La Terza Guerra Mondiale
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Re: La Terza Guerra Mondiale
I GIORNI DEL KAOS
Libia, media: “Isis è arrivato a Sabrata, patrimonio Unesco”. E’ il punto più occidentale raggiunto finora dai jihadisti
Mondo
Secondo il Libya Herald, l’organizzazione jihadista ha allestito dei checkpoint dopo che giovedì sera almeno 30 veicoli con le bandiere nere bene in vista hanno sfilato per le strade. Altre fonti vicine agli islamist hanno riferito che "potrebbero esserci sostenitori dell’Is nella città", ma la situazione non sarebbe come a Sirte e Derna. Domenica alla Farnesina è in programma l'incontro promosso dall'Italia sulla situazone nel Paese
di F. Q. | 11 dicembre 2015
Commenti (64)
Checkpoint gestiti da miliziani dello Stato Islamico. Sarebbero la prova che gli uomini dell’organizzazione guidata da Abu Bakra Al Baghdadi è arrivato a Sabrata, città della Libia nord-occidentale, il cui sito archeologico nel 1982 è stato inserito nella lista dei Patrimoni dell’Umanità dell’Unesco. Lo riporta no diversi media locali, tra cui il sito Libya Herald. Già presenti a Derna e a Sirte, Sabratha è il punto più occidentale raggiunto dai fondamentalisti fino a ora. La diplomazia, intanto, continua nei suoi sforzi per la formazione di un governo di unità nazionale nel Paese: domenica alla Farnesina è in programma la conferenza internazionale promossa dall’Italia.
L’installazione dei checkpoint, scrive Libya Herald, è seguita all’arresto di due uomini nella vicina città di Surman: uno dei due arrestati sarebbe legato a un membro di Isis nella città di Sabrata. “La polizia aveva sospetti su due persone che avevano affittato una casa nella cittadina – ha raccontato Mohamed Al Balili, giornalista locale – e durante un’irruzione nell’abitazione hanno trovato armi ed esplosivi. Uno dei due è tunisino, l’altro è un libico tornato di recente dalla Siria”. Secondo Libya Herald, poi, giovedì sera almeno 30 veicoli con le bandiere nere del Califfato bene in vista hanno sfilato per le vie della città.
Secondo il sindaco di Sabrata, Hussein Dawadi, solo uno dei due arrestati è sospettato di essere membro dell’Isis e sarebbe stato catturato a Sabrata e non a Surman. Dawadi, egli stesso militante islamista arrestato a ottobre nell’aeroporto di Tunisi, ha ammesso che tra la popolazione potrebbero esserci sostenitori dell’Isis, ma che la situazione non sarebbe come quella di Sirte o Derna.
Una terza versione dei fatti accrediterebbe i due uomini arrestati come membri di Ansar al-Sharia e non dello Stato Islamico, e il loro arresto a Surman sarebbe il risultato della rivalità tra le milizie locali e gli islamisti di Sabrata, dove gli arresti hanno causato forti tensioni tra una “gruppo aderente allo Stato Islamico” e il dipartimento della sicurezza cittadino, guidato dall’islamista Taher Al-Ghrabli. Un gruppo di “combattenti dell’Isis” hanno esploso colpi di arma da fuoco verso un negozio di profumi gestito da una donna.
Domenica alla Farnesina è in programma l’incontro promosso dall’Italia sulla Libia: l’obiettivo è di ottenere “il più alto livello possibile di consenso” per la costituzione di un governo di unità nazionale, ha detto il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, intervenuto a margine della Conferenza internazionale sul Mediterraneo in corso a Roma. “In nessun negoziato ho visto un accordo al 100%”, ha rilevato Gentiloni, aggiungendo di sperare in un accordo al “90%”. “Coloro che si opporranno ad un accordo” che si costituirà sotto l’egida della comunità internazionale e dell’Onu, ha concluso il ministro, “avranno la responsabilità di essersi opposti a qualcosa che è strategico non solo per la comunità internazionale, ma per il popolo libico”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/12 ... i/2295307/
Libia, media: “Isis è arrivato a Sabrata, patrimonio Unesco”. E’ il punto più occidentale raggiunto finora dai jihadisti
Mondo
Secondo il Libya Herald, l’organizzazione jihadista ha allestito dei checkpoint dopo che giovedì sera almeno 30 veicoli con le bandiere nere bene in vista hanno sfilato per le strade. Altre fonti vicine agli islamist hanno riferito che "potrebbero esserci sostenitori dell’Is nella città", ma la situazione non sarebbe come a Sirte e Derna. Domenica alla Farnesina è in programma l'incontro promosso dall'Italia sulla situazone nel Paese
di F. Q. | 11 dicembre 2015
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Checkpoint gestiti da miliziani dello Stato Islamico. Sarebbero la prova che gli uomini dell’organizzazione guidata da Abu Bakra Al Baghdadi è arrivato a Sabrata, città della Libia nord-occidentale, il cui sito archeologico nel 1982 è stato inserito nella lista dei Patrimoni dell’Umanità dell’Unesco. Lo riporta no diversi media locali, tra cui il sito Libya Herald. Già presenti a Derna e a Sirte, Sabratha è il punto più occidentale raggiunto dai fondamentalisti fino a ora. La diplomazia, intanto, continua nei suoi sforzi per la formazione di un governo di unità nazionale nel Paese: domenica alla Farnesina è in programma la conferenza internazionale promossa dall’Italia.
L’installazione dei checkpoint, scrive Libya Herald, è seguita all’arresto di due uomini nella vicina città di Surman: uno dei due arrestati sarebbe legato a un membro di Isis nella città di Sabrata. “La polizia aveva sospetti su due persone che avevano affittato una casa nella cittadina – ha raccontato Mohamed Al Balili, giornalista locale – e durante un’irruzione nell’abitazione hanno trovato armi ed esplosivi. Uno dei due è tunisino, l’altro è un libico tornato di recente dalla Siria”. Secondo Libya Herald, poi, giovedì sera almeno 30 veicoli con le bandiere nere del Califfato bene in vista hanno sfilato per le vie della città.
Secondo il sindaco di Sabrata, Hussein Dawadi, solo uno dei due arrestati è sospettato di essere membro dell’Isis e sarebbe stato catturato a Sabrata e non a Surman. Dawadi, egli stesso militante islamista arrestato a ottobre nell’aeroporto di Tunisi, ha ammesso che tra la popolazione potrebbero esserci sostenitori dell’Isis, ma che la situazione non sarebbe come quella di Sirte o Derna.
Una terza versione dei fatti accrediterebbe i due uomini arrestati come membri di Ansar al-Sharia e non dello Stato Islamico, e il loro arresto a Surman sarebbe il risultato della rivalità tra le milizie locali e gli islamisti di Sabrata, dove gli arresti hanno causato forti tensioni tra una “gruppo aderente allo Stato Islamico” e il dipartimento della sicurezza cittadino, guidato dall’islamista Taher Al-Ghrabli. Un gruppo di “combattenti dell’Isis” hanno esploso colpi di arma da fuoco verso un negozio di profumi gestito da una donna.
Domenica alla Farnesina è in programma l’incontro promosso dall’Italia sulla Libia: l’obiettivo è di ottenere “il più alto livello possibile di consenso” per la costituzione di un governo di unità nazionale, ha detto il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, intervenuto a margine della Conferenza internazionale sul Mediterraneo in corso a Roma. “In nessun negoziato ho visto un accordo al 100%”, ha rilevato Gentiloni, aggiungendo di sperare in un accordo al “90%”. “Coloro che si opporranno ad un accordo” che si costituirà sotto l’egida della comunità internazionale e dell’Onu, ha concluso il ministro, “avranno la responsabilità di essersi opposti a qualcosa che è strategico non solo per la comunità internazionale, ma per il popolo libico”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/12 ... i/2295307/
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Re: La Terza Guerra Mondiale
I GIORNI DEL KAOS
PER UNA POLTRONA IN PIU'
La lotta politica non si ferma MAI anche nei momenti tragici.
Notizia vera o solo per lotta politica??????????????
Chaouki nel dossier della Difesa tra i "leader islamici radicali"
Il Centro di studi strategici inserisce il deputato del Pd fra gli estremisti: "Compare in un video che inneggia alla violenza contro gli italiani"
Giuseppe De Lorenzo - Ven, 11/12/2015 - 14:08
http://www.ilgiornale.it/news/politica/ ... 03315.html
PER UNA POLTRONA IN PIU'
La lotta politica non si ferma MAI anche nei momenti tragici.
Notizia vera o solo per lotta politica??????????????
