Panama i nostri Italiani

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camillobenso
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E spunta l'entourage del Partito comunista cinese

Nelle liste anche il cognato Xi Jinping. Assange: montatura degli Usa


Fabrizio Boschi - Gio, 07/04/2016 - 08:44
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Panama Papers, terzo giorno. L'enorme mole di files «sfuggita» dallo studio panamense Mossack Fonseca, crocevia di società off-shore, ieri ha ancora tenuto banco nella cronaca internazionale.


Ci sono anche i familiari di otto fra i più importanti dirigenti del Partito comunista cinese nelle liste incriminate. È quanto rivela il Guardian, secondo cui tra coloro che per sfuggire al fisco hanno utilizzato compagnie off-shore compaiono il cognato del presidente, Xi Jinping, il genero di Zhang Gaoli, membro del politburo cinese, e la figlia di Li Peng, che guidò la repressione contro i manifestanti di piazza Tiananmen. Delle nuove rivelazioni scrive anche il New York Times secondo cui rischiano di creare grande imbarazzo per le autorità di Pechino, con i vertici del Partito comunista che nell'era Xi hanno fatto della lotta alla corruzione una priorità. Tra i nomi fatti dall'International Consortium of Investigative Journalists c'è anche quello della nuora di Liu Yunshan, il capo della propaganda, che sarebbe stata direttrice di una società registrata alle Isole Vergini.

Ma non finisce qui. Secondo euobserver.com anche il premier maltese Joseph Muscat, caro amico di Renzi, da lui invitato più volte a Roma, potrebbe finire a capofitto dentro lo scandalo internazionale dei soldi nascosti nei paradisi fiscali. E dopo il premier islandese potrebbe essere il prossimo della lista a cadere. La denuncia arriva dai media australiani che hanno pubblicato rivelazioni circa il ministro maltese all'Energia, Konrad Mizzi, e il suo capo dello staff, Keith Schembri, i quali hanno cercato di aprire conti in banca a Panama e Dubai. Intanto altri nomi eccellenti spuntano dagli incartamenti roventi. La polizia svizzera ieri ha perquisito la sede della Uefa a Nyon. Sarebbero stati prelevati documenti riguardanti un contratto sui diritti tv, per la trasmissione della Champions League, stipulato con un'agenzia di marketing off-shore implicata nello scandalo di corruzione della Fifa. Nel mirino rimane sempre il neo presidente italo-svizzero Gianni Infantino, ex braccio destro di Michel Platini.

Anche la Procura di Roma, dopo quelle di Torino e Milano, si muove sulla vicenda Panama Papers. I pm seguono l'evolversi del caso che coinvolgerebbe anche cittadini italiani e valutano la possibilità di aprire un fascicolo di indagine. Sul fronte italiano il nome nuovo è quello della conduttrice di Canale 5 Barbara D'Urso. I suoi legali si riservano di agire contro l'Espresso perché ha indicato come «affari off-shore» quella che invece era una società che non è stata mai operativa e che è stata chiusa da alcuni anni in piena trasparenza.

Nell'elenco delle personalità legate alle società dei paradisi fiscali compaiono Mark Thatcher, figlio dell'ex premier britannico Margaret beneficiario di una società con un patrimonio immobiliare alle Barbados; l'attivista, ex modella e seconda moglie di Paul McCartney Heather Mills; l'ex maggiordomo della principessa Diana, Paul Burrell. Lo rivela il Guardian, aggiungendo che tra i file compaiono anche i nomi della duchessa di York, Sarah Ferguson e delle figlie di Stanley Kubrick. Fanno rumore anche le accuse mosse da Wikileaks, l'organizzazione di Julian Assange, agli Usa e al miliardario George Soros: «Ci sono loro dietro l'attacco al presidente russo Vladimir Putin tramite i Panama Papers».

http://www.ilgiornale.it/news/politica/ ... 43259.html
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Soros e i Putin-Papers, quando il pesce puzza dalla testa

