La Terza Guerra Mondiale
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Migranti, patto col diavolo: l’Ue vende l’anima alla Turchia
Scritto il 01/4/16 • nella Categoria: segnalazioni
L’accordo con la Turchia è la cosa più sordida a cui io abbia mai assistito nella moderna politica europea. Il giorno in cui i leader dell’Unione Europea hanno firmato l’accordo, Recep Tayyip Erdogan, il presidente turco, ha scoperto il proprio gioco: «La democrazia, la libertà e lo Stato di diritto… Per noi, queste parole non hanno assolutamente più alcun valore». A quel punto, il Consiglio Europeo avrebbe dovuto chiudere la conversazione con Ahmet Davutoglu, il primo ministro turco, e mandarlo a casa. E invece hanno fatto un accordo con lui – denaro e molto altro ancora, in cambio dell’aiuto nella crisi dei rifugiati. La Turchia si occuperà di ritrasferire circa 72.000 rifugiati arrivati nella Ue – uno swap uno-ad-uno per ogni clandestino che i turchi fanno salire sui barconi nel Mar Egeo. In cambio, l’Ue pagherà alla Turchia 6 miliardi di euro e aprirà un nuovo capitolo nei negoziati di adesione all’Ue – questo, con un paese la cui leadership ha appena abrogato la democrazia.L’Ue inoltre è pronta a consentire l’esenzione dal visto per 75 milioni di residenti in Turchia. L’Unione Europea non solo ha venduto la sua anima, quel giorno, ma in realtà ha anche concluso un affare piuttosto scadente. Io non sono in grado di giudicare se questo accordo è conforme alla Convenzione di Ginevra e al diritto internazionale. Presumo che il Consiglio Europeo abbia fatto in modo di poter sostenere un’azione in tribunale. Ma anche se può essere considerato legale, ho dei dubbi che possa essere attuato. Sarà interessante vedere se l’Ue si rimangerà le promesse fatte alla Turchia nel caso che Ankara non riuscisse a mantenere l’impegno. Anche se l’operazione fosse pienamente attuata, non alleggerirebbe la pressione di molto. Il numero atteso di rifugiati che si fanno strada verso l’Ue sarà molto superiore ai 72.000 concordati con la Turchia. Un think-tank tedesco ha fatto i conti sui flussi di profughi per quest’anno e ha messo a punto una stima che va da di 1,8 milioni a 6,4 milioni di persone. Quest’ultima cifra corrisponde allo scenario peggiore, che potrebbe includere un gran numero di immigrati dal Nord Africa.La chiusura della rotta dei Balcani occidentali per i rifugiati – dalla Grecia attraverso la Macedonia, Serbia, Croazia, Slovenia e poi in Austria e Germania – ha procurato un sollievo a breve termine per gli europei del nord, ma ci sono numerosi percorsi alternativi che i rifugiati possono prendere. Possono passare attraverso il Caucaso e l’Ucraina, o attraverso il Mediterraneo verso l’Italia e la Spagna. Se i paesi chiudono i loro confini, non riducono il flusso di profughi, ma semplicemente lo deviano. Si tratta di un classico esempio di una politica “beggar-thy-neighbor”. Questo dimostra che una politica dei rifugiati a livello Ue è inevitabile. Uno dei casi più eclatanti di azione unilaterale è la chiusura delle frontiere in Austria. Ora il paese sta ripristinando i controlli alla principale frontiera verso l’Italia – l’autostrada del Brennero. Questa è una delle rotte più trafficate tra Europa meridionale e settentrionale. Una volta che i rifugiati arrivano in Italia, ci si aspetta molto movimento ai confini settentrionali. A quel punto è probabile che Francia, Svizzera e Slovenia decidano di ripristinare i controlli.L’Italia potrebbe essere tagliata fuori dall’area Schengen