Chaouki nel dossier della Difesa tra i "leader islamici radicali"
Il Centro di studi strategici inserisce il deputato del Pd fra gli estremisti: "Compare in un video che inneggia alla violenza contro gli italiani"
Giuseppe De Lorenzo - Ven, 11/12/2015 - 14:08
http://www.ilgiornale.it/news/politica/ ... 03315.html
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Re: La Terza Guerra Mondiale
I GIORNI DEL KAOS
La Stampa 11.12.15
Ben Jelloun: addio patria dei diritti se la Francia copia Guantanamo
Lo scrittore sull’ipotesi di incarcerare i sospetti di terrorismo
intervista di Paolo Levi
«Guantanamo è una catastrofe, la Francia non segua l’esempio o sarà la fine della patria dei diritti umani». In questi giorni Tahar Ben Jelloun è a casa sua in Marocco. Tra gli intellettuali maghrebini più ascoltati in Europa lo scrittore e poeta di 71 anni è ancora sconvolto per gli attentati di Parigi.
Le parole di Ben Jelloun arrivano nemmeno 24 dopo che è emerso che il deputato dell’opposizione, Laurent Wauquiez (Les Républicains) chiede il carcere preventivo, sulla base di semplici indizi e senza ricorso alla giustizia ordinaria, per gli individui etichettati con la «scheda S», quella che indica gli individui “radicalizzati” in odore di jihad ma senza che siano stati condannati.
Una proposta che il governo socialista di Hollande ha girato al Consiglio di Stato affinché ne esamini la legittimità.
Alcuni denunciano la prospettiva di una «Guantanamo alla francese». Lei che dice?
«Penso che in questo caso gli Stati Uniti non possano essere un modello per la Francia e per il suo antica tradizione legata ai diritti umani. Guantanamo è una catastrofe, dentro non ci sono soltanto terroristi, ma probabilmente anche tanti innocenti. E soprattutto non ha impedito nuovi attentati. È una prigione illegale che persino Obama non riesce a far chiudere. Parigi non segua l’esempio o sarà la fine della Patria dei Diritti».
Però adesso all’Assemblée nationale tutti sono concordi nel dire che bisogna sacrificare una dose di libertà per più sicurezza. Marine Le Pen vola nei sondaggi. La destra moderata e il partito socialista le corrono dietro...
«Quando vieni colpito da attentati come quelli del 13 novembre l’istinto iniziale è reagire con forza, vigore e violenza. È comprensibile. Però alla fine sono giustizia e diritto a dover primeggiare sulla nostra rabbia. Qualunque sia il sospetto, la democrazia non può invadere una casa o arrestare colui che la polizia sospetta di passare all’azione».
Come fare allora a combattere i terroristi del Califfato?
«È una lotta lunga e difficilissima. I raid aerei sulle loro postazioni non bastano, loro sono in mezzo a noi, lo abbiamo visto a Parigi, a Tunisi, in California. Bombardare noi stessi? Impossibile. Combattiamo ad armi impari. È una guerra di un nuovo genere che l’Europa non può combattere senza rinunciare ai propri valori. Ripeto: la democrazia è il nostro bene più prezioso ma non è equipaggiata per lottare contro questo tipo di terrorismo».
I terroristi saranno più forti?
«Contrariamente a noi sono invisibili e imprevedibili. Non hanno alcuna paura di sacrificare la loro vita. Gli hanno fatto il lavaggio del cervello. L’istinto vitale, per noi così ovvio, si è invertito in istinto di morte»
Si riferisce al martirio e le famose 72 vergini in premio?
«Sono appena rientrato dal bar sotto casa e tra un caffè e l’altro si scherzava sul fatto che i terroristi non ci hanno capito niente: in realtà non sono 72 vergini ma una vergine di 72 anni... Questa è Tangeri».
Cos’altro ha sentito al caffè?
«Qui in Marocco ripetono tutti la stessa cosa: saranno i musulmani innocenti a pagare le conseguenze di questo gruppo di criminali, e sarà un prezzo molto caro. Quando sentiamo cosa dice Trump negli Usa o il Front National in Francia. Responsabilità dei politici sarà scongiurare facili confusioni...».
C’è chi ha definito le periferie transalpine i «territori perduti della République». È d’accordo?
«Per averle frequentate assiduamente devo riconoscere che lo Stato francese non le ha aiutate moltissimo. Però le colpe ricadono anche su quelle tante famiglie che non hanno vegliato ai figli. Guardi, è come la mafia, la polizia non basta. Serve tempo e tanta tanta istruzione».
La Stampa 11.12.15
Ben Jelloun: addio patria dei diritti se la Francia copia Guantanamo
Lo scrittore sull’ipotesi di incarcerare i sospetti di terrorismo
intervista di Paolo Levi
«Guantanamo è una catastrofe, la Francia non segua l’esempio o sarà la fine della patria dei diritti umani». In questi giorni Tahar Ben Jelloun è a casa sua in Marocco. Tra gli intellettuali maghrebini più ascoltati in Europa lo scrittore e poeta di 71 anni è ancora sconvolto per gli attentati di Parigi.
Le parole di Ben Jelloun arrivano nemmeno 24 dopo che è emerso che il deputato dell’opposizione, Laurent Wauquiez (Les Républicains) chiede il carcere preventivo, sulla base di semplici indizi e senza ricorso alla giustizia ordinaria, per gli individui etichettati con la «scheda S», quella che indica gli individui “radicalizzati” in odore di jihad ma senza che siano stati condannati.
Una proposta che il governo socialista di Hollande ha girato al Consiglio di Stato affinché ne esamini la legittimità.
Alcuni denunciano la prospettiva di una «Guantanamo alla francese». Lei che dice?
«Penso che in questo caso gli Stati Uniti non possano essere un modello per la Francia e per il suo antica tradizione legata ai diritti umani. Guantanamo è una catastrofe, dentro non ci sono soltanto terroristi, ma probabilmente anche tanti innocenti. E soprattutto non ha impedito nuovi attentati. È una prigione illegale che persino Obama non riesce a far chiudere. Parigi non segua l’esempio o sarà la fine della Patria dei Diritti».
Però adesso all’Assemblée nationale tutti sono concordi nel dire che bisogna sacrificare una dose di libertà per più sicurezza. Marine Le Pen vola nei sondaggi. La destra moderata e il partito socialista le corrono dietro...
«Quando vieni colpito da attentati come quelli del 13 novembre l’istinto iniziale è reagire con forza, vigore e violenza. È comprensibile. Però alla fine sono giustizia e diritto a dover primeggiare sulla nostra rabbia. Qualunque sia il sospetto, la democrazia non può invadere una casa o arrestare colui che la polizia sospetta di passare all’azione».
Come fare allora a combattere i terroristi del Califfato?
«È una lotta lunga e difficilissima. I raid aerei sulle loro postazioni non bastano, loro sono in mezzo a noi, lo abbiamo visto a Parigi, a Tunisi, in California. Bombardare noi stessi? Impossibile. Combattiamo ad armi impari. È una guerra di un nuovo genere che l’Europa non può combattere senza rinunciare ai propri valori. Ripeto: la democrazia è il nostro bene più prezioso ma non è equipaggiata per lottare contro questo tipo di terrorismo».
I terroristi saranno più forti?
«Contrariamente a noi sono invisibili e imprevedibili. Non hanno alcuna paura di sacrificare la loro vita. Gli hanno fatto il lavaggio del cervello. L’istinto vitale, per noi così ovvio, si è invertito in istinto di morte»
Si riferisce al martirio e le famose 72 vergini in premio?
«Sono appena rientrato dal bar sotto casa e tra un caffè e l’altro si scherzava sul fatto che i terroristi non ci hanno capito niente: in realtà non sono 72 vergini ma una vergine di 72 anni... Questa è Tangeri».
Cos’altro ha sentito al caffè?
«Qui in Marocco ripetono tutti la stessa cosa: saranno i musulmani innocenti a pagare le conseguenze di questo gruppo di criminali, e sarà un prezzo molto caro. Quando sentiamo cosa dice Trump negli Usa o il Front National in Francia. Responsabilità dei politici sarà scongiurare facili confusioni...».
C’è chi ha definito le periferie transalpine i «territori perduti della République». È d’accordo?
«Per averle frequentate assiduamente devo riconoscere che lo Stato francese non le ha aiutate moltissimo. Però le colpe ricadono anche su quelle tante famiglie che non hanno vegliato ai figli. Guardi, è come la mafia, la polizia non basta. Serve tempo e tanta tanta istruzione».
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Re: La Terza Guerra Mondiale
I GIORNI DEL KAOS
Gli operatori del II° livello si agitano in continuazione per raccontare e a volte proporre soluzioni per quanto accade, come ha fatto Ugo Tramballi su Il Sole del 11.12.15.
Lo fanno tutti i giorni i giornalisti e i conduttori dei contenitori politici.
Ma quasi nel 100 % dei casi ignorano la storia e chi la determina. Gli attori del I°livello.
Dimenticano ad esempio che :
Adolf Hitler, per la sua ascesa al potere riceverà dalla Pilgrims' Society, solamente tra il 1929 e il 1933, 32 milioni di dollari.
