Diario della caduta di un regime.
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Re: Diario della caduta di un regime.
D’Alema: Renzi deve perdere le città e poi il referendum
Scritto il 15/3/16 • nella Categoria: idee
«Vedo più spettatori che votanti a queste primarie». Oppure: «C’era anche Renzi al funerale? Non l’ho visto». A parlare è un Massimo D’Alema che in questi giorni si mostra di insolita giovialità, quasi spensierato. E così, fra una battuta e l’altra, qualche sera fa, in una cena in cui c’era una giornalista, il lìder Massimo si è lasciato sfuggire una battuta «lieve come un’incudine sui piedi», ovvero: «Renzi è un agente del Mossad, bisogna farlo cadere». Il Mossad, nientemeno! Vero, Renzi «si è sempre mostrato assai comprensivo verso le ragioni di Israele», ammette Aldo Giannuli, che da tempo segnala grandi manovre per far fuori il Rottamatore, che peraltro ha come consigliere economico Yoram Gutgeld, già tenente colonnello dell’esercito israeliano. «Forse, quella del Conte Max era solo una battuta di spirito», aggiunge Giannuli, sarcastico, proprio mentre – da Napoli a Roma – il Pd renziano sta per andare incontro a un possibile disastro, alle amministrative. Il momento è delicato? Ed ecco che interviene D’Alema – un uomo che, per inciso, vanta relazioni europee di altissimo livello, come quelle con pesi massimi del super-potere, del calibro di Jacques Attali, già uomo-ombra di Mitterrand e da sempre presente nel vertice supremo, anche massonico, che pilota le istituzioni europee.
A ottobre, ricorda Giannuli, c’è il referendum sulle riforme costituzionali: se passa il no, Renzi ha detto che si dimette (ma forse no), nel qual caso potrebbero esserci nuove elezioni: «In fondo, almeno formalmente, il motivo per cui questo incredibile Parlamento è restato in vita nonostante la sua palese illegittimità, è stata la necessità di attuare riforme costituzionali, venute meno le quali, non si capisce perché mai dovrebbe restare in carica». Se invece dovesse vincere il sì, «allora è proprio sicuro che voteremmo dopo pochi mesi», aggiunge il politologo dell’ateneo milanese, «perché un Renzi incoronato da un referendum passerebbe subito all’incasso». In ogni caso, «la squadra renziana (se non lui personalmente) procederebbe alla decimazione dei bersaniani nei gruppi parlamentari». Non solo: anche per il super-potere europeo (la Bce, la Merkel, le grandi banche d’affari) sarebbe più difficile «abbattere un premier fresco di unzione popolare». Quindi, gli anti-renziani «hanno pochi mesi per tentare il colpo», ed ecco spiegato anche l’improvviso attivismo di D’Alema: sa benissimo che, se Renzi supera il referendum, dopo sarà più difficile fermarlo.
Scenari possibili, nel frattempo? Tanti. Per esempio, un voto contrario in Parlamento: «Cosa facile da farsi in Senato ma di dubbia efficacia, perché sino a quando resta segretario del partito non si potrebbe fare alcun altro governo e si andrebbe alle elezioni anticipate che probabilmente potrebbero essere vinte da Renzi». Piano-B: un congresso straordinario che lo metta in minoranza: «Cosa possibile solo se c’è una spallata fortissima, tale da mandare in frantumi il blocco dominante». Meno improbabile, forse, «un capitombolo sulla questione libica che produca una tale ondata di protesta popolare da spingere una bella fetta del gruppo dirigente ad offrire la testa di Renzi per salvarsi davanti all’elettorato». Ma Renzi non è certo uno sprovveduto: «Si sta dimostrando tutt’altro che propenso ad imbarcarsi in quella avventura». Il pericolo, per Renzi, cresce davvero solo se proviene da Bruxelles: una nuova tempesta dello spread, con lettere e richiami della Bce? Certo, Renzi è meno vulnerabile di Berlusconi – non ha le sue aziende, che in quei giorni persero il 26% del loro valore in Borsa. «Si può provare, ma la riuscita non è garantita», scrive Giannuli. «Poi, in un momento di grande instabilità finanziaria non sarebbe prudente introdurre un altro elemento di fibrillazione: in fondo, l’Italia rappresenta pur sempre il terzo debito mondiale».
Altri frangenti scivolosi? «Un grosso scandalo, magari aiutato dall’intervento di qualche procura: e qui, fra l’Etruria, la Popolare di Vicenza e altro, ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta sulla casella su cui fare la puntata. Però occorre che lo scandalo possa investire personalmente il presidente del Consiglio (non basterebbero uno o tre ministri) e dovrebbero esserci prove di qualche consistenza». Ma la prima pietra d’inciampo sono proprio le amministrative di giugno: l’aria non è buona per il Pd, Napoli e Roma sono piazze difficilissime, qualche problema potrebbe esserci a Torino o Bologna, e a decidere potrebbe essere Milano. «Renzi, che è furbo, ha fiutato il vento e ha già detto che non è su quel test che si misurerà, ma sul referendum: uno schema di gioco che può reggere se il risultato è dignitoso anche se sfavorevole». Oggi tutte le cinque maggiori città, eccetto Napoli, sono governate dal Pd: perdere in una delle altre quattro città sarebbe una sconfitta, ma accettabile (specie se si trattasse di Roma, dove la partita è proibitiva). Ma se a Napoli e Roma si aggiungesse un’altra città? E se la terza sconfitta fosse proprio a Milano? «Le cose andrebbero diversamente e si accenderebbe uno scontro interno al partito in cui potrebbe anche accadere che un pezzo della maggioranza si stacchi per dar vita ad una corrente di centro», cosa che inizierebbe a rendere difficile la vita al fiorentino, conclude Giannuli: difficile credere che non stia pensando proprio a questo, il Conte Max.
«Vedo più spettatori che votanti a queste primarie». Oppure: «C’era anche Renzi al funerale? Non l’ho visto». A parlare è un Massimo D’Alema che in questi giorni si mostra di insolita giovialità, quasi spensierato. E così, fra una battuta e l’altra, qualche sera fa, in una cena in cui c’era una giornalista, il lìder Massimo si è lasciato sfuggire una battuta «lieve come un’incudine sui piedi», ovvero: «Renzi è un agente del Mossad, bisogna farlo cadere». Il Mossad, nientemeno! Vero, Renzi «si è sempre mostrato assai comprensivo verso le ragioni di Israele», ammette Aldo Giannuli, che da tempo segnala grandi manovre per far fuori il Rottamatore, che peraltro ha come consigliere economico Yoram Gutgeld, già tenente colonnello dell’esercito israeliano. «Forse, quella del Conte Max era solo una battuta di spirito», aggiunge Giannuli, sarcastico, proprio mentre – da Napoli a Roma – il Pd renziano sta per andare incontro a un possibile disastro, alle amministrative. Il momento è delicato? Ed ecco che interviene D’Alema – un uomo che, per inciso, vanta relazioni europee di altissimo livello, come quelle con pesi massimi del super-potere, del calibro di Jacques Attali, già uomo-ombra di Mitterrand e da sempre presente nel vertice supremo, anche massonico, che pilota le istituzioni europee.
A ottobre, ricorda Giannuli, c’è il referendum sulle riforme costituzionali: se passa il no, Renzi ha detto che si dimette (ma forse no), nel qual caso potrebbero esserci nuove elezioni: «In fondo, almeno formalmente, il motivo per cui questo incredibile GiannuliParlamento è restato in vita nonostante la sua palese illegittimità, è stata la necessità di attuare riforme costituzionali, venute meno le quali, non si capisce perché mai dovrebbe restare in carica». Se invece dovesse vincere il sì, «allora è proprio sicuro che voteremmo dopo pochi mesi», aggiunge il politologo dell’ateneo milanese, «perché un Renzi incoronato da un referendum passerebbe subito all’incasso». In ogni caso, «la squadra renziana (se non lui personalmente) procederebbe alla decimazione dei bersaniani nei gruppi parlamentari». Non solo: anche per il super-potere europeo (la Bce, la Merkel, le grandi banche d’affari) sarebbe più difficile «abbattere un premier fresco di unzione popolare». Quindi, gli anti-renziani «hanno pochi mesi per tentare il colpo», ed ecco spiegato anche l’improvviso attivismo di D’Alema: sa benissimo che, se Renzi supera il referendum, dopo sarà più difficile fermarlo.