per i movimenti senza passaporto, di cui ora fa parte, e Schengen diventerebbe un piccolo club di paesi del Nord Europa – forse un modello per il futuro dell’Eurozona. Questo sarebbe il primo passo verso la frammentazione della Ue. L’accordo con la Turchia avrà anche un impatto sul dibattito referendario nel Regno Unito. Il campo a favore di un’uscita dall’Unione Europea non avrebbe forse qualcosa da dire sull’esenzione dal visto per 75 milioni di turchi? Chiunque abbia a cuore la democrazia e i diritti umani odierà questo accordo. Come anche chiunque tema il dominio tedesco dell’Ue, avviato da Angela Merkel. Il cancelliere tedesco non ne aveva certo bisogno, per uscire dalla trappola in cui si era cacciata. E’ stata la sua decisione unilaterale di aprire le frontiere della Germania che ha trasformato una crisi dei rifugiati gestibile in un un disastro ingestibile. Non è facile trattare in modo puramente razionale l’ipotesi di un’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Ma ormai l’Ue ha perduto la sua superiorità morale, non dovremmo essere sorpresi se la gente comincia a mettere in discussione ciò che essa rappresenta, e che sia un’istituzione necessaria.(Wolfgang Münchau, “Firmando l’accordo con la Turchia, l’Ue si è venduta l’anima”, dal “Financial Times” del 20 marzo 2016, ripreso da “Voci dall’Estero”).
L’accordo con la Turchia è la cosa più sordida a cui io abbia mai assistito nella moderna politica europea. Il giorno in cui i leader dell’Unione Europea hanno firmato l’accordo, Recep Tayyip Erdogan, il presidente turco, ha scoperto il proprio gioco: «La democrazia, la libertà e lo Stato di diritto… Per noi, queste parole non hanno assolutamente più alcun valore». A quel punto, il Consiglio Europeo avrebbe dovuto chiudere la conversazione con Ahmet Davutoglu, il primo ministro turco, e mandarlo a casa. E invece hanno fatto un accordo con lui – denaro e molto altro ancora, in cambio dell’aiuto nella crisi dei rifugiati. La Turchia si occuperà di ritrasferire circa 72.000 rifugiati arrivati nella Ue – uno swap uno-ad-uno per ogni clandestino che i turchi fanno salire sui barconi nel Mar Egeo. In cambio, l’Ue pagherà alla Turchia 6 miliardi di euro e aprirà un nuovo capitolo nei negoziati di adesione all’Ue – questo, con un paese la cui leadership ha appena abrogato la democrazia.
L’Ue inoltre è pronta a consentire l’esenzione dal visto per 75 milioni di residenti in Turchia. L’Unione Europea non solo ha venduto la sua anima, quel giorno, ma in realtà ha anche concluso un affare piuttosto scadente. Io non sono in grado di Wolfgang Münchau, analista del Financial Timesgiudicare se questo accordo è conforme alla Convenzione di Ginevra e al diritto internazionale. Presumo che il Consiglio Europeo abbia fatto in modo di poter sostenere un’azione in tribunale. Ma anche se può essere considerato legale, ho dei dubbi che possa essere attuato. Sarà interessante vedere se l’Ue si rimangerà le promesse fatte alla Turchia nel caso che Ankara non riuscisse a mantenere l’impegno. Anche se l’operazione fosse pienamente attuata, non alleggerirebbe la pressione di molto. Il numero atteso di rifugiati che si fanno strada verso l’Ue sarà molto superiore ai 72.000 concordati con la Turchia. Un think-tank tedesco ha fatto i conti sui flussi di profughi per quest’anno e ha messo a punto una stima che va da di 1,8 milioni a 6,4 milioni di persone. Quest’ultima cifra corrisponde allo scenario peggiore, che potrebbe includere un gran numero di immigrati dal Nord Africa.