Scritto il 10/4/16 • nella Categoria: segnalazioni


«Quando ho aperto le news, questa mattina, mi è venuto da sorridere: Putin fra coloro che nascondono i propri soldi nei paradisi fiscali. E ti pareva – ho pensato – ora ci manca solo che scoprano che è un pedofilo, e il ritratto del grande babau sarà finalmente completato». Così Massimo Mazzucco liquida immediatamente la super-sparata giornalistica destinata a screditare il leader russo. Ed è in buona compagnia: la stessa Wikileaks, scrive la “Stampa”, accusa gli Stati Uniti e il miliardario americano d’origine ungherese George Soros di essere dietro i “Panama Papers”, e in particolare dietro all’attacco sferrato contro il presidente russo. Lo twitta l’organizzazione di Julian Assange, secondo cui tutto sarebbe passato attraverso l’Occrp (Organized Crime and Corruption Project), finanziato da Usaid, l’agenzia Usa per lo sviluppo. La struttura che fa capo a Soros, si legge sul sito di Wikileaks, oltre che da Usaid è appoggiata dalle Open Society Foundations, nonché da organizzazioni giornalistiche come l’International Consortium of Investigative Journalists, da “Scoop” e dal Cpi, Center for Public Integrity.«La notizia dei Panama Papers, infatti, non avrebbe nulla di sconvolgente, se non fosse per il risalto esagerato che si è voluto dare alla figura del leader russo all’interno di questo presunto nuovo scandalo», scrive Mazzucco su “Luogo Comune”. «Ma quando vedi che tutte le testate occidentali – dal New York Times alla Bbc, dall’Espresso alla Cnn – mettono l’accento su Vladimir Putin, allora ti viene da sorridere: è chiaro che si tratta di una operazione di discredito progettata a tavolino». La cosa più “divertente”? «Tutte queste testate si danno un gran da fare per riempire la prima pagina con le foto dei vari personaggi coinvolti nello scandalo – da Cameron a Montezemolo, da Messi a Jackie Chan – ma il primo in alto a sinistra è quasi sempre lui: Vladimir Putin». Un’altra cosa che salta all’occhio, in una rosa così forbita di grossi personaggi mondiali, è «la totale assenza di un qualunque nome americano di rilievo». È come se il Dipartimento di Stato avesse chiesto alla Cia: avete qualcosa da poter utilizzare contro Putin? Sì, certo. Un bel mazzo di grossi nomi, che nascondono i loro soldi a Panama. Basta aggiungerci quello di Putin e far circolare lo “scoop” sui soliti canali, avendo però cura si “sbianchettare” gli americani.«La predominanza totale della figura di Putin da un lato, e la totale assenza di grossi nomi americani dall’altro, porta automaticamente a sospettare che questa sia la classica operazione telecomandata da Washington, per portare avanti la campagna di discredito contro il leader russo», conclude Mazzucco. «La tragedia è che ora, pur di stare al gioco, i giornalisti di mezzo mondo fanno finta di credere che se davvero un uomo come Putin volesse nascondere i soldi dalle tasse, sarebbe costretto a mettersi nelle mani di una qualunque holding di offshore panamense (pronta a ricattarlo in qualunque momento)». Non è credibile, secondo l’analista italiano, che il capo del Cremlino abbia dovuto far ricorso a simili sistemi di elusione fiscale: «Queste cose le fanno gli industriali e i personaggi pubblici di mezzo mondo, non le fanno gli ex-capi del Kgb».
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Panama prima dei «papers», crocevia di scandali
Il caso Valter Lavitola, gli affari sporchi della 'ndrangheta, le latitanze eccellenti. Già prima dei leaks il Paese è stato al centro di controversie. Nostrane e non.
di Guido Mariani | 10 Aprile 2016


Terra di bucanieri e finanzieri, Panama pare che debba il suo nome a un termine indigeno che vuole dire “ricca di pesce”.
La pesca che oggi si fa nel piccolo stato centroamericano ha più a che fare con il denaro che con la fauna marina.
Scandali e avventure fanno parte da sempre di questa striscia di terra che unisce due continenti.
Nel XVII secolo il saccheggio di Panama arricchì il bucaniere britannico Henry Morgan di dobloni spagnoli e di gloria, a fine Ottocento un progetto francese per costruire il canale si risolse nel peggiore scandalo finanziario del secolo tra perdite miliardarie e tangenti ai politici della Terza repubblica.
Nel 1989 gli Stati Uniti invasero il paese per liberarlo dal dittatore Manuel Noriega, ex collaboratore della Cia trasformatosi in autocrate e narcotrafficante.
Il caso Lavitola e gli incroci con Panama