Scenari possibili, nel frattempo? Tanti. Per esempio, un voto contrario in Parlamento: «Cosa facile da farsi in Senato ma di dubbia efficacia, perché sino a quando resta segretario del partito non si potrebbe fare alcun altro governo e si andrebbe alle elezioni anticipate che probabilmente potrebbero essere vinte da Renzi». Piano-B: un congresso straordinario che lo metta in minoranza: «Cosa possibile solo se c’è una spallata fortissima, tale da mandare in frantumi il blocco dominante». Meno improbabile, forse, «un capitombolo sulla questione libica che produca una tale ondata di protesta popolare da spingere una bella fetta del gruppo dirigente ad offrire la testa di Renzi per salvarsi davanti all’elettorato». Ma Renzi non è certo uno sprovveduto: «Si sta dimostrando tutt’altro che propenso ad imbarcarsi in quella avventura». Il pericolo, per Renzi, cresce davvero solo se proviene da Bruxelles: una nuova tempesta dello spread, con lettere e richiami della Bce? Certo, Renzi è meno vulnerabile di Berlusconi – non ha le sue aziende, che in quei giorni persero il 26% del loro valore in Borsa. «Si può provare,
D'Alema e Renzima la riuscita non è garantita», scrive Giannuli. «Poi, in un momento di grande instabilità finanziaria non sarebbe prudente introdurre un altro elemento di fibrillazione: in fondo, l’Italia rappresenta pur sempre il terzo debito mondiale».
Altri frangenti scivolosi? «Un grosso scandalo, magari aiutato dall’intervento di qualche procura: e qui, fra l’Etruria, la Popolare di Vicenza e altro, ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta sulla casella su cui fare la puntata. Però occorre che lo scandalo possa investire personalmente il presidente del Consiglio (non basterebbero uno o tre ministri) e dovrebbero esserci prove di qualche consistenza». Ma la prima pietra d’inciampo sono proprio le amministrative di giugno: l’aria non è buona per il Pd, Napoli e Roma sono piazze difficilissime, qualche problema potrebbe esserci a Torino o Bologna, e a decidere potrebbe essere Milano. «Renzi, che è furbo, ha fiutato il vento e ha già detto che non è su quel test che si misurerà, ma sul referendum: uno schema di gioco che può reggere se il risultato è dignitoso anche se sfavorevole». Oggi tutte le cinque maggiori città, eccetto Napoli, sono governate dal Pd: perdere in una delle altre quattro città sarebbe una sconfitta, ma accettabile (specie se si trattasse di Roma, dove la partita è proibitiva). Ma se a Napoli e Roma si aggiungesse un’altra città? E se la terza sconfitta fosse proprio a Milano? «Le cose andrebbero diversamente e si accenderebbe uno scontro interno al partito in cui potrebbe anche accadere che un pezzo della maggioranza si stacchi per dar vita ad una corrente di centro», cosa che inizierebbe a rendere difficile la vita al fiorentino, conclude Giannuli: difficile credere che non stia pensando proprio a questo, il Conte Max.
Scritto il 15/3/16 • nella Categoria: idee
«Vedo più spettatori che votanti a queste primarie». Oppure: «C’era anche Renzi al funerale? Non l’ho visto». A parlare è un Massimo D’Alema che in questi giorni si mostra di insolita giovialità, quasi spensierato. E così, fra una battuta e l’altra, qualche sera fa, in una cena in cui c’era una giornalista, il lìder Massimo si è lasciato sfuggire una battuta «lieve come un’incudine sui piedi», ovvero: «Renzi è un agente del Mossad, bisogna farlo cadere». Il Mossad, nientemeno! Vero, Renzi «si è sempre mostrato assai comprensivo verso le ragioni di Israele», ammette Aldo Giannuli, che da tempo segnala grandi manovre per far fuori il Rottamatore, che peraltro ha come consigliere economico Yoram Gutgeld, già tenente colonnello dell’esercito israeliano. «Forse, quella del Conte Max era solo una battuta di spirito», aggiunge Giannuli, sarcastico, proprio mentre – da Napoli a Roma – il Pd renziano sta per andare incontro a un possibile disastro, alle amministrative. Il momento è delicato? Ed ecco che interviene D’Alema – un uomo che, per inciso, vanta relazioni europee di altissimo livello, come quelle con pesi massimi del super-potere, del calibro di Jacques Attali, già uomo-ombra di Mitterrand e da sempre presente nel vertice supremo, anche massonico, che pilota le istituzioni europee.
A ottobre, ricorda Giannuli, c’è il referendum sulle riforme costituzionali: se passa il no, Renzi ha detto che si dimette (ma forse no), nel qual caso potrebbero esserci nuove elezioni: «In fondo, almeno formalmente, il motivo per cui questo incredibile Parlamento è restato in vita nonostante la sua palese illegittimità, è stata la necessità di attuare riforme costituzionali, venute meno le quali, non si capisce perché mai dovrebbe restare in carica». Se invece dovesse vincere il sì, «allora è proprio sicuro che voteremmo dopo pochi mesi», aggiunge il politologo dell’ateneo milanese, «perché un Renzi incoronato da un referendum passerebbe subito all’incasso». In ogni caso, «la squadra renziana (se non lui personalmente) procederebbe alla decimazione dei bersaniani nei gruppi parlamentari». Non solo: anche per il super-potere europeo (la Bce, la Merkel, le grandi banche d’affari) sarebbe più difficile «abbattere un premier fresco di unzione popolare». Quindi, gli anti-renziani «hanno pochi mesi per tentare il colpo», ed ecco spiegato anche l’improvviso attivismo di D’Alema: sa benissimo che, se Renzi supera il referendum, dopo sarà più difficile fermarlo.
Scenari possibili, nel frattempo? Tanti. Per esempio, un voto contrario in Parlamento: «Cosa facile da farsi in Senato ma di dubbia efficacia, perché sino a quando resta segretario del partito non si potrebbe fare alcun altro governo e si andrebbe alle elezioni anticipate che probabilmente potrebbero essere vinte da Renzi». Piano-B: un congresso straordinario che lo metta in minoranza: «Cosa possibile solo se c’è una spallata fortissima, tale da mandare in frantumi il blocco dominante». Meno improbabile, forse, «un capitombolo sulla questione libica che produca una tale ondata di protesta popolare da spingere una bella fetta del gruppo dirigente ad offrire la testa di Renzi per salvarsi davanti all’elettorato». Ma Renzi non è certo uno sprovveduto: «Si sta dimostrando tutt’altro che propenso ad imbarcarsi in quella avventura». Il pericolo, per Renzi, cresce davvero solo se proviene da Bruxelles: una nuova tempesta dello spread, con lettere e richiami della Bce? Certo, Renzi è meno vulnerabile di Berlusconi – non ha le sue aziende, che in quei giorni persero il 26% del loro valore in Borsa. «Si può provare, ma la riuscita non è garantita», scrive Giannuli. «Poi, in un momento di grande instabilità finanziaria non sarebbe prudente introdurre un altro elemento di fibrillazione: in fondo, l’Italia rappresenta pur sempre il terzo debito mondiale».