La chiusura della rotta dei Balcani occidentali per i rifugiati – dalla Grecia attraverso la Macedonia, Serbia, Croazia, Slovenia e poi in Austria e Germania – ha procurato un sollievo a breve termine per gli europei del nord, ma ci sono numerosi percorsi alternativi che i rifugiati possono prendere. Possono passare attraverso il Caucaso e l’Ucraina, o attraverso il Mediterraneo verso l’Italia e la Spagna. Se i paesi chiudono i loro confini, non riducono il flusso di profughi, ma semplicemente lo deviano. Si tratta di un classico esempio di una politica “beggar-thy-neighbor”. Questo dimostra che una politica dei rifugiati a livello Ue è inevitabile. Uno dei casi più eclatanti di azione unilaterale è la chiusura delle frontiere in Austria. Ora il paese sta ripristinando i controlli alla principale frontiera verso l’Italia – l’autostrada del Brennero. Questa è una delle rotte più trafficate tra Europa Profughi fermati in Macedoniameridionale e settentrionale. Una volta che i rifugiati arrivano in Italia, ci si aspetta molto movimento ai confini settentrionali. A quel punto è probabile che Francia, Svizzera e Slovenia decidano di ripristinare i controlli.
L’Italia potrebbe essere tagliata fuori dall’area Schengen per i movimenti senza passaporto, di cui ora fa parte, e Schengen diventerebbe un piccolo club di paesi del Nord Europa – forse un modello per il futuro dell’Eurozona. Questo sarebbe il primo passo verso la frammentazione della Ue. L’accordo con la Turchia avrà anche un impatto sul dibattito referendario nel Regno Unito. Il campo a favore di un’uscita dall’Unione Europea non avrebbe forse qualcosa da dire sull’esenzione dal visto per 75 milioni di turchi? Chiunque abbia a cuore la democrazia e i diritti umani odierà questo accordo. Come anche chiunque tema il dominio tedesco dell’Ue, avviato da Angela Merkel. Il cancelliere tedesco non ne aveva certo bisogno, per uscire dalla trappola in cui si era cacciata. E’ stata la sua decisione unilaterale di aprire le frontiere della Germania che ha trasformato una crisi dei rifugiati gestibile in un un disastro ingestibile. Non è facile trattare in modo puramente razionale l’ipotesi di un’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Ma ormai l’Ue ha perduto la sua superiorità morale, non dovremmo essere sorpresi se la gente comincia a mettere in discussione ciò che essa rappresenta, e che sia un’istituzione necessaria.
(Wolfgang Münchau, “Firmando l’accordo con la Turchia, l’Ue si è venduta l’anima”, dal “Financial Times” del 20 marzo 2016, ripreso da “Voci dall’Estero”).
Scritto il 01/4/16 • nella Categoria: segnalazioni
L’accordo con la Turchia è la cosa più sordida a cui io abbia mai assistito nella moderna politica europea. Il giorno in cui i leader dell’Unione Europea hanno firmato l’accordo, Recep Tayyip Erdogan, il presidente turco, ha scoperto il proprio gioco: «La democrazia, la libertà e lo Stato di diritto… Per noi, queste parole non hanno assolutamente più alcun valore». A quel punto, il Consiglio Europeo avrebbe dovuto chiudere la conversazione con Ahmet Davutoglu, il primo ministro turco, e mandarlo a casa. E invece hanno fatto un accordo con lui – denaro e molto altro ancora, in cambio dell’aiuto nella crisi dei rifugiati. La Turchia si occuperà di ritrasferire circa 72.000 rifugiati arrivati nella Ue – uno swap uno-ad-uno per ogni clandestino che i turchi fanno salire sui barconi nel Mar Egeo. In cambio, l’Ue pagherà alla Turchia 6 miliardi di euro e aprirà un nuovo capitolo nei negoziati di adesione all’Ue – questo, con un paese la cui leadership ha appena abrogato la democrazia.L’Ue inoltre è pronta a consentire