Panama è stata anche al centro degli scandali italiani grazie alla figura di Valter Lavitola, direttore del quotidiano L’Avanti, che nel settembre del 2011 venne indagato per tentata estorsione ai danni di Silvio Berlusconi.
L’inchiesta fece emergere che Lavitola più che direttore di una testata era un faccendiere e che aveva come base d’azione proprio lo stato centroamericano.
IL RAPPORTO CON MARTINELLI. È qui che si trovava quando la procura di Napoli chiese il suo arresto e dove rimarrà latitante sino all’aprile 2012. Era arrivato a Panama come consulente di Finmeccanica e cercava di darsi un tono da diplomatico e uomo di stato. Tentava di accreditarsi con un ruolo istituzionale e fece pressioni all’allora ministro degli Esteri Franco Frattini per essere nominato console onorario.
Interrogato poi dai pm, Frattini ha raccontato come Lavitola avesse un rapporto «assolutamente confidenziale» con il presidente panamense Riccardo Martinelli e che gestisse nel paese interessi non solo «futili».
IL PIENO DI COMMESSE. Frattini però decise di negargli ogni imprimatur istituzionale: «Quando mi venne comunicata la circostanza mi mossi con la solita prudenza e invitai i miei collaboratori a mettere soltanto un visto agli atti senza neanche aprire l'istruttoria. Mi sembrava che ictu oculi non fosse opportuna tale nomina».
Nel giugno 2010 Lavitola viaggiava sull’aereo di Stato che scortava il premier Berlusconi in visita ufficiale a Panama City. Quella trasferta fruttò accordi e commesse per milioni di euro.
Le società di Finmeccanica (Telespazio Argentina, Agusta Westland e Selex Sistemi Integrati) stipularono contratti di fornitura con il governo panamense grazie alla consulenza affidata alla locale Agafia Corp., riconducibile a Karen Yizell De Gracia Castro, prestanome nonché amante di Lavitola.
PROCESSO PER CORRUZIONE INTERNAZIONALE. La vicenda ha portato al processo in corso per corruzione internazionale al tribunale di Roma che vede imputati Lavitola e l’ex direttore di Finmeccanica Paolo Pozzessere e che coinvolge anche l’ex presidente panamense Martinelli.
Secondo l’accusa, il sistema era stato creato per pagare commesse «in modo occulto e mascherato attraverso il pagamento da parte delle società italiane Telespazio Argentina, Agusta Westland e Selex Sistemi Integrati di oneri per assistenza e consulenza alla società Agafia Corp costituita allo scopo e riconducibile a Martinelli».
IL PROGETTO DI SORVEGLIANZA. A quanto risulta dalle indagini la società di comodo riceveva un 10% sulle commesse il cui valore totale è stimato di 250 milioni di dollari.
L’ex direttore de L’Avanti ha raccontato in aula lo scorso gennaio come egli stesso ideò un progetto di sorveglianza contro il narcotraffico che prevedeva la fornitura di radar, elicotteri e mappe digitali e che sarebbe dovuto diventare un modello per altri stati.
Ma, soprattutto, avrebbe dovuto salvare le casse di Finmeccanica e di Selex che all’epoca, ha detto l’imputato, rischiava di andare «gambe all’aria».
Dettaglio oggi non trascurabile: ai tempi Ramon Fonseca, uno dei due boss dello studio legale da cui provengono i Panama Papers, era un consulente del presidente Martinelli che oggi ha fatto perdere le sue tracce e secondo alcune fonti vivrebbe da agiato pensionato a Miami.
I legami con la criminalità organizzata


Non solo affari di stato, il paradiso fiscale torna anche in diversi episodi legati all’illegalità e alla criminalità organizzata su cui hanno indagato le procure italiane.
Nel 2010 a Panama venne arrestato il catanese Roberto Maria Midolo che era stato per anni il contatto italiano con il famoso narcotrafficante colombiano Pablo Escobar.
GLI AFFARI DEL BOSS. Anche Albino Portoghese, boss cagliaritano che gestiva una rete di traffico di droga e aveva accumulato un patrimonio di milioni di euro, aveva scelto Panama per la sua latitanza che si concluse con l’arresto del 2012.
Lo scorso gennaio la Dda di Napoli ha arrestato un commercialista di Genova che secondo le accuse era colluso con il clan Imperiale Cerrone, che aveva tra i compiti quello di gestire gli affari che fanno capo al boss-imprenditore Raffele Imperiale. Parte di questi compiti era trovare passaporti per fare di Panama un porto sicuro per gli affiliati impegnati nel traffico di cocaina.
I CARICHI DI COCAINA. Secondo diverse inchieste è proprio il paese del Canale uno dei porti preferiti da cui partono i carichi di cocaina provenienti dalla Colombia e dal Sud America e che entrano nella rete di distribuzione controllata in particolare dalla ‘ndrangheta.
Narcos, ma anche agenti Cia. Sempre qui è stato arrestato nel luglio 2013 Robert Seldon Lady, uomo dell’intelligence americana, condannato a nove anni di carcere con sentenza definitiva per il sequestro avvenuto nel 2003 a Milano dell’imam Abu Omar.
FURBETTI NOSTRANI. Intrighi internazionali e furbetti nostrani. Nelle banche panamensi si sono trovati anche i soldi che dovevano finire all’Erario.
Nel 2014 l’ex direttore provinciale dell'Agenzia delle entrate di Firenze, Nunzio Garagozzo, fu condannato per aver ricevuto tangenti in cambio di favori fiscali di varia natura.
Questo denaro (più di 1 milione e mezzo di euro) fu ritrovato in un conto di una banca panamense.
Infine, un’inchiesta del Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni del gennaio 2015 ha appurato che alcuni siti che trasmettevano illegalmente in streaming film in prima visione rimandavano a una società specializzata nella fornitura di servizi di anonimato in rete con sede, manco a dirlo, a Panama.
Sono passati 350 anni dalle gesta di Harry Morgan, ma il paese rimane un avamposto per pirati di tutti i tipi.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

