La Terza Guerra Mondiale
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Non ci sarà mai un'equa redistribuzione degli "invasori", il piano yankee è semplice: mettere in ginocchio l'Europa sul piano economico e sociale per averla arrendevole, ubbidiente e sottomessa quando ci sarà la guerra (imminente) contro la Russia. Gli USA vogliono la 3°GM ma limitata all'Europa senza uso massiccio di armi nucleari per salvarsi il c**o e non implodere economicamente nel giro di pochi anni. I governanti europei non capiscono o sono talmente corrotti da far finta di non capire così come il popolino che viene distratto da altre cose.
L'unica salvezza sarebbe l'abbandono in massa da parte europea della NATO e la chiusura delle basi yankee in Europa costringendo gli Yankee a combattere direttamente loro e soprattutto a casa loro i russi e i cinesi.
L'Europa dovrebbe prendere l'iniziativa di spedire i profughi dall'altra parte dell'Atlantico, se li cibino coloro che hanno creato ad hoc il "casino" e non i paesi mediterranei.
L'unica salvezza sarebbe l'abbandono in massa da parte europea della NATO e la chiusura delle basi yankee in Europa costringendo gli Yankee a combattere direttamente loro e soprattutto a casa loro i russi e i cinesi.
L'Europa dovrebbe prendere l'iniziativa di spedire i profughi dall'altra parte dell'Atlantico, se li cibino coloro che hanno creato ad hoc il "casino" e non i paesi mediterranei.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
I GIORNI DEL KAOS
Libia, il pressing Usa su Renzi: "Ci aspettiamo 5mila uomini"
La linea del governo Renzi resta quella della prudenza. Ma Washington chiede un intervento militare: "Occorre rendere Tripoli un posto sicuro e far in modo che l'Isis non si più libero di colpire"
Sergio Rame - Ven, 04/03/2016 - 08:58
commenta
Il Consiglio dei ministri ieri mattina si è aperto proprio con la notizia dei due italiani uccisi in Libia.
Con il dolore di Matteo Renzi espresso ai ministri, con la conferma che la situazione rischia di essere sempre più esplosiva. "Questo tipo di tragedie, con criminali e terroristi che rapiscono persone per riscatti e le usano come scudi umani - dice al Corriere della Sera l'ambasciatore degli Stati Uniti a Roma John R. Phillips - sottolineano l'esigenza di indurre i libici a concordare un governo di unità nazionale per ristabilire la sicurezza e avere uno stato di diritto". La linea dell'esecutivo resta quella della prudenza. Il premier, spiegano fonti parlamentari, ne ha parlato con Paolo Gentiloni e Angelino Alfano, esaminando tutti i rischi di una escalation delle violenze nel territorio libico.
John R. Phillips spiega anche che l'America sta lavorando "accuratamente" con l'Italia. "La mancanza di un governo stabile ha reso la Libia un posto attraente per i terroristi - continua - non possiamo forzare un accordo, però si va verso un governo di unità nazionale che, sulla base della risoluzione dell'Onu, potrà domandare al vostro Paese e ad altri di andare a Tripoli per creare isole di stabilità e progredire da queste. La Libia è la maggiore priorità per voi ed è molto importante anche per noi - incalza - è importante che prendiate la guida dell'azione internazionale". Il diplomatico americano chiede all'Italia un impegno per cinquemila soldati: "Occorre rendere Tripoli un posto sicuro e far in modo che l'Isis non si più libero di colpire". Sul contributo statunitense, invece, fa sapere che uno dei sostegni sarà l'intelligence, mentre Washington non ha ancora discusso dell'invio di truppe.
Sul tavolo c'è anche l'ipotesi di utilizzare la base di Sigonella per fare missioni militari sulla Libia. Ma Sigonella è solo una delle numerose basi in cui gli americani collaborano. "Abbiamo da voi 16 mila militari, con i famigliari 32 mila persone - spiega John R. Phillips - i militari l'anno scorso sono aumentati di un migliaio". "In Iraq - aggiunge Phillips - l'Italia è uno dei migliori partner, questo mese o il prossimo risulterà il secondo Paese per contributo allo sforzo di 28 nazioni contro l'Isis. Non abbiamo altro che complimentarci per quanto fa, a bombardare penseranno altri"
Libia, il pressing Usa su Renzi: "Ci aspettiamo 5mila uomini"
La linea del governo Renzi resta quella della prudenza. Ma Washington chiede un intervento militare: "Occorre rendere Tripoli un posto sicuro e far in modo che l'Isis non si più libero di colpire"
Sergio Rame - Ven, 04/03/2016 - 08:58
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Il Consiglio dei ministri ieri mattina si è aperto proprio con la notizia dei due italiani uccisi in Libia.
Con il dolore di Matteo Renzi espresso ai ministri, con la conferma che la situazione rischia di essere sempre più esplosiva. "Questo tipo di tragedie, con criminali e terroristi che rapiscono persone per riscatti e le usano come scudi umani - dice al Corriere della Sera l'ambasciatore degli Stati Uniti a Roma John R. Phillips - sottolineano l'esigenza di indurre i libici a concordare un governo di unità nazionale per ristabilire la sicurezza e avere uno stato di diritto". La linea dell'esecutivo resta quella della prudenza. Il premier, spiegano fonti parlamentari, ne ha parlato con Paolo Gentiloni e Angelino Alfano, esaminando tutti i rischi di una escalation delle violenze nel territorio libico.
John R. Phillips spiega anche che l'America sta lavorando "accuratamente" con l'Italia. "La mancanza di un governo stabile ha reso la Libia un posto attraente per i terroristi - continua - non possiamo forzare un accordo, però si va verso un governo di unità nazionale che, sulla base della risoluzione dell'Onu, potrà domandare al vostro Paese e ad altri di andare a Tripoli per creare isole di stabilità e progredire da queste. La Libia è la maggiore priorità per voi ed è molto importante anche per noi - incalza - è importante che prendiate la guida dell'azione internazionale". Il diplomatico americano chiede all'Italia un impegno per cinquemila soldati: "Occorre rendere Tripoli un posto sicuro e far in modo che l'Isis non si più libero di colpire". Sul contributo statunitense, invece, fa sapere che uno dei sostegni sarà l'intelligence, mentre Washington non ha ancora discusso dell'invio di truppe.
Sul tavolo c'è anche l'ipotesi di utilizzare la base di Sigonella per fare missioni militari sulla Libia. Ma Sigonella è solo una delle numerose basi in cui gli americani collaborano. "Abbiamo da voi 16 mila militari, con i famigliari 32 mila persone - spiega John R. Phillips - i militari l'anno scorso sono aumentati di un migliaio". "In Iraq - aggiunge Phillips - l'Italia è uno dei migliori partner, questo mese o il prossimo risulterà il secondo Paese per contributo allo sforzo di 28 nazioni contro l'Isis. Non abbiamo altro che complimentarci per quanto fa, a bombardare penseranno altri"
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Sondaggi, guerra in Libia: i contrari sono in maggioranza. “Controproducente e inutile”. Ma a favore 2 elettori Lega su 3
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/03 ... 3/2518891/
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Re: La Terza Guerra Mondiale
TIRATI IN GUERRA Il governo prova a resistere, l’esercito intanto si prepara
Usa a Renzi: “Armiamoci e partite”
Pretendono 5mila italiani in Libia
La richiesta L’ambasciatore degli Stati Uniti chiede all’Italia
di prendere la guida della coalizione e di fornire militari
Cinquemila pessimi
motivi di un conflitto
fatto per procura
» FABIO MINI
Mentre i nostri militari
studiano le opzioni
d’intervento in Libia e
approntano le forze
ritenute necessarie, sentono il
dovere di lasciar trapelare indiscrezioni
su quanto in allestimento.
Ai media viene propinato
il solito stampone ben noto ai pianificatori
militari: la missione in
Libia sarà di livello divisione (come
tutte quelle in atto) con aerei
che volano, barche che navigano,
soldati che marciano, incursori
che s’infiltrano, genieri che fanno
esplodere ordigni e trasmettitori
che trasmettono alle dipendenze
de ll’ovvio Comando Operativo
Interforze (Coi). Non una parola
su cosa fare, in quale settore e con
quali fini, salvo la generica lotta
a ll ’Isis. Un aspetto nuovo e per
certi versi preoccupante è il condizionale
sugli altri partecipanti
alla coalizione. Il che significa
che la struttura preparata è indipendente
da quella degli alleati,
sempre che ci siano, e forse a prescindere.
Gli stati maggiori, da
bravi esecutori, stanno cercando
di dare una mano a un governo
strattonato da tutte le parti.
L’AMBA SCIATORE ame rica no
John Phillips ha dichiarato di aspettarsi
dall'Italia 5.000 uomini.
Questo numero, detto da lui, è diventato
una specie di obbligo, e
infatti la pianificazione militare
parla di 4-5000 uomini. È lo stesso
numero annunciato dal ministero
della Difesa nella sua prima
fase di rambismo subito seguita
da quella di pacifismo. Un numero
che è una specie di banalità per
una nazione che ha quasi 300.000
uomini in armi e che negli ultimi
v en t’anni è arrivata ad avere
10mila combattenti schierati
all’estero.
