chi investe nella propria azienda, che al Sud potrebbe essere ancora più forte».
Preferisce la prima ipotesi?
«Non esiste la misura ideale. Tutte hanno vantaggi e svantaggi. L’importante è che producano effetti strutturali».
E le pensioni? Renzi ha detto che l’anno prossimo si tornerà a parlare di flessibilità. Lei è favorevole o contrario al fatto che un lavoratore vada in pensione prima accettando un assegno più basso?
«Il nostro sistema pensionistico è molto solido. Si può migliorare e io sono aperto a ogni discussione. Ma stiamo attenti a non indebolirlo anche perché il nostro debito pubblico, come ci ricordano ogni cinque minuti, è molto elevato, anche se comincia a scendere dal 2016».
Per diminuirlo siete pronti anche alla privatizzazione delle Ferrovie. Quanto contate di incassare?
«Impossibile dirlo oggi. Ma, oltre a quelli sul debito pubblico, ci sono almeno altri due benefici che verranno dall’operazione: esporre il management alle pressioni della concorrenza con vantaggi per gli utilizzatori e ridurre i trasferimenti da parte dello Stato perché l’azienda potrà finanziarsi sul mercato».
La rete verrà scorporata?
«La proprietà delle rete resterà pubblica, su questo c’è totale accordo. Altra cosa è la gestione della rete: ci stiamo ancora ragionando. Ma in ogni caso è chiaro che sulla rete ci deve essere competizione».
Ha fatto discutere la frase del suo collega Poletti: l’orario di lavoro è un attrezzo vecchio. Lei è d’accordo?
«Detto così può sembrare fuori luogo. Ma leggendo tutta la frase, e conoscendo Giuliano, sono d’accordo con lui. L’orario di lavoro rimane una variabile importante ma non è più l’unica, nemmeno per un Paese manifatturiero come il nostro, dove però continua a crescere l’importanza dei servizi e quella che chiamiamo l’economia della conoscenza. Introdurre strumenti di misurazione della produttività non serve a punire il lavoratore. Al contrario, serve a trasformare la produttività in qualcosa che finisce nelle tasche del lavoratore».
29 novembre 2015 (modifica il 29 novembre 2015 | 07:30)
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http://www.corriere.it/politica/15_nove ... 7ac8.shtml
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Re: Diario della caduta di un regime.
Quello che sostiene Padoan in senso assoluto è vero. Le economie in presenza di terrorismo e di guerre certamente non crescono.
Ma quella di Padoan é la solita furbata all'italiana.
Il MIN CUL POP renziano si era impegnato al massimo nel far credere che l'Italia aveva svoltato e stava crescendo a differenza dei paesi europei.
Ma il 25 di novembre Bruxelles lo ha smentito, e Padoan è stato costretto a fare un passo indietro per non perdere la faccia.
Padoan ha creduto di cavarsela così:
D. L’obiettivo per il 2015 resta una crescita dello 0,9% del Pil, il prodotto interno lordo?
R.«Non è un obiettivo, è una previsione. E quando si fa una previsione c’è sempre il rischio di doverla rivedere al rialzo o al ribasso. Non dimentichiamoci che influisce anche un rallentamento delle economie di altri Paesi, cominciato ben prima degli attentati».
Caro Renzi: la crescita non c’è
— Andrea Colombo , 26.11.2015
Alla Commissione europea la legge di stabilità di Matteo Renzi proprio non piace. Non può dirlo troppo esplicitamente, però non perde occasione di alludere più o meno pesantemente. Casomai non fosse stata eloquente la scelta di rinviare il giudizio finale, con annessa concessione o meno dei margini…
Malgrado Padoan il MIN CUL POP non demorde nell'anestetizzare i tricolori.
Ma quella di Padoan é la solita furbata all'italiana.
Il MIN CUL POP renziano si era impegnato al massimo nel far credere che l'Italia aveva svoltato e stava crescendo a differenza dei paesi europei.
Ma il 25 di novembre Bruxelles lo ha smentito, e Padoan è stato costretto a fare un passo indietro per non perdere la faccia.
Padoan ha creduto di cavarsela così:
D. L’obiettivo per il 2015 resta una crescita dello 0,9% del Pil, il prodotto interno lordo?
R.«Non è un obiettivo, è una previsione. E quando si fa una previsione c’è sempre il rischio di doverla rivedere al rialzo o al ribasso. Non dimentichiamoci che influisce anche un rallentamento delle economie di altri Paesi, cominciato ben prima degli attentati».