l’esenzione dal visto per 75 milioni di residenti in Turchia. L’Unione Europea non solo ha venduto la sua anima, quel giorno, ma in realtà ha anche concluso un affare piuttosto scadente. Io non sono in grado di giudicare se questo accordo è conforme alla Convenzione di Ginevra e al diritto internazionale. Presumo che il Consiglio Europeo abbia fatto in modo di poter sostenere un’azione in tribunale. Ma anche se può essere considerato legale, ho dei dubbi che possa essere attuato. Sarà interessante vedere se l’Ue si rimangerà le promesse fatte alla Turchia nel caso che Ankara non riuscisse a mantenere l’impegno. Anche se l’operazione fosse pienamente attuata, non alleggerirebbe la pressione di molto. Il numero atteso di rifugiati che si fanno strada verso l’Ue sarà molto superiore ai 72.000 concordati con la Turchia. Un think-tank tedesco ha fatto i conti sui flussi di profughi per quest’anno e ha messo a punto una stima che va da di 1,8 milioni a 6,4 milioni di persone. Quest’ultima cifra corrisponde allo scenario peggiore, che potrebbe includere un gran numero di immigrati dal Nord Africa.La chiusura della rotta dei Balcani occidentali per i rifugiati – dalla Grecia attraverso la Macedonia, Serbia, Croazia, Slovenia e poi in Austria e Germania – ha procurato un sollievo a breve termine per gli europei del nord, ma ci sono numerosi percorsi alternativi che i rifugiati possono prendere. Possono passare attraverso il Caucaso e l’Ucraina, o attraverso il Mediterraneo verso l’Italia e la Spagna. Se i paesi chiudono i loro confini, non riducono il flusso di profughi, ma semplicemente lo deviano. Si tratta di un classico esempio di una politica “beggar-thy-neighbor”. Questo dimostra che una politica dei rifugiati a livello Ue è inevitabile. Uno dei casi più eclatanti di azione unilaterale è la chiusura delle frontiere in Austria. Ora il paese sta ripristinando i controlli alla principale frontiera verso l’Italia – l’autostrada del Brennero. Questa è una delle rotte più trafficate tra Europa meridionale e settentrionale. Una volta che i rifugiati arrivano in Italia, ci si aspetta molto movimento ai confini settentrionali. A quel punto è probabile che Francia, Svizzera e Slovenia decidano di ripristinare i controlli.L’Italia potrebbe essere tagliata fuori dall’area Schengen per i movimenti senza passaporto, di cui ora fa parte, e Schengen diventerebbe un piccolo club di paesi del Nord Europa – forse un modello per il futuro dell’Eurozona. Questo sarebbe il primo passo verso la frammentazione della Ue. L’accordo con la Turchia avrà anche un impatto sul dibattito referendario nel Regno Unito. Il campo a favore di un’uscita dall’Unione Europea non avrebbe forse qualcosa da dire sull’esenzione dal visto per 75 milioni di turchi? Chiunque abbia a cuore la democrazia e i diritti umani odierà questo accordo. Come anche chiunque tema il dominio tedesco dell’Ue, avviato da Angela Merkel. Il cancelliere tedesco non ne aveva certo bisogno, per uscire dalla trappola in cui si era cacciata. E’ stata la sua decisione unilaterale di aprire le frontiere della Germania che ha trasformato una crisi dei rifugiati gestibile in un un disastro ingestibile. Non è facile trattare in modo puramente razionale l’ipotesi di un’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Ma ormai l’Ue ha perduto la sua superiorità morale, non dovremmo essere sorpresi se la gente comincia a mettere in discussione ciò che essa rappresenta, e che sia un’istituzione necessaria.(Wolfgang Münchau, “Firmando l’accordo con la Turchia, l’Ue si è venduta l’anima”, dal “Financial Times” del 20 marzo 2016, ripreso da “Voci dall’Estero”).