Dal suo punto di vista, l’amba -
sciatore Philips ha ragione: gli americani
sono capaci di fare cose
inaudite soltanto perché hanno
uomini pronti a farle. Ma noi non
siamo americani e l’ambasciatore
lascia trasparire l’i ns o ff e re nz a
nei riguardi di un Paese e di una
politica che continuano a fare annunci
di successi “straordinari” e
rivendicano una leadership militare
in campo internazionale indugiando
nelle chiacchiere. Sfortunatamente
non c'è alcuna strategia
libica perchè non c'è alcuna
strategia nazionale. Abbiamo
smesso di considerare tra gli strumenti
della politica quelli militari
che non necessariamente devono
svolgere aggressioni armate, invasioni
o missioni di combattimento.
SEMMAI È ANCORA una volta una
questione di “sfiga”: il nostro governo
ha puntato sulla leadership
delle operazionimilitari nelMediterraneo
pensando ai “ba rconi”.
Ha parlato di bombardarli, di
eliminarli con i droni e sabotarli
con gli incursori, mentre le navi
militari avrebbero salvato i superstiti.
In queste operazioni il
ruolo guida poteva essere svolto
con facilità e tanto da guadagnare
in prestigio. La iella ha voluto che
nello stesso periodo i conflitti
provocati dall’insipienza nostra e
dei nostri alleati perdessero la patina
romantica della rivoluzione
colorata o profumata ed emanassero
il lezzo delle guerre più odiose.
Nessuno si è trovato preparato,
ma mentre alcuni Paesi hanno
reagito subito con le armi, da noi è
prevalsa la “moderazione”. Le obiezioni
agli interventi armati
non riguardano la palese mancanza
di strategia ma l’assenza di
“presupposti” (si presume legali)
per l'intervento, il rischio di avere
morti, di esacerbare l'Isis, di danneggiare
i nostri impianti petroliferi
o di diventare obiettivi di attacchi
terroristici. Tutte cose giuste,
ma che non abbiamo considerato
quando siamo andati in Somalia,
in Afghanistan, in Iraq e
quando, nei Balcani e nella stessa
Libia.
La sfiga ha fatto scomparire anche
il paravento che ci ha consentito
di fare guerre altrui spacciandole
per interventi umanitari o di
polizia internazionale: la Nato.
Seguendo la linea degli Usa e dei
paesi nordici, la Nato si è sfilata
dalle operazioni nel Mediterraneo
lasciando intendere che le
crisi del bacino sono affari “loca -
li” degli Stati del Sud e che semmai
occorrerebbe agire in Medioriente
contro la Russia, la Siria e
l'Iran. La stessa politica è perseguita
dalla Turchia che fa di tutto
per trascinare la Nato in un confronto
diretto con la Russia. Le
nazioni più sensibili allo stile coloniale,
Gran Bretagna e Francia,
o quelle neo-coloniali o autarchiche,
come Egitto, Marocco, Arabia
Saudita e Turchia hanno buon
gioco nel dettare le proprie agende
con il sostegno dell’intelligen -
ce e della copertura aerea Usa.
IL COLMO della sfiga per i nostri
governanti è che gli americani
hanno già deciso cosa fare della
Libia: se non si realizza un governo
di unità nazionale o se questo
non supera la prova della stabilizzazione
(cosa data per certa) la Libia
sarà smembrata. Le aree sotto
il controllo delle milizie di Tobruk
e Tripoli saranno prede di
guerra di Stati Uniti, Gran Bretagna
e Francia. Il resto del Paese
rimarrà il guazzabuglio distribuito
fra i 140 clan che di fatto lo tengono
in ostaggio. I nostri 5.000
soldati dovrebbero andare lì e vedersela
con tutti, comprese le
bande dell'Isis. Auguri.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Usa a Renzi: “Armiamoci e partite”
Pretendono 5mila italiani in Libia
La richiesta L’ambasciatore degli Stati Uniti chiede all’Italia
di prendere la guida della coalizione e di fornire militari
Cinquemila pessimi
motivi di un conflitto
fatto per procura
» FABIO MINI
Mentre i nostri militari
studiano le opzioni
d’intervento in Libia e
approntano le forze
ritenute necessarie, sentono il
dovere di lasciar trapelare indiscrezioni
su quanto in allestimento.
Ai media viene propinato
il solito stampone ben noto ai pianificatori
militari: la missione in
Libia sarà di livello divisione (come
tutte quelle in atto) con aerei
che volano, barche che navigano,
soldati che marciano, incursori
che s’infiltrano, genieri che fanno
esplodere ordigni e trasmettitori
che trasmettono alle dipendenze
de ll’ovvio Comando Operativo
Interforze (Coi). Non una parola
su cosa fare, in quale settore e con
quali fini, salvo la generica lotta
a ll ’Isis. Un aspetto nuovo e per
certi versi preoccupante è il condizionale
sugli altri partecipanti
alla coalizione. Il che significa
che la struttura preparata è indipendente
da quella degli alleati,
sempre che ci siano, e forse a prescindere.
Gli stati maggiori, da
bravi esecutori, stanno cercando
di dare una mano a un governo
strattonato da tutte le parti.
L’AMBA SCIATORE ame rica no
John Phillips ha dichiarato di aspettarsi
dall'Italia 5.000 uomini.
Questo numero, detto da lui, è diventato
una specie di obbligo, e
infatti la pianificazione militare
parla di 4-5000 uomini. È lo stesso
numero annunciato dal ministero
della Difesa nella sua prima
fase di rambismo subito seguita
da quella di pacifismo. Un numero
che è una specie di banalità per
una nazione che ha quasi 300.000
uomini in armi e che negli ultimi
v en t’anni è arrivata ad avere
10mila combattenti schierati
all’estero.
Dal suo punto di vista, l’amba -
sciatore Philips ha ragione: gli americani
sono capaci di fare cose
inaudite soltanto perché hanno
uomini pronti a farle. Ma noi non
siamo americani e l’ambasciatore
lascia trasparire l’i ns o ff e re nz a
nei riguardi di un Paese e di una
politica che continuano a fare annunci
di successi “straordinari” e
rivendicano una leadership militare
in campo internazionale indugiando
nelle chiacchiere. Sfortunatamente
non c'è alcuna strategia
libica perchè non c'è alcuna
strategia nazionale. Abbiamo
smesso di considerare tra gli strumenti
della politica quelli militari
che non necessariamente devono
svolgere aggressioni armate, invasioni
o missioni di combattimento.
SEMMAI È ANCORA una volta una
questione di “sfiga”: il nostro governo
ha puntato sulla leadership
delle operazionimilitari nelMediterraneo
pensando ai “ba rconi”.
Ha parlato di bombardarli, di
eliminarli con i droni e sabotarli
con gli incursori, mentre le navi
militari avrebbero salvato i superstiti.
In queste operazioni il
ruolo guida poteva essere svolto
con facilità e tanto da guadagnare
in prestigio. La iella ha voluto che
nello stesso periodo i conflitti
provocati dall’insipienza nostra e
dei nostri alleati perdessero la patina
romantica della rivoluzione
colorata o profumata ed emanassero
il lezzo delle guerre più odiose.
Nessuno si è trovato preparato,
ma mentre alcuni Paesi hanno
reagito subito con le armi, da noi è
prevalsa la “moderazione”. Le obiezioni
agli interventi armati
non riguardano la palese mancanza
di strategia ma l’assenza di
“presupposti” (si presume legali)
per l'intervento, il rischio di avere
morti, di esacerbare l'Isis, di danneggiare
i nostri impianti petroliferi
o di diventare obiettivi di attacchi
terroristici. Tutte cose giuste,
ma che non abbiamo considerato
quando siamo andati in Somalia,
in Afghanistan, in Iraq e
quando, nei Balcani e nella stessa
Libia.
La sfiga ha fatto scomparire anche
il paravento che ci ha consentito
di fare guerre altrui spacciandole
per interventi umanitari o di
polizia internazionale: la Nato.
Seguendo la linea degli Usa e dei
paesi nordici, la Nato si è sfilata
dalle operazioni nel Mediterraneo
lasciando intendere che le
crisi del bacino sono affari “loca -
li” degli Stati del Sud e che semmai
occorrerebbe agire in Medioriente
contro la Russia, la Siria e
l'Iran. La stessa politica è perseguita
dalla Turchia che fa di tutto
per trascinare la Nato in un confronto
diretto con la Russia. Le
nazioni più sensibili allo stile coloniale,
Gran Bretagna e Francia,
o quelle neo-coloniali o autarchiche,
come Egitto, Marocco, Arabia
Saudita e Turchia hanno buon
gioco nel dettare le proprie agende
con il sostegno dell’intelligen -
ce e della copertura aerea Usa.