Caro Renzi: la crescita non c’è
— Andrea Colombo , 26.11.2015
Alla Commissione europea la legge di stabilità di Matteo Renzi proprio non piace. Non può dirlo troppo esplicitamente, però non perde occasione di alludere più o meno pesantemente. Casomai non fosse stata eloquente la scelta di rinviare il giudizio finale, con annessa concessione o meno dei margini…
Malgrado Padoan il MIN CUL POP non demorde nell'anestetizzare i tricolori.
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Re: Diario della caduta di un regime.
camillobenso ha scritto:Quello che sostiene Padoan in senso assoluto è vero. Le economie in presenza di terrorismo e di guerre certamente non crescono.
Ma quella di Padoan é la solita furbata all'italiana.
Il MIN CUL POP renziano si era impegnato al massimo nel far credere che l'Italia aveva svoltato e stava crescendo a differenza dei paesi europei.
Ma il 25 di novembre Bruxelles lo ha smentito, e Padoan è stato costretto a fare un passo indietro per non perdere la faccia.
Padoan ha creduto di cavarsela così:
D. L’obiettivo per il 2015 resta una crescita dello 0,9% del Pil, il prodotto interno lordo?
R.«Non è un obiettivo, è una previsione. E quando si fa una previsione c’è sempre il rischio di doverla rivedere al rialzo o al ribasso. Non dimentichiamoci che influisce anche un rallentamento delle economie di altri Paesi, cominciato ben prima degli attentati».
Caro Renzi: la crescita non c’è
— Andrea Colombo , 26.11.2015
Alla Commissione europea la legge di stabilità di Matteo Renzi proprio non piace. Non può dirlo troppo esplicitamente, però non perde occasione di alludere più o meno pesantemente. Casomai non fosse stata eloquente la scelta di rinviare il giudizio finale, con annessa concessione o meno dei margini…
Malgrado Padoan il MIN CUL POP non demorde nell'anestetizzare i tricolori.
Economia
Caro Renzi: la crescita non c’è
Bruxelles. Doccia fredda della Commissione europea alla legge di stabilità: la ripresa stenta, la produttività langue e i conti sono «squilibrati». Flessibilità a rischio. La Ue non gradisce la decisione di puntare sull’abolizione della tassa sulla casa anziché sulla decontribuzione del lavoro. Il giudizio finale ci sarà primavera ma ora è a rischio anche la trovata elettoralistica del bonus ai 18enni
Alla Commissione europea la legge di stabilità di Matteo Renzi proprio non piace. Non può dirlo troppo esplicitamente, però non perde occasione di alludere più o meno pesantemente. Casomai non fosse stata eloquente la scelta di rinviare il giudizio finale, con annessa concessione o meno dei margini di flessibilità, la Commissione batte di nuovo sul dolente tasto nel «Rapporto sugli squilibri».
Il debito, secondo Bruxelles, corre verso il nuovo picco del 133% rispetto al Pil, secondo solo a quello della Grecia, la ripresa produttiva stenta, la competitività langue, e le tre voci critiche, secondo la Commissione, sono strettamente intrecciate: «La bassa crescita della produttività frena le prospettive di crescita e il miglioramento della competitività e rende più difficile la riduzione del debito pubblico». Segue a ruota il monito del commissario agli Affari economici Pierre Moscovici: «L’Italia è a rischio di non conformità con le regole del patto di Stabilità. Per questo ci siamo dati appuntamento in primavera per esaminare se e in quale ampiezza l’Italia potrà beneficiare delle clausole di flessibilità per investimenti, riforme e spese per i profughi».
In realtà l’Italia è in buona compagnia. Francia e Belgio sono in condizioni simili e persino la Germania è sotto attenta osservazione. Ma nel caso italiano si legge tra le righe e nei toni di Moscovici qualcosa in più. L’insistenza su quello che non a caso il documento definisce «il nodo della crescita della produttività» rivela una persistente irritazione per la decisione di investire sull’abolizione della tassa sulla casa invece che su una decontribuzione del lavoro, considerata ben più adeguata ai fini di un rilancio della produttività. In tutta evidenza, inoltre, a Bruxelles non deve essere piaciuta molto neppure l’ultima iniziativa del governo: lo stanziamento di 500 milioni di euro a puri fini elettorali nella fascia meno attratta dalle sirene renziane, quella dei giovanissimi.