http://www.lettera43.it/capire-notizie/ ... 240918.htm
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Ora è giallo sui redditi di Cameron. Pubblici, ma il Times attacca ancora
Il premier rivela i numeri, ma al quotidiano non basta: due assegni sospetti


Lucio Di Marzo - Dom, 10/04/2016 - 14:50
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Dopo che il suo nome è finito nel calderone dei Panama Papers, il premier inglese David Cameron è stato costretto a rendere pubblici i suoi redditi, anche sulla spinta delle manifestazioni che si sono radunate di fronte al numero 10 di Downing Street, per chiederne le dimissioni.


Nel mirino di chi proteste quelle quote in conti offshore che alcuni giorni fa il primo ministro britannico ha ammesso di avere posseduto, nei conti del padre Ian. Una somma totale di 30mila euro investiti insieme alla moglie Samantha, venduti poi al momento dell'elezione.

Nelle dichiarazioni rese pubbliche oggi Cameron ha rivelato un imponibile da più di 200mile sterline relativo al biennio 2014-2015. Un periodo durante il quale ha pagato 76mila sterline in tasse, guadagnando 46.899 sterline invece dall'affitto della casa di famiglia a Londra.

Quando, nel 2010, i Cameron vendettero le loro quote del fondo Blairmore Holdings, ottennero 19mila sterline. Alla morte del padre Ian, il premier ebbe 300mila sterline in eredità, ma incassò poi 200mila sterline in due tranche, dalla madre e per riequilibrare i conti con i fratelli.

Cameron sperava con queste rivelazioni di placare le polemiche, ma tra chi ha riportato le cifre rese pubbliche il Times non è convinto e ipotizza che le 200mila sterline nascondano un'ulteriore quota dell'eredità su cui non avrebbe pagato tasse di successione.
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Sorprende non poco che quell'area che si è professata da tempo immemore filo Usa oggi prenda queste posizioni.



Panama Papers, ombre sulla Cia: "Usava i servizi dello studio Fonseca"

Nuove ombre si addensano sugli Stati Uniti. La Cia avrebbe utilizzato servizi forniti dallo studio Mossack Fonseca per azioni coperte. Invischiati anche i servizi segreti di Arabia Saudita, Colombia e Ruanda


Sergio Rame - Mar, 12/04/2016 - 16:08
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Nuove ombre si addensano sugli Stati Uniti. Secondo la Sueddeutsche Zeitung, la Cia avrebbe utilizzato servizi forniti dallo studio Mossack Fonseca per azioni coperte.


Tra queste ci sarebbe anche l'Irangate che, tra il 1985 e il 1986, coinvolse vari alti funzionari e militari dell'amministrazione dell'allora presidente Stati Uniti, Ronald Reagan, accusati dell'organizzazione di un traffico illegale di armi con Teheran su cui vigeva l'embargo. Gli agenti avrebbero fondato società di comodo per operazioni coperte, in modo da poter agire senza dare nell'occhio.

"I Panama Papers danno una nuova visione negli affari di una decina di personaggi ambigui che da decenni sono sospettati di agire nel circuito del servizio di sicurezza - scrive la Sueddeutsche Zeitung - e molti avrebbero aiutato la Cia, anche se gli interessati smentiscono". Nella lista dei clienti di Mossack Fonseca, la società panamense al centro delle rivelazioni dei Panama Papers, ci sarebbero servizi segreti di vari Paesi, compreso la Cia. Secondo la Suddeutsche Zeitung, "agenti segreti e suoi informatori hanno utilizzato in gran misura i servizi offerti dall'ufficio" panamense. Secondo il giornale tedesco, il primo ad avere ottenuto il dossier, "alcuni agenti hanno fatto aprire delle società-schermo che servivano a dissimulare le loro attività. Tra questi agenti fugurano anche degli intermediari vicini alla Cia".