Altri frangenti scivolosi? «Un grosso scandalo, magari aiutato dall’intervento di qualche procura: e qui, fra l’Etruria, la Popolare di Vicenza e altro, ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta sulla casella su cui fare la puntata. Però occorre che lo scandalo possa investire personalmente il presidente del Consiglio (non basterebbero uno o tre ministri) e dovrebbero esserci prove di qualche consistenza». Ma la prima pietra d’inciampo sono proprio le amministrative di giugno: l’aria non è buona per il Pd, Napoli e Roma sono piazze difficilissime, qualche problema potrebbe esserci a Torino o Bologna, e a decidere potrebbe essere Milano. «Renzi, che è furbo, ha fiutato il vento e ha già detto che non è su quel test che si misurerà, ma sul referendum: uno schema di gioco che può reggere se il risultato è dignitoso anche se sfavorevole». Oggi tutte le cinque maggiori città, eccetto Napoli, sono governate dal Pd: perdere in una delle altre quattro città sarebbe una sconfitta, ma accettabile (specie se si trattasse di Roma, dove la partita è proibitiva). Ma se a Napoli e Roma si aggiungesse un’altra città? E se la terza sconfitta fosse proprio a Milano? «Le cose andrebbero diversamente e si accenderebbe uno scontro interno al partito in cui potrebbe anche accadere che un pezzo della maggioranza si stacchi per dar vita ad una corrente di centro», cosa che inizierebbe a rendere difficile la vita al fiorentino, conclude Giannuli: difficile credere che non stia pensando proprio a questo, il Conte Max.
«Vedo più spettatori che votanti a queste primarie». Oppure: «C’era anche Renzi al funerale? Non l’ho visto». A parlare è un Massimo D’Alema che in questi giorni si mostra di insolita giovialità, quasi spensierato. E così, fra una battuta e l’altra, qualche sera fa, in una cena in cui c’era una giornalista, il lìder Massimo si è lasciato sfuggire una battuta «lieve come un’incudine sui piedi», ovvero: «Renzi è un agente del Mossad, bisogna farlo cadere». Il Mossad, nientemeno! Vero, Renzi «si è sempre mostrato assai comprensivo verso le ragioni di Israele», ammette Aldo Giannuli, che da tempo segnala grandi manovre per far fuori il Rottamatore, che peraltro ha come consigliere economico Yoram Gutgeld, già tenente colonnello dell’esercito israeliano. «Forse, quella del Conte Max era solo una battuta di spirito», aggiunge Giannuli, sarcastico, proprio mentre – da Napoli a Roma – il Pd renziano sta per andare incontro a un possibile disastro, alle amministrative. Il momento è delicato? Ed ecco che interviene D’Alema – un uomo che, per inciso, vanta relazioni europee di altissimo livello, come quelle con pesi massimi del super-potere, del calibro di Jacques Attali, già uomo-ombra di Mitterrand e da sempre presente nel vertice supremo, anche massonico, che pilota le istituzioni europee.
A ottobre, ricorda Giannuli, c’è il referendum sulle riforme costituzionali: se passa il no, Renzi ha detto che si dimette (ma forse no), nel qual caso potrebbero esserci nuove elezioni: «In fondo, almeno formalmente, il motivo per cui questo incredibile GiannuliParlamento è restato in vita nonostante la sua palese illegittimità, è stata la necessità di attuare riforme costituzionali, venute meno le quali, non si capisce perché mai dovrebbe restare in carica». Se invece dovesse vincere il sì, «allora è proprio sicuro che voteremmo dopo pochi mesi», aggiunge il politologo dell’ateneo milanese, «perché un Renzi incoronato da un referendum passerebbe subito all’incasso». In ogni caso, «la squadra renziana (se non lui personalmente) procederebbe alla decimazione dei bersaniani nei gruppi parlamentari». Non solo: anche per il super-potere europeo (la Bce, la Merkel, le grandi banche d’affari) sarebbe più difficile «abbattere un premier fresco di unzione popolare». Quindi, gli anti-renziani «hanno pochi mesi per tentare il colpo», ed ecco spiegato anche l’improvviso attivismo di D’Alema: sa benissimo che, se Renzi supera il referendum, dopo sarà più difficile fermarlo.
Scenari possibili, nel frattempo? Tanti. Per esempio, un voto contrario in Parlamento: «Cosa facile da farsi in Senato ma di dubbia efficacia, perché sino a quando resta segretario del partito non si potrebbe fare alcun altro governo e si andrebbe alle elezioni anticipate che probabilmente potrebbero essere vinte da Renzi». Piano-B: un congresso straordinario che lo metta in minoranza: «Cosa possibile solo se c’è una spallata fortissima, tale da mandare in frantumi il blocco dominante». Meno improbabile, forse, «un capitombolo sulla questione libica che produca una tale ondata di protesta popolare da spingere una bella fetta del gruppo dirigente ad offrire la testa di Renzi per salvarsi davanti all’elettorato». Ma Renzi non è certo uno sprovveduto: «Si sta dimostrando tutt’altro che propenso ad imbarcarsi in quella avventura». Il pericolo, per Renzi, cresce davvero solo se proviene da Bruxelles: una nuova tempesta dello spread, con lettere e richiami della Bce? Certo, Renzi è meno vulnerabile di Berlusconi – non ha le sue aziende, che in quei giorni persero il 26% del loro valore in Borsa. «Si può provare,
D'Alema e Renzima la riuscita non è garantita», scrive Giannuli. «Poi, in un momento di grande instabilità finanziaria non sarebbe prudente introdurre un altro elemento di fibrillazione: in fondo, l’Italia rappresenta pur sempre il terzo debito mondiale».
Altri frangenti scivolosi? «Un grosso scandalo, magari aiutato dall’intervento di qualche procura: e qui, fra l’Etruria, la Popolare di Vicenza e altro, ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta sulla casella su cui fare la puntata. Però occorre che lo scandalo possa investire personalmente il presidente del Consiglio (non basterebbero uno o tre ministri) e dovrebbero esserci prove di qualche consistenza». Ma la prima pietra d’inciampo sono proprio le amministrative di giugno: l’aria non è buona per il Pd, Napoli e Roma sono piazze difficilissime, qualche problema potrebbe esserci a Torino o Bologna, e a decidere potrebbe essere Milano. «Renzi, che è furbo, ha fiutato il vento e ha già detto che non è su quel test che si misurerà, ma sul referendum: uno schema di gioco che può reggere se il risultato è dignitoso anche se sfavorevole». Oggi tutte le cinque maggiori città, eccetto Napoli, sono governate dal Pd: perdere in una delle altre quattro città sarebbe una sconfitta, ma accettabile (specie se si trattasse di Roma, dove la partita è proibitiva). Ma se a Napoli e Roma si aggiungesse un’altra città? E se la terza sconfitta fosse proprio a Milano? «Le cose andrebbero diversamente e si accenderebbe uno scontro interno al partito in cui potrebbe anche accadere che un pezzo della maggioranza si stacchi per dar vita ad una corrente di centro», cosa che inizierebbe a rendere difficile la vita al fiorentino, conclude Giannuli: difficile credere che non stia pensando proprio a questo, il Conte Max.
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Re: Diario della caduta di un regime.
e si gioca al capro espiatorio
per prendere voti. Ma così l’Europa
diventa ancor meno popolare.
All’Italia serve una proposta
costruttiva europeista, non una
critica distruttiva antieuropea.
Così ci spariamo sui piedi e inoltre,
quando si insegue il populismo,
la gente sceglie l’originale
non la copia».
Renzi è populista?
«Non dico questo e mi auguro
di no, ma bisogna evitare di
fare favori all’antieuropeismo
nostrano. Vedo che purtroppo
l’economia europea e italiana si
sono fermate... Serve una operazione
verità. Le difficoltà vanno
spiegate, non coperte».
Andrà alla direzione del
Partito democratico lunedì?
«Ho lezione a Parigi».
Bersani e Speranza si richiamano
all’Ulivo, D’Alema dice
che il Pd è finito in mano a un
gruppo di arroganti e sogna
nuova forza di centrosinistra...
«Guardo da lontano, con preoccupazione
e partecipazione
emotiva a questa crisi di valori,
di comportamenti e di prospettive
».
Nel Pd si vive da separati in
casa.
«Spero prevalga la voglia di
ognuno di salvare l’Ulivo e il Partito
democratico, che sono la
più grande novità positiva della
politica italiana degli ultimi venti
anni».
Ci sarà la scissione?