L’accordo con la Turchia è la cosa più sordida a cui io abbia mai assistito nella moderna politica europea. Il giorno in cui i leader dell’Unione Europea hanno firmato l’accordo, Recep Tayyip Erdogan, il presidente turco, ha scoperto il proprio gioco: «La democrazia, la libertà e lo Stato di diritto… Per noi, queste parole non hanno assolutamente più alcun valore». A quel punto, il Consiglio Europeo avrebbe dovuto chiudere la conversazione con Ahmet Davutoglu, il primo ministro turco, e mandarlo a casa. E invece hanno fatto un accordo con lui – denaro e molto altro ancora, in cambio dell’aiuto nella crisi dei rifugiati. La Turchia si occuperà di ritrasferire circa 72.000 rifugiati arrivati nella Ue – uno swap uno-ad-uno per ogni clandestino che i turchi fanno salire sui barconi nel Mar Egeo. In cambio, l’Ue pagherà alla Turchia 6 miliardi di euro e aprirà un nuovo capitolo nei negoziati di adesione all’Ue – questo, con un paese la cui leadership ha appena abrogato la democrazia.
L’Ue inoltre è pronta a consentire l’esenzione dal visto per 75 milioni di residenti in Turchia. L’Unione Europea non solo ha venduto la sua anima, quel giorno, ma in realtà ha anche concluso un affare piuttosto scadente. Io non sono in grado di Wolfgang Münchau, analista del Financial Timesgiudicare se questo accordo è conforme alla Convenzione di Ginevra e al diritto internazionale. Presumo che il Consiglio Europeo abbia fatto in modo di poter sostenere un’azione in tribunale. Ma anche se può essere considerato legale, ho dei dubbi che possa essere attuato. Sarà interessante vedere se l’Ue si rimangerà le promesse fatte alla Turchia nel caso che Ankara non riuscisse a mantenere l’impegno. Anche se l’operazione fosse pienamente attuata, non alleggerirebbe la pressione di molto. Il numero atteso di rifugiati che si fanno strada verso l’Ue sarà molto superiore ai 72.000 concordati con la Turchia. Un think-tank tedesco ha fatto i conti sui flussi di profughi per quest’anno e ha messo a punto una stima che va da di 1,8 milioni a 6,4 milioni di persone. Quest’ultima cifra corrisponde allo scenario peggiore, che potrebbe includere un gran numero di immigrati dal Nord Africa.
La chiusura della rotta dei Balcani occidentali per i rifugiati – dalla Grecia attraverso la Macedonia, Serbia, Croazia, Slovenia e poi in Austria e Germania – ha procurato un sollievo a breve termine per gli europei del nord, ma ci sono numerosi percorsi alternativi che i rifugiati possono prendere. Possono passare attraverso il Caucaso e l’Ucraina, o attraverso il Mediterraneo verso l’Italia e la Spagna. Se i paesi chiudono i loro confini, non riducono il flusso di profughi, ma semplicemente lo deviano. Si tratta di un classico esempio di una politica “beggar-thy-neighbor”. Questo dimostra che una politica dei rifugiati a livello Ue è inevitabile. Uno dei casi più eclatanti di azione unilaterale è la chiusura delle frontiere in Austria. Ora il paese sta ripristinando i controlli alla principale frontiera verso l’Italia – l’autostrada del Brennero. Questa è una delle rotte più trafficate tra Europa Profughi fermati in Macedoniameridionale e settentrionale. Una volta che i rifugiati arrivano in Italia, ci si aspetta molto movimento ai confini settentrionali. A quel punto è probabile che Francia, Svizzera e Slovenia decidano di ripristinare i controlli.
L’Italia potrebbe essere tagliata fuori dall’area Schengen per i movimenti senza passaporto, di cui ora fa parte, e Schengen diventerebbe un piccolo club di paesi del Nord Europa – forse un modello per il futuro dell’Eurozona. Questo sarebbe il primo passo verso la frammentazione della Ue. L’accordo con la Turchia avrà anche un impatto sul dibattito referendario nel Regno Unito. Il campo a favore di un’uscita dall’Unione Europea non avrebbe forse qualcosa da dire sull’esenzione dal visto per 75 milioni di turchi? Chiunque abbia a cuore la democrazia e i diritti umani odierà questo accordo. Come anche chiunque tema il dominio tedesco dell’Ue, avviato da Angela Merkel. Il cancelliere tedesco non ne aveva certo bisogno, per uscire dalla trappola in cui si era cacciata. E’ stata la sua decisione unilaterale di aprire le frontiere della Germania che ha trasformato una crisi dei rifugiati gestibile in un un disastro ingestibile. Non è facile trattare in modo puramente razionale l’ipotesi di un’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Ma ormai l’Ue ha perduto la sua superiorità morale, non dovremmo essere sorpresi se la gente comincia a mettere in discussione ciò che essa rappresenta, e che sia un’istituzione necessaria.