E che:
Non sarà superfluo inoltre ricordare l'accreditamento concesso dalla Gran Bretagna alla Germania dei 6 milioni di sterline in riserve d'oro ceche depositate a Londra al momento dell'invasione Cecoslovacchia nel marzo 1939. La motivazione addotta dal governo britannico (maggio 1939) fu “di non potere dare ordini alla Banca di Inghilterra".
Ed anche che:
La Bendix Aviation , controllata dalla Banca Morgan, fornì attraverso la Siemens tutti i sistemi di pilotaggio e quadri di bordo degli aerei tedeschi, e ciò fino al 1940. Londra dal canto suo, nel solo periodo 1934-35, inviò in Germania 12.000 motori d'aereo ultramoderni, mentre la Luftwaffe riceveva mensilmente da Washington equipaggiamenti e accessori sufficienti per 100 aerei. Le due principali fabbriche di blindati e di carri vennero realizzate dalla Opel, filiale della General Motors, mentre l'ITT, che attraverso il cartello AEG controllava tutte le telecomunicazioni tedesche, cesserà di lavorare per gli armamenti del Reich solo nel 1944. La geografia dei bombardamenti angloamericani che, nel 1944-45 rasero al suolo Dresda e Colonia, è istruttiva a più di un titolo: in quasi nessun caso i settori dove sorgevano le fabbriche a capitale angloamericano subirono rilevanti danni. Uno studio interalleato stabilirà che le perdite in macchinari dell'industria tedesca non superavano, all'inizio del 1946, il 12% del potenziale del Reich.
Oppure che:
Le commissioni di controllo del trattato di Versailles non vedevano nulla: e come potevano vedere il principale poligono di tiro in cui si addestravano gli artiglieri tedeschi, se esso era sito a Luga, nei pressi di Leningrado? 0 se i carristi delle “Panzer-Divisionen” imparavano a pilotare i loro blindati, fabbricati dalla Krupp e dalla Rheinmetall, in territorio russo, a Katorg presso Mosca. Tutti gli aviatori tedeschi che combatterono sul fronti di guerra fra il 1939 e il 1942 vennero formati sui campi di Lipetsk, Saratov e della Crimea.
Il trattato di Rapallo in fondo sancì questa semplice verità: senza Stalin, Hitler non sarebbe stato possibile, né Stalin senza Hitler. Washington e Londra dirigevano...
Il denaro, i finanziamenti, provenivano infatti da un'unica fonte, come scrisse uno storico delle società superiori del POTERE, il professor Carroll Quigley, trattando di quel periodo:
(si trattava) "nientemeno che di creare un sistema mondiale di controllo finanziario in mani private, in grado di dominare il sistema politico di ciascun paese e l'economia mondiale".
Perno delle manovre dell'Alta Finanza in Germania non fu Hitler, ma il banchiere protestante e frammassone Hjalmar Horace Greeley Schacht la cui famiglia originava dalla Danimarca. Nato a New York alla fine della prima guerra mondiale, Schacht sì associò ad una delle tre maggiori banche tedesche, la Darmstádter Bank , guidata da quel Jakob Goldschmidt che avrebbe successivamente favorito la sua nomina, avvenuta il 17 marzo 1933, alla guida della Reichsbank.
Ministro delle Finanze del Reich, legato al Movimento Paneuropeo di Coudenhove-Kalergi e agli ambienti di Wall Street e della City, in particolare al banchiere Norman Montagu, governatore della Banca d'Inghilterra, discendente da una famiglia di banchieri e membro della Pilgrims, nel settembre 1930 Schacht si imbarca per gli Stati Uniti, dove in forma privata incontra i capi dell'Alta Finanza anglosassone.
Schacht ritornerà quindi negli Stati Uniti nel 1933 per ottenere da Roosevelt la garanzia della neutralità americana in caso di riarmo della Germania.
Ma allora, ci si potrebbe chiedere, come fu possibile il successivo rovesciamento delle posizioni? Avvenne lo stesso gioco del 1914, quando le élites angloamericane erano germanofile, ma contemporaneamente firmavano un accordo segreto con la Francia in senso contrario. Infatti, solo nel 1938 le principali concentrazioni della City (dirette dagli ebrei tedeschi Baring, Schroeder, Goschen, Kleinwort, Erlanger, Seligman, Japhet, Rothschild) diventeranno avversarie di Hitler, quando egli farà arrestare uno di loro, chiedendo un forte riscatto per la sua liberazione (Louis de Rothschild).
I tempi erano evidentemente maturi per il 33 Roosevelt e il suo entourage di consiglieri, tutti membri della Pilgrim’s Society e della Round Table (vedi Appendice 2), che affrettarono i preparativi per la guerra.
Essa infatti si può dire che inizi il 7 novembre 1938, quando a Parigi il giovane ebreo Grynspan assassina il terzo segretario dell'ambasciata tedesca. Il 9 e il 10 novembre scatta la rappresaglia in Germania; Roosevelt richiama il suo ambasciatore a Berlino, annuncia la costruzione di 24.000 aerei da combattimento, chiede agli americani di boicottare i prodotti tedeschi e fa pressione sull'Inghilterra, attraverso il Pilgrims Joseph Kennedy, affinché rinunci alla politica di conciliazione con la Germania.
Ultima operazione: poiché la popolazione americana è ostile all'ingresso in guerra a fianco degli alleati, si dovrà attendere il 7 dicembre 1941, l 'attacco aeronavale nipponico alla base americana di Pearl Harbor, che, per il gioco di alleanze tra le potenze dell'Asse consentirà agli Alleati di dichiarare guerra alla Germania.
Ugo Tramballi ha proposto Una nuova Yalta per il Medio Oriente
Ma è possibile una nuova Yalta se la distruzione della Terza Guerra Mondiale non è stata ancora attuata, come hanno impostato nel I° livello???
Gli operatori del II° livello si agitano in continuazione per raccontare e a volte proporre soluzioni per quanto accade, come ha fatto Ugo Tramballi su Il Sole del 11.12.15.
Lo fanno tutti i giorni i giornalisti e i conduttori dei contenitori politici.
Ma quasi nel 100 % dei casi ignorano la storia e chi la determina. Gli attori del I°livello.
Dimenticano ad esempio che :
Adolf Hitler, per la sua ascesa al potere riceverà dalla Pilgrims' Society, solamente tra il 1929 e il 1933, 32 milioni di dollari.
E che:
Non sarà superfluo inoltre ricordare l'accreditamento concesso dalla Gran Bretagna alla Germania dei 6 milioni di sterline in riserve d'oro ceche depositate a Londra al momento dell'invasione Cecoslovacchia nel marzo 1939. La motivazione addotta dal governo britannico (maggio 1939) fu “di non potere dare ordini alla Banca di Inghilterra".
Ed anche che:
La Bendix Aviation , controllata dalla Banca Morgan, fornì attraverso la Siemens tutti i sistemi di pilotaggio e quadri di bordo degli aerei tedeschi, e ciò fino al 1940. Londra dal canto suo, nel solo periodo 1934-35, inviò in Germania 12.000 motori d'aereo ultramoderni, mentre la Luftwaffe riceveva mensilmente da Washington equipaggiamenti e accessori sufficienti per 100 aerei. Le due principali fabbriche di blindati e di carri vennero realizzate dalla Opel, filiale della General Motors, mentre l'ITT, che attraverso il cartello AEG controllava tutte le telecomunicazioni tedesche, cesserà di lavorare per gli armamenti del Reich solo nel 1944. La geografia dei bombardamenti angloamericani che, nel 1944-45 rasero al suolo Dresda e Colonia, è istruttiva a più di un titolo: in quasi nessun caso i settori dove sorgevano le fabbriche a capitale angloamericano subirono rilevanti danni. Uno studio interalleato stabilirà che le perdite in macchinari dell'industria tedesca non superavano, all'inizio del 1946, il 12% del potenziale del Reich.
Oppure che:
Le commissioni di controllo del trattato di Versailles non vedevano nulla: e come potevano vedere il principale poligono di tiro in cui si addestravano gli artiglieri tedeschi, se esso era sito a Luga, nei pressi di Leningrado? 0 se i carristi delle “Panzer-Divisionen” imparavano a pilotare i loro blindati, fabbricati dalla Krupp e dalla Rheinmetall, in territorio russo, a Katorg presso Mosca. Tutti gli aviatori tedeschi che combatterono sul fronti di guerra fra il 1939 e il 1942 vennero formati sui campi di Lipetsk, Saratov e della Crimea.
Il trattato di Rapallo in fondo sancì questa semplice verità: senza Stalin, Hitler non sarebbe stato possibile, né Stalin senza Hitler. Washington e Londra dirigevano...
Il denaro, i finanziamenti, provenivano infatti da un'unica fonte, come scrisse uno storico delle società superiori del POTERE, il professor Carroll Quigley, trattando di quel periodo:
(si trattava) "nientemeno che di creare un sistema mondiale di controllo finanziario in mani private, in grado di dominare il sistema politico di ciascun paese e l'economia mondiale".