«Il rischio di una crisi insanabile
dovrebbe portare tutti a essere
più responsabili, a partire
da chi ha l’onore della guida e
che ha dunque una responsabilità
in più».
Renzi?
«Mi aspetto che chi guida si
assuma l’onere della inclusione
e non l’onere del cacciare un
pezzo di Pd».
Per Renzi le polemiche sulla
condanna di Verdini sono
strumentali. Non si sente chiamato
in causa?
«Trovo molto scorretto questo
paragone. Non si può paragonare
un governo di eccezione,
nato perché non c’erano altre
maggioranza possibili, con un
governo di scelta come quello
che Renzi rivendica sempre di
essere».
Come voterà al referendum
di ottobre?
«Premesso che il mio governo
impostò il lavoro per il superamento
del bicameralismo,
quando tutti i dati saranno chiari,
dirò come la penso. Ma non
mi sento di criticare Renzi per
aver deciso di investire su questo
tema. Lo stesso fece Berlusconi
sul referendum del 2006, anche
se poi lo perse».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
per prendere voti. Ma così l’Europa
diventa ancor meno popolare.
All’Italia serve una proposta
costruttiva europeista, non una
critica distruttiva antieuropea.
Così ci spariamo sui piedi e inoltre,
quando si insegue il populismo,
la gente sceglie l’originale
non la copia».
Renzi è populista?
«Non dico questo e mi auguro
di no, ma bisogna evitare di
fare favori all’antieuropeismo
nostrano. Vedo che purtroppo
l’economia europea e italiana si
sono fermate... Serve una operazione
verità. Le difficoltà vanno
spiegate, non coperte».
Andrà alla direzione del
Partito democratico lunedì?
«Ho lezione a Parigi».
Bersani e Speranza si richiamano
all’Ulivo, D’Alema dice
che il Pd è finito in mano a un
gruppo di arroganti e sogna
nuova forza di centrosinistra...
«Guardo da lontano, con preoccupazione
e partecipazione
emotiva a questa crisi di valori,
di comportamenti e di prospettive
».
Nel Pd si vive da separati in
casa.
«Spero prevalga la voglia di
ognuno di salvare l’Ulivo e il Partito
democratico, che sono la
più grande novità positiva della
politica italiana degli ultimi venti
anni».
Ci sarà la scissione?
«Il rischio di una crisi insanabile
dovrebbe portare tutti a essere
più responsabili, a partire
da chi ha l’onore della guida e
che ha dunque una responsabilità
in più».
Renzi?
«Mi aspetto che chi guida si
assuma l’onere della inclusione
e non l’onere del cacciare un
pezzo di Pd».
Per Renzi le polemiche sulla
condanna di Verdini sono
strumentali. Non si sente chiamato
in causa?
«Trovo molto scorretto questo
paragone. Non si può paragonare
un governo di eccezione,
nato perché non c’erano altre
maggioranza possibili, con un
governo di scelta come quello
che Renzi rivendica sempre di
essere».
Come voterà al referendum
di ottobre?
«Premesso che il mio governo
impostò il lavoro per il superamento
del bicameralismo,
quando tutti i dati saranno chiari,
dirò come la penso. Ma non
mi sento di criticare Renzi per
aver deciso di investire su questo
tema. Lo stesso fece Berlusconi
sul referendum del 2006, anche
se poi lo perse».
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Re: Diario della caduta di un regime.
Chi è che ha scritto queste cose?
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Re: Diario della caduta di un regime.
cielo 70 ha scritto:Chi è che ha scritto queste cose?
Intervista a Letta
"Renzi non segua il populismo e dica la verità"
http://www.pressreader.com/
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Re: Diario della caduta di un regime.
Mi scuso per l'incompletezza dovuta alla fretta e per non aver controllato il testo.
Ringrazio erding per la precisazione che mi competeva.
RIPROPONGO IL TESTO INTEGRALE DELL'INTERVISTA DI MONICA GUERZONI PER CONTO DEL CORRIERE DELLA SERA PUBBLICATA IERI A PAGINA 15.
L’INTERVISTA ENRICO LETTA
«Il Pd rischia una crisi insanabile
Un leader non caccia, unisce»
L’ex premier: «L’immigrazione? La guida toccava all’Italia, se l’è presa Merkel»
dalla nostra inviata
Monica Guerzoni
NEW YORK Felice di trovarsi in
mezzo a 1.800 studenti di tutto il
mondo per aprire al Palazzo di
Vetro il forum di Change the
world, Enrico Letta non cela la
sua preoccupazione, per i destini
dell’Europa e del suo partito.
«Renzi deve assumersi l’onore di
unire e non quello di cacciare un
pezzo di Pd», avverte in vista della
direzione nazionale di lunedì.
Come valuta l’accordo con la
Turchia sui migranti?
«È un piccolo passo positivo,
ma un disegno complessivo non
c’è. Da europeista, io sono molto
scettico perché rivedo il peggior
film della crisi dell’euro del
2008. L’Europa ci ha messo
quattro anni per costruire gli
strumenti adatti per fronteggiarla,
quattro anni in cui è successo
un disastro».
Si rischia il disastro anche
sui rifugiati?
«Così come la crisi finanziaria
del 2008 fu la più violenta di
sempre, quella dei rifugiati è la
crisi più forte dal Dopoguerra.
Come per l’euro, è arrivata all’improvviso
e l’Europa si è trovata
impreparata».
Colpa della Merkel, di Hollande,
di Renzi?
«I leader hanno perso tre anni
in trenta vertici e la risposta è
inadeguata. Non basta mettere
toppe sulle emergenze, bisogna
mettere in campo strumenti europei,
come lo furono il bazooka
di Draghi e il fondo salva Stati».
Lei cosa propone?
«Il primo strumento è una vera
polizia di frontiera europea,
che gestisca tutte le frontiere
esterne dell’Ue senza delegare a
ogni Paese la sua. Urge anche
mettere fine a questa specie di
turismo dei sistemi di accoglienza,
sono 28 tutti diversi e
vanno armonizzati. Quando hai
di fronte un milione di persone
non puoi fronteggiarle con gli
strumenti che usavi quando erano
5 mila».
Intanto c’è chi soffia sul fuoco...
«I rapporti con i Paesi terzi
puoi gestirli solo con la forza
dell’Meloni, Salvini e Le Pen, che
aizzano l’opinione pubblica vendendo
una prospettiva di soluzione
nazionale, con respingimenti
e chiusura di frontiere. C’è
chi parla di temi che non conosce.
Anche per questo abbiamo
lanciato a Science Po, l’università
che dirigo da quando mi sono
dimesso dal Parlamento, un
progetto per fare di Parigi il punto
di riferimento della riflessione
su immigrazione e soluzioni
di lungo termine».
Le mosse di Renzi non la
convincono?
«La leadership anche su questo
tema se l’è presa la Merkel,
quando invece tocca all’Italia indicare
una soluzione europea.
Dobbiamo stare attenti, perché
se risolviamo il problema balcanico
a scapito della rotta mediterranea,
rischiamo di riaprire la
rotta libica: un disastro per l’Italia.
Non risolvere il problema europeo
e riportarlo solo all’Italia
rischia di essere l’effetto collaterale
di questo Consiglio Ue, che
si limita a mettere il lucchetto alla
rotta balcanica».
Condivide la frenata dell’Italia
sull’intervento militare in
Libia?
«Non ho gli elementi per sapere
se ci sono le condizioni sul
terreno, certo non si può lasciare
la Libia in mano all’Isis. Nessuno
di noi vuole la guerra. Ma
l’interesse nazionale è evitare
che la minaccia del Daesh sia a
poche miglia dalle nostre coste,
per cui il problema dobbiamo
porcelo».
La fiducia degli italiani nella
Ue è al minimo storico e Renzi
continua a mandare messaggi
di rottura.
«È un cane che si morde la coda.
Si vede nei sondaggi che
l’Unione europea non è popolare
Europa intera e lo dico ai vari
Meloni, Salvini e Le Pen, che
aizzano l’opinione pubblica vendendo
una prospettiva di soluzione
nazionale, con respingimenti
e chiusura di frontiere. C’è
chi parla di temi che non conosce.