(Wolfgang Münchau, “Firmando l’accordo con la Turchia, l’Ue si è venduta l’anima”, dal “Financial Times” del 20 marzo 2016, ripreso da “Voci dall’Estero”).
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Re: La Terza Guerra Mondiale
RIPETO: NESSUN ATTO DI FEDE. MA RIFLETTERE SI'
Carpeoro: l’élite ricorre alle bombe perché adesso ha paura
Scritto il 03/4/16 • nella Categoria: idee
Siamo in pericolo, e lo saremo sempre di più. Motivo: l’élite planetaria, quella che oggi ricorre anche al terrorismo stragista, sta cominciando ad avere paura. Teme, per la prima volta, di perdere il potere assoluto che ha esercitato, negli ultimi decenni, in modo incontrastato. A inquietare le super-oligarchie mondiali non è solo il progressivo risveglio democratico di una parte dell’opinione pubblica, sempre più scettica di fronte alla narrazione ufficiale degli eventi. Pesa, soprattutto, la clamorosa diserzione di una parte consistente di quello stesso vertice di potere, spaventato dalle rovinose conseguenze, su scala mondiale, della “dittatura” neoliberista, il cui obiettivo è chiaro: confiscarci ogni diritto e retrocedere tutti noi a livelli di sfruttamento da terzo mondo. Lo afferma Gianfranco Carpeoro, giornalista e scrittore, acuto osservatore dei retroscena internazionali anche in virtù della sua lunga militanza nella massoneria indipendente. Già avvocato, eminente studioso della cultura simbolica esoterica, Carpeoro è oggi schierato con Gioele Magaldi nella denuncia degli abusi sempre più devastanti che costellano la deriva autoritaria della leadership globale. Qualcuno, lassù, ha cominciato a sfilarsi. E il massimo potere si è spaventato a morte, al punto da pianificare stragi, affidate alla manovalanza dell’Isis.
Questa la sintesi della posizione di Carpeoro, espressa durante un lungo intervento alla trasmissione web-radio “Border Nights” del 29 marzo, condotta da Fabio Frabetti con la partecipazione di Paolo Franceschetti, indagatore di molti misteri irrisolti della cronaca italiana. Sul tappeto, l’analisi della situazione internazionale all’indomani dell’ultima ondata di attentati terroristici, da Bruxelles al Pakistan. «E’ evidente che il problema non è l’Isis, ma chi lo manovra», premette Carpeoro, che peraltro denuncia come “deliranti” le tante fantasie complottiste che inondano il web: «Assurdo perdere tempo a domandarsi se è autentico o meno il video di un attentato trasmesso in televisione: i morti sono reali, e nessuno si sforza di capire cosa c’è dietro all’organizzazione stragistica». Certo la colpa non è dell’Islam: «Per secoli, i musulmani hanno protetto ogni minoranza perseguitata, compresi gli ebrei». Siamo noi, colonialisti occidentali, che nell’ultimo scorcio storico abbiamo represso e depresso i popoli arabi, “coltivando” deliberatamente la disperazione di massa che oggi può produrre anche il fenomeno dei kamikaze. Ma bisogna sapere che si tratta di dinamiche accuratamente pilotate: non dal Califfo, ma da chi detiene il potere reale, economico e finanziario, in Occidente.