Ieri il responsabile economico del Pd Filippo Taddei ha negato con vibrato sdegno che la mancia serva a raggranellare voti: «Perché sia una mancia devono esserci le elezioni, e non mi risulta che ce ne siano di prossime». Come? E le comunali in cittadine come Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna? «Non si fa un’iniziativa sui diciottenni per le amministrative». L’apodittica affermazione non viene ulteriormente dettagliata, né potrebbe esserlo dal momento che il cosiddetto bonus è precisamente quel che Taddei nega essere: un tentativo di comprare il voto dei diciottenni, esattamente come l’abolizione della Tasi andrebbe rubricata alla voce «voto di scambio».
Non che si tratti di una mossa inedita inaugurata dal governo Renzi. Ma la scelta di puntare sull’acquisto di voti invece che su misure a favore della crescita in una fase che non è segnata solo dalla ripresa flaccida ma anche, anzi soprattutto, dal rischio che le tensioni internazionali congelino anche quelle è molto peggio che discutibile. Per una volta, è davvero difficile non essere d’accordo con i rigoristi della Commissione.
Il governo, in realtà, nutre però preoccupazioni limitate. Matteo Renzi è convinto, e probabilmente a ragione, che per l’Europa non ci siano alternative al suo governo, tanto più che ha portato a termine le missioni assegnate dall’Europa stessa: ridurre la democrazia sostanziale con una riforma costituzionale che sbilancia il sistema istituzionale a favore dell’esecutivo e razziare con il Jobs Act i residui diritti dei lavoratori. Una bocciatura secca dei conti italiani è poco probabile. E’ invece possibile che la flessibilità non venga concessa nella misura richiesta. Sarebbe un guaio, ma pallido a fronte della necessità di uscire vincenti dalle prossime elezioni.
Si va intanto delineando la fisionomia della manovra riveduta e corretta a Montecitorio. Saranno certamente inseriti il decreto salvabanche e quello sulla sicurezza, il cui contenuto è però ancora da definire. Non dovrebbe invece entrare nella legge il decreto sul Giubileo.
Saranno probabilmente inserite alcune delle norme previste dal ddl sulla responsabilità dei medici, già approvate dalla commissione Affari sociali della camera, il che porterebbe in cassa 400 milioni. Sulla carta dovrebbe essere una mazzata per la cosiddetta «medicina difensiva», cioè le analisi autorizzate dai medici per evitare il rischio di denuncia in caso di malattia grave non individuata. In realtà sarà sì un colpo durissimo ma per la medicina preventiva, e a pagarlo non saranno i medici ma i malati e la sanità pubblica.
http://ilmanifesto.info/caro-renzi-la-crescita-non-ce/
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Re: Diario della caduta di un regime.
Politica
Riforme: i falsi movimenti del re-engineering targato Renzi
di Pierfranco Pellizzetti | 29 novembre 2015
Parafrasando un antico detto: o efficienza, quanti misfatti nel tuo nome vengono compiuti! Continuando la serie del “niente è quello che sembra”, si arriva all’allegro ridisegno delle architetture istituzionali decentrate dello Stato da parte del governo sedicente rottamatore: costruzioni impossibili perché non stanno in piedi, come i tompe l’oeil del litografo olandese Maurits Echer.
Alla luce di quanto ad oggi è possibile percepire (e lecito inferire), nulla delle trasformazioni recentemente intervenute segnala l’imbocco di un sentiero virtuoso nella governance dei territori: le Province apparentemente cancellate sopravvivono (clandestinamente?) come centro di spesa, le città metropolitane non fuoriescono da una condizione ectoplasmatica, le Regioni (gratificate nel loro personale elettivo dalla riforma Boschi del Senato) confermano nel quotidiano driving politico una sostanziale sciatteria amministrativa che stinge nello spreco del pubblico denaro, mentre l’ombra del malavitoso non sempre si dirada all’orizzonte.
Renzi 675
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Le città, giustamente indicate da taluno come il soggetto che sta “assumendo un ruolo sempre più importante nella vita politica, economica, sociale e mediatica” (J. Borja e M. Castells, Conferenza Habitat II, Istanbul 1996), nel caso italiano vivono un’esistenza sempre più grama, per i crescenti processi di anemizzazione finanziaria: il risucchio in accelerazione delle risorse dalla periferia al centro.