Tra i clienti di Mossack Fonseca, secondo il quotidiano di Monaco, figurano anche "alcuni artefici" dello scandalo Iran-Contras degli anni '80. Nei Panama Papers, continua il Sueddeutsche Zeitung, figurerebbero anche "responsabili di alto rango, attuali e passati, dei servizi segreti di almeno tre paese: Arabia Saudita, Colombia e Ruanda". Tra i nomi emersi dal dossier, anche quello di Kamal Adham, ex responsabile dei servizi segreti sauditi, morto nel 1999 e che "passava per essere uno dei principali interlocutori della Cia" in Medio Oriente.

http://www.ilgiornale.it/news/mondo/pan ... 45551.html
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Dirottare negli Usa i soldi dell’Europa: è la Panama-strategy

Scritto il 16/4/16 • nella Categoria: segnalazioni
La diffusione della mega-soffiata sulle ricchezze offshore, già confezionata con il nome di ‘Panama Papers’, va osservata con criteri distaccati, come tentai di fare al momento del massimo impatto delle rivelazioni via Wikileaks, nel 2010, quando moltissimi cablogrammi diplomatici americani divennero improvvisamente di pubblico dominio. In quella occasione pensai che «deve valere una premessa: non ci sono individui, e neanche organizzazioni, che siano in grado di leggere 250mila documenti in breve tempo. Quindi ci arriva solo un flusso filtrato di documenti. E chi lo filtra, per ora, è la vecchia fabbrica dei media tradizionali». Oggi, che i documenti trapelati sono 11 milioni e mezzo, una cinquantina di volte di più di allora, il discorso vale ancora di più. Dunque dobbiamo capire quali fonti producono i materiali, chi li studia e filtra, chi li diffonde e rifiltra, con quale parabola mediatica alla fine arrivano a tutti noi.Nel caso dei Panama Papers, nessuno di noi conosce i primi manipolatori delle fonti. Sappiamo solo che, oltre un anno fa, una manina ha sottratto un enorme fascicolo digitale custodito dallo studio legale panamense Mossack Fonseca, una di quelle officine tropicali degli affari segreti che armonizzano le alchimie fiscali del capitalismo finanziario globalizzato. Il portafoglio panamense è una piccolissima frazione degli affari planetari, però ritagliata con particolare cura in modo da non ricomprendere i grandi padroni americani. Fra i documenti scoperchiati, infatti, sono ricostruiti i giochi finanziari di nemici e amici dell’America, ma non degli americani. Molti commentatori sono concordi: si tratta di un’anomalia ma non si tratta di un caso, se gli americani stanno fuori dal mirino.La manina, che rimane segreta e non chiede un dollaro in cambio, affida tutto alla redazione di “Süddeutsche Zeitung”, quotidiano di Monaco di Baviera edito da una casa editrice legata alle principali conglomerate editoriali tedesche. Il materiale, tuttavia, è troppo voluminoso anche per un grande giornale.I redattori ricorrono perciò all’International Consortium of Investigative Journalists (Icij), una rete che mette insieme 190 giornalisti di oltre 65 paesi, ed è l’emanazione internazionale di un’organizzazione basata negli Stati Uniti d’America, il Center for Public Integrity, che vanta tra i suoi finanziatori le principali fondazioni delle grandi famiglie capitalistiche americane, compresi i Rockefeller, i Rothschild, la Open Society di Soros, e altri super-filantropi di peso paragonabile. Il consorzio dei giornalisti investigativi è insomma alimentato dal cupolone dei padroni universali, gli stessi che i Papers non nominano, i medesimi che guidano affari opachi e speculazioni su una scala enormemente maggiore rispetto a quanto emerso dalle carte panamensi. Come mai un cenacolo di straricchi capaci di muovere vagonate di miliardi con un solo clic, senza battere ciglio si mette a finanziare proprio i giornalisti che quasi ogni anno tirano fuori grosse inchieste contro i paradisi fiscali? Anche qui: si tratta di un’anomalia, ma è improbabile che si tratti di un caso.I meno distratti sanno che attualmente con il Ttip e altri trattati più o meno segreti si sta ridisegnando lo spazio euroatlantico a guida statunitense in modo da ricompattare il blocco capitalista più legato a Washington intorno a una sorta di “Nato economica”. Ebbene, nel 2009-2010, il presidente Barack Obama aveva composto un collegio di consiglieri economici presieduto dalla storica Christina Romer, una professoressa che aveva studiato a menadito la Grande Depressione degli anni trenta. Secondo la Romer l’unico modo per risolvere strutturalmente la crisi finanziaria con epicentro negli Stati Uniti stava nel determinare un trasferimento di capitali europei verso Wall Street. Da allora, da Washington si sono moltiplicate le iniziative per far chiudere il maggior numero possibile di paradisi fiscali non anglo-sassoni, troppo concorrenziali E una parte dei giochi ha reso meno forte l’euro. È un’angolazione diversa per osservare le fughe di notizie di questi anni: la crisi di Cipro, gli scandali vaticani, l’attacco al santuario bancario svizzero, ecc.Naturalmente queste ondate di scandali, creando panico, si riverberavano negativamente anche sulla finanza anglosassone, per via delle tante interconnessioni. Ma nell’insieme, quella rimane più protetta dalle regole e