IL COLMO della sfiga per i nostri
governanti è che gli americani
hanno già deciso cosa fare della
Libia: se non si realizza un governo
di unità nazionale o se questo
non supera la prova della stabilizzazione
(cosa data per certa) la Libia
sarà smembrata. Le aree sotto
il controllo delle milizie di Tobruk
e Tripoli saranno prede di
guerra di Stati Uniti, Gran Bretagna
e Francia. Il resto del Paese
rimarrà il guazzabuglio distribuito
fra i 140 clan che di fatto lo tengono
in ostaggio. I nostri 5.000
soldati dovrebbero andare lì e vedersela
con tutti, comprese le
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Non credete a quelle bombe: sanno quando esploderanno
Scritto il 06/3/16 • nella Categoria: segnalazioni
Se sentite parlare di un’esercitazione antiterrorismo, fate come dice Crozza: portate via i coglioni, e alla svelta!». Parola di Massimo Mazzucco. «Attenzione: i terroristi esistono, le bombe esplodono davvero e le vittime muoiono. Il problema è chi li crea, i terroristi, chi li manipola: capire quello che c’è dietro. Abbiamo un problema, sì. Ed è l’informazione, che da molti anni non fa più il suo dovere». Non vede, non sente, non parla. Soprattutto, non ricorda. Finge di non accorgersi che il copione è sempre lo stesso: esercitazione “antiterrorismo” e attentato concomitante, guardacaso, proprio lì, a quell’ora. A seguire: cattura immediata del “patsy”, il colpevole di comodo, regolarmente incastrato a tempo di record e col medesimo sistema: l’ingenuo aveva portato con sé il passaporto e, combinazione, l’aveva dimenticato proprio sul luogo dell’attentato. Succede da decenni, dice Mazzucco, e nessuno ci fa caso. Teoria e pratica del “terrorismo fatto in casa”, da Jfk in poi, fino alle Torri Gemelle, agli attentati di Londra e a quelli di Parigi. Succede sempre. E nessuno lo denuncia, perché «è più comodo, per la carriera di tutti».
Strategia della tensione, istruzioni per l’uso: Mazzucco, giornalista e regista di importanti documentari sull’11 Settembre (“Inganno globale”, “La nuova Pearl Harbor”) fornisce una sintesi sconcertante, in una recente conferenza in Friuli ripresa sul blog “Luogo Comune”. Tema: le modalità sistematiche con cui si ripetono i più recenti attentati, destinati – sempre – a impressionare profondamente il pubblico, diffondendo un senso generale di paura e insicurezza. «Pazienza se il pubblico non si accorge di essere preso in giro: il guaio è che sono i giornalisti a far finta di niente, come se non si accorgessero della ripetitività della trama», a partire dai primi due aspetti che saltano immediatamente all’occhio, l’esercitazione concomitante e la comparsa del “patsy”. Primo: «Quando c’è un attentato, c’è sempre la presenza contemporanea di esercitazioni di forze speciali che fanno esattamente, per finta, quello che poi succede davvero». Secondo: in brevissimo tempo, anche solo poche ore, viene individuato il “colpevole presunto”, perfetto per distrarre i media dalla scena del crimine: da quel momento, giornali e televisioni si occuperanno solo della biografia dell’arrestato, tralasciando di analizzare la dinamica reale degli eventi.
Fa scuola, naturalmente, l’11 Settembre, con una decina di esercitazioni dell’aviazione programmate quella mattina, nonostante i ripetuti allarmi ricevuti dai servizi segreti di mezzo mondo, che da mesi parlavano di possibili attentati negli Usa, per giunta proprio con aerei di linea dirottati. Sicché, alcune di quelle esercitazioni prevedevano esattamente l’intervento dei caccia contro voli dirottati – ma nei cieli del Canada e dell’Alaska: a difendere il quadrante nord-est degli Stati Uniti, quello di New York e Washington, c’erano solo 4 intercettori. Troppo pochi, per districarsi nel caos che faceva impazzire i radar: «C’era in volo almeno il triplo dei velivoli, e gli addetti alla sicurezza non sapevano quali fossero quelli dirottati e quali no». Oltre ad allontanare i caccia e a creare confusione, secondo il giornalista investigativo Webster Tarpley le esercitazioni aeree programmate proprio quel giorno servivano anche a controllare dall’interno i computer della sicurezza, depistando le operazioni, grazie all’accesso diretto ai monitor della difesa, dietro a cui stavano ignare sentinelle. In più, quella mattina – stranamente – il grado di allerta era stato declassato a “normale”, il livello più basso. «Coincidenze o barzellette».
Poi ci sono gli attentati a terra, i più diffusi. «Immancabile, la simultanea esercitazione antiterrorismo». Comodissima, peraltro: «Intanto perché qualcuno deve piazzarla, la bomba: se per caso viene colto in flagrante, può sempre dire che fa parte dell’esercitazione. Poi la bomba scoppia davvero, e un minuto dopo si sprecano le dichiarazioni di stupore: che combinazione, dicono tutti, è successo proprio mentre eravamo lì. E infine, proprio perché erano già lì – forze di sicurezza, soccorritori, ambulanze – si fa anche bella figura, soccorsi immediati e rapidissima cattura del “colpevole”». Sempre secondo Mazzucco, un caso da manuale è quello dei devastanti attentati dinamitardi di Londra, 7 luglio 2005: colpiti tre convogli della metropolitana e un autobus, 56 morti e 700 feriti. «In tutte e quattro le situazioni erano in corso esercitazioni anti-bomba. Dai responsabili della sicurezza, ovviamente “meravigliati” per la straordinaria coincidenza, giunse anche un’excusatio non petita: dissero che i loro uomini erano presenti in quei luoghi non a caso, ma per proteggere la City finanziaria». E attenzione: «In quelle ore, a Edimburgo, era in corso il G8: quale prefetto autorizzerebbe mai una esercitazione antiterrorismo nello stesso giorno in cui nel tuo paese è in corso un G8? Impensabile».
Stessa dinamica negli Usa dieci anni prima, il 19 aprile ‘95. Oklahoma City: camion-bomba contro un edificio federale, il Murrah Building. Secondo la versione ufficiale, il veicolo era stato imbottito con oltre 2.300 chili di fertilizzante. Una strage: 168 morti, tra cui 19 bambini, e 680 feriti. Il più sanguinoso attentato terroristico entro i confini degli Stati Uniti prima dell’11 Settembre. «Mai, fino ad allora, gli americani si erano sentiti così vulnerabili», annota Mazzucco. «Furono le prove generali, per testare l’opinione pubblica prima del super-attentato delle Twin Towers?». Quella volta niente arabi, ma un estremista di destra, Timothy McVeigh, veterano della guerra del Golfo, arrestato e poi giustiziato sei anni dopo con iniezione letale. E l’esercitazione concomitante? C’era, naturalmente: Alex Jones, titolare dell’importante sito web “Prison Planet”, spiega che a Oklahoma City, nello stesso momento, erano in corso esercitazioni anti-bomba della polizia federale. Un’altra straordinaria coincidenza.
Idem alla maratona di Boston, 15 aprile 2013: «Proprio sulla linea del traguardo – ricorda Mazzucco – si stava svolgendo un’esercitazione con cani anti-bomba». Gli altoparlanti ripetono l’annuncio, per il pubblico in apprensione che osserva le squadre di sicurezza: «Non preoccupatevi, è solo un’esercitazione». Tre secondi dopo l’ultimo annuncio, scoppia la bomba: 3 morti e 264 feriti. Dagli Stati Uniti alla Francia: Parigi, 13 novembre 2015, la carneficina del teatro Bataclan, 137 morti e 368 feriti. «L’indomani – rileva Mazzucco – il capo della protezione civile va in televisione e dice: ma tu guarda, proprio ieri mattina stavamo facendo un’esercitazione negli stessi posti. Una fortuna, per l’efficienza dei soccorsi». Ultimo capitolo, la mattanza di San Bernardino, California, 2 dicembre 2015. Marito e moglie sparano su un centro per disabili: 14 morti e 13 feriti. «E cos’era in corso, proprio lì, un attimo prima dell’attentato? L’esercitazione “Active Shooter”», sottolinea Mazzucco. «Non solo ci prendono in giro, ma contano sul fatto che non abbiamo memoria, capacità di collegare i fatti. Noi pazienza, ma i giornalisti dovrebbero farlo per mestiere: invece tacciono, guardano da un’altra parte, altrimenti perdono il lavoro».
E’ successo ad Andrew “Judge” Napolitano, conduttore di una famosa trasmissione a “Fox News”: licenziato, dopo aver denunciato il ruolo dell’Fbi nella formazione e nell’assistenza dei terroristi di Oklahoma City. Stranamente, dopo aver fatto quel servizio, è stato liquidato. Napolitano parlava anche di 17 casi apparentemente sventati dall’Fbi, dove – diceva – era stata la stessa Fbi a infiltrare aspiranti terroristi, convincendoli: «Hanno reclutato islamici, giovani incazzati, e li hanno covinti ad agire, spiegando loro che avrebbero potuto cambiare il mondo ammazzando degli americani, per poi presentarli come “arabi dalla mentalità anti-americana”». Altre volte, «l’Fbi ha usato intermediari con precedenti penali, disponibili a collaborare in cambio di sconti di pena». Tra le illustri vittime del mainstream anche un grande giornalista come Dan Rather, prestigioso reporter della “Cbs”: «E’ stato liquidato con una “polpetta avvelenata” (una notizia falsa, fornitagli appositamente), per bruciargli trent’anni di grande giornalismo. La sua colpa? Aveva rivelato e denunciato lo scandalo di Abu Ghraib, il lager iracheno dove si infliggevano le peggiori torture ai soldati di Saddam».