Perno delle manovre dell'Alta Finanza in Germania non fu Hitler, ma il banchiere protestante e frammassone Hjalmar Horace Greeley Schacht la cui famiglia originava dalla Danimarca. Nato a New York alla fine della prima guerra mondiale, Schacht sì associò ad una delle tre maggiori banche tedesche, la Darmstádter Bank , guidata da quel Jakob Goldschmidt che avrebbe successivamente favorito la sua nomina, avvenuta il 17 marzo 1933, alla guida della Reichsbank.
Ministro delle Finanze del Reich, legato al Movimento Paneuropeo di Coudenhove-Kalergi e agli ambienti di Wall Street e della City, in particolare al banchiere Norman Montagu, governatore della Banca d'Inghilterra, discendente da una famiglia di banchieri e membro della Pilgrims, nel settembre 1930 Schacht si imbarca per gli Stati Uniti, dove in forma privata incontra i capi dell'Alta Finanza anglosassone.
Schacht ritornerà quindi negli Stati Uniti nel 1933 per ottenere da Roosevelt la garanzia della neutralità americana in caso di riarmo della Germania.
Ma allora, ci si potrebbe chiedere, come fu possibile il successivo rovesciamento delle posizioni? Avvenne lo stesso gioco del 1914, quando le élites angloamericane erano germanofile, ma contemporaneamente firmavano un accordo segreto con la Francia in senso contrario. Infatti, solo nel 1938 le principali concentrazioni della City (dirette dagli ebrei tedeschi Baring, Schroeder, Goschen, Kleinwort, Erlanger, Seligman, Japhet, Rothschild) diventeranno avversarie di Hitler, quando egli farà arrestare uno di loro, chiedendo un forte riscatto per la sua liberazione (Louis de Rothschild).
I tempi erano evidentemente maturi per il 33 Roosevelt e il suo entourage di consiglieri, tutti membri della Pilgrim’s Society e della Round Table (vedi Appendice 2), che affrettarono i preparativi per la guerra.
Essa infatti si può dire che inizi il 7 novembre 1938, quando a Parigi il giovane ebreo Grynspan assassina il terzo segretario dell'ambasciata tedesca. Il 9 e il 10 novembre scatta la rappresaglia in Germania; Roosevelt richiama il suo ambasciatore a Berlino, annuncia la costruzione di 24.000 aerei da combattimento, chiede agli americani di boicottare i prodotti tedeschi e fa pressione sull'Inghilterra, attraverso il Pilgrims Joseph Kennedy, affinché rinunci alla politica di conciliazione con la Germania.
Ultima operazione: poiché la popolazione americana è ostile all'ingresso in guerra a fianco degli alleati, si dovrà attendere il 7 dicembre 1941, l 'attacco aeronavale nipponico alla base americana di Pearl Harbor, che, per il gioco di alleanze tra le potenze dell'Asse consentirà agli Alleati di dichiarare guerra alla Germania.
Ugo Tramballi ha proposto Una nuova Yalta per il Medio Oriente
Ma è possibile una nuova Yalta se la distruzione della Terza Guerra Mondiale non è stata ancora attuata, come hanno impostato nel I° livello???
Ultima modifica di camillobenso il 12/12/2015, 3:31, modificato 1 volta in totale.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
I GIORNI DEL KAOS
L'articolo di Tramballi
Il Sole 11.12.15
Una nuova Yalta per il Medio Oriente
di Ugo Tramballi
Guardare oltre. Non è facile, è un esercizio complesso immaginare oggi un futuro per l’altra sponda del Mediterraneo. Pensare a quali scelte politiche, quali opportunità economiche, perfino quali confini dovrà avere la regione più caotica del mondo, quando la follia si fermerà. Perché questo prima o poi accadrà, per quanto ora possa sembrare inimmaginabile.
Ma il processo è incominciato, anche se l’Isis continua a controllare il suo territorio fra Iraq e Siria, si espande nella sua enclave libica. E intanto diventa sempre più minaccioso il fronte “esterno”, fatto di cani sciolti e terroristi dormienti nelle nostre metropoli. Ma pur con molta fatica, interessi contrastanti e a volte ancora reconditi, la diplomazia lavora sempre più intensamente in cerca di vie d’uscita.
Da ieri è Roma il centro del confronto. Prima con i Dialoghi mediterranei, organizzati dal ministero degli Esteri e dall’Ispi, l’Istituto di studi per la politica internazionale di Milano: “Oltre il caos, un’agenda positiva”, è il titolo ambizioso. E poi, domenica, alla Farnesina per un vertice dedicato alla Libia, al quale partecipano tutti i ministri degli Esteri interessati: Usa, Russia, europei e arabi.
Quello che serve al Medio Oriente è una Yalta, per cercare similitudini storiche suggestive ma non così impossibili. Nella Yalta originale americani e russi non erano d’accordo su nulla se non nell’arrivare fino a Berlino e sconfiggere il nazismo. In un certo senso i russi e gli americani di oggi non sono diversi, anche se le ideologie sono scomparse. Come a Berlino 70 anni fa, il governo che vorrebbero vedere a Damasco non è lo stesso. Hanno idee differenti su come dovrà essere il futuro Medio Oriente nel suo insieme. Ma sono entrambi d’accordo che non sia ormai possibile un nuovo assetto senza prima sconfiggere l’Isis e sradicare – almeno territorialmente – la sua presenza.
Era questo che il segretario della Difesa Ashton Carter diceva due giorni fa alla commissione Difesa del Campidoglio. I bombardamenti aerei sono efficaci fino a un certo punto: impediscono allo Stato islamico di organizzare offensive su larga scala e conquistare nuovi territori. Ma nel frattempo si radica sempre di più nei territori che controlla. Solo un’offensiva militare terrestre può raggiungere l’obiettivo finale. Ma se lo facessero gli occidentali, sarebbe solo “un’altra guerra americana”. Una partecipazione russa non cambierebbe la percezione degli arabi, dei turchi, degli iraniani. Perché nell’ipotetica Yalta mediorientale, loro non possono essere che protagonisti di pari livello. Russi, americani, europei, eventualmente i cinesi i cui interessi regionali sono sempre meno solamente energetico-economici e sempre più economico-politici, sono partners, facilitatori.
È stato duro l’ammonimento del vice cancelliere tedesco all’Arabia Saudita. Senza temere di mettere a rischio i cospicui affari che la Germania fa con Riyadh, Sigmar Gabriel ha esortato i sauditi s smettere di finanziare e armare i movimenti estremisti religiosi della regione, e invece partecipino con trasparenza alla lotta contro l’Isis. Un’ambiguità dalla quale si devono liberare qatarini, turchi, iraniani. Perché spetta ai protagonisti della regione sconfiggere militarmente l’Isis e, su questa vittoria, costruire finalmente un sistema mediorientale di sicurezza collettiva.
Sconfiggere militarmente l’Isis è un evidente “interesse strategico” comune, come ha detto ieri Matteo Renzi al Dialogo mediterraneo. È una ragione più che sufficiente per formare una vera alleanza. Il resto, la politica e la diplomazia, verrà immediatamente dopo.
L'articolo di Tramballi
Il Sole 11.12.15
Una nuova Yalta per il Medio Oriente
di Ugo Tramballi
Guardare oltre. Non è facile, è un esercizio complesso immaginare oggi un futuro per l’altra sponda del Mediterraneo. Pensare a quali scelte politiche, quali opportunità economiche, perfino quali confini dovrà avere la regione più caotica del mondo, quando la follia si fermerà. Perché questo prima o poi accadrà, per quanto ora possa sembrare inimmaginabile.
Ma il processo è incominciato, anche se l’Isis continua a controllare il suo territorio fra Iraq e Siria, si espande nella sua enclave libica. E intanto diventa sempre più minaccioso il fronte “esterno”, fatto di cani sciolti e terroristi dormienti nelle nostre metropoli. Ma pur con molta fatica, interessi contrastanti e a volte ancora reconditi, la diplomazia lavora sempre più intensamente in cerca di vie d’uscita.
Da ieri è Roma il centro del confronto. Prima con i Dialoghi mediterranei, organizzati dal ministero degli Esteri e dall’Ispi, l’Istituto di studi per la politica internazionale di Milano: “Oltre il caos, un’agenda positiva”, è il titolo ambizioso. E poi, domenica, alla Farnesina per un vertice dedicato alla Libia, al quale partecipano tutti i ministri degli Esteri interessati: Usa, Russia, europei e arabi.
Quello che serve al Medio Oriente è una Yalta, per cercare similitudini storiche suggestive ma non così impossibili. Nella Yalta originale americani e russi non erano d’accordo su nulla se non nell’arrivare fino a Berlino e sconfiggere il nazismo. In un certo senso i russi e gli americani di oggi non sono diversi, anche se le ideologie sono scomparse. Come a Berlino 70 anni fa, il governo che vorrebbero vedere a Damasco non è lo stesso. Hanno idee differenti su come dovrà essere il futuro Medio Oriente nel suo insieme. Ma sono entrambi d’accordo che non sia ormai possibile un nuovo assetto senza prima sconfiggere l’Isis e sradicare – almeno territorialmente – la sua presenza.