dai rapporti di forza nelle istituzioni finanziarie internazionali che essa stessa ha creato e quindi resiste all’urto. Come la chemioterapia, che ambisce a sopportare il veleno che uccide molte cellule funzionali al proprio organismo purché uccida tutte le cellule “disfunzionali” del tumore, allo stesso modo i poli della finanza anglosassone vedono ridursi o perfino scomparire i poli concorrenti, al prezzo di un certo caos sistemico. Malgrado ciò, i capitalisti in cerca di investimenti stabili e sicuri non hanno ancora trovato né così allettante né così facile trasferire i loro soldi in Usa, di cui – nonostante tutto – avvertono gli scricchiolii.Quel sistema che grossolanamente chiamiamo Nato economica spianerà la strada. Se va in porto, gli Usa si salvano attirando i capitali europei, a spese di interi popoli, ai quali andranno resi difficili gli affari con paesi fuori da quel giro, anche se più convenienti e più complementari. Magari con uno strumento micidiale: le sanzioni. Ebbene, la questione delle sanzioni è un punto particolarmente illuminante, che spiega bene dentro quali paletti potesse muoversi l’inchiesta. Nel documento di presentazione dei Panama Papers pubblicato dalla “Süddeutsche Zeitung”, infatti si spiega che la specializzazione primaria della Mossack Fonseca, oltre al riciclaggio e l’evasione fiscale, riguardava «attività imprenditoriali che potenzialmente violano delle sanzioni». Rockefeller non ha bisogno di questi schemi, mentre è più probabile che li abbiano dovuti usare le classi dirigenti russe, soggette a un drastico sistema di sanzioni, per riuscire a interagire faticosamente con il resto del mondo in questi anni. E così hanno fatto altri dirigenti di altri paesi soggetti a sanzioni.I giornalisti dell’Icij, collegati alle principali testate dell’Occidente – che possiamo considerare come altrettanti organi ufficiosi della Nato – non si sono posti il problema. Il contesto sanzioni, nella vulgata dei giornali, cede il passo al contesto corruzione/evasione. E mentre il contesto sanzioni spiegherebbe bene la scoperta dell’acqua calda, che cioè i grandi giri di denaro in Russia non li fanno i nemici di Putin, il contesto corruzione/evasione è inadatto a spiegare il ruolo di Putin. Ma gli organi della Nato preferiscono quello, e riprendono allora tutto il set di interpretazioni che hanno già usato altre volte. A Putin non è riconducibile direttamente nessuno degli schemi finanziari analizzati, ma il suo ritratto deve aprire la notizia, e mangiarsela. Esattamente come quando era esploso lo scandalo doping: riguardava atleti di decine di nazioni, ma la “Repubblica” faceva il titolone in prima sul surreale “doping di Putin”.In Regno Unito il primo giorno hanno fatto di peggio. Nonostante fosse direttamente coinvolto il padre del premier Cameron, il tanto decantato giornalismo britannico è stato zitto, per fare invece a gara, anche lì, a chi metteva la foto più grande di Vladimir il Cattivo.Eppure ci sarebbe da dire anche su questa tegola per il primo ministro britannico. Nonostante lo storico allineamento di Londra con Washington, recentemente ci sono state moltissime correnti di attrazione economica e finanziaria fra Londra e Pechino. La stessa grande soffiata, pur chiamandosi Panama, riguarda in buona parte affari che si concludono nella City londinese. Ne risulta un bel calcione a eventuali velleità britanniche, così come lo scandalo Volkswagen risultava essere un bel calcione alle velleità germaniche e la supermulta alla banca Bnp Paribas era bel calcione alle velleità francesi. Seguono attentati. Recentemente Sergey Glazyev, un economista molto ascoltato da Putin, ha parlato di “guerra ibrida” per definire le complesse mosse non strettamente militari degli Usa contro il “nemico” russo. Possiamo estendere la definizione anche ad altri casi: la “guerra ibrida” viene mossa anche contro gli “amici”. Magari via Panama, ma con il portafoglio ben radicato e protetto a Washington. E con infiniti strati di copertura che rendano irriconoscibile la guerra e facciano credere che esista il giornalismo investigativo con il guinzaglio lungo.(Pino Cabras, “Panama Papers, segreti manipolati”, dal blog “Occhi della Guerra” su “Il Giornale” del 6 aprile 2016).
La diffusione della mega-soffiata sulle ricchezze offshore, già confezionata con il nome di ‘Panama Papers’, va osservata con criteri distaccati, come tentai di fare al momento del massimo impatto delle rivelazioni via Wikileaks, nel 2010, quando moltissimi cablogrammi diplomatici americani divennero improvvisamente di pubblico dominio. In quella occasione pensai che «deve valere una premessa: non ci sono individui, e neanche organizzazioni, che siano in grado di leggere 250mila documenti in breve tempo. Quindi ci arriva solo un flusso filtrato di documenti. E chi lo filtra, per ora, è la vecchia fabbrica dei media tradizionali». Oggi, che i documenti trapelati sono 11 milioni e mezzo, una cinquantina di volte di più di allora, il discorso vale ancora di più. Dunque dobbiamo capire quali fonti producono i materiali, chi li studia e filtra, chi li diffonde e rifiltra, con quale parabola mediatica alla fine arrivano a tutti noi.