Non se ne esce, dice Mazzucco, se la stragrande maggioranza dei giornalisti si ostina a “non vedere”. Eppure, nell’attentato del 1993 al Wto – un camion-bomba nel parcheggio sotterraneo della Torre 1 – fu la stessa Fbi ad ammettere di essere implicata: stava infiltrando aspiranti terroristi e aveva fornito loro l’esplosivo, tramite l’ex militare egiziano Emad Salem, il quale confermò che il tutto avvenne addirittura con la supervisione del procuratore distrettuale. «L’Fbi sapeva, poteva evitare l’attentato», conclusero le televisioni americane. Perché la situazione “sfuggì di mano”? Forse lo si può dedurre da quanto dichiarò, poco dopo, l’ex direttore dell’Fbi di New York, Jim Kallstrom: «Quella bomba ha fatto tremare il nostro concetto di sicurezza nazionale, la convinzione di essere invulnerabili al terrorismo. Le crepe nella fiducia non potranno essere riparate. E’ successo una volta: potrà succedere ancora? E’ quello che ci domandiamo». Stesso retroscena nelle indagini dopo l’attentato di Boston, per il quale furono incolpati i giovani fratelli Dzokhar e Tamerlan Tsarnaev, di origine cecena. In piena caccia all’uomo, la madre dichiarò: «Perché fingono di non sapere dove siano? Da più di tre anni l’Fbi vive qui a casa nostra e segue i miei ragazzi».
Proprio la fulminea cattura del “patsy” è l’ultimo capitolo di quella che, per Mazzucco, è chiaramente una farsa: «Nell’infernale caos dell’11 Settembre, già nelle prime ore, l’unica notizia data per certa era la responsabilità di Bin Laden». E qual è il modo più semplice per arrivare subito al “colpevole”? «Ovvio: trovi il suo passaporto. E’ noto, infatti, che tutti quelli che vanno a fare attentati se lo portano dietro». Nell’apocalisse di fuoco, fumo e macerie di Ground Zero, gli unici reperti intatti erano quelli: «Passaporti solo bruciacchiati un po’ ai lati con l’accendino, ma con foto e nomi sempre ben visibili: nemmeno un documento annerito o strappato». Il primo, trovato il giorno dopo il crollo delle Torri, a quattro isolati: apparteneva ad Abdul Aziz Alomari, quello che insieme a Mohamed Atta avrebbe dirottato il primo aereo. E nella “Buca di Shanksville”, in Pennsylvania, niente rottami di aereo (solo un cratere con ferraglia fumante) e 2 passaporti intatti, una bandana rossa (indumento “appartenente a un dirottatore”, secondo le presunte telefonate dei passeggeri di uno degli aerei), più la carta d’identità di un terzo terrorista, più la ricevuta di una lavanderia, con tanto di nome e cognome del quarto presunto attentatore.
Ancora più clamoroso il ritrovamento all’aeroporto di Boston, dove viene ritrovata una valigia “dimenticata” da due dei presunti dirottatori del volo per San Francisco. Contenuto: il Corano, tute dell’American Airlines, manuali di volo del Boeing 767 e, addirittura, la lista completa dei terroristi. Passaporti provvidenziali anche in tasca ai terroristi di Londra, quattro pakistani, inizialmente dichiarati “membri di Al-Qaeda” (notizia poi smentita, nel silenzio dei media). Fondamentali, i documenti, per collegarli alle immagini filmate dalle telecamere del metrò. «Niente passaporti, niente identificazione». Stessa situazione per Charlie Hebdo: «Indossavano passamontagna per non farsi riconoscere, salvo poi “dimenticare” un passaporto in bella vista sul cruscotto dell’auto». Il caso più tragicomico? Quello di Oklahoma City, dove «la famosa “bomba al letame” avrebbe tirato quasi giù un intero edificio in cemento armato». E come venne arrestato, Timonthy McVeigh? Mezz’ora dopo l’esplosione, viene fermato alla guida di un’auto senza targa, lanciata al doppio della velocità consentita. Poi il poliziotto nota che ha la maglietta “macchiata di letame”, quindi si insospettisce, e nel baule scova – indovinate – un manuale per fabbricare le bombe col letame.
Il copione non cambia, dice Mazzucco, e il primo della storia fu Lee Harvey Oswald, presentato al mondo come l’assassino di John Fitzgerald Kennedy. «Non sono stato io», protestò, «io sono soltanto un “patsy”», cioè il diversivo perfetto per allontanare l’attenzione dalla dinamica del crimine, con tutte le sue incredibili incongruenze. Il caso è noto. Dopo la morte di Jfk, l’abitato di Dallas viene passato al setaccio. Ma Oswald, anziché sparire, prende con sé una pistola e se ne va in giro, armato, per la città. Lo ferma un poliziotto, l’agente Tippit, che gli chiede i documenti. Oswald estrae l’arma e gli spara. Poi si rifugia in un cinema, dove però si fa notare, perché entra senza pagare. Al che, la cassiera chiama la polizia, che lo arresta. Ma come lo collega a Tippit? Elementare: mentre estraeva la pistola gli è cascato il portafoglio, con dentro la patente. L’hanno trovato a terra, accanto al corpo dell’agente colpito. «Quindi – riassume Mazzucco – Oswald era andato ad ammazzare Kennedy pensando bene, anche lui, di portare con sé il documento di identità». Che altro aggiungere? «Siamo di fronte a una manipolazione totale. Ed è impossibile credere che i giornalisti non se ne rendano conto».
Scritto il 06/3/16 • nella Categoria: segnalazioni
Se sentite parlare di un’esercitazione antiterrorismo, fate come dice Crozza: portate via i coglioni, e alla svelta!». Parola di Massimo Mazzucco. «Attenzione: i terroristi esistono, le bombe esplodono davvero e le vittime muoiono. Il problema è chi li crea, i terroristi, chi li manipola: capire quello che c’è dietro. Abbiamo un problema, sì. Ed è l’informazione, che da molti anni non fa più il suo dovere». Non vede, non sente, non parla. Soprattutto, non ricorda. Finge di non accorgersi che il copione è sempre lo stesso: esercitazione “antiterrorismo” e attentato concomitante, guardacaso, proprio lì, a quell’ora. A seguire: cattura immediata del “patsy”, il colpevole di comodo, regolarmente incastrato a tempo di record e col medesimo sistema: l’ingenuo aveva portato con sé il passaporto e, combinazione, l’aveva dimenticato proprio sul luogo dell’attentato. Succede da decenni, dice Mazzucco, e nessuno ci fa caso. Teoria e pratica del “terrorismo fatto in casa”, da Jfk in poi, fino alle Torri Gemelle, agli attentati di Londra e a quelli di Parigi. Succede sempre. E nessuno lo denuncia, perché «è più comodo, per la carriera di tutti».
Strategia della tensione, istruzioni per l’uso: Mazzucco, giornalista e regista di importanti documentari sull’11 Settembre (“Inganno globale”, “La nuova Pearl Harbor”) fornisce una sintesi sconcertante, in una recente conferenza in Friuli ripresa sul blog “Luogo Comune”. Tema: le modalità sistematiche con cui si ripetono i più recenti attentati, destinati – sempre – a impressionare profondamente il pubblico, diffondendo un senso generale di paura e insicurezza. «Pazienza se il pubblico non si accorge di essere preso in giro: il guaio è che sono i giornalisti a far finta di niente, come se non si accorgessero della ripetitività della trama», a partire dai primi due aspetti che saltano immediatamente all’occhio, l’esercitazione concomitante e la comparsa del “patsy”. Primo: «Quando c’è un attentato, c’è sempre la presenza contemporanea di esercitazioni di forze speciali che fanno esattamente, per finta, quello che poi succede davvero». Secondo: in brevissimo tempo, anche solo poche ore, viene individuato il “colpevole presunto”, perfetto per distrarre i media dalla scena del crimine: da quel momento, giornali e televisioni si occuperanno solo della biografia dell’arrestato, tralasciando di analizzare la dinamica reale degli eventi.
Fa scuola, naturalmente, l’11 Settembre, con una decina di esercitazioni dell’aviazione programmate quella mattina, nonostante i ripetuti allarmi ricevuti dai servizi segreti di mezzo mondo, che da mesi parlavano di possibili attentati negli Usa, per giunta proprio con aerei di linea dirottati. Sicché, alcune di quelle esercitazioni prevedevano esattamente l’intervento dei caccia contro voli dirottati – ma nei cieli del Canada e dell’Alaska: a difendere il quadrante nord-est degli Stati Uniti, quello di New York e Washington, c’erano solo 4 intercettori. Troppo pochi, per districarsi nel caos che faceva impazzire i radar: «C’era in volo almeno il triplo dei velivoli, e gli addetti alla sicurezza non sapevano quali fossero quelli dirottati e quali no». Oltre ad allontanare i caccia e a creare confusione, secondo il giornalista investigativo Webster Tarpley le esercitazioni aeree programmate proprio quel giorno servivano anche a controllare dall’interno i computer della sicurezza, depistando le operazioni, grazie all’accesso diretto ai monitor della difesa, dietro a cui stavano ignare sentinelle. In più, quella mattina – stranamente – il grado di allerta era stato declassato a “normale”, il livello più basso. «Coincidenze o barzellette».
