La Terza Guerra Mondiale
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Re: La Terza Guerra Mondiale
I GIORNI DEL KAOS
In Turchia, se indaghi sull’Isis finisci impiccato nella toilette
Scritto il 08/12/15 • nella Categoria: segnalazioni
Ciò che sta accadendo in Turchia ci riguarda molto da vicino. Un tiranno, Recep Tayyip Erdogan, non un semplice dittatore, bensì una sorta di satrapo ha il potere, tutto il potere nelle sue mani avide, sue e dei familiari, a cominciare dal figlio Ahmet, coinvolto in molti loschissimi affari. Egli ha creato un vero e proprio modello politico, secondo qualche analista: l’erdoganismo, che appare una sorta di bismarckismo iperautoritario, che prova a giocare sull’inclusione delle masse e sulla messa fuori gioco, con qualsiasi mezzo, di ogni forma non solo di opposizione, ma di dissenso. Le ultime elezioni, di cui la nostra ineffabile signora Mogherini ha certificato la democraticità, sono state stravinte da Erdogan, grazie alle azioni terroristiche contro le opposizioni: la strage dei giovani che marciavano per la pace ad Ankara del 9 ottobre scorso, con 95 morti, e centinaia di feriti, è un esempio mostruoso; saranno stati anche i kamikaze, ma come si sono comportate le autorità? Quali misure prima e dopo hanno preso? La polizia addirittura impediva i soccorsi, e aggrediva i superstiti.
Le vittime sono diventate imputati, in sostanza, come in altri episodi assai meno gravi ma diffusi, sotto la tirannia di Erdogan: dopo l’attentato, costui ebbe l’insolenza di dichiarare che si trattava di un atto “contro l’unità del paese”, lo stesso stucchevole, ma pericolosissimo, ritornello usato contro i partiti curdi. Tutto, in un clima di crescente intolleranza verso chi la pensava diversamente dal capo, verso magistrati che si permettevano di mettere il naso negli affari di famiglia, verso alti militari giudicati pericolosi per il potere del capo, e così via. Impressionante, la serie di chiusure di giornali e di siti internet, gli arresti e le pesanti condanne detentive di giornalisti, le intimidazioni d’ogni genere verso chi non è del partito del capo o verso chi si azzarda a esprimere, anche in modo sommesso, una critica: di questo passo in Turchia, la Turchia che vorrebbe aderire all’Ue, neppure lo ius murmurandi sarà più concesso. L’attentato contro il corteo di giovani che chiedevano la pace, ossia la fine delle azioni militari del governo contro i curdi, essenzialmente, fu un episodio che colpì enormemente l’opinione pubblica internazionale, in qualche modo evocatore della strage dei giovani socialisti norvegesi da parte del neonazista Andres Breivik, nell’estate 2011.
Ma quali furono gli atti della “comunità internazionale” volti a chiedere conto dell’accaduto a Erdogan e al suo governo? E che dire della brutale eliminazione, degna di un poliziesco, della giornalista e attivista britannica Jacky Sutton, all’interno dell’aeroporto Ataturk di Istanbul? Con tanto di suicidio inscenato, per impiccagione, nella toilette… La Sutton indagava sui possibili nessi tra governo turco e Is, guarda caso. Anche in questo caso non risultano inchieste serie all’interno, né proteste “vigorose” della solita comunità internazionale, a cominciare da quella europea. Ogni volta, insomma, Erdogan alza l’asticella, e ogni volta, regolarmente, incontra acquiescenza, connivenza, al massimo imbarazzati silenzi. E stupisce anche l’assenza della stampa di inchiesta su un caso che, anche con lo sguardo cinico del professionista della comunicazione, è dannatamente “interessante”. E il rullo compressore erdoganiano procede, schiacciando tutto ciò che incontra sul proprio cammino.
Nel disegno politico di colui che si considera il nuovo Ataturk, Racep Erdogan appunto, la “sua” Turchia – sua in senso proprio, proprietario, si direbbe – deve diventare potenza egemone nell’area mediorientale, per poi sedere al banchetto dei “grandi”, forte di un esercito potentissimo, e di una crescita economica che finora ha sostenuto le sorti governative; finora, ma le cose stanno cambiando. Per raggiungere lo scopo, Erdogan non ha esitato a stabilire rapporti, più o meno coperti, con Daesh, mentre conservava e rafforzava i suoi legami con Usa e Nato: non buoni invece quelli con l’Unione Europea, che stenta ad accogliere uno Stato come questo nel suo seno (con notevole ipocrisia, d’altronde). E, soprattutto, Erdogan, con straordinario cinismo, stabilisce e rompe intese ed alleanze: il suo attacco alla Russia (l’abbattimento di un aereo della Federazione impegnato in azioni contro l’Isis è stata una dichiarazione di guerra, evidentemente compiuta con l’assenso della Nato e degli Usa) e l’eliminazione dell’avvocato Tahir Elci, uno dei più noti difensori della causa del popolo curdo, è stata un’altra dichiarazione di guerra, contro un intero popolo, la cui esistenza in Turchia neppure viene riconosciuta (i curdi sono chiamati “turchi del Nord”!). Un vero e proprio “caso Matteotti” in salsa turca.
Ci si sarebbe aspettato una generale levata di scudi, specie dopo aver visionato il video dell’azione: gli assassini scappano verso gli agenti di polizia che sparano verso di loro senza mai colpirli, al punto che vien da pensare che le loro armi fossero caricate a salve. “L’uccisione rimarrà un mistero”, si è subito bofonchiato. Lo rimarrà perché le autorità vogliono che nulla trapeli della verità, perché esse sono implicate direttamente nell’omicidio, che con la solita faccia tosta Erdogan ha attribuito al Pkk ossia il partito curdo di sinistra estrema, che Elci difendeva sia in tribunale, nelle tante cause in corso, sia nelle pubbliche occasioni, in una delle quali era egli stesso incappato nell’accusa di tradimento e quant’altro, ed era stato arrestato. Ma un altro video è da guardare, con estrema attenzione, quello dei suoi funerali. Esso costituisce un bellissimo quanto dolente omaggio al combattente caduto, che è anche una dimostrazione di coraggio per chi vi ha partecipato, e una lezione per chi, nelle nostre tepide case, lo guarda, ammirato della sua grandiosa semplicità, e della sua forza.
Ma il potere di Erdogan e del suo cerchio magico non si lascia condizionare, come non lo aveva smosso l’ondata di proteste dello scorso anno di piazza Taksim in difesa del Gezi Park, ma in realtà di quel poco di libertà che ancora rimaneva nel paese. Proteste represse, come le precedenti e le successive, con durezza estrema dalla polizia: feriti, morti, e centinaia di arresti. Tutto ciò, ribadisco, nella silenziosa acquiescenza delle “democrazie occidentali”, che si stanno rendendo complici del tiranno. L’odio per i “comunisti” (del Pkk), da un canto, la russofobia dall’altro giocano sempre un ruolo importante. La democratica Europa tace. La democratica Italia, balbetta. I democraticissimi Stati Uniti, invece, si schierano a fianco del tiranno. E così costui, nel suo megagalattico palazzo presidenziale da 1200 stanze – il più gigantesco del mondo – una reggia fortificata, per giunta edificata in zona vietata (il diritto che nasce dalla forza, non viceversa…), sogna come “Il Grande Dittatore”, aggirandosi per saloni, corridoi, scale, parco… Sogna di avere, nelle sue avide mani adunche prima il Medio Oriente, e poi?
La sua corsa tuttavia rischia di fargli fare passi falsi: colpire con un missile un aereo russo è stato un gesto a dir poco spregiudicato, volto a far schierare tutto l’Occidente al suo fianco, in nome dell’antica paura e odio per i russi; l’arroganza con cui Erdogan ha, con toni truculenti, rivendicato il “diritto” della Turchia a “difendere i propri confini”, perché un aereo che in teoria combatte dalla stessa parte turca contro l’Is, aveva sconfinato (per 27 secondi, ossia, 2,7 km), è apparso quasi grave quanto quel missile. Ma quando preso ormai da una sorta di delirio di onnipotenza, Erdogan ha sentenziato: «La Russia scherza col fuoco», allora l’inquietudine è cresciuta. Non v’è dubbio che oggi, vi sia un solo soggetto politico-militare che possa fermare Erdogan: la Federazione Russa di Vladimir Putin: piaccia o non piaccia. Così come è chiaro che soltanto la Russia oggi sta combattendo l’Is, seriamente, al di là delle motivazioni, e che solo la Russia può impedire alla Turchia di impadronirsi di un quarto del territorio siriano, di un quinto di quello iracheno e così via. Solo la Russia, in definitiva, può impedire la Terza Guerra Mondiale, verso la quale, invece, la Turchia di Erdogan sembra voler trascinare il mondo.