Anche per questo abbiamo
lanciato a Science Po, l’università
che dirigo da quando mi sono
dimesso dal Parlamento, un
progetto per fare di Parigi il punto
di riferimento della riflessione
su immigrazione e soluzioni
di lungo termine».
Le mosse di Renzi non la
convincono?
«La leadership anche su questo
tema se l’è presa la Merkel,
quando invece tocca all’Italia indicare
una soluzione europea.
Dobbiamo stare attenti, perché
se risolviamo il problema balcanico
a scapito della rotta mediterranea,
rischiamo di riaprire la
rotta libica: un disastro per l’Italia.
Non risolvere il problema europeo
e riportarlo solo all’Italia
rischia di essere l’effetto collaterale
di questo Consiglio Ue, che
si limita a mettere il lucchetto alla
rotta balcanica».
Condivide la frenata dell’Italia
sull’intervento militare in
Libia?
«Non ho gli elementi per sapere
se ci sono le condizioni sul
terreno, certo non si può lasciare
la Libia in mano all’Isis. Nessuno
di noi vuole la guerra. Ma
l’interesse nazionale è evitare
che la minaccia del Daesh sia a
poche miglia dalle nostre coste,
per cui il problema dobbiamo
porcelo».
La fiducia degli italiani nella
Ue è al minimo storico e Renzi
continua a mandare messaggi
di rottura.
«È un cane che si morde la coda.
Si vede nei sondaggi che
l’Unione europea non è popolare
e si gioca al capro espiatorio
per prendere voti. Ma così l’Europa
diventa ancor meno popolare.
All’Italia serve una proposta
costruttiva europeista, non una
critica distruttiva antieuropea.
Così ci spariamo sui piedi e inoltre,
quando si insegue il populismo,
la gente sceglie l’originale
non la copia».
Renzi è populista?
«Non dico questo e mi auguro
di no, ma bisogna evitare di
fare favori all’antieuropeismo
nostrano. Vedo che purtroppo
l’economia europea e italiana si
sono fermate... Serve una operazione
verità. Le difficoltà vanno
spiegate, non coperte».
Andrà alla direzione del
Partito democratico lunedì?
«Ho lezione a Parigi».
Bersani e Speranza si richiamano
all’Ulivo, D’Alema dice
che il Pd è finito in mano a un
gruppo di arroganti e sogna
nuova forza di centrosinistra...
«Guardo da lontano, con preoccupazione
e partecipazione
emotiva a questa crisi di valori,
di comportamenti e di prospettive
».
Nel Pd si vive da separati in
casa.
«Spero prevalga la voglia di
ognuno di salvare l’Ulivo e il Partito
democratico, che sono la
più grande novità positiva della
politica italiana degli ultimi venti
anni».
Ci sarà la scissione?
«Il rischio di una crisi insanabile
dovrebbe portare tutti a essere
più responsabili, a partire
da chi ha l’onore della guida e
che ha dunque una responsabilità
in più».
Renzi?
«Mi aspetto che chi guida si
assuma l’onere della inclusione
e non l’onere del cacciare un
pezzo di Pd».
Per Renzi le polemiche sulla
condanna di Verdini sono
strumentali. Non si sente chiamato
in causa?
«Trovo molto scorretto questo
paragone. Non si può paragonare
un governo di eccezione,
nato perché non c’erano altre
maggioranza possibili, con un
governo di scelta come quello
che Renzi rivendica sempre di
essere».
Come voterà al referendum
di ottobre?
«Premesso che il mio governo
impostò il lavoro per il superamento
del bicameralismo,
quando tutti i dati saranno chiari,
dirò come la penso. Ma non
mi sento di criticare Renzi per
aver deciso di investire su questo
tema. Lo stesso fece Berlusconi
sul referendum del 2006, anche
se poi lo perse».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Ringrazio erding per la precisazione che mi competeva.
RIPROPONGO IL TESTO INTEGRALE DELL'INTERVISTA DI MONICA GUERZONI PER CONTO DEL CORRIERE DELLA SERA PUBBLICATA IERI A PAGINA 15.
L’INTERVISTA ENRICO LETTA
«Il Pd rischia una crisi insanabile
Un leader non caccia, unisce»
L’ex premier: «L’immigrazione? La guida toccava all’Italia, se l’è presa Merkel»
dalla nostra inviata
Monica Guerzoni
NEW YORK Felice di trovarsi in
mezzo a 1.800 studenti di tutto il
mondo per aprire al Palazzo di
Vetro il forum di Change the
world, Enrico Letta non cela la
sua preoccupazione, per i destini
dell’Europa e del suo partito.
«Renzi deve assumersi l’onore di
unire e non quello di cacciare un
pezzo di Pd», avverte in vista della
direzione nazionale di lunedì.
Come valuta l’accordo con la
Turchia sui migranti?
«È un piccolo passo positivo,
ma un disegno complessivo non
c’è. Da europeista, io sono molto
scettico perché rivedo il peggior
film della crisi dell’euro del
2008. L’Europa ci ha messo
quattro anni per costruire gli
strumenti adatti per fronteggiarla,
quattro anni in cui è successo
un disastro».
Si rischia il disastro anche
sui rifugiati?
«Così come la crisi finanziaria
del 2008 fu la più violenta di
sempre, quella dei rifugiati è la
crisi più forte dal Dopoguerra.
Come per l’euro, è arrivata all’improvviso
e l’Europa si è trovata
impreparata».
Colpa della Merkel, di Hollande,
di Renzi?
«I leader hanno perso tre anni
in trenta vertici e la risposta è
inadeguata. Non basta mettere
toppe sulle emergenze, bisogna
mettere in campo strumenti europei,
come lo furono il bazooka
di Draghi e il fondo salva Stati».
Lei cosa propone?
«Il primo strumento è una vera
polizia di frontiera europea,
che gestisca tutte le frontiere
esterne dell’Ue senza delegare a
ogni Paese la sua. Urge anche
mettere fine a questa specie di
turismo dei sistemi di accoglienza,
sono 28 tutti diversi e
vanno armonizzati. Quando hai
di fronte un milione di persone
non puoi fronteggiarle con gli
strumenti che usavi quando erano
5 mila».
Intanto c’è chi soffia sul fuoco...
«I rapporti con i Paesi terzi
puoi gestirli solo con la forza
dell’Meloni, Salvini e Le Pen, che
aizzano l’opinione pubblica vendendo
una prospettiva di soluzione
nazionale, con respingimenti
e chiusura di frontiere. C’è
chi parla di temi che non conosce.
Anche per questo abbiamo
lanciato a Science Po, l’università
che dirigo da quando mi sono
dimesso dal Parlamento, un
progetto per fare di Parigi il punto
di riferimento della riflessione
su immigrazione e soluzioni
di lungo termine».
Le mosse di Renzi non la
convincono?
«La leadership anche su questo
tema se l’è presa la Merkel,
quando invece tocca all’Italia indicare
una soluzione europea.
Dobbiamo stare attenti, perché
se risolviamo il problema balcanico
a scapito della rotta mediterranea,
rischiamo di riaprire la
rotta libica: un disastro per l’Italia.
Non risolvere il problema europeo
e riportarlo solo all’Italia
rischia di essere l’effetto collaterale
di questo Consiglio Ue, che
si limita a mettere il lucchetto alla
rotta balcanica».
Condivide la frenata dell’Italia
sull’intervento militare in
Libia?
«Non ho gli elementi per sapere
se ci sono le condizioni sul
terreno, certo non si può lasciare
la Libia in mano all’Isis. Nessuno
di noi vuole la guerra. Ma
l’interesse nazionale è evitare
che la minaccia del Daesh sia a
poche miglia dalle nostre coste,
per cui il problema dobbiamo
porcelo».
La fiducia degli italiani nella
Ue è al minimo storico e Renzi
continua a mandare messaggi
di rottura.
«È un cane che si morde la coda.