Nel caso dei Panama Papers, nessuno di noi conosce i primi manipolatori delle fonti. Sappiamo solo che, oltre un anno fa, una manina ha sottratto un enorme fascicolo digitale custodito dallo studio legale panamense Mossack Fonseca, una di quelle Pino Cabrasofficine tropicali degli affari segreti che armonizzano le alchimie fiscali del capitalismo finanziario globalizzato. Il portafoglio panamense è una piccolissima frazione degli affari planetari, però ritagliata con particolare cura in modo da non ricomprendere i grandi padroni americani. Fra i documenti scoperchiati, infatti, sono ricostruiti i giochi finanziari di nemici e amici dell’America, ma non degli americani. Molti commentatori sono concordi: si tratta di un’anomalia ma non si tratta di un caso, se gli americani stanno fuori dal mirino. La manina, che rimane segreta e non chiede un dollaro in cambio, affida tutto alla redazione di “Süddeutsche Zeitung”, quotidiano di Monaco di Baviera edito da una casa editrice legata alle principali conglomerate editoriali tedesche. Il materiale, tuttavia, è troppo voluminoso anche per un grande giornale.

I redattori ricorrono perciò all’International Consortium of Investigative Journalists (Icij), una rete che mette insieme 190 giornalisti di oltre 65 paesi, ed è l’emanazione internazionale di un’organizzazione basata negli Stati Uniti d’America, il Center for Public Integrity, che vanta tra i suoi finanziatori le principali fondazioni delle grandi famiglie capitalistiche americane, compresi i Rockefeller, i Rothschild, la Open Society di Soros, e altri super-filantropi di peso paragonabile. Il consorzio dei giornalisti investigativi è insomma alimentato dal cupolone dei padroni universali, gli stessi che i Papers non nominano, i medesimi che guidano affari opachi e speculazioni su una scala enormemente maggiore rispetto a quanto emerso dalle carte panamensi. Come mai un cenacolo di straricchi capaci di muovere vagonate di miliardi con un solo clic, senza battere ciglio si mette a finanziare proprio i giornalisti che quasi ogni anno tirano fuori grosse inchieste contro i David Rockefellerparadisi fiscali? Anche qui: si tratta di un’anomalia, ma è improbabile che si tratti di un caso.

I meno distratti sanno che attualmente con il Ttip e altri trattati più o meno segreti si sta ridisegnando lo spazio euroatlantico a guida statunitense in modo da ricompattare il blocco capitalista più legato a Washington intorno a una sorta di “Nato economica”. Ebbene, nel 2009-2010, il presidente Barack Obama aveva composto un collegio di consiglieri economici presieduto dalla storica Christina Romer, una professoressa che aveva studiato a menadito la Grande Depressione degli anni trenta. Secondo la Romer l’unico modo per risolvere strutturalmente la crisi finanziaria con epicentro negli Stati Uniti stava nel determinare un trasferimento di capitali europei verso Wall Street. Da allora, da Washington si sono moltiplicate le iniziative per far chiudere il maggior numero possibile di paradisi fiscali non anglo-sassoni, troppo concorrenziali E una parte dei giochi ha reso meno forte l’euro. È un’angolazione diversa per osservare le fughe di Christina Romernotizie di questi anni: la crisi di Cipro, gli scandali vaticani, l’attacco al santuario bancario svizzero, ecc.