In effetti se sussiste un filo conduttore nelle logiche di ridisegno della statualità complessiva, questo consiste nella (pervicace/tracotante) affermazione di centralità del governo su ogni altra istanza. Il tutto a interfacciare con il criterio del one man show che si impone nell’attuale congiuntura politica (matrice a calco di ogni ulteriore scelta a valle); il mito ricorrente dell’uomo forte addolcito – reso un po’ meno mussoliniano/craxiano/gelliano e più aziendalistico (marchionniano?) – nello stereotipo del capo che opera per il meglio.
In questo ritorno alla governabilità verticistica come sveltezza liberata dai vincoli, si assiste all’inarrestabile piallatura (o al tentativo di piallatura) di ogni corpo intermedio, sia sul fronte pubblico (vedi anestetizzazione degli enti territoriali), sia esso privato: dalla marginalizzazione delle rappresentanze sindacali/datoriali alla guerriglia sottotraccia nei confronti della rete camerale. Il tutto senza un progetto di architetture istituzionali alternative che oltrepassi la bulimia di potere.
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Anche in questo caso si evidenzia l’assoluta mancanza di reale capacità innovativa della compagine oggi al potere (o del demiurgo che tutto riconduce a sé), che la potenza di fuoco comunicativa non riesce a supplire. In assenza di un effettivo riformismo strutturale, si assiste alla fiera dell’escamotage, in chiave di teatralizzazione del fare; con semplificazioni da bar sport: la disoccupazione combattuta drogando il mercato del lavoro (“job’s act”), la scuola riformata istituendo la figura del “dictator antico romano”, la crisi del sistema produttivo affrontata criminalizzando il presunto fancazzismo della forza lavoro (battage sul malfamato articolo 18) e dando carta bianca per un ipotetico “nuovo rinascimento” al ceto imprenditoria-manageriale; perché si cimenti – grazie alla precarizzazione – nell’unico modello gestionale che conosce: bastone & carota.
La semplificazione incapace del governo rifulge nella riforma della portualità avanzata dal ministro delle Infrastrutture: una riduzione per sommatoria di Port Autorities in assenza di una strategia che scelga nel concerto inefficiente dei 140 porti nazionali gli scali su cui puntare per un’efficacia competitiva nel quadrante mediterraneo (ed evitare la dispersione di risorse erogate a pioggia sui succitati 140, senza criterio alcuno di economicità). Ossia quel Piano Nazionale dei Trasporti e della Logistica che nessuno si prende la briga di stilare.
Piuttosto, anche in questo caso prevale la logica dell’uomo solo al comando, che – a sua volta – risponde a un solo uomo al governo. Nel sostanziale allontanamento del comando portuale dai luoghi in cui sarebbe formalmente situato. A fronte del totale esproprio delle comunità cittadine, ospitanti il waterfront, del diritto a esercitare un controllo sulle scelte che le riguardano direttamente. Causa il combinato disposto accentramento gestionale/centralizzazione decisionale.
L’esempio dei porti risulta calzante per evidenziare gli aspetti perversi dell’intero disegno in corso: se era stata ipotizzata una rifondazione della democrazia italiana a partire dai territori, oggi assistiamo non a un “falso movimento” quanto a un vero e proprio “contro-movimento”. Si potrebbe parlare con Colin Crouch di estrema e tardiva riaffermazione delle logiche post-democratiche (svuotamento della partecipazione i processi decisionali), come utilizzo del politainment (la politica ridotta a set di un reality); a fronte di un reale sequestro di democrazia.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/11 ... i/2261391/
Riforme: i falsi movimenti del re-engineering targato Renzi
di Pierfranco Pellizzetti | 29 novembre 2015
Parafrasando un antico detto: o efficienza, quanti misfatti nel tuo nome vengono compiuti! Continuando la serie del “niente è quello che sembra”, si arriva all’allegro ridisegno delle architetture istituzionali decentrate dello Stato da parte del governo sedicente rottamatore: costruzioni impossibili perché non stanno in piedi, come i tompe l’oeil del litografo olandese Maurits Echer.