(Angelo d’Orsi, “Crimini e misfatti, la Turchia di Erdogan”, da “Micromega” del 2 dicembre 2015).
In Turchia, se indaghi sull’Isis finisci impiccato nella toilette
Scritto il 08/12/15 • nella Categoria: segnalazioni
Ciò che sta accadendo in Turchia ci riguarda molto da vicino. Un tiranno, Recep Tayyip Erdogan, non un semplice dittatore, bensì una sorta di satrapo ha il potere, tutto il potere nelle sue mani avide, sue e dei familiari, a cominciare dal figlio Ahmet, coinvolto in molti loschissimi affari. Egli ha creato un vero e proprio modello politico, secondo qualche analista: l’erdoganismo, che appare una sorta di bismarckismo iperautoritario, che prova a giocare sull’inclusione delle masse e sulla messa fuori gioco, con qualsiasi mezzo, di ogni forma non solo di opposizione, ma di dissenso. Le ultime elezioni, di cui la nostra ineffabile signora Mogherini ha certificato la democraticità, sono state stravinte da Erdogan, grazie alle azioni terroristiche contro le opposizioni: la strage dei giovani che marciavano per la pace ad Ankara del 9 ottobre scorso, con 95 morti, e centinaia di feriti, è un esempio mostruoso; saranno stati anche i kamikaze, ma come si sono comportate le autorità? Quali misure prima e dopo hanno preso? La polizia addirittura impediva i soccorsi, e aggrediva i superstiti.
Le vittime sono diventate imputati, in sostanza, come in altri episodi assai meno gravi ma diffusi, sotto la tirannia di Erdogan: dopo l’attentato, costui ebbe l’insolenza di dichiarare che si trattava di un atto “contro l’unità del paese”, lo stesso stucchevole, ma pericolosissimo, ritornello usato contro i partiti curdi. Tutto, in un clima di crescente intolleranza verso chi la pensava diversamente dal capo, verso magistrati che si permettevano di mettere il naso negli affari di famiglia, verso alti militari giudicati pericolosi per il potere del capo, e così via. Impressionante, la serie di chiusure di giornali e di siti internet, gli arresti e le pesanti condanne detentive di giornalisti, le intimidazioni d’ogni genere verso chi non è del partito del capo o verso chi si azzarda a esprimere, anche in modo sommesso, una critica: di questo passo in Turchia, la Turchia che vorrebbe aderire all’Ue, neppure lo ius murmurandi sarà più concesso. L’attentato contro il corteo di giovani che chiedevano la pace, ossia la fine delle azioni militari del governo contro i curdi, essenzialmente, fu un episodio che colpì enormemente l’opinione pubblica internazionale, in qualche modo evocatore della strage dei giovani socialisti norvegesi da parte del neonazista Andres Breivik, nell’estate 2011.
Ma quali furono gli atti della “comunità internazionale” volti a chiedere conto dell’accaduto a Erdogan e al suo governo? E che dire della brutale eliminazione, degna di un poliziesco, della giornalista e attivista britannica Jacky Sutton, all’interno dell’aeroporto Ataturk di Istanbul? Con tanto di suicidio inscenato, per impiccagione, nella toilette… La Sutton indagava sui possibili nessi tra governo turco e Is, guarda caso. Anche in questo caso non risultano inchieste serie all’interno, né proteste “vigorose” della solita comunità internazionale, a cominciare da quella europea. Ogni volta, insomma, Erdogan alza l’asticella, e ogni volta, regolarmente, incontra acquiescenza, connivenza, al massimo imbarazzati silenzi. E stupisce anche l’assenza della stampa di inchiesta su un caso che, anche con lo sguardo cinico del professionista della comunicazione, è dannatamente “interessante”. E il rullo compressore erdoganiano procede, schiacciando tutto ciò che incontra sul proprio cammino.
Nel disegno politico di colui che si considera il nuovo Ataturk, Racep Erdogan appunto, la “sua” Turchia – sua in senso proprio, proprietario, si direbbe – deve diventare potenza egemone nell’area mediorientale, per poi sedere al banchetto dei “grandi”, forte di un esercito potentissimo, e di una crescita economica che finora ha sostenuto le sorti governative; finora, ma le cose stanno cambiando. Per raggiungere lo scopo, Erdogan non ha esitato a stabilire rapporti, più o meno coperti, con Daesh, mentre conservava e rafforzava i suoi legami con Usa e Nato: non buoni invece quelli con l’Unione Europea, che stenta ad accogliere uno Stato come questo nel suo seno (con notevole ipocrisia, d’altronde). E, soprattutto, Erdogan, con straordinario cinismo, stabilisce e rompe intese ed alleanze: il suo attacco alla Russia (l’abbattimento di un aereo della Federazione impegnato in azioni contro l’Isis è stata una dichiarazione di guerra, evidentemente compiuta con l’assenso della Nato e degli Usa) e l’eliminazione dell’avvocato Tahir Elci, uno dei più noti difensori della causa del popolo curdo, è stata un’altra dichiarazione di guerra, contro un intero popolo, la cui esistenza in Turchia neppure viene riconosciuta (i curdi sono chiamati “turchi del Nord”!). Un vero e proprio “caso Matteotti” in salsa turca.
Ci si sarebbe aspettato una generale levata di scudi, specie dopo aver visionato il video dell’azione: gli assassini scappano verso gli agenti di polizia che sparano verso di loro senza mai colpirli, al punto che vien da pensare che le loro armi fossero caricate a salve. “L’uccisione rimarrà un mistero”, si è subito bofonchiato. Lo rimarrà perché le autorità vogliono che nulla trapeli della verità, perché esse sono implicate direttamente nell’omicidio, che con la solita faccia tosta Erdogan ha attribuito al Pkk ossia il partito curdo di sinistra estrema, che Elci difendeva sia in tribunale, nelle tante cause in corso, sia nelle pubbliche occasioni, in una delle quali era egli stesso incappato nell’accusa di tradimento e quant’altro, ed era stato arrestato. Ma un altro video è da guardare, con estrema attenzione, quello dei suoi funerali. Esso costituisce un bellissimo quanto dolente omaggio al combattente caduto, che è anche una dimostrazione di coraggio per chi vi ha partecipato, e una lezione per chi, nelle nostre tepide case, lo guarda, ammirato della sua grandiosa semplicità, e della sua forza.
Ma il potere di Erdogan e del suo cerchio magico non si lascia condizionare, come non lo aveva smosso l’ondata di proteste dello scorso anno di piazza Taksim in difesa del Gezi Park, ma in realtà di quel poco di libertà che ancora rimaneva nel paese. Proteste represse, come le precedenti e le successive, con durezza estrema dalla polizia: feriti, morti, e centinaia di arresti. Tutto ciò, ribadisco, nella silenziosa acquiescenza delle “democrazie occidentali”, che si stanno rendendo complici del tiranno. L’odio per i “comunisti” (del Pkk), da un canto, la russofobia dall’altro giocano sempre un ruolo importante. La democratica Europa tace. La democratica Italia, balbetta. I democraticissimi Stati Uniti, invece, si schierano a fianco del tiranno. E così costui, nel suo megagalattico palazzo presidenziale da 1200 stanze – il più gigantesco del mondo – una reggia fortificata, per giunta edificata in zona vietata (il diritto che nasce dalla forza, non viceversa…), sogna come “Il Grande Dittatore”, aggirandosi per saloni, corridoi, scale, parco… Sogna di avere, nelle sue avide mani adunche prima il Medio Oriente, e poi?
La sua corsa tuttavia rischia di fargli fare passi falsi: colpire con un missile un aereo russo è stato un gesto a dir poco spregiudicato, volto a far schierare tutto l’Occidente al suo fianco, in nome dell’antica paura e odio per i russi; l’arroganza con cui Erdogan ha, con toni truculenti, rivendicato il “diritto” della Turchia a “difendere i propri confini”, perché un aereo che in teoria combatte dalla stessa parte turca contro l’Is, aveva sconfinato (per 27 secondi, ossia, 2,7 km), è apparso quasi grave quanto quel missile. Ma quando preso ormai da una sorta di delirio di onnipotenza, Erdogan ha sentenziato: «La Russia scherza col fuoco», allora l’inquietudine è cresciuta. Non v’è dubbio che oggi, vi sia un solo soggetto politico-militare che possa fermare Erdogan: la Federazione Russa di Vladimir Putin: piaccia o non piaccia. Così come è chiaro che soltanto la Russia oggi sta combattendo l’Is, seriamente, al di là delle motivazioni, e che solo la Russia può impedire alla Turchia di impadronirsi di un quarto del territorio siriano, di un quinto di quello iracheno e così via. Solo la Russia, in definitiva, può impedire la Terza Guerra Mondiale, verso la quale, invece, la Turchia di Erdogan sembra voler trascinare il mondo.