Era questo che il segretario della Difesa Ashton Carter diceva due giorni fa alla commissione Difesa del Campidoglio. I bombardamenti aerei sono efficaci fino a un certo punto: impediscono allo Stato islamico di organizzare offensive su larga scala e conquistare nuovi territori. Ma nel frattempo si radica sempre di più nei territori che controlla. Solo un’offensiva militare terrestre può raggiungere l’obiettivo finale. Ma se lo facessero gli occidentali, sarebbe solo “un’altra guerra americana”. Una partecipazione russa non cambierebbe la percezione degli arabi, dei turchi, degli iraniani. Perché nell’ipotetica Yalta mediorientale, loro non possono essere che protagonisti di pari livello. Russi, americani, europei, eventualmente i cinesi i cui interessi regionali sono sempre meno solamente energetico-economici e sempre più economico-politici, sono partners, facilitatori.
È stato duro l’ammonimento del vice cancelliere tedesco all’Arabia Saudita. Senza temere di mettere a rischio i cospicui affari che la Germania fa con Riyadh, Sigmar Gabriel ha esortato i sauditi s smettere di finanziare e armare i movimenti estremisti religiosi della regione, e invece partecipino con trasparenza alla lotta contro l’Isis. Un’ambiguità dalla quale si devono liberare qatarini, turchi, iraniani. Perché spetta ai protagonisti della regione sconfiggere militarmente l’Isis e, su questa vittoria, costruire finalmente un sistema mediorientale di sicurezza collettiva.
Sconfiggere militarmente l’Isis è un evidente “interesse strategico” comune, come ha detto ieri Matteo Renzi al Dialogo mediterraneo. È una ragione più che sufficiente per formare una vera alleanza. Il resto, la politica e la diplomazia, verrà immediatamente dopo.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
I GIORNI DEL KAOS
Corriere 11.12.15
La Siria e la Libia. Se e come intervenire
risponde Sergio Romano
L’Isis si sta spostando dalla Siria alla Libia, base ideale per i loro missili verso l’Italia. Attenzione: non sono quelli di Gheddafi, con scarsa gittata, che al massimo sfiorarono Lampedusa. Le misure messe in atto contro il nemico, sul nostro territorio, a che servono? Cosa si aspetta per intervenire con forze italiane, Nato, russe e non so quante e quali a difesa della Libia e all’eliminazione di questo «cancro»? Ma le sembra un Renzi qualsiasi, da solo, all’altezza di prendere decisioni simili? No, questo governo, purtroppo, è incapace di pensare, organizzare, coordinare e agire su questi problemi! E la sua voce, in Europa,... lasciamo perdere.
Leopoldo Chiappini
Caro Chiappini,
Non credo che il governo sia privo di una qualsiasi strategia libica. L’Italia potrebbe intervenire, secondo Renzi, soltanto nell’ambito di una iniziativa promossa dall’Onu e dopo un accordo fra le due fazioni che stanno governando la Libia: quella di Tripoli, di cui fa parte anche la Fratellanza musulmana, e quella di Tobruk, riconosciuta da una parte della comunità internazionale, in cui ha avuto un ruolo di spicco il generale Khalifa Haftar, un ex ufficiale dell’esercito di Gheddafi. L’accordo è stato più volte annunciato, anche negli scorsi giorni, ma occorrerà verificarne il funzionamento.
Le esitazioni di Renzi, in questo caso, mi sembrano giustificate. Chi manderà i suoi soldati in Libia, senza la benedizione della comunità internazionale e il consenso di una parte significativa della società libica, correrà il rischio di finire tra due fuochi e di regalare qualche punto in più allo Stato Islamico. Sin dall’invasione americana dell’Iraq, nel 2003, i jihadisti hanno sempre usato gli interventi delle potenze occidentali per atteggiarsi a nemici degli infedeli, protettori dell’Islam, vendicatori delle umiliazioni subite dai Paesi arabi nel corso della loro storia. Sono questi gli argomenti nazional-religiosi con cui sono riusciti a reclutare in Europa e negli Stati Uniti un numero non indifferente di volontari.
Gli stessi argomenti non valgono invece per l’Iraq e per la Siria. Qui un intervento potrebbe contare sull’aiuto di tutti coloro che sono minacciatati dall’Isis: i sunniti fedeli al governo di Bagdad, gli sciiti, i curdi, gli yazidi, i cristiani e altre minoranze etnico-religiose. Il problema, se mai, è quello di creare, prima dell’intervento, una alleanza coerente ed efficace, non la variopinta coalizione di sessanta Paesi, spesso vantata dagli Stati Uniti, ma divisa da obiettivi diversi e strategie contrastanti. Per creare questa Alleanza, tuttavia, occorre sciogliere almeno due nodi strettamente intrecciati. Il primo è quello della transizione siriana, dal regime di Bashar Al Assad a una Siria in cui gli interessi degli attuali gruppi dirigenti non vengano ignorati. Il secondo è quello della Russia che in questa vicenda è un indispensabile alleato.
Corriere 11.12.15
La Siria e la Libia. Se e come intervenire
risponde Sergio Romano
L’Isis si sta spostando dalla Siria alla Libia, base ideale per i loro missili verso l’Italia. Attenzione: non sono quelli di Gheddafi, con scarsa gittata, che al massimo sfiorarono Lampedusa. Le misure messe in atto contro il nemico, sul nostro territorio, a che servono? Cosa si aspetta per intervenire con forze italiane, Nato, russe e non so quante e quali a difesa della Libia e all’eliminazione di questo «cancro»? Ma le sembra un Renzi qualsiasi, da solo, all’altezza di prendere decisioni simili? No, questo governo, purtroppo, è incapace di pensare, organizzare, coordinare e agire su questi problemi! E la sua voce, in Europa,... lasciamo perdere.
Leopoldo Chiappini
Caro Chiappini,
Non credo che il governo sia privo di una qualsiasi strategia libica. L’Italia potrebbe intervenire, secondo Renzi, soltanto nell’ambito di una iniziativa promossa dall’Onu e dopo un accordo fra le due fazioni che stanno governando la Libia: quella di Tripoli, di cui fa parte anche la Fratellanza musulmana, e quella di Tobruk, riconosciuta da una parte della comunità internazionale, in cui ha avuto un ruolo di spicco il generale Khalifa Haftar, un ex ufficiale dell’esercito di Gheddafi. L’accordo è stato più volte annunciato, anche negli scorsi giorni, ma occorrerà verificarne il funzionamento.
Le esitazioni di Renzi, in questo caso, mi sembrano giustificate. Chi manderà i suoi soldati in Libia, senza la benedizione della comunità internazionale e il consenso di una parte significativa della società libica, correrà il rischio di finire tra due fuochi e di regalare qualche punto in più allo Stato Islamico. Sin dall’invasione americana dell’Iraq, nel 2003, i jihadisti hanno sempre usato gli interventi delle potenze occidentali per atteggiarsi a nemici degli infedeli, protettori dell’Islam, vendicatori delle umiliazioni subite dai Paesi arabi nel corso della loro storia. Sono questi gli argomenti nazional-religiosi con cui sono riusciti a reclutare in Europa e negli Stati Uniti un numero non indifferente di volontari.
Gli stessi argomenti non valgono invece per l’Iraq e per la Siria. Qui un intervento potrebbe contare sull’aiuto di tutti coloro che sono minacciatati dall’Isis: i sunniti fedeli al governo di Bagdad, gli sciiti, i curdi, gli yazidi, i cristiani e altre minoranze etnico-religiose. Il problema, se mai, è quello di creare, prima dell’intervento, una alleanza coerente ed efficace, non la variopinta coalizione di sessanta Paesi, spesso vantata dagli Stati Uniti, ma divisa da obiettivi diversi e strategie contrastanti. Per creare questa Alleanza, tuttavia, occorre sciogliere almeno due nodi strettamente intrecciati. Il primo è quello della transizione siriana, dal regime di Bashar Al Assad a una Siria in cui gli interessi degli attuali gruppi dirigenti non vengano ignorati. Il secondo è quello della Russia che in questa vicenda è un indispensabile alleato.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
I GIORNI DEL KAOS
Repubblica 11.12.15
I 42 alleati del Califfo così il Leviatano jihadista ha cancellato i confini
I gruppi che hanno giurato fedeltà e obbedienza ad Al Baghdadi in tutto il mondo sono ormai più numerosi della coalizione che lo combatte
Tra i nuovi affiliati ci sono molte milizie radicali deluse dalla linea di Al Qaeda
L’obiettivo è creare un mega-Stato che vada oltre la continuità territoriale
di Renzo Guolo
TOGLIENDO dall’acronimo della sua vecchia sigla le due ultime lettere, l’allora Isis, ha realizzato un capolavoro politico. Escludendo ogni riferimento all’Iraq e alla Siria, e proponendosi, ‘solo’, come Stato Islamico il gruppo di Abu Bakr al Baghdadi ha osato l’inosabile. Rilanciando il mito di fondazione dell’islam, la cui comunità si vuole transnazionale. Rivelando l’ambizione di un attore politico e religioso che si vuole globale e si propone di dare nuova forma all’ordine mondiale attraverso l’abbattimento dei confini degli stati nazionali esistenti. Un assalto al cielo, che ha entusiasmato molti gruppi islamisti radicali insoddisfatti dalla linea di Al Qaeda, ritenuta insieme troppo proiettata sul lungo periodo e sullo scontro con il Nemico lontano: gli Stati Uniti. Una strategia che, grazie anche alla dimostrazione di forza dell’Is nella Mezzaluna fertile, ha condotto molti di quei gruppi a affiliarsi o a promettere obbedienza al Califfo Nero.