Poi ci sono gli attentati a terra, i più diffusi. «Immancabile, la simultanea esercitazione antiterrorismo». Comodissima, peraltro: «Intanto perché qualcuno deve piazzarla, la bomba: se per caso viene colto in flagrante, può sempre dire che fa parte dell’esercitazione. Poi la bomba scoppia davvero, e un minuto dopo si sprecano le dichiarazioni di stupore: che combinazione, dicono tutti, è successo proprio mentre eravamo lì. E infine, proprio perché erano già lì – forze di sicurezza, soccorritori, ambulanze – si fa anche bella figura, soccorsi immediati e rapidissima cattura del “colpevole”». Sempre secondo Mazzucco, un caso da manuale è quello dei devastanti attentati dinamitardi di Londra, 7 luglio 2005: colpiti tre convogli della metropolitana e un autobus, 56 morti e 700 feriti. «In tutte e quattro le situazioni erano in corso esercitazioni anti-bomba. Dai responsabili della sicurezza, ovviamente “meravigliati” per la straordinaria coincidenza, giunse anche un’excusatio non petita: dissero che i loro uomini erano presenti in quei luoghi non a caso, ma per proteggere la City finanziaria». E attenzione: «In quelle ore, a Edimburgo, era in corso il G8: quale prefetto autorizzerebbe mai una esercitazione antiterrorismo nello stesso giorno in cui nel tuo paese è in corso un G8? Impensabile».
Stessa dinamica negli Usa dieci anni prima, il 19 aprile ‘95. Oklahoma City: camion-bomba contro un edificio federale, il Murrah Building. Secondo la versione ufficiale, il veicolo era stato imbottito con oltre 2.300 chili di fertilizzante. Una strage: 168 morti, tra cui 19 bambini, e 680 feriti. Il più sanguinoso attentato terroristico entro i confini degli Stati Uniti prima dell’11 Settembre. «Mai, fino ad allora, gli americani si erano sentiti così vulnerabili», annota Mazzucco. «Furono le prove generali, per testare l’opinione pubblica prima del super-attentato delle Twin Towers?». Quella volta niente arabi, ma un estremista di destra, Timothy McVeigh, veterano della guerra del Golfo, arrestato e poi giustiziato sei anni dopo con iniezione letale. E l’esercitazione concomitante? C’era, naturalmente: Alex Jones, titolare dell’importante sito web “Prison Planet”, spiega che a Oklahoma City, nello stesso momento, erano in corso esercitazioni anti-bomba della polizia federale. Un’altra straordinaria coincidenza.
Idem alla maratona di Boston, 15 aprile 2013: «Proprio sulla linea del traguardo – ricorda Mazzucco – si stava svolgendo un’esercitazione con cani anti-bomba». Gli altoparlanti ripetono l’annuncio, per il pubblico in apprensione che osserva le squadre di sicurezza: «Non preoccupatevi, è solo un’esercitazione». Tre secondi dopo l’ultimo annuncio, scoppia la bomba: 3 morti e 264 feriti. Dagli Stati Uniti alla Francia: Parigi, 13 novembre 2015, la carneficina del teatro Bataclan, 137 morti e 368 feriti. «L’indomani – rileva Mazzucco – il capo della protezione civile va in televisione e dice: ma tu guarda, proprio ieri mattina stavamo facendo un’esercitazione negli stessi posti. Una fortuna, per l’efficienza dei soccorsi». Ultimo capitolo, la mattanza di San Bernardino, California, 2 dicembre 2015. Marito e moglie sparano su un centro per disabili: 14 morti e 13 feriti. «E cos’era in corso, proprio lì, un attimo prima dell’attentato? L’esercitazione “Active Shooter”», sottolinea Mazzucco. «Non solo ci prendono in giro, ma contano sul fatto che non abbiamo memoria, capacità di collegare i fatti. Noi pazienza, ma i giornalisti dovrebbero farlo per mestiere: invece tacciono, guardano da un’altra parte, altrimenti perdono il lavoro».
E’ successo ad Andrew “Judge” Napolitano, conduttore di una famosa trasmissione a “Fox News”: licenziato, dopo aver denunciato il ruolo dell’Fbi nella formazione e nell’assistenza dei terroristi di Oklahoma City. Stranamente, dopo aver fatto quel servizio, è stato liquidato. Napolitano parlava anche di 17 casi apparentemente sventati dall’Fbi, dove – diceva – era stata la stessa Fbi a infiltrare aspiranti terroristi, convincendoli: «Hanno reclutato islamici, giovani incazzati, e li hanno covinti ad agire, spiegando loro che avrebbero potuto cambiare il mondo ammazzando degli americani, per poi presentarli come “arabi dalla mentalità anti-americana”». Altre volte, «l’Fbi ha usato intermediari con precedenti penali, disponibili a collaborare in cambio di sconti di pena». Tra le illustri vittime del mainstream anche un grande giornalista come Dan Rather, prestigioso reporter della “Cbs”: «E’ stato liquidato con una “polpetta avvelenata” (una notizia falsa, fornitagli appositamente), per bruciargli trent’anni di grande giornalismo. La sua colpa? Aveva rivelato e denunciato lo scandalo di Abu Ghraib, il lager iracheno dove si infliggevano le peggiori torture ai soldati di Saddam».
Non se ne esce, dice Mazzucco, se la stragrande maggioranza dei giornalisti si ostina a “non vedere”. Eppure, nell’attentato del 1993 al Wto – un camion-bomba nel parcheggio sotterraneo della Torre 1 – fu la stessa Fbi ad ammettere di essere implicata: stava infiltrando aspiranti terroristi e aveva fornito loro l’esplosivo, tramite l’ex militare egiziano Emad Salem, il quale confermò che il tutto avvenne addirittura con la supervisione del procuratore distrettuale. «L’Fbi sapeva, poteva evitare l’attentato», conclusero le televisioni americane. Perché la situazione “sfuggì di mano”? Forse lo si può dedurre da quanto dichiarò, poco dopo, l’ex direttore dell’Fbi di New York, Jim Kallstrom: «Quella bomba ha fatto tremare il nostro concetto di sicurezza nazionale, la convinzione di essere invulnerabili al terrorismo. Le crepe nella fiducia non potranno essere riparate. E’ successo una volta: potrà succedere ancora? E’ quello che ci domandiamo». Stesso retroscena nelle indagini dopo l’attentato di Boston, per il quale furono incolpati i giovani fratelli Dzokhar e Tamerlan Tsarnaev, di origine cecena. In piena caccia all’uomo, la madre dichiarò: «Perché fingono di non sapere dove siano? Da più di tre anni l’Fbi vive qui a casa nostra e segue i miei ragazzi».
Proprio la fulminea cattura del “patsy” è l’ultimo capitolo di quella che, per Mazzucco, è chiaramente una farsa: «Nell’infernale caos dell’11 Settembre, già nelle prime ore, l’unica notizia data per certa era la responsabilità di Bin Laden». E qual è il modo più semplice per arrivare subito al “colpevole”? «Ovvio: trovi il suo passaporto. E’ noto, infatti, che tutti quelli che vanno a fare attentati se lo portano dietro». Nell’apocalisse di fuoco, fumo e macerie di Ground Zero, gli unici reperti intatti erano quelli: «Passaporti solo bruciacchiati un po’ ai lati con l’accendino, ma con foto e nomi sempre ben visibili: nemmeno un documento annerito o strappato». Il primo, trovato il giorno dopo il crollo delle Torri, a quattro isolati: apparteneva ad Abdul Aziz Alomari, quello che insieme a Mohamed Atta avrebbe dirottato il primo aereo. E nella “Buca di Shanksville”, in Pennsylvania, niente rottami di aereo (solo un cratere con ferraglia fumante) e 2 passaporti intatti, una bandana rossa (indumento “appartenente a un dirottatore”, secondo le presunte telefonate dei passeggeri di uno degli aerei), più la carta d’identità di un terzo terrorista, più la ricevuta di una lavanderia, con tanto di nome e cognome del quarto presunto attentatore.
Ancora più clamoroso il ritrovamento all’aeroporto di Boston, dove viene ritrovata una valigia “dimenticata” da due dei presunti dirottatori del volo per San Francisco. Contenuto: il Corano, tute dell’American Airlines, manuali di volo del Boeing 767 e, addirittura, la lista completa dei terroristi. Passaporti provvidenziali anche in tasca ai terroristi di Londra, quattro pakistani, inizialmente dichiarati “membri di Al-Qaeda” (notizia poi smentita, nel silenzio dei media). Fondamentali, i documenti, per collegarli alle immagini filmate dalle telecamere del metrò. «Niente passaporti, niente identificazione». Stessa situazione per Charlie Hebdo: «Indossavano passamontagna per non farsi riconoscere, salvo poi “dimenticare” un passaporto in bella vista sul cruscotto dell’auto». Il caso più tragicomico? Quello di Oklahoma City, dove «la famosa “bomba al letame” avrebbe tirato quasi giù un intero edificio in cemento armato». E come venne arrestato, Timonthy McVeigh? Mezz’ora dopo l’esplosione, viene fermato alla guida di un’auto senza targa, lanciata al doppio della velocità consentita. Poi il poliziotto nota che ha la maglietta “macchiata di letame”, quindi si insospettisce, e nel baule scova – indovinate – un manuale per fabbricare le bombe col letame.