(Angelo d’Orsi, “Crimini e misfatti, la Turchia di Erdogan”, da “Micromega” del 2 dicembre 2015).
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Re: La Terza Guerra Mondiale
I GIORNI DEL KAOS
I seminatori di odio non hanno attimo di tregua. Non bastano quelli dell'Isis.
Dopo le Le Pen - Maréchal e il loro inviato Salvini, ora è il turno dell'Oltre Atlantico.
Donald Trump: “Internet va chiuso, alimenta estremismo”. La Casa Bianca: “Non può fare il presidente”
Mondo
Dopo le dichiarazioni sulla chiusura all'ingresso dei musulmani negli Usa che hanno causato una pioggia di critiche bipartisan, il magnate repubblicano lancia una nuova protesta shock per combattere il terrorismo. Per il portavoce di Obama il discorso che ha fatto lo squalifica come possibile leader degli Stati Uniti
di F. Q. | 8 dicembre 2015
Chiedere a Bill Gates di chiudere internet in alcune zone. E’ la nuova, scioccante proposta di Donald Trump per combattere il terrorismo. Il magnate, candidato tra i repubblicani alle Primarie per le presidenziali americane del novembre prossimo, durante un comizio in South Carolina ha dichiarato: “Stiamo perdendo un sacco di persone a causa di internet, dobbiamo fare qualcosa”, soprattutto perché la rete è spesso usata da “persone radicalizzate“. Il miliardario newyorkese ha espresso la sua volontà incontrare il fondatore di Microsoft che “capisce realmente cosa sta succedendo” e discutere della “chiusura di internet e dei social media, in qualche modo, per arginare la diffusione degli estremisti online”. E a chi pensasse di appellarsi all’esistenza della libertà di stampa, Trump ha risposto in anticipo: “Qualcuno dirà ‘oh la libertà di stampa, la libertà di stampa. Ma questa è gente stolta”.
Durante lo stesso comizio, Donald Trump si era già spinto troppo in là, chiedendo la “totale e completa chiusura” all’ingresso dei musulmani negli Stati Uniti e scatenando un coro di proteste bipartisan. Il miliardario di New York ha parlato di divieto “totale e completo” senza eccezioni, che si tratti di immigrati, studenti o turisti, fino a quando “i rappresentanti del nostro paese non avranno capito cosa sta succedendo”. Il magnate repubblicano ha spiegato così la sua richiesta: “Senza guardare ai vari sondaggi, è ovvio a chiunque il livello di odio oltre il comprensibile. Dobbiamo determinare da dove questo odio provenga e perché. Fino a quando non saremo in grado di determinare e capire questo problema e la pericolosa minaccia che pone, il nostro Paese non può essere vittima di orrendi attacchi da parte di gente che crede solo nella jihad e non ha il senso della ragione o rispetto per la vita umana. Se vincerò le elezioni da presidente, torneremo a fare di nuovo l’America grande”.
La pioggia di critiche che ne è seguita ha coinvolto lo stesso fronte repubblicano che ha condannato quest’ultima, controversa, presa di posizione del candidato: il governatore del New Jersey Chris Christie, da sempre rigido riguardo l’accoglienza dei rifugiati siriani, ha sottolineato che l’uscita di Trump conferma quanto sia inadeguato come presidente.
A fargli eco è intervenuto anche il governatore dell’Ohio, Joh Kasich, mentre Jeb Bush ha sottolineato che queste ultime dichiarazioni sono la testimonianza che Trump ha perso il lume della ragione. Per la repubblicana Carly Fiorina la reazione “eccessiva” del magnate è tanto pericolosa quanto quella opposta del presidente Obama. Persino l’ex neurochirurgo Ben Carson, pur avendo in precedenza affermato che un musulmano non può diventare presidente degli Usa, in questo caso ha preso le distanze da Trump. Immediata e secca è arrivata anche la reazione della Casa Bianca: “Ciò che ha detto Donald Trump sui musulmani lo squalifica come possibile presidente”, ha detto il portavoce Josh Earnestle. A rimarcare la condanna delle parole del magnate da parte del Governo anche la responsabile per la Comunicazione di Obama che ha definito le frasi di Trump “pericolose, irresponsabili, non informate”, mentre per il consigliere per la Sicurezza nazionale, Ben Rhodes le parole di Donald Trump “sono totalmente contrarie ai nostri valori come americani, ma anche contrari alla nostra sicurezza“.
Le condanne alle richieste di Trump sono sbarcate anche su Twitter dove il conservatore Matt Moore in un posto ha scritto: “In quanto conservatore che si preoccupa seriamente della libertà religiosa la cattiva idea e la retorica di Donald Trump mi fanno correre un brivido lungo la schiena”.
Qualche giorno prima a far discutere erano state le dichiarazioni shock del candidato miliardario riguardo al possesso di armi da fuoco. Poco dopo la strage di San Bernardino, nella quale 14 persone hanno perso la vita, Trump aveva dichiarato: “Se avessero avuto armi in quel centro, sarebbero stati protetti“. Proseguendo il discorso aveva parlato anche degli attentati nella capitale francese: “Se si guarda a Parigi, non avevano pistole, e sono stati massacrati. Se si considera quello che e’ successo in California, non avevano armi e sono stati uccisi”. “Credo fortemente che le persone di questo Paese – e il mondo – abbiano bisogno di protezione” aveva concluso.
Mentre Trump proponeva la chiusura totale delle frontiere americane ai musulmani, nello studio ovale Obama teneva un’importante discorso sul terrorismo, alla fine del quale ha dichiarato: “Noi crediamo nella dignità umana. Non importa chi sei, da dove vieni, come appari o quale religione pratichi. Tutti sono uguali davanti agli occhi di Dio e davanti agli occhi della legge”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/12 ... i/2286607/
I seminatori di odio non hanno attimo di tregua. Non bastano quelli dell'Isis.
Dopo le Le Pen - Maréchal e il loro inviato Salvini, ora è il turno dell'Oltre Atlantico.
Donald Trump: “Internet va chiuso, alimenta estremismo”. La Casa Bianca: “Non può fare il presidente”
Mondo
Dopo le dichiarazioni sulla chiusura all'ingresso dei musulmani negli Usa che hanno causato una pioggia di critiche bipartisan, il magnate repubblicano lancia una nuova protesta shock per combattere il terrorismo. Per il portavoce di Obama il discorso che ha fatto lo squalifica come possibile leader degli Stati Uniti
di F. Q. | 8 dicembre 2015
Chiedere a Bill Gates di chiudere internet in alcune zone. E’ la nuova, scioccante proposta di Donald Trump per combattere il terrorismo. Il magnate, candidato tra i repubblicani alle Primarie per le presidenziali americane del novembre prossimo, durante un comizio in South Carolina ha dichiarato: “Stiamo perdendo un sacco di persone a causa di internet, dobbiamo fare qualcosa”, soprattutto perché la rete è spesso usata da “persone radicalizzate“. Il miliardario newyorkese ha espresso la sua volontà incontrare il fondatore di Microsoft che “capisce realmente cosa sta succedendo” e discutere della “chiusura di internet e dei social media, in qualche modo, per arginare la diffusione degli estremisti online”. E a chi pensasse di appellarsi all’esistenza della libertà di stampa, Trump ha risposto in anticipo: “Qualcuno dirà ‘oh la libertà di stampa, la libertà di stampa. Ma questa è gente stolta”.
Durante lo stesso comizio, Donald Trump si era già spinto troppo in là, chiedendo la “totale e completa chiusura” all’ingresso dei musulmani negli Stati Uniti e scatenando un coro di proteste bipartisan. Il miliardario di New York ha parlato di divieto “totale e completo” senza eccezioni, che si tratti di immigrati, studenti o turisti, fino a quando “i rappresentanti del nostro paese non avranno capito cosa sta succedendo”. Il magnate repubblicano ha spiegato così la sua richiesta: “Senza guardare ai vari sondaggi, è ovvio a chiunque il livello di odio oltre il comprensibile. Dobbiamo determinare da dove questo odio provenga e perché. Fino a quando non saremo in grado di determinare e capire questo problema e la pericolosa minaccia che pone, il nostro Paese non può essere vittima di orrendi attacchi da parte di gente che crede solo nella jihad e non ha il senso della ragione o rispetto per la vita umana. Se vincerò le elezioni da presidente, torneremo a fare di nuovo l’America grande”.