Sarebbero quarantadue secondo il Global Terrorism Index pubblicato dallo IEP. Dei quali trenta avrebbero fatto formale patto di obbedienza e dodici promesso fedelt à e sostegno a Al Baghdadi. Nella mappa geopolitica di membri e alleati dell’Is, spiccano il Medioriente e l’Africa, ma il vessillo nerocerchiato garrisce anche al vento dell’Oceano Pacifico, nelle Filippine, in Malesia o sui monti del Caucaso. L’adesione al Califfato dei singoli gruppi che operano nei contesti nazionali, consente a un attore dalle dichiarate ambizioni globali di perseguire l’obiettivo di una possibile continuitˆ territoriale. Se si guarda allo spazio in cui operano i ‘Quarantadue, due in più della colazione anti-Is, si pu˜ intravvedere una strategia che, in presenza di determinate condizioni, potrebbe dare forma a unÕunitˆ spaziale capace di far nascere un nuovo Leviatano islamista. Un mega-Stato che per popolazione e risorse energetiche, diventerebbe un ineludibile protagonista della scena mondiale.
Dalla Penisola Arabica sino ai territori palestinesi e all’Egitto, dove opera l’omonima Provincia del Sinai dell’Is, dalla Libia dove l’Is ha ormai una consolidata presenza a Sirte, alla Tunisia dei molti foreign fighters, dall’Algeria di Junda al Khalifah sino al Mali dove l’indebolimento dell’Aqmi ha fatto lievitare i gruppi filo- Califfato, sino al Nord della Nigeria dove opera quel Boko Haram, che ha ormai esteso il suo raggio d’azione a alcune aree del Camerun, del Niger e del Ciad, l’Is continua a raccogliere adesioni. Se alcune delle aree che costituiscono l’enorme heartland islamista radicale cadessero sotto il suo controllo altre, come in un effetto domino, seguirebbero lo stesso destino. In altri contesti, invece, i gruppi che guardano al Califfato devono fare i conti con una consolidata presenza qaedista. Se ai piedi della Montagna di Babele, il Caucaso dai molti popoli e lingue, l’Is guadagna spazi, nella regione afghano-pakistana, storico feudo di Al Qaeda, la sua penetrazione è, per il momento, meno rapida.
Il meccanismo dell’adesione diretta o della promessa di sostegno ha, dunque, nella strategia dell’Is, la funzione di costituire un unico fronte; di bypassare attraverso la politica delle alleanze quei confini che ne ostacolano la saldatura. Mostrando come ovunque si combatta la medesima battaglia. E puntando a unificare ciò che oggi si presenta a macchia di leopardo. Impresa assai difficile ma che certo non pare un ostacolo a chi guarda al mondo attraverso un’ideologia che tutto spiega e promette.
Repubblica 11.12.15
I 42 alleati del Califfo così il Leviatano jihadista ha cancellato i confini
I gruppi che hanno giurato fedeltà e obbedienza ad Al Baghdadi in tutto il mondo sono ormai più numerosi della coalizione che lo combatte
Tra i nuovi affiliati ci sono molte milizie radicali deluse dalla linea di Al Qaeda
L’obiettivo è creare un mega-Stato che vada oltre la continuità territoriale
di Renzo Guolo
TOGLIENDO dall’acronimo della sua vecchia sigla le due ultime lettere, l’allora Isis, ha realizzato un capolavoro politico. Escludendo ogni riferimento all’Iraq e alla Siria, e proponendosi, ‘solo’, come Stato Islamico il gruppo di Abu Bakr al Baghdadi ha osato l’inosabile. Rilanciando il mito di fondazione dell’islam, la cui comunità si vuole transnazionale. Rivelando l’ambizione di un attore politico e religioso che si vuole globale e si propone di dare nuova forma all’ordine mondiale attraverso l’abbattimento dei confini degli stati nazionali esistenti. Un assalto al cielo, che ha entusiasmato molti gruppi islamisti radicali insoddisfatti dalla linea di Al Qaeda, ritenuta insieme troppo proiettata sul lungo periodo e sullo scontro con il Nemico lontano: gli Stati Uniti. Una strategia che, grazie anche alla dimostrazione di forza dell’Is nella Mezzaluna fertile, ha condotto molti di quei gruppi a affiliarsi o a promettere obbedienza al Califfo Nero.
Sarebbero quarantadue secondo il Global Terrorism Index pubblicato dallo IEP. Dei quali trenta avrebbero fatto formale patto di obbedienza e dodici promesso fedelt à e sostegno a Al Baghdadi. Nella mappa geopolitica di membri e alleati dell’Is, spiccano il Medioriente e l’Africa, ma il vessillo nerocerchiato garrisce anche al vento dell’Oceano Pacifico, nelle Filippine, in Malesia o sui monti del Caucaso. L’adesione al Califfato dei singoli gruppi che operano nei contesti nazionali, consente a un attore dalle dichiarate ambizioni globali di perseguire l’obiettivo di una possibile continuitˆ territoriale. Se si guarda allo spazio in cui operano i ‘Quarantadue, due in più della colazione anti-Is, si pu˜ intravvedere una strategia che, in presenza di determinate condizioni, potrebbe dare forma a unÕunitˆ spaziale capace di far nascere un nuovo Leviatano islamista. Un mega-Stato che per popolazione e risorse energetiche, diventerebbe un ineludibile protagonista della scena mondiale.
Dalla Penisola Arabica sino ai territori palestinesi e all’Egitto, dove opera l’omonima Provincia del Sinai dell’Is, dalla Libia dove l’Is ha ormai una consolidata presenza a Sirte, alla Tunisia dei molti foreign fighters, dall’Algeria di Junda al Khalifah sino al Mali dove l’indebolimento dell’Aqmi ha fatto lievitare i gruppi filo- Califfato, sino al Nord della Nigeria dove opera quel Boko Haram, che ha ormai esteso il suo raggio d’azione a alcune aree del Camerun, del Niger e del Ciad, l’Is continua a raccogliere adesioni. Se alcune delle aree che costituiscono l’enorme heartland islamista radicale cadessero sotto il suo controllo altre, come in un effetto domino, seguirebbero lo stesso destino. In altri contesti, invece, i gruppi che guardano al Califfato devono fare i conti con una consolidata presenza qaedista. Se ai piedi della Montagna di Babele, il Caucaso dai molti popoli e lingue, l’Is guadagna spazi, nella regione afghano-pakistana, storico feudo di Al Qaeda, la sua penetrazione è, per il momento, meno rapida.
Il meccanismo dell’adesione diretta o della promessa di sostegno ha, dunque, nella strategia dell’Is, la funzione di costituire un unico fronte; di bypassare attraverso la politica delle alleanze quei confini che ne ostacolano la saldatura. Mostrando come ovunque si combatta la medesima battaglia. E puntando a unificare ciò che oggi si presenta a macchia di leopardo. Impresa assai difficile ma che certo non pare un ostacolo a chi guarda al mondo attraverso un’ideologia che tutto spiega e promette.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Corriere 12.11.15
Perché gli italiani non si sentono in guerra
Essere o non essere una nazione solida e determinata: è sempre stato il nostro dilemma
Dopo la strage di Parigi Nonostante l’attuale congiuntura il nostro Paese ha difficoltà a percepire il proprio ruolo bellico Ci sono ragioni storiche ma conta anche il tasso di soggettività che disperde ogni evento in una miriade di posizioni
di Giuseppe De Rita
«Siamo in guerra». «Chi, io?»[/b].
Se qualcuno volesse capire come l’italiano medio viva l’attuale drammatica congiuntura internazionale troverebbe la risposta più confacente proprio in quell’interrogativo, che ben riassume una radicata estraneità alle tensioni belliche.