Il copione non cambia, dice Mazzucco, e il primo della storia fu Lee Harvey Oswald, presentato al mondo come l’assassino di John Fitzgerald Kennedy. «Non sono stato io», protestò, «io sono soltanto un “patsy”», cioè il diversivo perfetto per allontanare l’attenzione dalla dinamica del crimine, con tutte le sue incredibili incongruenze. Il caso è noto. Dopo la morte di Jfk, l’abitato di Dallas viene passato al setaccio. Ma Oswald, anziché sparire, prende con sé una pistola e se ne va in giro, armato, per la città. Lo ferma un poliziotto, l’agente Tippit, che gli chiede i documenti. Oswald estrae l’arma e gli spara. Poi si rifugia in un cinema, dove però si fa notare, perché entra senza pagare. Al che, la cassiera chiama la polizia, che lo arresta. Ma come lo collega a Tippit? Elementare: mentre estraeva la pistola gli è cascato il portafoglio, con dentro la patente. L’hanno trovato a terra, accanto al corpo dell’agente colpito. «Quindi – riassume Mazzucco – Oswald era andato ad ammazzare Kennedy pensando bene, anche lui, di portare con sé il documento di identità». Che altro aggiungere? «Siamo di fronte a una manipolazione totale. Ed è impossibile credere che i giornalisti non se ne rendano conto».
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Re: La Terza Guerra Mondiale
L’Isis in Kosovo, come volevano gli Usa (complice l’Italia)
Scritto il 09/3/16 • nella Categoria: segnalazioni
Adesso si scopre che in Kosovo (come in Bosnia e in Albania) c’è una forte presenza jihadista. Ma guarda, chi avrebbe mai potuto immaginarselo? Come sempre, come per l’Afghanistan, la Somalia, la Libia e l’Egitto, si dimentica il pregresso, lo si sottace pudicamente o, nella migliore delle ipotesi, si sorvola. Chi nel 1999, senza il consenso dell’Onu, anzi contro la sua volontà, aggredì la Serbia ortodossa guidata da Slobodan Milosevic? Gli americani. Che c’entravano gli americani? Niente. Si trattava di una questione interna allo Stato serbo, dove si trovavano a confronto due ragioni: quella dei kosovari albanesi che nei decenni precedenti erano diventati maggioranza e avevano creato un movimento indipendentista (peraltro foraggiato e armato dagli Usa e che, come ogni resistenza, non disdegnava l’uso del terrorismo) e quella della Serbia a mantenere l’integrità dei propri confini e un territorio storicamente suo da secoli. Oltretutto il Kosovo, dopo la battaglia di Kosovo Polje del 1389, era considerato “la culla della patria serba”.
Una terra non appartiene solo a chi la abita in quel momento, ma è anche frutto delle generazioni che l’hanno vissuta e lavorata in precedenza facendone ciò che è. Era quindi una questione che indipendentisti kosovari e Serbia avrebbero dovuto risolversi fra loro. Che c’entravano gli Usa che stanno a 10mila chilometri di distanza? Ma siccome essi hanno interessi geopolitici dappertutto, anche sul più sperduto atollo, convocarono sotto la loro guida una Conferenza di pace a Rambouillet. Le condizioni poste alla Serbia (molto invisa anche perché era rimasto l’ultimo paese paracomunista in Europa) erano tali che Belgrado non avrebbe dovuto rinunciare solo alla sovranità sul Kosovo, ma anche su se stessa. E i serbi, già defraudati della vittoria conquistata sul campo di battaglia in Bosnia (perché, sul terreno, sono i migliori combattenti del mondo e si deve alla loro resistenza alla Wermacht quel ritardo di tre mesi che fu fatale a Hitler, perché ritardò il suo attacco all’Urss e così le truppe di Von Paulus si scontrarono col Generale Inverno che aveva già sconfitto Napoleone – questo merito storico bisognerebbe riconoscerglielo, qualche volta) dissero di no.
Allora gli americani, con alcuni servi fedeli fra cui l’Italia (gli aerei partivano da Aviano), violando il principio del diritto internazionale – fino ad allora mai messo in discussione – della non ingerenza militare negli affari interni di uno Stato sovrano (e con questo precedente è ora difficile bacchettare la Russia perché si è intromessa in Ucraina a difesa degli indipendentisti russi di Crimea e di altre zone russofone), bombardarono per 72 giorni una grande e colta capitale europea come Belgrado facendo 5500 morti, fra cui molti di quegli albanesi che pretendevano di difendere. E, poiché da sempre bombardano “’ndo cojo cojo”, colpirono anche l’ambasciata cinese. Princìpi a parte, abbiamo finito per favorire la componente islamica dei Balcani, quella che oggi provoca le isterie Fallaci-style.
Gli Usa però almeno un piano ce l’avevano: costituire una striscia di musulmanesimo moderato (Albania + Bosnia + Kosovo) in appoggio a quella che allora (oggi molto meno) era la loro grande alleata nella regione, la Turchia. Ma sbagliarono anche quella volta i calcoli: oggi i musulmani dei Balcani sono assai meno moderati, molti stingono nello jihadismo e la Turchia sta via via abbandonando l’assetto laico di Ataturk per un regime sempre più confessionale. Ma particolarmente stolida fu la partecipazione dell’Italia a quell’aggressione. Perché noi con i serbi non abbiamo mai avuto alcun contenzioso (l’abbiamo avuto semmai con i croati che fascisti erano e fascisti sono rimasti). Abbiamo anzi un legame storico che risale ai primi del Novecento. A quell’epoca si pubblicava a Belgrado un quotidiano che si chiamava Piemonte, perché i serbi vedevano nell’Unità d’Italia un modello per raggiungere la loro. Inoltre il ‘gendarme’ Milosevic, checché se ne sia detto e scritto, era, almeno dopo la pace di Dayton, un fattore di stabilizzazione nei Balcani. Ridotta ora la Serbia ai minimi termini, in Kosovo, Bosnia, Macedonia, Montenegro e Albania sono concresciute grandi organizzazioni criminali che vanno a concludere i loro primi affari sporchi nel paese ricco più vicino, l’Italia.
Quando a “Ballarò”, presente Massimo D’Alema, dissi che la guerra alla Serbia oltre che illegittima era stata cogliona, l’ex premier – che guidava il governo all’epoca dell’intervento non fiatò. Ma io a “Ballarò” non ci ho più rimesso piede. Ma l’avventurismo yankee nei Balcani ci ha lasciato un altro regalo, il più gravido di conseguenze: ora, per i contraccolpi dell’aggressione alla Serbia del ‘99, gli uomini del Califfo li abbiamo sull’uscio di casa, mentre gli Usa se ne possono fregare perché c’è l’oceano di mezzo. Eppoi almeno qualcosa hanno ottenuto: oggi in Kosovo c’è la loro più grande base militare. Non è poco visto che, in giro per il mondo, ne hanno una settantina.
(Massimo Fini, “Il Califfo in Kosovo, grazie a Usa e Italia”, da “Il Fatto Quotidiano” del 18 febbraio 2016).
Scritto il 09/3/16 • nella Categoria: segnalazioni
Adesso si scopre che in Kosovo (come in Bosnia e in Albania) c’è una forte presenza jihadista. Ma guarda, chi avrebbe mai potuto immaginarselo? Come sempre, come per l’Afghanistan, la Somalia, la Libia e l’Egitto, si dimentica il pregresso, lo si sottace pudicamente o, nella migliore delle ipotesi, si sorvola. Chi nel 1999, senza il consenso dell’Onu, anzi contro la sua volontà, aggredì la Serbia ortodossa guidata da Slobodan Milosevic? Gli americani. Che c’entravano gli americani? Niente. Si trattava di una questione interna allo Stato serbo, dove si trovavano a confronto due ragioni: quella dei kosovari albanesi che nei decenni precedenti erano diventati maggioranza e avevano creato un movimento indipendentista (peraltro foraggiato e armato dagli Usa e che, come ogni resistenza, non disdegnava l’uso del terrorismo) e quella della Serbia a mantenere l’integrità dei propri confini e un territorio storicamente suo da secoli. Oltretutto il Kosovo, dopo la battaglia di Kosovo Polje del 1389, era considerato “la culla della patria serba”.
Una terra non appartiene solo a chi la abita in quel momento, ma è anche frutto delle generazioni che l’hanno vissuta e lavorata in precedenza facendone ciò che è. Era quindi una questione che indipendentisti kosovari e Serbia avrebbero dovuto risolversi fra loro. Che c’entravano gli Usa che stanno a 10mila chilometri di distanza? Ma siccome essi hanno interessi geopolitici dappertutto, anche sul più sperduto atollo, convocarono sotto la loro guida una Conferenza di pace a Rambouillet. Le condizioni poste alla Serbia (molto invisa anche perché era rimasto l’ultimo paese paracomunista in Europa) erano tali che Belgrado non avrebbe dovuto rinunciare solo alla sovranità sul Kosovo, ma anche su se stessa. E i serbi, già defraudati della vittoria conquistata sul campo di battaglia in Bosnia (perché, sul terreno, sono i migliori combattenti del mondo e si deve alla loro resistenza alla Wermacht quel ritardo di tre mesi che fu fatale a Hitler, perché ritardò il suo attacco all’Urss e così le truppe di Von Paulus si scontrarono col Generale Inverno che aveva già sconfitto Napoleone – questo merito storico bisognerebbe riconoscerglielo, qualche volta) dissero di no.