Si vede nei sondaggi che
l’Unione europea non è popolare
Europa intera e lo dico ai vari
Meloni, Salvini e Le Pen, che
aizzano l’opinione pubblica vendendo
una prospettiva di soluzione
nazionale, con respingimenti
e chiusura di frontiere. C’è
chi parla di temi che non conosce.
Anche per questo abbiamo
lanciato a Science Po, l’università
che dirigo da quando mi sono
dimesso dal Parlamento, un
progetto per fare di Parigi il punto
di riferimento della riflessione
su immigrazione e soluzioni
di lungo termine».
Le mosse di Renzi non la
convincono?
«La leadership anche su questo
tema se l’è presa la Merkel,
quando invece tocca all’Italia indicare
una soluzione europea.
Dobbiamo stare attenti, perché
se risolviamo il problema balcanico
a scapito della rotta mediterranea,
rischiamo di riaprire la
rotta libica: un disastro per l’Italia.
Non risolvere il problema europeo
e riportarlo solo all’Italia
rischia di essere l’effetto collaterale
di questo Consiglio Ue, che
si limita a mettere il lucchetto alla
rotta balcanica».
Condivide la frenata dell’Italia
sull’intervento militare in
Libia?
«Non ho gli elementi per sapere
se ci sono le condizioni sul
terreno, certo non si può lasciare
la Libia in mano all’Isis. Nessuno
di noi vuole la guerra. Ma
l’interesse nazionale è evitare
che la minaccia del Daesh sia a
poche miglia dalle nostre coste,
per cui il problema dobbiamo
porcelo».
La fiducia degli italiani nella
Ue è al minimo storico e Renzi
continua a mandare messaggi
di rottura.
«È un cane che si morde la coda.
Si vede nei sondaggi che
l’Unione europea non è popolare
e si gioca al capro espiatorio
per prendere voti. Ma così l’Europa
diventa ancor meno popolare.
All’Italia serve una proposta
costruttiva europeista, non una
critica distruttiva antieuropea.
Così ci spariamo sui piedi e inoltre,
quando si insegue il populismo,
la gente sceglie l’originale
non la copia».
Renzi è populista?
«Non dico questo e mi auguro
di no, ma bisogna evitare di
fare favori all’antieuropeismo
nostrano. Vedo che purtroppo
l’economia europea e italiana si
sono fermate... Serve una operazione
verità. Le difficoltà vanno
spiegate, non coperte».
Andrà alla direzione del
Partito democratico lunedì?
«Ho lezione a Parigi».
Bersani e Speranza si richiamano
all’Ulivo, D’Alema dice
che il Pd è finito in mano a un
gruppo di arroganti e sogna
nuova forza di centrosinistra...
«Guardo da lontano, con preoccupazione
e partecipazione
emotiva a questa crisi di valori,
di comportamenti e di prospettive
».
Nel Pd si vive da separati in
casa.
«Spero prevalga la voglia di
ognuno di salvare l’Ulivo e il Partito
democratico, che sono la
più grande novità positiva della
politica italiana degli ultimi venti
anni».
Ci sarà la scissione?
«Il rischio di una crisi insanabile
dovrebbe portare tutti a essere
più responsabili, a partire
da chi ha l’onore della guida e
che ha dunque una responsabilità
in più».
Renzi?
«Mi aspetto che chi guida si
assuma l’onere della inclusione
e non l’onere del cacciare un
pezzo di Pd».
Per Renzi le polemiche sulla
condanna di Verdini sono
strumentali. Non si sente chiamato
in causa?
«Trovo molto scorretto questo
paragone. Non si può paragonare
un governo di eccezione,
nato perché non c’erano altre
maggioranza possibili, con un
governo di scelta come quello
che Renzi rivendica sempre di
essere».
Come voterà al referendum
di ottobre?
«Premesso che il mio governo
impostò il lavoro per il superamento
del bicameralismo,
quando tutti i dati saranno chiari,
dirò come la penso. Ma non
mi sento di criticare Renzi per
aver deciso di investire su questo
tema. Lo stesso fece Berlusconi
sul referendum del 2006, anche
se poi lo perse».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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- Iscritto il: 06/04/2012, 20:00
Re: Diario della caduta di un regime.
ULTIMO ATTO
Riporto solo il titolo di un articolo comparso ieri su La Repubblica a pagina 18.
“Ho il tumore e una TAC tra 600 giorni”
Quando un Paese arriva a questi livelli è finito, bollito e strabollito e non c’è più niente da fare.
Quando parli con la gente ovunque, ognuno racconta un tassello dello sfascio in atto.
NON C’E’ UN SETTORE CHE FUNZIONA.
Malgrado il premier CAZZARO, come lo chiama Dagospia, racconti l’Italia meravigliosa da quando c’è lui.
Io non so’ come andrà a finire, ma il disastro è sotto i nostri occhi.
A COSA SERVE FAR FINTA DI NIENTE???
Riporto solo il titolo di un articolo comparso ieri su La Repubblica a pagina 18.
“Ho il tumore e una TAC tra 600 giorni”
Quando un Paese arriva a questi livelli è finito, bollito e strabollito e non c’è più niente da fare.
Quando parli con la gente ovunque, ognuno racconta un tassello dello sfascio in atto.
NON C’E’ UN SETTORE CHE FUNZIONA.
Malgrado il premier CAZZARO, come lo chiama Dagospia, racconti l’Italia meravigliosa da quando c’è lui.
Io non so’ come andrà a finire, ma il disastro è sotto i nostri occhi.
A COSA SERVE FAR FINTA DI NIENTE???
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- Iscritto il: 21/02/2012, 22:55
Re: Diario della caduta di un regime.
Caro camillo, sono cose enormi che passano nell'indifferenza quasi totale, distratti dalle discussioni artatamente poste
sulla liceità o meno che una gravida possa fare il candidato sindaco o meno.
Quando... per tutti i tradimenti gli imbrogli le illegalità che stanno affastellandosi si dovrebbe alzare alto un grido unanime
del popolo tutto che muovendosi all'unisono spazzi via questa melma putrida e riscattando se stessi e la propria dignità.
Maledetti voi, mercanti d’acqua (di Alex Zanotelli)
Le decisioni prese in questi giorni, sia dal governo Renzi che dal parlamento, sulla gestione pubblica dell’ acqua,
sono di una gravità estrema perché un governo democratico rifiuta quello che il popolo aveva già deciso con il Referendum del 2011.
Un segnale più chiaro del totale disprezzo della volontà popolare espressa nel Referendum, non ci potrebbe essere.
http://profeziaeliberazione.blogspot.it ... -alex.html
Quando un organismo non reagisce ...il suo respiro diventa un rantolo di morte.
E i compagni? quelli che vogliono lottare dal di dentro?? Dimostrano solo di avere minore dignità di Lazzaro sotto il tavolo di Epulone.
Almeno Lazzaro lo faceva per fame. Loro lo fanno da rimpinzati e disonorati personaggi affaccendati solo dietro i loro sporchi interessi
personali e di casta dimentichi del doveroso proprio compito, quello del governare per il bene comune.
Si è consumato un ALTO TRADIMENTO.
L'operato del governo Renzi e della sua illegittima maggioranza, sui temi del lavoro e dell'acqua pubblica,
demoliscono l'articolo 1 della costituzione, che, sul lavoro e la sovranità popolare fissa i principi fondativi della nostra repubblica.
L'ennesima dimostrazione che gli Italiani hanno ciò che si merita.
un saluto erding
sulla liceità o meno che una gravida possa fare il candidato sindaco o meno.
Quando... per tutti i tradimenti gli imbrogli le illegalità che stanno affastellandosi si dovrebbe alzare alto un grido unanime
del popolo tutto che muovendosi all'unisono spazzi via questa melma putrida e riscattando se stessi e la propria dignità.
Maledetti voi, mercanti d’acqua (di Alex Zanotelli)
Le decisioni prese in questi giorni, sia dal governo Renzi che dal parlamento, sulla gestione pubblica dell’ acqua,
sono di una gravità estrema perché un governo democratico rifiuta quello che il popolo aveva già deciso con il Referendum del 2011.