La pioggia di critiche che ne è seguita ha coinvolto lo stesso fronte repubblicano che ha condannato quest’ultima, controversa, presa di posizione del candidato: il governatore del New Jersey Chris Christie, da sempre rigido riguardo l’accoglienza dei rifugiati siriani, ha sottolineato che l’uscita di Trump conferma quanto sia inadeguato come presidente.
A fargli eco è intervenuto anche il governatore dell’Ohio, Joh Kasich, mentre Jeb Bush ha sottolineato che queste ultime dichiarazioni sono la testimonianza che Trump ha perso il lume della ragione. Per la repubblicana Carly Fiorina la reazione “eccessiva” del magnate è tanto pericolosa quanto quella opposta del presidente Obama. Persino l’ex neurochirurgo Ben Carson, pur avendo in precedenza affermato che un musulmano non può diventare presidente degli Usa, in questo caso ha preso le distanze da Trump. Immediata e secca è arrivata anche la reazione della Casa Bianca: “Ciò che ha detto Donald Trump sui musulmani lo squalifica come possibile presidente”, ha detto il portavoce Josh Earnestle. A rimarcare la condanna delle parole del magnate da parte del Governo anche la responsabile per la Comunicazione di Obama che ha definito le frasi di Trump “pericolose, irresponsabili, non informate”, mentre per il consigliere per la Sicurezza nazionale, Ben Rhodes le parole di Donald Trump “sono totalmente contrarie ai nostri valori come americani, ma anche contrari alla nostra sicurezza“.
Le condanne alle richieste di Trump sono sbarcate anche su Twitter dove il conservatore Matt Moore in un posto ha scritto: “In quanto conservatore che si preoccupa seriamente della libertà religiosa la cattiva idea e la retorica di Donald Trump mi fanno correre un brivido lungo la schiena”.
Qualche giorno prima a far discutere erano state le dichiarazioni shock del candidato miliardario riguardo al possesso di armi da fuoco. Poco dopo la strage di San Bernardino, nella quale 14 persone hanno perso la vita, Trump aveva dichiarato: “Se avessero avuto armi in quel centro, sarebbero stati protetti“. Proseguendo il discorso aveva parlato anche degli attentati nella capitale francese: “Se si guarda a Parigi, non avevano pistole, e sono stati massacrati. Se si considera quello che e’ successo in California, non avevano armi e sono stati uccisi”. “Credo fortemente che le persone di questo Paese – e il mondo – abbiano bisogno di protezione” aveva concluso.
Mentre Trump proponeva la chiusura totale delle frontiere americane ai musulmani, nello studio ovale Obama teneva un’importante discorso sul terrorismo, alla fine del quale ha dichiarato: “Noi crediamo nella dignità umana. Non importa chi sei, da dove vieni, come appari o quale religione pratichi. Tutti sono uguali davanti agli occhi di Dio e davanti agli occhi della legge”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/12 ... i/2286607/
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Re: La Terza Guerra Mondiale
I GIORNI DEL KAOS
TOMBOLA
Le pruderie dell'odio non si fermano a Salvini:
Trump: "Semina odio come la Le Pen"
http://www.ilgiornale.it/news/mondo/ora ... 02585.html
TOMBOLA
Le pruderie dell'odio non si fermano a Salvini:
Trump: "Semina odio come la Le Pen"
http://www.ilgiornale.it/news/mondo/ora ... 02585.html
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Re: La Terza Guerra Mondiale
I GIORNI DEL KAOS
Il Sole 9.12.15
Una guerra al contrario
Una guerra del petrolio al contrario: più il conflitto in Medio Oriente si fa distruttivo e complicato e più il prezzo del petrolio scende.
di Alberto Negri
Un tempo bastava l’accenno di un conflitto per alzare le quotazioni e rimpinguare le casse dei Paesi produttori. Ma è un paradosso apparente. Oggi l’arma del petrolio si è rovesciata: l’Arabia Saudita ha fatto saltare l’Opec e le quote del tetto produttivo per mettere al tappeto l’Iran, la Russia e fronteggiare l’ascesa dello shale oil americano.
I sauditi hanno sbriciolato il Cartello dell’oro nero come l’Isis ha simbolicamente abbattuto con un bulldozer un altro cartello, di cartapesta, con la scritta Sykes-Picot ai confini tra Iraq e Siria, per significare l’affondamento dei confini coloniali.
Riad, forte di 700 miliardi di dollari in riserve ma pronta anche a emettere bond per finanziare le sue guerre, è disposta a giocarsi il tutto per tutto.
Soltanto nella prima metà del 2015 ha perso 150 miliardi per il calo dei prezzi. La monarchia saudita, guida del fronte sunnita, è in difficoltà come non mai e ha trovato il suo Vietnam arabico in Yemen. Le cose vanno così male che si ritirano investimenti dai fondi sovrani, il sacro Graal della liquidità mondiale.
Gli americani pur di tenere in piedi la casa reale, divorata da lotte interne e generazionali tra i principi del sangue, hanno persino bombardato le truppe di Assad in Siria: un segnale di solidarietà a quel fronte sunnita che ha sbagliato clamorosamente i calcoli di un’altra guerra dopo quella condotta, sempre per procura, da Saddam Hussein contro l’Iran di Khomeini. Ma allora il petrolio era schizzato e gli sceicchi versarono 50 miliardi di dollari sonanti nella tasche del raìs iracheno per abbattere la repubblica islamica.
La guerra sullo Shatt el Arab non modificò il confine di un centimetro ma ora le cose stanno diversamente: i sunniti si trovano la Russia nel Levante che tiene sotto tiro con i missili l’improvvido Tayyp Erdogan, una sorta di piazzista della jihad che buttando a mare Assad voleva mettersi in proprio come Sultano del Levante tra Aleppo, Mosul, intascando anche qualche pozzo di greggio. I prezzi bassi dell’energia aiutano anche lui, in difficoltà con il boom economico che si affloscia e ai ferri corti con Putin, il suo maggiore fornitore di gas.
Cambiano i tempi, cambia pure la tattica. Ora si fa destabilizzazione al contrario.
Pur di sgretolare l’asse sciita Teheran-Baghdad-Damasco-Hezbollah le monarchie del petrolio sono disposte a bruciare le loro ricchezze, una mossa azzardata perché è proprio con la loro potenza finanziaria che hanno pagato i gruppi radicali islamici per tenerli lontani da casa propria.
Ma non riescono a digerire l’accordo sul nucleare con l’Iran e la prossima fine delle sanzioni che porterà sul mercato altri 500mila barili di petrolio al giorno, con i tank persiani che galleggiano già come cetacei nelle acque del Golfo. Non solo: i nuovi contratti petroliferi iraniani presentati dal ministro Bijan Zanganeh, più appetibili per la major di quanto non si pensasse, sono un altro motivo di acuta irritazione. Per punire il ritorno di Teheran sui mercati i sauditi hanno sgretolato il Cartello.
Per questo la guerra del petrolio alla rovescia non annuncia rosei orizzonti.
Per quanto vituperata dai consumatori, con l’Opec svanisce un’altra forma di organizzazione dei mercati: il caos del greggio a basso costo si può pagare molto caro in certi Paesi. Se a questo aggiungiamo altri fattori di incertezza, valutari e finanziari, ci rendiamo conto che sta venendo meno un sistema di regolamentazione con mezzo secolo di storia. E non è secondario che le quotazioni in discesa ridurranno ancora utili e investimenti: forse qualche major sparirà. I sauditi e i loro fiancheggiatori arabi, gli esempi peggiori di un Islam conservatore e retrogrado, ballano sul ponte di una petroliera inclinata come il Titanic. Se non fosse per le basi Usa nel Golfo e il patto leonino che lega Riad a Washington ci sarebbe da temere davvero.
Ma è noto che gli Stati Uniti sono pronti a correre in soccorso dei prìncipi arabi più di quanto non siano disposti a fare per i traballanti leader europei: in cinque anni i sauditi hanno acquistato sistemi d’arma da Washington per 100 miliardi di dollari. Del resto gli americani ci possono chiedere: «Non volevate il petrolio a buon mercato? Eccovi serviti».