Allora gli americani, con alcuni servi fedeli fra cui l’Italia (gli aerei partivano da Aviano), violando il principio del diritto internazionale – fino ad allora mai messo in discussione – della non ingerenza militare negli affari interni di uno Stato sovrano (e con questo precedente è ora difficile bacchettare la Russia perché si è intromessa in Ucraina a difesa degli indipendentisti russi di Crimea e di altre zone russofone), bombardarono per 72 giorni una grande e colta capitale europea come Belgrado facendo 5500 morti, fra cui molti di quegli albanesi che pretendevano di difendere. E, poiché da sempre bombardano “’ndo cojo cojo”, colpirono anche l’ambasciata cinese. Princìpi a parte, abbiamo finito per favorire la componente islamica dei Balcani, quella che oggi provoca le isterie Fallaci-style.
Gli Usa però almeno un piano ce l’avevano: costituire una striscia di musulmanesimo moderato (Albania + Bosnia + Kosovo) in appoggio a quella che allora (oggi molto meno) era la loro grande alleata nella regione, la Turchia. Ma sbagliarono anche quella volta i calcoli: oggi i musulmani dei Balcani sono assai meno moderati, molti stingono nello jihadismo e la Turchia sta via via abbandonando l’assetto laico di Ataturk per un regime sempre più confessionale. Ma particolarmente stolida fu la partecipazione dell’Italia a quell’aggressione. Perché noi con i serbi non abbiamo mai avuto alcun contenzioso (l’abbiamo avuto semmai con i croati che fascisti erano e fascisti sono rimasti). Abbiamo anzi un legame storico che risale ai primi del Novecento. A quell’epoca si pubblicava a Belgrado un quotidiano che si chiamava Piemonte, perché i serbi vedevano nell’Unità d’Italia un modello per raggiungere la loro. Inoltre il ‘gendarme’ Milosevic, checché se ne sia detto e scritto, era, almeno dopo la pace di Dayton, un fattore di stabilizzazione nei Balcani. Ridotta ora la Serbia ai minimi termini, in Kosovo, Bosnia, Macedonia, Montenegro e Albania sono concresciute grandi organizzazioni criminali che vanno a concludere i loro primi affari sporchi nel paese ricco più vicino, l’Italia.
Quando a “Ballarò”, presente Massimo D’Alema, dissi che la guerra alla Serbia oltre che illegittima era stata cogliona, l’ex premier – che guidava il governo all’epoca dell’intervento non fiatò. Ma io a “Ballarò” non ci ho più rimesso piede. Ma l’avventurismo yankee nei Balcani ci ha lasciato un altro regalo, il più gravido di conseguenze: ora, per i contraccolpi dell’aggressione alla Serbia del ‘99, gli uomini del Califfo li abbiamo sull’uscio di casa, mentre gli Usa se ne possono fregare perché c’è l’oceano di mezzo. Eppoi almeno qualcosa hanno ottenuto: oggi in Kosovo c’è la loro più grande base militare. Non è poco visto che, in giro per il mondo, ne hanno una settantina.
(Massimo Fini, “Il Califfo in Kosovo, grazie a Usa e Italia”, da “Il Fatto Quotidiano” del 18 febbraio 2016).
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Re: La Terza Guerra Mondiale
"Il jihad continua, iniziamo da Roma". Arrestato l'imam del centro di accoglienza
Nei suoi sermoni invita gli altri ospiti del centro di accoglienza a colpire l'Occidente: "Attrezzarsi e farsi saltare in aria è la via più semplice". Lui stesso aveva progettato la fuga dalla struttura per raggiungere Roma e fare un attentato. Ma oggi è stato arrestato
Sergio Rame - Mer, 09/03/2016 - 14:20
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"Abbiamo un riscontro tecnico preciso sulla possibilità che stesse organizzando un attentato a Roma".
II procuratore capo di Campobasso, Armando D'Alterio, svela una nuova minaccia per l'Italia. Una complicata operazione della Digos di Campobasso ha portato al fermo di un giovane imam somalo, che si trovava all'interno del centro di accoglienza a Campomarino (Campobasso). Il 22enne è un richiedente asilo che, stando a quanto scoperto oggi dagli inquirenti, sarebbe fuggito oggi stesso dalla struttura che lo accoglieva per andare a Roma a fare un attentato.
"Cominciamo dalla stessa Italia, andiamo a Roma e cominciamo dalla stazione". Il giovane imam somalo, fermato oggi a Campobasso, è l'ennesima riprova dello strettissimo legame tra immigrazione e jihadismo. Legame che il ministro dell'Interno Angelino Alfano continua a negare. Dalle intercettazioni che inchiodano il 22enne musulmano emergono intenti chiari. "La guerra ancora continua - ripete - Charlie Hebdo era solo il precedente di quello che sta succedendo adesso". E poi, "c'è una strada più semplice, quella di attrezzarsi e farsi saltare in aria, che è la via più semplice". In più conversazioni l'imam inneggia ai tagliagole dello Stato islamico, ai jihadisti di al Qaeda e ai miliziani di al Shabab. Nei suoi sermoni invita gli altri ospiti del centro di accoglienza ad azioni violente da realizzare nell'ambito del jihad. Una azione "intensa e veemente di proselitismo", così l'ha definita il procuratore D'Alterio, contro l'Occidente. Alcuni si sono allontanati dalla preghiera allarmati dal suo comportamento, altri invece gli sono andati dietro.
Poco più di due mesi di indagini serrate, supportate anche da intercettazioni ambientali, hanno consentito agli agenti della Digos di Campobasso di capire la reale portata di quelle parole e delle sue intenzioni. Secondo gli uomini dell'Antiterorrismo e della Digos che hanno condotto le indagini, il somalo era un soggetto pericoloso, una figura che in poco tempo aveva avviato un'attività di proselitismo e si era imposta all'interno del centro che lo ospitava con posizioni dominanti e radicali. Agli altri ospiti della strutture l'uomo diceva di appartenere ad al Shabaab, il movimento terrorista somalo. "Nei suoi confronti - sottolineano fonti qualificate - c'erano elementi per ritenere che fosse nella fase della mobilitazione, ma alcun segnale che da qui potesse passare alla fase operativa". Il fermo è scattato anche in considerazione di un altro elemento: al giovane somalo era stato negato lo status di rifugiato e, dunque, di qui a breve avrebbe lasciato la struttura di Campomarino. In considerazione della sua pericolosità, dunque, si è deciso di bloccarlo ed evitare che potesse far perdere le sue tracce.
http://www.ilgiornale.it/news/cronache/ ... 33975.html
Nei suoi sermoni invita gli altri ospiti del centro di accoglienza a colpire l'Occidente: "Attrezzarsi e farsi saltare in aria è la via più semplice". Lui stesso aveva progettato la fuga dalla struttura per raggiungere Roma e fare un attentato. Ma oggi è stato arrestato
Sergio Rame - Mer, 09/03/2016 - 14:20
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"Abbiamo un riscontro tecnico preciso sulla possibilità che stesse organizzando un attentato a Roma".
II procuratore capo di Campobasso, Armando D'Alterio, svela una nuova minaccia per l'Italia. Una complicata operazione della Digos di Campobasso ha portato al fermo di un giovane imam somalo, che si trovava all'interno del centro di accoglienza a Campomarino (Campobasso). Il 22enne è un richiedente asilo che, stando a quanto scoperto oggi dagli inquirenti, sarebbe fuggito oggi stesso dalla struttura che lo accoglieva per andare a Roma a fare un attentato.
"Cominciamo dalla stessa Italia, andiamo a Roma e cominciamo dalla stazione". Il giovane imam somalo, fermato oggi a Campobasso, è l'ennesima riprova dello strettissimo legame tra immigrazione e jihadismo. Legame che il ministro dell'Interno Angelino Alfano continua a negare. Dalle intercettazioni che inchiodano il 22enne musulmano emergono intenti chiari. "La guerra ancora continua - ripete - Charlie Hebdo era solo il precedente di quello che sta succedendo adesso". E poi, "c'è una strada più semplice, quella di attrezzarsi e farsi saltare in aria, che è la via più semplice". In più conversazioni l'imam inneggia ai tagliagole dello Stato islamico, ai jihadisti di al Qaeda e ai miliziani di al Shabab. Nei suoi sermoni invita gli altri ospiti del centro di accoglienza ad azioni violente da realizzare nell'ambito del jihad. Una azione "intensa e veemente di proselitismo", così l'ha definita il procuratore D'Alterio, contro l'Occidente. Alcuni si sono allontanati dalla preghiera allarmati dal suo comportamento, altri invece gli sono andati dietro.