Naturalmente queste ondate di scandali, creando panico, si riverberavano negativamente anche sulla finanza anglosassone, per via delle tante interconnessioni. Ma nell’insieme, quella rimane più protetta dalle regole e dai rapporti di forza nelle istituzioni finanziarie internazionali che essa stessa ha creato e quindi resiste all’urto. Come la chemioterapia, che ambisce a sopportare il veleno che uccide molte cellule funzionali al proprio organismo purché uccida tutte le cellule “disfunzionali” del tumore, allo stesso modo i poli della finanza anglosassone vedono ridursi o perfino scomparire i poli concorrenti, al prezzo di un certo caos sistemico. Malgrado ciò, i capitalisti in cerca di investimenti stabili e sicuri non hanno ancora trovato né così allettante né così facile trasferire i loro soldi in Usa, di cui – nonostante tutto – avvertono gli scricchiolii.

Quel sistema che grossolanamente chiamiamo Nato economica spianerà la strada. Se va in porto, gli Usa si salvano attirando i capitali europei, a spese di interi popoli, ai quali andranno resi difficili gli affari con paesi fuori da quel giro, anche se più convenienti e più complementari. Magari con uno strumento micidiale: le sanzioni. Ebbene, la questione delle sanzioni è un punto particolarmente illuminante, che spiega bene dentro quali paletti potesse muoversi l’inchiesta. Nel documento di presentazione dei Panama Papers pubblicato dalla “Süddeutsche Zeitung”, infatti si spiega che la specializzazione primaria della Mossack Fonseca, oltre al riciclaggio e l’evasione fiscale, riguardava «attività imprenditoriali che potenzialmente violano delle sanzioni». Rockefeller non ha bisogno di questi schemi, mentre è più probabile che li abbiano dovuti usare le classi dirigenti Mossack Fonsecarusse, soggette a un drastico sistema di sanzioni, per riuscire a interagire faticosamente con il resto del mondo in questi anni. E così hanno fatto altri dirigenti di altri paesi soggetti a sanzioni.

I giornalisti dell’Icij, collegati alle principali testate dell’Occidente – che possiamo considerare come altrettanti organi ufficiosi della Nato – non si sono posti il problema. Il contesto sanzioni, nella vulgata dei giornali, cede il passo al contesto corruzione/evasione. E mentre il contesto sanzioni spiegherebbe bene la scoperta dell’acqua calda, che cioè i grandi giri di denaro in Russia non li fanno i nemici di Putin, il contesto corruzione/evasione è inadatto a spiegare il ruolo di Putin. Ma gli organi della Nato preferiscono quello, e riprendono allora tutto il set di interpretazioni che hanno già usato altre volte. A Putin non è riconducibile direttamente nessuno degli schemi finanziari analizzati, ma il suo ritratto deve aprire la notizia, e mangiarsela. Esattamente come quando era esploso lo scandalo doping: riguardava atleti di decine di nazioni, ma la “Repubblica” faceva il titolone in prima sul surreale “doping di Putin”.

In Regno Unito il primo giorno hanno fatto di peggio. Nonostante fosse direttamente coinvolto il padre del premier Cameron, il tanto decantato giornalismo britannico è stato zitto, per fare invece a gara, anche lì, a chi metteva la foto più grande di Vladimir il Cattivo. Eppure ci sarebbe da dire anche su questa tegola per il primo ministro britannico. Nonostante lo storico allineamento di Londra con Washington, recentemente ci sono state moltissime correnti di attrazione economica e finanziaria fra Londra e Pechino. La stessa grande soffiata, pur chiamandosi Panama, riguarda in buona parte affari che si concludono nella City londinese. Ne risulta un bel calcione a eventuali velleità britanniche, così come lo scandalo Volkswagen risultava essere un bel calcione alle velleità germaniche e la supermulta alla banca Bnp Paribas era bel calcione alle velleità francesi. Seguono attentati. Recentemente Sergey Glazyev, un economista molto ascoltato da Putin, ha parlato di “guerra ibrida” per definire le complesse mosse non strettamente militari degli Usa contro il “nemico” russo. Possiamo estendere la definizione anche ad altri casi: la “guerra ibrida” viene mossa anche contro gli “amici”. Magari via Panama, ma con il portafoglio ben radicato e protetto a Washington. E con infiniti strati di copertura che rendano irriconoscibile la guerra e facciano credere che esista il giornalismo investigativo con il guinzaglio lungo.

(Pino Cabras, “Panama Papers, segreti manipolati”, dal blog “Occhi della Guerra” su “Il Giornale” del 6 aprile 2016).
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