E quanto alla guerra nel Levante, alle sue centinaia di migliaia di morti, ai milioni di profughi e al terrorismo, il punto di svolta potrebbe essere economico. Se gli Usa e l’Europa firmeranno il Trattato transatlantico su commercio e investimenti (Ttip), gli americani torneranno ad avere un forte interesse per il mercato europeo e forse decideranno di sistemare i conflitti intorno all’Unione e con la Russia. Così quando la polvere si depositerà sui campi di battaglia si conteranno gli utili in bilancio, non i morti.
Il Sole 9.12.15
Una guerra al contrario
Una guerra del petrolio al contrario: più il conflitto in Medio Oriente si fa distruttivo e complicato e più il prezzo del petrolio scende.
di Alberto Negri
Un tempo bastava l’accenno di un conflitto per alzare le quotazioni e rimpinguare le casse dei Paesi produttori. Ma è un paradosso apparente. Oggi l’arma del petrolio si è rovesciata: l’Arabia Saudita ha fatto saltare l’Opec e le quote del tetto produttivo per mettere al tappeto l’Iran, la Russia e fronteggiare l’ascesa dello shale oil americano.
I sauditi hanno sbriciolato il Cartello dell’oro nero come l’Isis ha simbolicamente abbattuto con un bulldozer un altro cartello, di cartapesta, con la scritta Sykes-Picot ai confini tra Iraq e Siria, per significare l’affondamento dei confini coloniali.
Riad, forte di 700 miliardi di dollari in riserve ma pronta anche a emettere bond per finanziare le sue guerre, è disposta a giocarsi il tutto per tutto.
Soltanto nella prima metà del 2015 ha perso 150 miliardi per il calo dei prezzi. La monarchia saudita, guida del fronte sunnita, è in difficoltà come non mai e ha trovato il suo Vietnam arabico in Yemen. Le cose vanno così male che si ritirano investimenti dai fondi sovrani, il sacro Graal della liquidità mondiale.
Gli americani pur di tenere in piedi la casa reale, divorata da lotte interne e generazionali tra i principi del sangue, hanno persino bombardato le truppe di Assad in Siria: un segnale di solidarietà a quel fronte sunnita che ha sbagliato clamorosamente i calcoli di un’altra guerra dopo quella condotta, sempre per procura, da Saddam Hussein contro l’Iran di Khomeini. Ma allora il petrolio era schizzato e gli sceicchi versarono 50 miliardi di dollari sonanti nella tasche del raìs iracheno per abbattere la repubblica islamica.
La guerra sullo Shatt el Arab non modificò il confine di un centimetro ma ora le cose stanno diversamente: i sunniti si trovano la Russia nel Levante che tiene sotto tiro con i missili l’improvvido Tayyp Erdogan, una sorta di piazzista della jihad che buttando a mare Assad voleva mettersi in proprio come Sultano del Levante tra Aleppo, Mosul, intascando anche qualche pozzo di greggio. I prezzi bassi dell’energia aiutano anche lui, in difficoltà con il boom economico che si affloscia e ai ferri corti con Putin, il suo maggiore fornitore di gas.
Cambiano i tempi, cambia pure la tattica. Ora si fa destabilizzazione al contrario.
Pur di sgretolare l’asse sciita Teheran-Baghdad-Damasco-Hezbollah le monarchie del petrolio sono disposte a bruciare le loro ricchezze, una mossa azzardata perché è proprio con la loro potenza finanziaria che hanno pagato i gruppi radicali islamici per tenerli lontani da casa propria.
Ma non riescono a digerire l’accordo sul nucleare con l’Iran e la prossima fine delle sanzioni che porterà sul mercato altri 500mila barili di petrolio al giorno, con i tank persiani che galleggiano già come cetacei nelle acque del Golfo. Non solo: i nuovi contratti petroliferi iraniani presentati dal ministro Bijan Zanganeh, più appetibili per la major di quanto non si pensasse, sono un altro motivo di acuta irritazione. Per punire il ritorno di Teheran sui mercati i sauditi hanno sgretolato il Cartello.
Per questo la guerra del petrolio alla rovescia non annuncia rosei orizzonti.
Per quanto vituperata dai consumatori, con l’Opec svanisce un’altra forma di organizzazione dei mercati: il caos del greggio a basso costo si può pagare molto caro in certi Paesi. Se a questo aggiungiamo altri fattori di incertezza, valutari e finanziari, ci rendiamo conto che sta venendo meno un sistema di regolamentazione con mezzo secolo di storia. E non è secondario che le quotazioni in discesa ridurranno ancora utili e investimenti: forse qualche major sparirà. I sauditi e i loro fiancheggiatori arabi, gli esempi peggiori di un Islam conservatore e retrogrado, ballano sul ponte di una petroliera inclinata come il Titanic. Se non fosse per le basi Usa nel Golfo e il patto leonino che lega Riad a Washington ci sarebbe da temere davvero.
Ma è noto che gli Stati Uniti sono pronti a correre in soccorso dei prìncipi arabi più di quanto non siano disposti a fare per i traballanti leader europei: in cinque anni i sauditi hanno acquistato sistemi d’arma da Washington per 100 miliardi di dollari. Del resto gli americani ci possono chiedere: «Non volevate il petrolio a buon mercato? Eccovi serviti».
E quanto alla guerra nel Levante, alle sue centinaia di migliaia di morti, ai milioni di profughi e al terrorismo, il punto di svolta potrebbe essere economico. Se gli Usa e l’Europa firmeranno il Trattato transatlantico su commercio e investimenti (Ttip), gli americani torneranno ad avere un forte interesse per il mercato europeo e forse decideranno di sistemare i conflitti intorno all’Unione e con la Russia. Così quando la polvere si depositerà sui campi di battaglia si conteranno gli utili in bilancio, non i morti.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Mondo
Isis, capo Pentagono: “Siamo in guerra”
“Da giugno 2014 i foreign fighters sono
raddoppiati. Russi e asiatici: +300%”
(Di L. Martinelli)
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/12 ... i/2290321/
Isis, capo Pentagono: “Siamo in guerra”
“Da giugno 2014 i foreign fighters sono
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Re: La Terza Guerra Mondiale
La vox populi
Norrin • 17 minuti fa
"non abbiamo contenuto l'isis"..leggesi : "ne abbiamo perso il controllo.."
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Ydrial • 20 minuti fa
Non ho capito se quando dice "siamo in guerra" parla a nome dell'Isis in risposta agli attacchi di oggi della Russia.
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TheGlide22 • 20 minuti fa
“Siamo in guerra.",parla per voi.
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Korradino 63 • 23 minuti fa
Che falsi, se non interveniva la madre Russia erano li a fare affari con la loro creatura isis, Putin unico cha ha cambiato le cose, nato usa europa sono dei falliti
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edmondo • 23 minuti fa
incriminate Obama ed Erdogan, mettete sanzioni al catar, ai sauditi ai turki
Putin, salvaci
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Norrin • 17 minuti fa
"non abbiamo contenuto l'isis"..leggesi : "ne abbiamo perso il controllo.."
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Ydrial • 20 minuti fa
Non ho capito se quando dice "siamo in guerra" parla a nome dell'Isis in risposta agli attacchi di oggi della Russia.
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TheGlide22 • 20 minuti fa
“Siamo in guerra.",parla per voi.
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Korradino 63 • 23 minuti fa
Che falsi, se non interveniva la madre Russia erano li a fare affari con la loro creatura isis, Putin unico cha ha cambiato le cose, nato usa europa sono dei falliti
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edmondo • 23 minuti fa
incriminate Obama ed Erdogan, mettete sanzioni al catar, ai sauditi ai turki
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Sp1959 • 27 minuti fa
E' realistico che 40 paesi coalizzati, fra cui quasi tutte le superpotenze militari del globo, abbiano difficoltà a spazzar via un'organizzazione militare "monca" come l'Isis, non riuscendo neppure a tagliargli le fonti di finanziamento... se qualcuna di quelle superpotenze non l'ha prima organizata e continua a fare il doppio gioco?
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Un'altra persona sta scrivendo...
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Daniele M • 29 minuti fa
Che riflessi! Ben svegliato.
PS. Averlo scatenato non è già una discreta "americanizzazione" del conflitto? Ne parla come se loro non c'entrassero niente.
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Derapage • 30 minuti fa
L'America è in guerra? Revocate il premio Nobel per la pace a Obama!