C’è tutto l’italiano d’oggi, antico e postmoderno insieme, in quel dichiarare «non mi compete». C’è la quasi ingenua ammissione di non essere adeguatamente pugnace; c’è l’antica prudenza di star lontano, se possibile, dalla linea del fuoco; c’è la sottintesa cinica propensione al «se posso, svicolo»; c’è l'abitudine ad allontanare l’angoscia e il ricatto di chi fa dell’angoscia un'arma di guerra; c’è l’implicito trincerarsi nella quotidianità e nella costanza degli stili di vita; c’è la constatazione che è quasi impossibile decifrare e capire la complessità di quel che sta avvenendo; c’è la resistenza a farsi trascinare dalle altrui pulsioni (tutti ricordano che facemmo male a seguire Bush in Iraq e Sarkozy in Libia); e c’è in fondo un antico fatalismo verso gli eventi che non si possono dominare, magari con la riscoperta di un po’ di impaurita devozione creaturale (quante preghiere e quanti ex voto hanno costellato la nostra vita collettiva, dal ’40 al ’45!).
Essere o non essere una nazione solida e determinata. Questo è sempre stato il nostro dilemma, cui si può attribuire la frequente non eroica resistenza al «prendere armi contro un mare di guai e, combattendo, por fine ad essi». Oggi quella resistenza ritorna, mettendo in ombra e forse sottovalutando guai che per alcuni sono inseriti in un epocale scontro di civiltà, così violento da chiamare a una mobilitazione di massa, al limite anche bellica. Ma non opera soltanto la tradizione storica sotto tale resistenza; opera anche, e forse specialmente, la specifica evoluzione strutturale degli ultimi settant’anni, durante i quali, complici silenziosi la pace e la democrazia, siamo diventati una società ad alta, anzi altissima soggettività, dove ogni problematica viene ricondotta all’io individuale (mia è l’azienda, mio è il tempo, mio è il lavoro, mio il figlio, mio il corpo, mia addirittura la morte) in una grande frammentazione molecolare dei sentimenti e anche degli interessi. E a tale coazione egocentrica non può sfuggire un evento come la guerra (è difficile pensare un italiano che dica «la mia guerra»).
Se si pone attenzione a ciò, si capiscono facilmente le difficoltà che incontra la politica, stretta fra quella necessità di un collettivo noi (la nazione, l’Europa, l’Occidente) che è indispensabile per gestire i conflitti internazionali e la necessità di un consenso interno tutto condizionato dall’imperante soggettività dell’«io che c’entro?». Stretta, in altre parole, fra le spinte a schierarsi con alleati vecchi o nuovi e la vocazione a navigare prudentemente nei flutti degli avvenimenti. Dio non voglia che arrivi il momento in cui dovremo schierarci; e più ancora che ci si schieri con l’avventatezza dell’ultimo momento. Di solito non ci riesce bene.
Perché gli italiani non si sentono in guerra
Essere o non essere una nazione solida e determinata: è sempre stato il nostro dilemma
Dopo la strage di Parigi Nonostante l’attuale congiuntura il nostro Paese ha difficoltà a percepire il proprio ruolo bellico Ci sono ragioni storiche ma conta anche il tasso di soggettività che disperde ogni evento in una miriade di posizioni
di Giuseppe De Rita
«Siamo in guerra». «Chi, io?»[/b].
Se qualcuno volesse capire come l’italiano medio viva l’attuale drammatica congiuntura internazionale troverebbe la risposta più confacente proprio in quell’interrogativo, che ben riassume una radicata estraneità alle tensioni belliche.
C’è tutto l’italiano d’oggi, antico e postmoderno insieme, in quel dichiarare «non mi compete». C’è la quasi ingenua ammissione di non essere adeguatamente pugnace; c’è l’antica prudenza di star lontano, se possibile, dalla linea del fuoco; c’è la sottintesa cinica propensione al «se posso, svicolo»; c’è l'abitudine ad allontanare l’angoscia e il ricatto di chi fa dell’angoscia un'arma di guerra; c’è l’implicito trincerarsi nella quotidianità e nella costanza degli stili di vita; c’è la constatazione che è quasi impossibile decifrare e capire la complessità di quel che sta avvenendo; c’è la resistenza a farsi trascinare dalle altrui pulsioni (tutti ricordano che facemmo male a seguire Bush in Iraq e Sarkozy in Libia); e c’è in fondo un antico fatalismo verso gli eventi che non si possono dominare, magari con la riscoperta di un po’ di impaurita devozione creaturale (quante preghiere e quanti ex voto hanno costellato la nostra vita collettiva, dal ’40 al ’45!).
Essere o non essere una nazione solida e determinata. Questo è sempre stato il nostro dilemma, cui si può attribuire la frequente non eroica resistenza al «prendere armi contro un mare di guai e, combattendo, por fine ad essi». Oggi quella resistenza ritorna, mettendo in ombra e forse sottovalutando guai che per alcuni sono inseriti in un epocale scontro di civiltà, così violento da chiamare a una mobilitazione di massa, al limite anche bellica. Ma non opera soltanto la tradizione storica sotto tale resistenza; opera anche, e forse specialmente, la specifica evoluzione strutturale degli ultimi settant’anni, durante i quali, complici silenziosi la pace e la democrazia, siamo diventati una società ad alta, anzi altissima soggettività, dove ogni problematica viene ricondotta all’io individuale (mia è l’azienda, mio è il tempo, mio è il lavoro, mio il figlio, mio il corpo, mia addirittura la morte) in una grande frammentazione molecolare dei sentimenti e anche degli interessi. E a tale coazione egocentrica non può sfuggire un evento come la guerra (è difficile pensare un italiano che dica «la mia guerra»).
Se si pone attenzione a ciò, si capiscono facilmente le difficoltà che incontra la politica, stretta fra quella necessità di un collettivo noi (la nazione, l’Europa, l’Occidente) che è indispensabile per gestire i conflitti internazionali e la necessità di un consenso interno tutto condizionato dall’imperante soggettività dell’«io che c’entro?». Stretta, in altre parole, fra le spinte a schierarsi con alleati vecchi o nuovi e la vocazione a navigare prudentemente nei flutti degli avvenimenti. Dio non voglia che arrivi il momento in cui dovremo schierarci; e più ancora che ci si schieri con l’avventatezza dell’ultimo momento. Di solito non ci riesce bene.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
I GIORNI DEL KAOS
LA FESTA E' FINITA
CARI AMICI SIMMENTHAL, PREPARIAMOCI A FARE LA FINE DEL TOPO, ANCHE SE QUALCUNO HA GIA' INCROCIATO TEMPESTIVAMENTE LE DITA
Tutti in guerra, contro l’Isis (anzi, no: contro la Russia)
Scritto il 12/12/15 • nella Categoria: segnalazioni
Fingono, ancora una volta, di contrastare l’Isis.
Ma l’unico vero obiettivo da colpire è la Russia.
Per questo, il gioco si sta facendo pericoloso.
Ne è convinto Maurizio Blondet, secondo cui l’improvviso attivismo militare occidentale in Siria ha il solo scopo di proteggere “Daesh” e i suoi sponsor, cominciando dalla Turchia, e ostacolare l’offensiva di Mosca che ha costretto in ritirata le truppe del Califfo.
Di fatto, stiamo andando «alla guerra a passi da gigante», ma si tratta di un «gigante demente», che dopo l’atto di pirateria di Ankara – l’abbattimento del Sukhoi russo – ha deciso di schierare batterie di Patriot al confine tra Turchia e Siria, «come voleva Erdogan (e non aveva finora ottenuto)».
Peggio: la Nato vuole inglobare «il microscopico Montenegro (630 mila abitanti)» e lo coinvolge in esercitazioni militari in Ucraina col regime di Kiev, a cui ha già fornito armi letali.
Dal canto loro, gli ucraini si offrono di “aiutare la Turchia” con invio di «mais, girasole e petrolio», mentre la Francia si eclissa dietro gli Usa e si prepara a schierarsi con Germania e Gran Bretagna, pronte a effettuare, in Siria, bombardamenti non concertati con Mosca (contro cui Bruxelles, intanto, decide di protrarre le sanzioni).
«Cameron – scrive Blondet – ha ottenuto dal suo parlamento il via a “bombardare le basi Isis” in Siria e lo fa senza coordinarsi con i russi. In pratica, un atto di ostilità».
E la Ue ha deciso («a porte chiuse, senza consultare i parlamenti per volontà di Angela Merkel»), di prolungare le sanzioni contro Mosca.
«Che cosa precisamente la Ue rimproveri alla Russia, non si sa più».
Una cosa è evidente: «E’ la Nato a determinare totalmente la politica estera della Ue», commenta “Deutsche Wirtschaft Nachrichten”.
Berlino s’impegna per la prima volta a mandare i suoi Tornado a bombardare la Siria, «ormai chiaramente una operazione occidentale per ostacolare la vittoria russa contro l’Isis», anche se dei 93
Tornado che aveva in origine acquistato ne restano operativi solo 29, «aerei vecchi anche di 34 anni, considerati obsoleti».
Dei 68 Eurofighter più moderni, continua Blondet, ne restano operativi appena 37.
«Però anche Berlino ha annunciato che bombarderà “senza coordinarsi con la Russia”».