Alla luce di quanto ad oggi è possibile percepire (e lecito inferire), nulla delle trasformazioni recentemente intervenute segnala l’imbocco di un sentiero virtuoso nella governance dei territori: le Province apparentemente cancellate sopravvivono (clandestinamente?) come centro di spesa, le città metropolitane non fuoriescono da una condizione ectoplasmatica, le Regioni (gratificate nel loro personale elettivo dalla riforma Boschi del Senato) confermano nel quotidiano driving politico una sostanziale sciatteria amministrativa che stinge nello spreco del pubblico denaro, mentre l’ombra del malavitoso non sempre si dirada all’orizzonte.
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Le città, giustamente indicate da taluno come il soggetto che sta “assumendo un ruolo sempre più importante nella vita politica, economica, sociale e mediatica” (J. Borja e M. Castells, Conferenza Habitat II, Istanbul 1996), nel caso italiano vivono un’esistenza sempre più grama, per i crescenti processi di anemizzazione finanziaria: il risucchio in accelerazione delle risorse dalla periferia al centro.
In effetti se sussiste un filo conduttore nelle logiche di ridisegno della statualità complessiva, questo consiste nella (pervicace/tracotante) affermazione di centralità del governo su ogni altra istanza. Il tutto a interfacciare con il criterio del one man show che si impone nell’attuale congiuntura politica (matrice a calco di ogni ulteriore scelta a valle); il mito ricorrente dell’uomo forte addolcito – reso un po’ meno mussoliniano/craxiano/gelliano e più aziendalistico (marchionniano?) – nello stereotipo del capo che opera per il meglio.
In questo ritorno alla governabilità verticistica come sveltezza liberata dai vincoli, si assiste all’inarrestabile piallatura (o al tentativo di piallatura) di ogni corpo intermedio, sia sul fronte pubblico (vedi anestetizzazione degli enti territoriali), sia esso privato: dalla marginalizzazione delle rappresentanze sindacali/datoriali alla guerriglia sottotraccia nei confronti della rete camerale. Il tutto senza un progetto di architetture istituzionali alternative che oltrepassi la bulimia di potere.
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Anche in questo caso si evidenzia l’assoluta mancanza di reale capacità innovativa della compagine oggi al potere (o del demiurgo che tutto riconduce a sé), che la potenza di fuoco comunicativa non riesce a supplire. In assenza di un effettivo riformismo strutturale, si assiste alla fiera dell’escamotage, in chiave di teatralizzazione del fare; con semplificazioni da bar sport: la disoccupazione combattuta drogando il mercato del lavoro (“job’s act”), la scuola riformata istituendo la figura del “dictator antico romano”, la crisi del sistema produttivo affrontata criminalizzando il presunto fancazzismo della forza lavoro (battage sul malfamato articolo 18) e dando carta bianca per un ipotetico “nuovo rinascimento” al ceto imprenditoria-manageriale; perché si cimenti – grazie alla precarizzazione – nell’unico modello gestionale che conosce: bastone & carota.
La semplificazione incapace del governo rifulge nella riforma della portualità avanzata dal ministro delle Infrastrutture: una riduzione per sommatoria di Port Autorities in assenza di una strategia che scelga nel concerto inefficiente dei 140 porti nazionali gli scali su cui puntare per un’efficacia competitiva nel quadrante mediterraneo (ed evitare la dispersione di risorse erogate a pioggia sui succitati 140, senza criterio alcuno di economicità). Ossia quel Piano Nazionale dei Trasporti e della Logistica che nessuno si prende la briga di stilare.
Piuttosto, anche in questo caso prevale la logica dell’uomo solo al comando, che – a sua volta – risponde a un solo uomo al governo. Nel sostanziale allontanamento del comando portuale dai luoghi in cui sarebbe formalmente situato. A fronte del totale esproprio delle comunità cittadine, ospitanti il waterfront, del diritto a esercitare un controllo sulle scelte che le riguardano direttamente. Causa il combinato disposto accentramento gestionale/centralizzazione decisionale.
L’esempio dei porti risulta calzante per evidenziare gli aspetti perversi dell’intero disegno in corso: se era stata ipotizzata una rifondazione della democrazia italiana a partire dai territori, oggi assistiamo non a un “falso movimento” quanto a un vero e proprio “contro-movimento”. Si potrebbe parlare con Colin Crouch di estrema e tardiva riaffermazione delle logiche post-democratiche (svuotamento della partecipazione i processi decisionali), come utilizzo del politainment (la politica ridotta a set di un reality); a fronte di un reale sequestro di democrazia.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/11 ... i/2261391/
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Re: Diario della caduta di un regime.