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Rotto • 31 minuti fa
finalmente, altrimenti se non si muovono gli americani qui si dorme nel mondo
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Insetticida • 32 minuti fa
e quando mai sono stati in pace....
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E' realistico che 40 paesi coalizzati, fra cui quasi tutte le superpotenze militari del globo, abbiano difficoltà a spazzar via un'organizzazione militare "monca" come l'Isis, non riuscendo neppure a tagliargli le fonti di finanziamento... se qualcuna di quelle superpotenze non l'ha prima organizata e continua a fare il doppio gioco?
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Daniele M • 29 minuti fa
Che riflessi! Ben svegliato.
PS. Averlo scatenato non è già una discreta "americanizzazione" del conflitto? Ne parla come se loro non c'entrassero niente.
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Derapage • 30 minuti fa
L'America è in guerra? Revocate il premio Nobel per la pace a Obama!
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Rotto • 31 minuti fa
finalmente, altrimenti se non si muovono gli americani qui si dorme nel mondo
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Insetticida • 32 minuti fa
e quando mai sono stati in pace....
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Re: La Terza Guerra Mondiale
I GIORNI DEL KAOS
il premier turco Ahmet Davutoglu accusa: "Raid russi rafforzano lo Stati Islamico, non lo combattono
Perchè quelli inglesi, francesi, tedeschi, americani, lo combattono????????????
I tempi del kaos sono arrivati.
Putin: “Spero non siano necessarie armi nucleari contro l’Isis”. Turchia: “Russia fa pulizia etnica in Siria”
Mondo
E' quanto dichiarato dal leader del Cremlino discutendo dell'operazione militare in Siria con il ministro della Difesa russo, Serghiei Shoigu. Espulsi giornalisti russi dalla Turchia: lavoravano a un'inchiesta sul traffico di petrolio dello Stato islamico. Continua il braccio di ferro Ankara-Mosca: il premier turco Ahmet Davutoglu accusa: "Raid russi rafforzano lo Stati Islamico, non lo combattono"
di F. Q. | 9 dicembre 2015
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/12 ... s/2288593/
il premier turco Ahmet Davutoglu accusa: "Raid russi rafforzano lo Stati Islamico, non lo combattono
Perchè quelli inglesi, francesi, tedeschi, americani, lo combattono????????????
I tempi del kaos sono arrivati.
Putin: “Spero non siano necessarie armi nucleari contro l’Isis”. Turchia: “Russia fa pulizia etnica in Siria”
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E' quanto dichiarato dal leader del Cremlino discutendo dell'operazione militare in Siria con il ministro della Difesa russo, Serghiei Shoigu. Espulsi giornalisti russi dalla Turchia: lavoravano a un'inchiesta sul traffico di petrolio dello Stato islamico. Continua il braccio di ferro Ankara-Mosca: il premier turco Ahmet Davutoglu accusa: "Raid russi rafforzano lo Stati Islamico, non lo combattono"
di F. Q. | 9 dicembre 2015
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/12 ... s/2288593/
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Re: La Terza Guerra Mondiale
camillobenso ha scritto:I GIORNI DEL KAOS
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Una guerra al contrario
Una guerra del petrolio al contrario: più il conflitto in Medio Oriente si fa distruttivo e complicato e più il prezzo del petrolio scende.
di Alberto Negri
Un tempo bastava l’accenno di un conflitto per alzare le quotazioni e rimpinguare le casse dei Paesi produttori. Ma è un paradosso apparente. Oggi l’arma del petrolio si è rovesciata: l’Arabia Saudita ha fatto saltare l’Opec e le quote del tetto produttivo per mettere al tappeto l’Iran, la Russia e fronteggiare l’ascesa dello shale oil americano.
I sauditi hanno sbriciolato il Cartello dell’oro nero come l’Isis ha simbolicamente abbattuto con un bulldozer un altro cartello, di cartapesta, con la scritta Sykes-Picot ai confini tra Iraq e Siria, per significare l’affondamento dei confini coloniali.
Riad, forte di 700 miliardi di dollari in riserve ma pronta anche a emettere bond per finanziare le sue guerre, è disposta a giocarsi il tutto per tutto.
Soltanto nella prima metà del 2015 ha perso 150 miliardi per il calo dei prezzi. La monarchia saudita, guida del fronte sunnita, è in difficoltà come non mai e ha trovato il suo Vietnam arabico in Yemen. Le cose vanno così male che si ritirano investimenti dai fondi sovrani, il sacro Graal della liquidità mondiale.
Gli americani pur di tenere in piedi la casa reale, divorata da lotte interne e generazionali tra i principi del sangue, hanno persino bombardato le truppe di Assad in Siria: un segnale di solidarietà a quel fronte sunnita che ha sbagliato clamorosamente i calcoli di un’altra guerra dopo quella condotta, sempre per procura, da Saddam Hussein contro l’Iran di Khomeini. Ma allora il petrolio era schizzato e gli sceicchi versarono 50 miliardi di dollari sonanti nella tasche del raìs iracheno per abbattere la repubblica islamica.
La guerra sullo Shatt el Arab non modificò il confine di un centimetro ma ora le cose stanno diversamente: i sunniti si trovano la Russia nel Levante che tiene sotto tiro con i missili l’improvvido Tayyp Erdogan, una sorta di piazzista della jihad che buttando a mare Assad voleva mettersi in proprio come Sultano del Levante tra Aleppo, Mosul, intascando anche qualche pozzo di greggio. I prezzi bassi dell’energia aiutano anche lui, in difficoltà con il boom economico che si affloscia e ai ferri corti con Putin, il suo maggiore fornitore di gas.
Cambiano i tempi, cambia pure la tattica. Ora si fa destabilizzazione al contrario.
Pur di sgretolare l’asse sciita Teheran-Baghdad-Damasco-Hezbollah le monarchie del petrolio sono disposte a bruciare le loro ricchezze, una mossa azzardata perché è proprio con la loro potenza finanziaria che hanno pagato i gruppi radicali islamici per tenerli lontani da casa propria.
Ma non riescono a digerire l’accordo sul nucleare con l’Iran e la prossima fine delle sanzioni che porterà sul mercato altri 500mila barili di petrolio al giorno, con i tank persiani che galleggiano già come cetacei nelle acque del Golfo. Non solo: i nuovi contratti petroliferi iraniani presentati dal ministro Bijan Zanganeh, più appetibili per la major di quanto non si pensasse, sono un altro motivo di acuta irritazione. Per punire il ritorno di Teheran sui mercati i sauditi hanno sgretolato il Cartello.
Per questo la guerra del petrolio alla rovescia non annuncia rosei orizzonti.
Per quanto vituperata dai consumatori, con l’Opec svanisce un’altra forma di organizzazione dei mercati: il caos del greggio a basso costo si può pagare molto caro in certi Paesi. Se a questo aggiungiamo altri fattori di incertezza, valutari e finanziari, ci rendiamo conto che sta venendo meno un sistema di regolamentazione con mezzo secolo di storia. E non è secondario che le quotazioni in discesa ridurranno ancora utili e investimenti: forse qualche major sparirà. I sauditi e i loro fiancheggiatori arabi, gli esempi peggiori di un Islam conservatore e retrogrado, ballano sul ponte di una petroliera inclinata come il Titanic. Se non fosse per le basi Usa nel Golfo e il patto leonino che lega Riad a Washington ci sarebbe da temere davvero.
Ma è noto che gli Stati Uniti sono pronti a correre in soccorso dei prìncipi arabi più di quanto non siano disposti a fare per i traballanti leader europei: in cinque anni i sauditi hanno acquistato sistemi d’arma da Washington per 100 miliardi di dollari. Del resto gli americani ci possono chiedere: «Non volevate il petrolio a buon mercato? Eccovi serviti».
E quanto alla guerra nel Levante, alle sue centinaia di migliaia di morti, ai milioni di profughi e al terrorismo, il punto di svolta potrebbe essere economico. Se gli Usa e l’Europa firmeranno il Trattato transatlantico su commercio e investimenti (Ttip), gli americani torneranno ad avere un forte interesse per il mercato europeo e forse decideranno di sistemare i conflitti intorno all’Unione e con la Russia. Così quando la polvere si depositerà sui campi di battaglia si conteranno gli utili in bilancio, non i morti.