Conclusione: «La miserabile debolezza con cui gli europei si prestano a queste dementi provocazioni anti-Putin è dimostrata dal fatto che da quando Mosca ha posizionato gli S-400 per contrastare gli aerei turchi, la francese Charles De Gaulle ha smesso di “bombardare l’Isis”».
Sono trascorsi almeno otto o nove giorni senza incursioni sulla Siria: senza il permesso di Assad, lo stesso Hollande (che aveva promesso una “risposta spietata” dopo gli attentati di Parigi) non osa rischiare la sua unica portaerei, scrive Blondet.
«Per giorni, anzi, la Charles De Gaulle è stata introvabile.
Poi si è scoperto che aveva lasciato il Mediterraneo orientale per “rifugiarsi dietro i Patriots Usa in Turchia”».
Così Erdogan, «a cui non par vero di trovare ogni giorno più membri della Nato coinvolti nella sua sporca guerra», ha subito consentito ai caccia francesi di andare a “bombardare l’Isis” (e cioè intralciare i russi) dalla base turca di Incirlik.
«Insomma tutto l’Occidente, in perfetta malafede, è schierato a dar ragione ad Erdogan e a sostenere di fatto Daesh che cede sotto i colpi russi».
Secondo Blondet, il numero delle provocazioni è ormai troppo elevato, per non vedere una volontà precisa.
In più, «emerge che quando gli F-16 turchi abbatterono il Sukhoi, erano appoggiati da F-16 americani come deterrente per una rappresaglia russa».
Se è vero, «significa che Obama non ha alcuno scrupolo a cominciare un conflitto diretto con Mosca», ha commentato Michael Jabara Carley, docente di politica internazionale alll’Università di Montreal.
L’ultima provocazione, per il momento, è forse la più inquietante: «Due sommergibili turchi (Dolunay e Burakreis), scortati dall’incrociatore americano Uss Carney che porta missili balistici Aegis, stanno tallonando la nave da guerra Moskva, armata di missili S-300, al largo di Cipro, in acque internazionali».
La cosa è allarmante, sostiene Blondet, perché può essere il preludio alla ritorsione più temuta da Mosca fin dai tempi degli Zar: che la Turchia chiuda alla navigazione russa il Bosforo e i Dardanelli.
Il premier turco Davutoglu ha minacciato: «Anche la Russia ha da molto da perdere», da eventuali contro-sanzioni.
Se Erdogan chiudesse gli stretti, violerebbe la convenzione internazionale di Montreux, sulla libertà di navigazione, che risale al 1936.
In quale sede potrebbe protestare, Mosca? L’Onu? L’Europa?
La chiusura degli Stretti renderebbe arduo l’impegno militare russo in Siria.
Una trappola pericolosa, secondo Blondet: ricorda le sanzioni con cui Roosevelt lasciò il Giappone con riserve di petrolio per soli 8 mesi, spingendolo in guerra: «E fu l’attesa, auspicata, desideratissima Pearl Harbor».
LA FESTA E' FINITA
CARI AMICI SIMMENTHAL, PREPARIAMOCI A FARE LA FINE DEL TOPO, ANCHE SE QUALCUNO HA GIA' INCROCIATO TEMPESTIVAMENTE LE DITA
Tutti in guerra, contro l’Isis (anzi, no: contro la Russia)
Scritto il 12/12/15 • nella Categoria: segnalazioni
Fingono, ancora una volta, di contrastare l’Isis.
Ma l’unico vero obiettivo da colpire è la Russia.
Per questo, il gioco si sta facendo pericoloso.
Ne è convinto Maurizio Blondet, secondo cui l’improvviso attivismo militare occidentale in Siria ha il solo scopo di proteggere “Daesh” e i suoi sponsor, cominciando dalla Turchia, e ostacolare l’offensiva di Mosca che ha costretto in ritirata le truppe del Califfo.
Di fatto, stiamo andando «alla guerra a passi da gigante», ma si tratta di un «gigante demente», che dopo l’atto di pirateria di Ankara – l’abbattimento del Sukhoi russo – ha deciso di schierare batterie di Patriot al confine tra Turchia e Siria, «come voleva Erdogan (e non aveva finora ottenuto)».
Peggio: la Nato vuole inglobare «il microscopico Montenegro (630 mila abitanti)» e lo coinvolge in esercitazioni militari in Ucraina col regime di Kiev, a cui ha già fornito armi letali.
Dal canto loro, gli ucraini si offrono di “aiutare la Turchia” con invio di «mais, girasole e petrolio», mentre la Francia si eclissa dietro gli Usa e si prepara a schierarsi con Germania e Gran Bretagna, pronte a effettuare, in Siria, bombardamenti non concertati con Mosca (contro cui Bruxelles, intanto, decide di protrarre le sanzioni).
«Cameron – scrive Blondet – ha ottenuto dal suo parlamento il via a “bombardare le basi Isis” in Siria e lo fa senza coordinarsi con i russi. In pratica, un atto di ostilità».
E la Ue ha deciso («a porte chiuse, senza consultare i parlamenti per volontà di Angela Merkel»), di prolungare le sanzioni contro Mosca.
«Che cosa precisamente la Ue rimproveri alla Russia, non si sa più».
Una cosa è evidente: «E’ la Nato a determinare totalmente la politica estera della Ue», commenta “Deutsche Wirtschaft Nachrichten”.
Berlino s’impegna per la prima volta a mandare i suoi Tornado a bombardare la Siria, «ormai chiaramente una operazione occidentale per ostacolare la vittoria russa contro l’Isis», anche se dei 93
Tornado che aveva in origine acquistato ne restano operativi solo 29, «aerei vecchi anche di 34 anni, considerati obsoleti».
Dei 68 Eurofighter più moderni, continua Blondet, ne restano operativi appena 37.
«Però anche Berlino ha annunciato che bombarderà “senza coordinarsi con la Russia”».
Conclusione: «La miserabile debolezza con cui gli europei si prestano a queste dementi provocazioni anti-Putin è dimostrata dal fatto che da quando Mosca ha posizionato gli S-400 per contrastare gli aerei turchi, la francese Charles De Gaulle ha smesso di “bombardare l’Isis”».
Sono trascorsi almeno otto o nove giorni senza incursioni sulla Siria: senza il permesso di Assad, lo stesso Hollande (che aveva promesso una “risposta spietata” dopo gli attentati di Parigi) non osa rischiare la sua unica portaerei, scrive Blondet.
«Per giorni, anzi, la Charles De Gaulle è stata introvabile.
Poi si è scoperto che aveva lasciato il Mediterraneo orientale per “rifugiarsi dietro i Patriots Usa in Turchia”».
Così Erdogan, «a cui non par vero di trovare ogni giorno più membri della Nato coinvolti nella sua sporca guerra», ha subito consentito ai caccia francesi di andare a “bombardare l’Isis” (e cioè intralciare i russi) dalla base turca di Incirlik.
«Insomma tutto l’Occidente, in perfetta malafede, è schierato a dar ragione ad Erdogan e a sostenere di fatto Daesh che cede sotto i colpi russi».
Secondo Blondet, il numero delle provocazioni è ormai troppo elevato, per non vedere una volontà precisa.
In più, «emerge che quando gli F-16 turchi abbatterono il Sukhoi, erano appoggiati da F-16 americani come deterrente per una rappresaglia russa».
Se è vero, «significa che Obama non ha alcuno scrupolo a cominciare un conflitto diretto con Mosca», ha commentato Michael Jabara Carley, docente di politica internazionale alll’Università di Montreal.
L’ultima provocazione, per il momento, è forse la più inquietante: «Due sommergibili turchi (Dolunay e Burakreis), scortati dall’incrociatore americano Uss Carney che porta missili balistici Aegis, stanno tallonando la nave da guerra Moskva, armata di missili S-300, al largo di Cipro, in acque internazionali».
La cosa è allarmante, sostiene Blondet, perché può essere il preludio alla ritorsione più temuta da Mosca fin dai tempi degli Zar: che la Turchia chiuda alla navigazione russa il Bosforo e i Dardanelli.
Il premier turco Davutoglu ha minacciato: «Anche la Russia ha da molto da perdere», da eventuali contro-sanzioni.
Se Erdogan chiudesse gli stretti, violerebbe la convenzione internazionale di Montreux, sulla libertà di navigazione, che risale al 1936.
In quale sede potrebbe protestare, Mosca? L’Onu? L’Europa?
La chiusura degli Stretti renderebbe arduo l’impegno militare russo in Siria.
Una trappola pericolosa, secondo Blondet: ricorda le sanzioni con cui Roosevelt lasciò il Giappone con riserve di petrolio per soli 8 mesi, spingendolo in guerra: «E fu l’attesa, auspicata, desideratissima Pearl Harbor».
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Re: La Terza Guerra Mondiale
I GIORNI DEL KAOS
Caos, petrolio e reperti archeologici ecco la nuova patria del Califfato
(RENZO GUOLO)
12/12/2015 di triskel182
https://triskel182.wordpress.com/2015/1 ... nzo-guolo/
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12/12/2015 di triskel182
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