Poco più di due mesi di indagini serrate, supportate anche da intercettazioni ambientali, hanno consentito agli agenti della Digos di Campobasso di capire la reale portata di quelle parole e delle sue intenzioni. Secondo gli uomini dell'Antiterorrismo e della Digos che hanno condotto le indagini, il somalo era un soggetto pericoloso, una figura che in poco tempo aveva avviato un'attività di proselitismo e si era imposta all'interno del centro che lo ospitava con posizioni dominanti e radicali. Agli altri ospiti della strutture l'uomo diceva di appartenere ad al Shabaab, il movimento terrorista somalo. "Nei suoi confronti - sottolineano fonti qualificate - c'erano elementi per ritenere che fosse nella fase della mobilitazione, ma alcun segnale che da qui potesse passare alla fase operativa". Il fermo è scattato anche in considerazione di un altro elemento: al giovane somalo era stato negato lo status di rifugiato e, dunque, di qui a breve avrebbe lasciato la struttura di Campomarino. In considerazione della sua pericolosità, dunque, si è deciso di bloccarlo ed evitare che potesse far perdere le sue tracce.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Terrorismo, fermato richiedente asilo a Campobasso: “Progettava un attentato”. Proselitismo durante la preghiera
Cronaca
Cominciamo dalla stessa Italia, andiamo a Roma e cominciamo dalla stazione. La guerra ancora continua. Charlie Hebdo era solo il precedente di quello che sta succedendo adesso" diceva l'indagato. Il procuratore capo di Campobasso, Armando D’Alterio: "Abbiamo un riscontro tecnico preciso circa la possibilità che stesse organizzando un attentato a Roma"
di F. Q. | 9 marzo 2016
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/03 ... o/2531080/
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Alfano non vede l'invasione: "Nessun flusso sulla rotta adriatica"
La rotta balcanica è chiusa. L'Ue teme che il flusso di migranti prenda rotte alternative, come quella del Mediterraneo Centrale o dell'Albania. Ma Alfano nega l'emergenza: "Nessun flusso sulla rotta adriatica"
Sergio Rame - Gio, 10/03/2016 - 09:55
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L'Unione europea è ben consapevole del rischio che il flusso degli immigrati in arrivo dalla Turchia, ora che la rotta dei Balcani Occidentali si sta chiudendo, prenda rotte alternative, come quella del Mediterraneo Centrale o dell'Albania.
Solo Angelino Alfano sembra non vedere l'emergenza. E, come un disco rotto, continua ad andare in giro a ripetere che la situazione è sotto controllo. "Fino a questo momento - assicura il ministro dell'Interno - non abbiamo evidenza di questo flusso enorme di migranti in arrivo sulla rotta adriatica".
La Slovenia ieri ha annunciato la piena reintroduzione del codice delle frontiere delle Schengen. "Questo significa che i cittadini di Paesi terzi che non sono qualificati ad entrare nell'area Schengen o che non hanno fatto richiesta di asilo malgrado - mette in guardia la portavoce della Commissione Ue, Natasha Berthaud - abbiano avuto l'opportunità di farlo, non verranno ammessi in Slovenia". Una misura perfettamente in linea con le conclusioni del Consiglio europeo del 18 e 19 febbraio. Anche la Croazia e la Serbia hanno annunciato misure simili. Il confine tra Grecia e Macedonia sta diventando sempre più difficilmente valicabile e nell'area di Idomeni, nella regione greca della Macedonia Centrale al confine con la Fyrom (Macedonia) si ammassano migliaia di immigrati. La settimana scorsa il commissario europeo Christos Stylianides ne aveva stimati tra i 12 e i 15mila.
La rotta dei Balcani Occidentali è attualmente la più battuta. Da quando l'Unhcr ha preso a monitorare la situazione, nel luglio 2015, si stima che circa 700mila richiedenti asilo e immigrati abbiano passato il confine tra Grecia e Macedonia. Quasi tutti hanno proseguito il viaggio attraverso la Serbia, tentando di passare in Ungheria. Entro la fine del 2015, circa 815mila persone avevano viaggiato attraverso la Serbia, con circa 6.500 ingressi al giorno in ottobre e novembre. In settembre l'Ungheria ha preso misure draconiane per fermare il flusso, costruendo anche una barriera lunga 110 miglia, cosa che ha ridiretto il grosso dei transiti verso il confine tra Serbia e Croazia. Da metà settembre 2015, 557.743 rifugiati e migranti hanno viaggiato attraverso la Brioche, ma solo 21 hanno fatto richiesta di asilo a Zagabria. La maggior parte dei migranti dalla Croazia sono passati in Slovenia (378mila transiti tra ottobre e dicembre 2015), dove solo 144 persone hanno chiesto asilo. L'Ue ha deciso di ricollocare in tutto 160mila rifugiati in due anni da Italia, Grecia e Croazia, ma al 4 febbraio solo 279 persone sono state riallocate dall'Italia e 202 dalla Grecia, principalmente verso Francia e Finlandia. "A questa velocità - si stima - occorreranno 47 anni per ricollocare 39.600 persone dall'Italia e oltre un secolo per terminare la riallocazione dalla Grecia".
A Bruxelles la preoccupazione maggiore è che questa ondata prenda una nuova rotta. Ora che la rotta balcanica è stata definitivamente chiusa, gli immigrati potrebbero tentare la via del mare. Gli analisti hanno in mano diverse evidenze che lasciano temere il peggio, soprattutto per l'Italia. Solo Alfano sembra non accorgersene. "Siamo abituati a fare le previsioni ma anche ad osservare la realtà - spiega Alfano - la logica ci suggerisce che con la chiusura della rotta balcanica si potrebbe aprire una rotta. Questo però ce lo fa dire la logica, ma oggi non i fatti". L'importante è che quando si aprirà la rotta adriatica, il titolare del Viminale non si faccia trovare impreparato (come sempre).
http://www.ilgiornale.it/news/mondo/alf ... 34278.html
La rotta balcanica è chiusa. L'Ue teme che il flusso di migranti prenda rotte alternative, come quella del Mediterraneo Centrale o dell'Albania. Ma Alfano nega l'emergenza: "Nessun flusso sulla rotta adriatica"
Sergio Rame - Gio, 10/03/2016 - 09:55
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L'Unione europea è ben consapevole del rischio che il flusso degli immigrati in arrivo dalla Turchia, ora che la rotta dei Balcani Occidentali si sta chiudendo, prenda rotte alternative, come quella del Mediterraneo Centrale o dell'Albania.
Solo Angelino Alfano sembra non vedere l'emergenza. E, come un disco rotto, continua ad andare in giro a ripetere che la situazione è sotto controllo. "Fino a questo momento - assicura il ministro dell'Interno - non abbiamo evidenza di questo flusso enorme di migranti in arrivo sulla rotta adriatica".
La Slovenia ieri ha annunciato la piena reintroduzione del codice delle frontiere delle Schengen. "Questo significa che i cittadini di Paesi terzi che non sono qualificati ad entrare nell'area Schengen o che non hanno fatto richiesta di asilo malgrado - mette in guardia la portavoce della Commissione Ue, Natasha Berthaud - abbiano avuto l'opportunità di farlo, non verranno ammessi in Slovenia". Una misura perfettamente in linea con le conclusioni del Consiglio europeo del 18 e 19 febbraio. Anche la Croazia e la Serbia hanno annunciato misure simili. Il confine tra Grecia e Macedonia sta diventando sempre più difficilmente valicabile e nell'area di Idomeni, nella regione greca della Macedonia Centrale al confine con la Fyrom (Macedonia) si ammassano migliaia di immigrati. La settimana scorsa il commissario europeo Christos Stylianides ne aveva stimati tra i 12 e i 15mila.
La rotta dei Balcani Occidentali è attualmente la più battuta. Da quando l'Unhcr ha preso a monitorare la situazione, nel luglio 2015, si stima che circa 700mila richiedenti asilo e immigrati abbiano passato il confine tra Grecia e Macedonia. Quasi tutti hanno proseguito il viaggio attraverso la Serbia, tentando di passare in Ungheria. Entro la fine del 2015, circa 815mila persone avevano viaggiato attraverso la Serbia, con circa 6.500 ingressi al giorno in ottobre e novembre. In settembre l'Ungheria ha preso misure draconiane per fermare il flusso, costruendo anche una barriera lunga 110 miglia, cosa che ha ridiretto il grosso dei transiti verso il confine tra Serbia e Croazia. Da metà settembre 2015, 557.743 rifugiati e migranti hanno viaggiato attraverso la Brioche, ma solo 21 hanno fatto richiesta di asilo a Zagabria. La maggior parte dei migranti dalla Croazia sono passati in Slovenia (378mila transiti tra ottobre e dicembre 2015), dove solo 144 persone hanno chiesto asilo. L'Ue ha deciso di ricollocare in tutto 160mila rifugiati in due anni da Italia, Grecia e Croazia, ma al 4 febbraio solo 279 persone sono state riallocate dall'Italia e 202 dalla Grecia, principalmente verso Francia e Finlandia. "A questa velocità - si stima - occorreranno 47 anni per ricollocare 39.600 persone dall'Italia e oltre un secolo per terminare la riallocazione dalla Grecia".
A Bruxelles la preoccupazione maggiore è che questa ondata prenda una nuova rotta. Ora che la rotta balcanica è stata definitivamente chiusa, gli immigrati potrebbero tentare la via del mare. Gli analisti hanno in mano diverse evidenze che lasciano temere il peggio, soprattutto per l'Italia. Solo Alfano sembra non accorgersene. "Siamo abituati a fare le previsioni ma anche ad osservare la realtà - spiega Alfano - la logica ci suggerisce che con la chiusura della rotta balcanica si potrebbe aprire una rotta. Questo però ce lo fa dire la logica, ma oggi non i fatti". L'importante è che quando si aprirà la rotta adriatica, il titolare del Viminale non si faccia trovare impreparato (come sempre).
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Questa premessa diventa un obbligo per comprendere l'articolo successivo.
C’è una guerra in corso tra la massoneria progressista e quella conservatrice. Coinvolti tutti i Paesi, come Obama, la Merkel, Napolitano, Draghi e…
di Edoardo Bettella
http://popoffquotidiano.it/2014/11/23/l ... -la-lista/
C’è una guerra in corso tra la massoneria progressista e quella conservatrice. Coinvolti tutti i Paesi, come Obama, la Merkel, Napolitano, Draghi e…
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