Nel suo libro “Massoni”, Gioele Magaldi denuncia apertamente – per la prima volta – il ruolo criminoso di alcune superlogge segrete del vertice occulto internazionale, come ha “Hathor Pentalpha” creata dai Bush, cui avrebbero aderito anche personaggi come Blair, Sarkozy e lo stesso Erdogan. Una macchina perfetta per attuare la strategia della tensione a livello geopolitico, dall’11 Settembre fino alla creazione dell’Isis per destabilizzare il Medio Oriente e imporre ovunque la logica della guerra. Dal canto suo, Carpeoro cita spesso un grande intellettuale come Francesco Saba Sardi, che nel saggio “Dominio” condanna la natura oppressiva del potere sorto all’epoca della prima civilizzazione: con la scoperta dell’agricoltura nasce la guerra per il possesso della terra, quindi lo sfruttamento del lavoro e l’istituzione religiosa per la manipolazione psicologica di soldati e lavoratori. Carpeoro segnala il progressivo e fatale deterioramento delle condizioni sociali, imposto da un potere che ricorre ad un pensiero di tipo “magico”: fa’ quello che ti dico e avrai un premio, l’importante è non ti chieda mai il vero perché delle cose.
«Per sua natura, il potere tende sempre a degradarsi col passare del tempo: un vecchio boss mafioso non avrebbe mai seppellito scorie tossiche nel prato dove giocano i suoi figli». Un ragionamento che prende in prestito da Noam Chomsky una celebre riflessione sulla comunicazione mainstream, ispirata dal potere: il pubblico viene “astratto” dalla percezione del reale e rinchiuso in un “cerchio magico”, in cui vigono le regole del “mago”, il persuasore di massa, il cui obiettivo è sempre la manipolazione, quindi la neutralizzazione della coscienza critica di chi ascolta. «A questo scopo, viene regolarmente fabbricato un nemico da detestare». Quando questo nemico tramonta – esempio, Al-Qaeda – c’è già pronto il nuovo nemico, l’Isis. «L’importante è che noi odiamo il nemico di turno, senza collegare le cose e senza mai domandarci chi vi sta dietro, a chi serve tutto il male che viene creato a suon di bombe». E’ la legge della paura, per paralizzare la società: strategia della tensione, appunto.
«L’intensità del terrorismo sta crescendo – sottolinea Carpeoro – perché, evidentemente, chi lo organizza pensa di non avere più altre chances per dominarci». A preoccupare i registi occulti del terrore, sempre secondo Carpeoro, sono le importanti defezioni che ormai si registrano in tutto l’Occidente, dall’Europa agli Usa, anche nel mondo massonico e finanziario, ma non solo: «Alle primarie americane un “socialista” dichiarato come Bernie Sanders si è imposto nello Stato di Washington: un segnale inequivocabile». Qualcosa si è incrinato, nell’élite di potere, e i vecchi “dominus” non si sentono più così al sicuro: temono di perdere l’attuale onnipotenza, che consente loro – attraverso la finanza – di fare e disfare popoli, guerre, crisi, esodi (e affari colossali, nell’impunità più assoluta). Ed ecco allora il crescere dell’instabilità, il ricorso sistematico al terrore. I grandi assenti? Manco a dirlo, siamo noi: serve una contro-politica, per imporre un nuovo sistema di valori, capace di farci uscire dal delirio crisi-guerra. Se scoppiano più bombe, dice Carpeoro, è perché chi comanda ha paura che si possa arrivare a un rovesciamento dell’attuale governance. Problema: «Ci vorrà molto tempo, e intanto la situazione peggiorerà ancora. Non possiamo restare a guardare, bisognerà pur fare qualcosa». E cioè: spingere la società a risvegliarsi, per rompere l’assedio dell’orrore, ormai sistematico e quotidiano.