Speriamo che quelli del PD vadano avanti così.
Questo è il solo modo per combattere la cloroformitizzazione praticata dal renzismo.
Da una parte il MIN CUL POP, mette in atto una campagna stordente sul togliere la tassa sulla casa.
Però se la riprende con gli interessi da altre parti.
In molti casi si sono verificati da mesi aumenti. Ma se ne accorge solo chi ne viene a contatto nelle varie materie.
Strano che questa volta sia arrivata la richiesta di un nuovo provvedimento all'onore delle cronache.
^^^^^^
Tassa sulla bici, la proposta del senatore Filippi (Pd) scatena la protesta dei ciclisti
E' polemica dopo l'emendamento presentato il 25 novembre. Il promotore: "L'obiettivo è la lotta all'abusivismo". Ma gli amanti delle due ruote accusano: "Vogliono mettere targhe e bollo come per i motorini"
di F. Q. | 30 novembre 2015
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/11 ... i/2265217/
Questo è il solo modo per combattere la cloroformitizzazione praticata dal renzismo.
Da una parte il MIN CUL POP, mette in atto una campagna stordente sul togliere la tassa sulla casa.
Però se la riprende con gli interessi da altre parti.
In molti casi si sono verificati da mesi aumenti. Ma se ne accorge solo chi ne viene a contatto nelle varie materie.
Strano che questa volta sia arrivata la richiesta di un nuovo provvedimento all'onore delle cronache.
^^^^^^
Tassa sulla bici, la proposta del senatore Filippi (Pd) scatena la protesta dei ciclisti
E' polemica dopo l'emendamento presentato il 25 novembre. Il promotore: "L'obiettivo è la lotta all'abusivismo". Ma gli amanti delle due ruote accusano: "Vogliono mettere targhe e bollo come per i motorini"
di F. Q. | 30 novembre 2015
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Re: Diario della caduta di un regime.
La guerra per la sopravvivenza è partita- Sarà una campagna elettorale infuocata.
Il caso Livorno scatena i big dei partiti nazionali
“M5S incapace”. “Scoperchiata malapolitica Pd”
Dal renziano Marcucci a Di Battista, fino a Santanchè: la campagna elettorale parte dalla città toscana
Seduta fiume in consiglio, è bagarre sull’emergenza rifiuti: la maggioranza di Nogarin (5 Stelle) divisa
Rifiuti Livorno, la campagna elettorale si sposta in Toscana. Per il Pd “M5S incapaci”. Loro: “Starnazzate”
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/11 ... e/2265625/
Il caso Livorno scatena i big dei partiti nazionali
“M5S incapace”. “Scoperchiata malapolitica Pd”
Dal renziano Marcucci a Di Battista, fino a Santanchè: la campagna elettorale parte dalla città toscana
Seduta fiume in consiglio, è bagarre sull’emergenza rifiuti: la maggioranza di Nogarin (5 Stelle) divisa
Rifiuti Livorno, la campagna elettorale si sposta in Toscana. Per il Pd “M5S incapaci”. Loro: “Starnazzate”
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/11 ... e/2265625/
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Re: Diario della caduta di un regime.
Fra questo che dice queste cavolate e Poletti che colpevolizza chi trova il lavora tardi (ma non c'era la sbandierata disoccupazione giovanile?) e vuole rendere il lavoro ancora meno garantito che negli Usa non si sa chi è peggio.camillobenso ha scritto:L’INTERVISTA
Il ministro Padoan:
«La paura del terrorismo può pesare sulla crescita»
Ultima modifica di cielo 70 il 03/12/2015, 21:47, modificato 1 volta in totale.
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Re: Diario della caduta di un regime.
https://www.facebook.com/15520309250511 ... 789997631/
A MOGLIANO VENETO, SCOPPIA UNA RISSA TRA ALCUNI GIOVANI "AZZURRI" -
IN HOTEL VOLANO SPINTONI E PAROLE GROSSE, ANCHE CONTRO SILVIO BERLUSCONI E FRANCESCA PASCAL...
Ciao
Paolo11
A MOGLIANO VENETO, SCOPPIA UNA RISSA TRA ALCUNI GIOVANI "AZZURRI" -
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