Il Sole 10.12.15
La grande partita geopolitica di Riad
L’Arabia Saudita vuole contrastare la crescita della produzione americana e il rientro dell’Iran
di Ugo Tramballi
Conta di più il disegno geo-energetico o quello geopolitico? E’ più importante conservare il primato mondiale petrolifero, base dello sviluppo economico del paese, necessario per costruire nuove città nel deserto e posti di lavoro a una gioventù altrimenti attratta dall’Isis; oppure lo è restare alla guida del mondo sunnita, finanziando milizie, governi alleati, moschee salafite e moltiplicando i costi per la difesa? L’Arabia Saudita sembra arrivata a un bivio.
Questo lascia credere il precipitare del prezzo del barile. Le decisioni saudite, praticamente incontrastate dentro l’Opec, sembrano dettate dalle esigenze imposte dal mercato petrolifero mondiale. L’obiettivo è fermare soprattutto la crescita della produzione americana, aumentata del 16% nel 2014: 10 milioni di barili al giorno, solo due meno dell’Arabia Saudita. Poiché il costo di estrazione negli Stati Uniti è vicino ai 40 dollari al barile, più di quanto attualmente si venda sul mercato, i sauditi sono convinti di fermare prima o poi il concorrente americano. Forse non tengono conto che per raggiungere l’indipendenza dal petrolio arabo, l’opinione pubblica negli Stati Uniti – non solo Donald Trump – è disposta a pagare di più il gallone di benzina.
Nelle valutazioni saudite c’è anche il ritorno sul mercato dell’Iran, grazie alla progressiva diminuzione delle sanzioni internazionali. Ma qui la valutazione di Riad, tenacemente contraria agli accordi sul nucleare iraniano - nei modi meno evidente di quanto faccia Israele ma più pratico ed efficace - è anche molto geopolitica.
Restano tuttavia alcuni dati inconfutabili. Il petrolio assicura il 90% della ricchezza saudita e l’87 delle sue esportazioni: un altro 7% dell’export sono prodotti petrolchimici. Rispetto a due anni fa, dunque, oggi l'Arabia Saudita guadagna il 50% di meno.
Aggiungendo i consumi interni crescenti – il 58% dell’elettricità è prodotta dal petrolio – secondo i soliti studi americani piuttosto catastrofisti, fra il 2030 e il 2038 il maggiore produttore mondiale di greggio diventerà un importatore di idrocarburi. Considerando per il 2015 un deficit di bilancio al 16% del Pil, Standard & Poor’s ha abbassato a un AA- il rating del credito saudita. Sembra difficile che il paese possa mantenere i suoi tradizionali livelli di spesa: le sovvenzioni milionarie per garantire la fedeltà della popolazione al casato degli al-Saud, i programmi di sviluppo per la modernizzazione industriale, la diversificazione di un’economia così petrolifera. E soprattutto sembrano a rischio le spese per mantenere altamente ambiziose le aspettative geopolitiche nella regione. L’intervento militare nello Yemen, per esempio, è una delle cause di un deficit fiscale che nel 2015 crescerà fino a 38 miliardi di dollari.
Il dubbio fra il primato petrolifero o quello geopolitico e religioso non è tuttavia così amletico. Nella letteratura saudita, posto che ce ne sia una oltre i testi dedicati alla fede islamica, non esiste uno Shakespeare. Altri due o tre dati economici spiegano che il paese può continuare ad essere una cosa e l’altra.
Il costo medio di estrazione del barile saudita è attorno ai 5 dollari, Riad può reggere altre sorprese del mercato; nonostante il deficit crescente, il surplus fiscale di 400 miliardi di dollari può assorbire l’impatto di altre diminuzioni dei prezzi; infine l'Arabia Saudita non ha un fondo sovrano come gli altri regni ed emirati del Golfo. Ma nel 2014 possedeva nel mondo, in gran parte negli Stati Uniti, assets per 737 miliardi: quest’anno scenderanno a 707 ma è sempre una cifra cospicua per continuare a dominare il mondo del petrolio e l’Islam sunnita.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
I GIORNI DEL KAOS
Tempismo perfetto
L’agenzia di stampa iraniana Fars: “Al Baghdadi si trova in Libia, dopo le cure in Turchia”
Secondo Teheran il leader dell’Isis è stato ricoverato dopo le ferite riportate in un raid nel ottobre scorso. Poi si sarebbe rifugiato a Sirte, capoluogo del Califfato in Libia
http://www.lastampa.it/2015/12/09/ester ... agina.html
Nord Africa
Matteo Renzi scommette sulla svolta in Libia
L'esordio dell'inviato Onu Martin Kobler ha rianimato le trattative, con una serie di azioni e reazioni che potrebbero paradossalmente sfociare in un compromesso: inventare un governo unitario che riunisca Tobruk e Tripoli
di Gianluca Di Feo
08 dicembre 2015
C'è un vento che soffia da sud-ovest fino a Palazzo Chigi, una brezza di mare simile al Libeccio, perché arriva dritta dritta dalle coste della Libia. A leggere le notizie, il paese sprofonda ogni giorno di più nel caos. Ma nelle segrete stanze del potere italiano invece si comincia a respirare un clima di ottimismo e la convinzione – o la speranza – che si sia vicini a una soluzione. Tanto da spingere Matteo Renzi a parlare di un evento da tenere a Roma «pari a quello che i colloqui di Vienna sono per la Siria».
Gli incontri con le parti in causa si moltiplicano, con mediatori vecchi e nuovi, e un frenetico via vai tra l’aeroporto di Ciampino e le capitali libiche. L’esordio dell’inviato Onu Martin Kobler, che ha rimpiazzato quel Bernardino Leon delegittimato dalle notizie su accordi paralleli con le potenze interessate, sembra avere rianimato le trattative. Con una serie di azioni e reazioni in apparenza contrastanti ma che potrebbero paradossalmente sfociare in un compromesso. A Tunisi, ad esempio, per la prima volta si sono riuniti 27 rappresentanti dei due parlamenti rivali di Tobruk e Tripoli. Il meeting è nato per bocciare l’accordo Leon ma ne è scaturita la spinta verso un dialogo diretto tra i leader delle due compagini. Che può innescare una strada alternativa verso lo stesso obiettivo: inventare un governo unitario capace di riunire la maggioranza delle entità politiche, tribali e militari libiche.
Le ambizioni sembrano ridotte rispetto alla compagine varata a ottobre con la benedizione dell’Onu e subito arenata. Alcuni nomi potrebbero cambiare, di sicuro le prerogative iniziali dell’esecutivo sarebbero ridimensionate: una sorta di minimo comune denominatore, che non pretende di controllare tutto e subito, ma che rappresenterebbe comunque la base di partenza per la pacificazione. Segnando un punto importante per Palazzo Chigi.
Matteo Renzi è stato chiaro con il presidente Hollande e con tutti gli alleati: «La Libia è prioritaria per noi». E adesso deve dimostrarsi in grado di concretizzare quest’affermazione. Se ci riuscisse, sarebbe un contributo alla lotta contro lo Stato islamico superiore a qualunque raid di bombardieri. L’impresa non è facile. Gli sforzi vengono coordinati con Kobler, impegnato in un tour de force e che lunedì 30 novembre al Cairo si è detto fiducioso: «Credo che con l’inizio del prossimo anno assisteremo alla nascita del governo nazionale di intesa sulla base delle discussioni fra le parti».
Al fianco di Kobler c’è il generale Paolo Serra, il consigliere per la sicurezza nominato dal Palazzo di Vetro. Ma diplomazia e intelligence italiana stanno facendo di tutto per sostenere lo sprint dell’Onu, senza dimenticare il ruolo dell’Eni, più volte evocato in queste settimane. Se il dinamismo del Califfato preoccupa i Paesi dell’area, a partire da Egitto e Algeria, in cima ai pensieri delle fazioni ci sono i proventi dell’oro nero, l’unica risorsa che manda avanti il Paese. A gestirli provvedono l’ente petrolifero statale e la banca centrale, le due istituzioni nazionali sopravvissute nel marasma, che garantiscono gli stipendi a una moltitudine di dipendenti statali e i servizi pubblici fondamentali in tutto il territorio, ufficialmente senza fare distinzioni tra chi è al comando.
Ma le esportazioni diminuiscono continuamente e a controllare il rubinetto dei pozzi c’è Ibrahim Jadran con la sua brigata personale di “guardie petrolifere”: 17mila soldati ben equipaggiati. Oggi le altre milizie contrapposte, che siano di Misurata o di Zintan, temono tutte di restare a secco. E l’inquadramento in un esercito unitario, dalla vocazione tribale, permetterebbe a capi e miliziani di conservare un reddito certo.