Un segnale più chiaro del totale disprezzo della volontà popolare espressa nel Referendum, non ci potrebbe essere.
http://profeziaeliberazione.blogspot.it ... -alex.html
La cifra dell'enormità del guaio, a mio avviso è dato dall'indifferenza dei giovani che lasciano solo a gridare la denuncia un quasi ottantenne.Quando un Paese arriva a questi livelli è finito, bollito e strabollito e non c’è più niente da fare.
Quando un organismo non reagisce ...il suo respiro diventa un rantolo di morte.
E i compagni? quelli che vogliono lottare dal di dentro?? Dimostrano solo di avere minore dignità di Lazzaro sotto il tavolo di Epulone.
Almeno Lazzaro lo faceva per fame. Loro lo fanno da rimpinzati e disonorati personaggi affaccendati solo dietro i loro sporchi interessi
personali e di casta dimentichi del doveroso proprio compito, quello del governare per il bene comune.
Si è consumato un ALTO TRADIMENTO.
L'operato del governo Renzi e della sua illegittima maggioranza, sui temi del lavoro e dell'acqua pubblica,
demoliscono l'articolo 1 della costituzione, che, sul lavoro e la sovranità popolare fissa i principi fondativi della nostra repubblica.
L'ennesima dimostrazione che gli Italiani hanno ciò che si merita.
un saluto erding
Ultima modifica di erding il 21/03/2016, 17:34, modificato 1 volta in totale.
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Re: Diario della caduta di un regime.
NON C'E' PIU' SCAMPO IN QUESTO STATO FALLITO.
ALTRO CHE CAPORETTO!!!!
"A Expo soldati come profughi": punito soldato che imbarazzò Renzi
L'indagine dell'Esercito ha permesso di risalire al soldato che ha pubblicato le foto dei soldati che proteggevano Expo abbandonati nel fango
Claudio Cartaldo - Lun, 21/03/2016 - 12:20
http://www.ilgiornale.it/news/cronache/ ... 37617.html
ALTRO CHE CAPORETTO!!!!
"A Expo soldati come profughi": punito soldato che imbarazzò Renzi
L'indagine dell'Esercito ha permesso di risalire al soldato che ha pubblicato le foto dei soldati che proteggevano Expo abbandonati nel fango
Claudio Cartaldo - Lun, 21/03/2016 - 12:20
http://www.ilgiornale.it/news/cronache/ ... 37617.html
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- Iscritto il: 06/04/2012, 20:00
Re: Diario della caduta di un regime.
Etruria, lite Velardi-Lillo sui risparmiatori. L’ex consigliere di D’Alema lascia lo studio
Scontro negli studi di ‘Omnibus‘ su La7 tra il blogger e giornalista Claudio Velardi e il cronista de il Fatto Quotidiano Marco Lillo sull’iscrizione nel registro degli indagati per il crack di Banca Etruria del padre del ministro Boschi e sulla salvaguardia dei correntisti della banca aretina. “Sul piano politico nessuno accusa la Boschi e di qui a poco questo dibattito non esisterà più, si farà la mozione di sfiducia e si andrà avanti”, afferma Velardi. “Con i voti di Verdini” ribatte Lillo. “Non c’è nessun rapporto in questa vicenda. La buttate sempre in politica. Voi parlate di questioni che riguardano la sfera personale” controreplica l’ex consigliere di Massimo D’Alema. “Io se fossi in te non sarei così felice che il governo possa fregarsene della mozione di sfiducia con tutti i risparmiatori che hanno perso centinaia di migliaia di euro” dice Lillo. “I correntisti sono stati salvati dal governo” aggiunge Velardi. “Si sono suicidati per la felicità di essere stati salvati. I fondi non ci sono” continua il giornalista del quotidiano di via Valadier. “Io sarei su una linea meno generosa di quella del governo perché sta storia che bisogna salvarli…’ragazzi avete giocato e avete perso è un problema vostro‘” dice ancora l’ex editore de Il Riformista. “Ci sono stati ‘ragazzi’ di 94 anni Velardi, io mi vergognerei veramente“. “Il governo sta trovando una soluzione per salvarli”, chiosa furioso Velardi che durante la pubblicità lascia lo studio
http://tv.ilfattoquotidiano.it/2016/03/ ... io/496888/
Scontro negli studi di ‘Omnibus‘ su La7 tra il blogger e giornalista Claudio Velardi e il cronista de il Fatto Quotidiano Marco Lillo sull’iscrizione nel registro degli indagati per il crack di Banca Etruria del padre del ministro Boschi e sulla salvaguardia dei correntisti della banca aretina. “Sul piano politico nessuno accusa la Boschi e di qui a poco questo dibattito non esisterà più, si farà la mozione di sfiducia e si andrà avanti”, afferma Velardi. “Con i voti di Verdini” ribatte Lillo. “Non c’è nessun rapporto in questa vicenda. La buttate sempre in politica. Voi parlate di questioni che riguardano la sfera personale” controreplica l’ex consigliere di Massimo D’Alema. “Io se fossi in te non sarei così felice che il governo possa fregarsene della mozione di sfiducia con tutti i risparmiatori che hanno perso centinaia di migliaia di euro” dice Lillo. “I correntisti sono stati salvati dal governo” aggiunge Velardi. “Si sono suicidati per la felicità di essere stati salvati. I fondi non ci sono” continua il giornalista del quotidiano di via Valadier. “Io sarei su una linea meno generosa di quella del governo perché sta storia che bisogna salvarli…’ragazzi avete giocato e avete perso è un problema vostro‘” dice ancora l’ex editore de Il Riformista. “Ci sono stati ‘ragazzi’ di 94 anni Velardi, io mi vergognerei veramente“. “Il governo sta trovando una soluzione per salvarli”, chiosa furioso Velardi che durante la pubblicità lascia lo studio
http://tv.ilfattoquotidiano.it/2016/03/ ... io/496888/
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- Iscritto il: 21/02/2012, 22:55
Re: Diario della caduta di un regime.
Ieri sera ascoltare Rodotà è stato come respirare una boccata d'aria pura. Nelle sue parole c'era la forza della chiarezza e
la convinzione della coerenza.
Nella intervista ha citato un articolo di Italo Calvino del 1980 “Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti”
la curiosità mi ha spinto ha ricercarlo in rete. Sinceramente non lo ricordavo.
Leggendolo si resta impressionati per la descrizione lucida e puntuale del nostro paese e del nostro popolo.
Oggi sconcerta e sconforta che da allora la situazione italiana è solo cambiata in peggio.
Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti
di Italo Calvino*
C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato
su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere,
aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si
è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi li aveva,
in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori
ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo d’una sua armonia.
Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la propria morale interna
ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito; anzi, benemerito: in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene
comune; l’illegalità formale quindi non escludeva una superiore legalità sostanziale. Vero è che in ogni transizione illecita a favore
di entità collettive è usanza che una quota parte resti in mano di singoli individui, come equa ricompensa delle indispensabili
prestazioni di procacciamento e mediazione: quindi l’illecito che per la morale interna del gruppo era lecito, portava con se una
frangia di illecito anche per quella morale. Ma a guardar bene il privato che si trovava a intascare la sua tangente individuale sulla
tangente collettiva, era sicuro d’aver fatto agire il proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè poteva
senza ipocrisia convincersi che la sua condotta era non solo lecita ma benemerita.
Il paese aveva nello stesso tempo anche un dispendioso bilancio ufficiale alimentato dalle imposte su ogni attività lecita, e
finanziava lecitamente tutti coloro che lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Perché in quel paese nessuno
era disposto non diciamo a fare bancarotta ma neppure a rimetterci di suo (e non si vede in nome di che cosa si sarebbe potuto
pretendere che qualcuno ci rimettesse) la finanza pubblica serviva a integrare lecitamente in nome del bene comune i disavanzi
delle attività che sempre in nome del bene comune s’erano distinte per via illecita. La riscossione delle tasse che in altre epoche
e civiltà poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta sostanza d’atto di forza (così come in certe
località all’esazione da parte dello stato s’aggiungeva quella d’organizzazioni gangsteristiche o mafiose), atto di forza cui il
contribuente sottostava per evitare guai maggiori pur provando anziché il sollievo della coscienza a posto la sensazione sgradevole
d’una complicità passiva con la cattiva amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio delle attività illecite, normalmente
esentate da ogni imposta.
Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva d’applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche
centro di potere e anche arresti di persone che avevano avuto fino a allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In quei casi il
sentimento dominante, anziché la soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che si trattasse d’un regolamento di
conti d’un centro di potere contro un altro centro di potere.
Cosicché era difficile stabilire se le leggi fossero usabili ormai soltanto come armi tattiche e strategiche nelle battaglie intestine tra
interessi illeciti, oppure se i tribunali per legittimare i loro compiti istituzionali dovessero accreditare l’idea che anche loro erano
dei centri di potere e d’interessi illeciti come tutti gli altri.
Naturalmente una tale situazione era propizia anche per le associazioni a delinquere di tipo tradizionale che coi sequestri di persona
e gli svaligiamenti di banche (e tante altre attività più modeste fino allo scippo in motoretta) s’inserivano come un elemento
d’imprevedibilità nella giostra dei miliardi, facendone deviare il flusso verso percorsi sotterranei, da cui prima o poi certo
riemergevano in mille forme inaspettate di finanza lecita o illecita.
In opposizione al sistema guadagnavano terreno le organizzazioni del terrore che, usando quegli stessi metodi di finanziamento
della tradizione fuorilegge, e con un ben dosato stillicidio d’ammazzamenti distribuiti tra tutte le categorie di cittadini, illustri e oscuri,
si proponevano come l’unica alternativa globale al sistema. Ma il loro vero effetto sul sistema era quello di rafforzarlo fino a diventarne
il puntello indispensabile, confermandone la convinzione d’essere il migliore sistema possibile e di non dover cambiare in nulla.
Così tutte le forme d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e
compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale
di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per
una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti.
Erano costoro onesti non per qualche speciale ragione (non potevano richiamarsi a grandi principi, né patriottici né sociali né religiosi,
che non avevano più corso), erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano
farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava
sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla
soddisfazione d’altre persone. In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto loro erano i soli a farsi
sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi,
predicare la virtù sono cose che trovano troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in malafede. Il potere non lo
trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé (almeno quel potere che interessava agli altri); non si facevano illusioni
che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perché
sapevano che il peggio è sempre più probabile.
Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che così come in margine a tutte le società durante
millenni s’era perpetuata una controsocietà di malandrini, di tagliaborse, di ladruncoli, di gabbamondo, una controsocietà che non
aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare la società, ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante e
affermare il proprio modo d’esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé (almeno se vista non
troppo da vicino) un’immagine libera e vitale, così la controsocietà degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli,
in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità, di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo
modo magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno
più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è.
* da Repubblica, 15 marzo 1980 e in “Romanzi e racconti, volume terzo, Racconti e apologhi sparsi”, Meridiani, Mondadori
la convinzione della coerenza.
Nella intervista ha citato un articolo di Italo Calvino del 1980 “Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti”
la curiosità mi ha spinto ha ricercarlo in rete. Sinceramente non lo ricordavo.
Leggendolo si resta impressionati per la descrizione lucida e puntuale del nostro paese e del nostro popolo.
Oggi sconcerta e sconforta che da allora la situazione italiana è solo cambiata in peggio.
Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti
di Italo Calvino*
C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato
su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere,
aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si
è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi li aveva,
in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori
ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo d’una sua armonia.
Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la propria morale interna
ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito; anzi, benemerito: in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene
comune; l’illegalità formale quindi non escludeva una superiore legalità sostanziale. Vero è che in ogni transizione illecita a favore
di entità collettive è usanza che una quota parte resti in mano di singoli individui, come equa ricompensa delle indispensabili
prestazioni di procacciamento e mediazione: quindi l’illecito che per la morale interna del gruppo era lecito, portava con se una
frangia di illecito anche per quella morale. Ma a guardar bene il privato che si trovava a intascare la sua tangente individuale sulla
tangente collettiva, era sicuro d’aver fatto agire il proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè poteva
senza ipocrisia convincersi che la sua condotta era non solo lecita ma benemerita.
Il paese aveva nello stesso tempo anche un dispendioso bilancio ufficiale alimentato dalle imposte su ogni attività lecita, e
finanziava lecitamente tutti coloro che lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Perché in quel paese nessuno
era disposto non diciamo a fare bancarotta ma neppure a rimetterci di suo (e non si vede in nome di che cosa si sarebbe potuto
pretendere che qualcuno ci rimettesse) la finanza pubblica serviva a integrare lecitamente in nome del bene comune i disavanzi
delle attività che sempre in nome del bene comune s’erano distinte per via illecita. La riscossione delle tasse che in altre epoche
e civiltà poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta sostanza d’atto di forza (così come in certe
località all’esazione da parte dello stato s’aggiungeva quella d’organizzazioni gangsteristiche o mafiose), atto di forza cui il
contribuente sottostava per evitare guai maggiori pur provando anziché il sollievo della coscienza a posto la sensazione sgradevole
d’una complicità passiva con la cattiva amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio delle attività illecite, normalmente
esentate da ogni imposta.
Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva d’applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche
centro di potere e anche arresti di persone che avevano avuto fino a allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In quei casi il
sentimento dominante, anziché la soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che si trattasse d’un regolamento di
conti d’un centro di potere contro un altro centro di potere.
Cosicché era difficile stabilire se le leggi fossero usabili ormai soltanto come armi tattiche e strategiche nelle battaglie intestine tra
interessi illeciti, oppure se i tribunali per legittimare i loro compiti istituzionali dovessero accreditare l’idea che anche loro erano
dei centri di potere e d’interessi illeciti come tutti gli altri.
Naturalmente una tale situazione era propizia anche per le associazioni a delinquere di tipo tradizionale che coi sequestri di persona
e gli svaligiamenti di banche (e tante altre attività più modeste fino allo scippo in motoretta) s’inserivano come un elemento
d’imprevedibilità nella giostra dei miliardi, facendone deviare il flusso verso percorsi sotterranei, da cui prima o poi certo
riemergevano in mille forme inaspettate di finanza lecita o illecita.
In opposizione al sistema guadagnavano terreno le organizzazioni del terrore che, usando quegli stessi metodi di finanziamento
della tradizione fuorilegge, e con un ben dosato stillicidio d’ammazzamenti distribuiti tra tutte le categorie di cittadini, illustri e oscuri,
si proponevano come l’unica alternativa globale al sistema. Ma il loro vero effetto sul sistema era quello di rafforzarlo fino a diventarne
il puntello indispensabile, confermandone la convinzione d’essere il migliore sistema possibile e di non dover cambiare in nulla.
Così tutte le forme d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e
compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale
di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per
una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti.
Erano costoro onesti non per qualche speciale ragione (non potevano richiamarsi a grandi principi, né patriottici né sociali né religiosi,
che non avevano più corso), erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano
farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava
sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla
soddisfazione d’altre persone. In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto loro erano i soli a farsi
sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi,
predicare la virtù sono cose che trovano troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in malafede. Il potere non lo
trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé (almeno quel potere che interessava agli altri); non si facevano illusioni
che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perché
sapevano che il peggio è sempre più probabile.
Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che così come in margine a tutte le società durante
millenni s’era perpetuata una controsocietà di malandrini, di tagliaborse, di ladruncoli, di gabbamondo, una controsocietà che non
aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare la società, ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante e
affermare il proprio modo d’esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé (almeno se vista non
troppo da vicino) un’immagine libera e vitale, così la controsocietà degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli,
in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità, di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo
modo magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno
più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è.
* da Repubblica, 15 marzo 1980 e in “Romanzi e racconti, volume terzo, Racconti e apologhi sparsi”, Meridiani, Mondadori
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