Gli irriducibili fondamentalisti di Tripoli, invece, hanno paura del richiamo del Califfato, che lentamente gli sottrae combattenti e sostegno. Resta il problema del generale Haftar, con la sua armata schierata al servizio dell’autorità di Tobruk ma di fatto autonoma. I suoi sponsor egiziani però cominciano a diffidare delle sue capacità e potrebbero mollarlo. Sta quindi a Roma adesso costruire il consenso intorno a Kobler. Puntando a chiudere entro gennaio.
Come ha sottolineato il ministro della Difesa Roberta Pinotti: «Il rischio di una ulteriore infiltrazione di terroristi in Libia ci preoccupa moltissimo, e vorremmo che i tempi per il raggiungimento di un accordo fra gli attori locali siano i più brevi, per consentirci di attivare quelle misure di assistenza necessarie per la stabilizzazione del Paese e il ripristino del controllo del territorio da parte di una legittima autorità». E ha aggiunto: «Noi siamo pronti, ma sono ora i libici che devono realmente comprendere quanto urgente sia il trovare una soluzione, politica ed equilibrata, per avviare la riconciliazione. Il terrorismo di Daesh è una minaccia seria per noi, ma è una minaccia gravissima anzitutto per loro».
Il generale Claudio Graziano, comandante delle forze armate, ha presentato il «modello a triangolo» per una eventuale azione dei nostri militari. Al primo posto la stabilizzazione del Paese e il monitoraggio del cessate il fuoco. Poi il contrasto ai trafficanti di uomini, nel Mediterraneo e sulle frontiere africane. Infine l’operazione contro i capisaldi dei terroristi. Con un presupposto chiaro: «Un approccio basato sul principio del “Libya first”, ossia il riconoscimento della esclusiva titolarità delle autorità libiche nei processi di decisione e il carattere esclusivamente sussidiario dell’intervento della comunità internazionale».
http://espresso.repubblica.it/attualita ... =HEF_RULLO
Tempismo perfetto
L’agenzia di stampa iraniana Fars: “Al Baghdadi si trova in Libia, dopo le cure in Turchia”
Secondo Teheran il leader dell’Isis è stato ricoverato dopo le ferite riportate in un raid nel ottobre scorso. Poi si sarebbe rifugiato a Sirte, capoluogo del Califfato in Libia
http://www.lastampa.it/2015/12/09/ester ... agina.html
Nord Africa
Matteo Renzi scommette sulla svolta in Libia
L'esordio dell'inviato Onu Martin Kobler ha rianimato le trattative, con una serie di azioni e reazioni che potrebbero paradossalmente sfociare in un compromesso: inventare un governo unitario che riunisca Tobruk e Tripoli
di Gianluca Di Feo
08 dicembre 2015
C'è un vento che soffia da sud-ovest fino a Palazzo Chigi, una brezza di mare simile al Libeccio, perché arriva dritta dritta dalle coste della Libia. A leggere le notizie, il paese sprofonda ogni giorno di più nel caos. Ma nelle segrete stanze del potere italiano invece si comincia a respirare un clima di ottimismo e la convinzione – o la speranza – che si sia vicini a una soluzione. Tanto da spingere Matteo Renzi a parlare di un evento da tenere a Roma «pari a quello che i colloqui di Vienna sono per la Siria».
Gli incontri con le parti in causa si moltiplicano, con mediatori vecchi e nuovi, e un frenetico via vai tra l’aeroporto di Ciampino e le capitali libiche. L’esordio dell’inviato Onu Martin Kobler, che ha rimpiazzato quel Bernardino Leon delegittimato dalle notizie su accordi paralleli con le potenze interessate, sembra avere rianimato le trattative. Con una serie di azioni e reazioni in apparenza contrastanti ma che potrebbero paradossalmente sfociare in un compromesso. A Tunisi, ad esempio, per la prima volta si sono riuniti 27 rappresentanti dei due parlamenti rivali di Tobruk e Tripoli. Il meeting è nato per bocciare l’accordo Leon ma ne è scaturita la spinta verso un dialogo diretto tra i leader delle due compagini. Che può innescare una strada alternativa verso lo stesso obiettivo: inventare un governo unitario capace di riunire la maggioranza delle entità politiche, tribali e militari libiche.
Le ambizioni sembrano ridotte rispetto alla compagine varata a ottobre con la benedizione dell’Onu e subito arenata. Alcuni nomi potrebbero cambiare, di sicuro le prerogative iniziali dell’esecutivo sarebbero ridimensionate: una sorta di minimo comune denominatore, che non pretende di controllare tutto e subito, ma che rappresenterebbe comunque la base di partenza per la pacificazione. Segnando un punto importante per Palazzo Chigi.
Matteo Renzi è stato chiaro con il presidente Hollande e con tutti gli alleati: «La Libia è prioritaria per noi». E adesso deve dimostrarsi in grado di concretizzare quest’affermazione. Se ci riuscisse, sarebbe un contributo alla lotta contro lo Stato islamico superiore a qualunque raid di bombardieri. L’impresa non è facile. Gli sforzi vengono coordinati con Kobler, impegnato in un tour de force e che lunedì 30 novembre al Cairo si è detto fiducioso: «Credo che con l’inizio del prossimo anno assisteremo alla nascita del governo nazionale di intesa sulla base delle discussioni fra le parti».
Al fianco di Kobler c’è il generale Paolo Serra, il consigliere per la sicurezza nominato dal Palazzo di Vetro. Ma diplomazia e intelligence italiana stanno facendo di tutto per sostenere lo sprint dell’Onu, senza dimenticare il ruolo dell’Eni, più volte evocato in queste settimane. Se il dinamismo del Califfato preoccupa i Paesi dell’area, a partire da Egitto e Algeria, in cima ai pensieri delle fazioni ci sono i proventi dell’oro nero, l’unica risorsa che manda avanti il Paese. A gestirli provvedono l’ente petrolifero statale e la banca centrale, le due istituzioni nazionali sopravvissute nel marasma, che garantiscono gli stipendi a una moltitudine di dipendenti statali e i servizi pubblici fondamentali in tutto il territorio, ufficialmente senza fare distinzioni tra chi è al comando.
Ma le esportazioni diminuiscono continuamente e a controllare il rubinetto dei pozzi c’è Ibrahim Jadran con la sua brigata personale di “guardie petrolifere”: 17mila soldati ben equipaggiati. Oggi le altre milizie contrapposte, che siano di Misurata o di Zintan, temono tutte di restare a secco. E l’inquadramento in un esercito unitario, dalla vocazione tribale, permetterebbe a capi e miliziani di conservare un reddito certo.
Gli irriducibili fondamentalisti di Tripoli, invece, hanno paura del richiamo del Califfato, che lentamente gli sottrae combattenti e sostegno. Resta il problema del generale Haftar, con la sua armata schierata al servizio dell’autorità di Tobruk ma di fatto autonoma. I suoi sponsor egiziani però cominciano a diffidare delle sue capacità e potrebbero mollarlo. Sta quindi a Roma adesso costruire il consenso intorno a Kobler. Puntando a chiudere entro gennaio.
Come ha sottolineato il ministro della Difesa Roberta Pinotti: «Il rischio di una ulteriore infiltrazione di terroristi in Libia ci preoccupa moltissimo, e vorremmo che i tempi per il raggiungimento di un accordo fra gli attori locali siano i più brevi, per consentirci di attivare quelle misure di assistenza necessarie per la stabilizzazione del Paese e il ripristino del controllo del territorio da parte di una legittima autorità». E ha aggiunto: «Noi siamo pronti, ma sono ora i libici che devono realmente comprendere quanto urgente sia il trovare una soluzione, politica ed equilibrata, per avviare la riconciliazione. Il terrorismo di Daesh è una minaccia seria per noi, ma è una minaccia gravissima anzitutto per loro».
Il generale Claudio Graziano, comandante delle forze armate, ha presentato il «modello a triangolo» per una eventuale azione dei nostri militari. Al primo posto la stabilizzazione del Paese e il monitoraggio del cessate il fuoco. Poi il contrasto ai trafficanti di uomini, nel Mediterraneo e sulle frontiere africane. Infine l’operazione contro i capisaldi dei terroristi. Con un presupposto chiaro: «Un approccio basato sul principio del “Libya first”, ossia il riconoscimento della esclusiva titolarità delle autorità libiche nei processi di decisione e il carattere esclusivamente sussidiario dell’intervento della comunità internazionale».
http://espresso.repubblica.it/attualita ... =HEF_RULLO
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