Carpeoro: l’élite ricorre alle bombe perché adesso ha paura
Scritto il 03/4/16 • nella Categoria: idee
Siamo in pericolo, e lo saremo sempre di più. Motivo: l’élite planetaria, quella che oggi ricorre anche al terrorismo stragista, sta cominciando ad avere paura. Teme, per la prima volta, di perdere il potere assoluto che ha esercitato, negli ultimi decenni, in modo incontrastato. A inquietare le super-oligarchie mondiali non è solo il progressivo risveglio democratico di una parte dell’opinione pubblica, sempre più scettica di fronte alla narrazione ufficiale degli eventi. Pesa, soprattutto, la clamorosa diserzione di una parte consistente di quello stesso vertice di potere, spaventato dalle rovinose conseguenze, su scala mondiale, della “dittatura” neoliberista, il cui obiettivo è chiaro: confiscarci ogni diritto e retrocedere tutti noi a livelli di sfruttamento da terzo mondo. Lo afferma Gianfranco Carpeoro, giornalista e scrittore, acuto osservatore dei retroscena internazionali anche in virtù della sua lunga militanza nella massoneria indipendente. Già avvocato, eminente studioso della cultura simbolica esoterica, Carpeoro è oggi schierato con Gioele Magaldi nella denuncia degli abusi sempre più devastanti che costellano la deriva autoritaria della leadership globale. Qualcuno, lassù, ha cominciato a sfilarsi. E il massimo potere si è spaventato a morte, al punto da pianificare stragi, affidate alla manovalanza dell’Isis.
Questa la sintesi della posizione di Carpeoro, espressa durante un lungo intervento alla trasmissione web-radio “Border Nights” del 29 marzo, condotta da Fabio Frabetti con la partecipazione di Paolo Franceschetti, indagatore di molti misteri irrisolti della cronaca italiana. Sul tappeto, l’analisi della situazione internazionale all’indomani dell’ultima ondata di attentati terroristici, da Bruxelles al Pakistan. «E’ evidente che il problema non è l’Isis, ma chi lo manovra», premette Carpeoro, che peraltro denuncia come “deliranti” le tante fantasie complottiste che inondano il web: «Assurdo perdere tempo a domandarsi se è autentico o meno il video di un attentato trasmesso in televisione: i morti sono reali, e nessuno si sforza di capire cosa c’è dietro all’organizzazione stragistica». Certo la colpa non è dell’Islam: «Per secoli, i musulmani hanno protetto ogni minoranza perseguitata, compresi gli ebrei». Siamo noi, colonialisti occidentali, che nell’ultimo scorcio storico abbiamo represso e depresso i popoli arabi, “coltivando” deliberatamente la disperazione di massa che oggi può produrre anche il fenomeno dei kamikaze. Ma bisogna sapere che si tratta di dinamiche accuratamente pilotate: non dal Califfo, ma da chi detiene il potere reale, economico e finanziario, in Occidente.
Nel suo libro “Massoni”, Gioele Magaldi denuncia apertamente – per la prima volta – il ruolo criminoso di alcune superlogge segrete del vertice occulto internazionale, come ha “Hathor Pentalpha” creata dai Bush, cui avrebbero aderito anche personaggi come Blair, Sarkozy e lo stesso Erdogan. Una macchina perfetta per attuare la strategia della tensione a livello geopolitico, dall’11 Settembre fino alla creazione dell’Isis per destabilizzare il Medio Oriente e imporre ovunque la logica della guerra. Dal canto suo, Carpeoro cita spesso un grande intellettuale come Francesco Saba Sardi, che nel saggio “Dominio” condanna la natura oppressiva del potere sorto all’epoca della prima civilizzazione: con la scoperta dell’agricoltura nasce la guerra per il possesso della terra, quindi lo sfruttamento del lavoro e l’istituzione religiosa per la manipolazione psicologica di soldati e lavoratori. Carpeoro segnala il progressivo e fatale deterioramento delle condizioni sociali, imposto da un potere che ricorre ad un pensiero di tipo “magico”: fa’ quello che ti dico e avrai un premio, l’importante è non ti chieda mai il vero perché delle cose.
«Per sua natura, il potere tende sempre a degradarsi col passare del tempo: un vecchio boss mafioso non avrebbe mai seppellito scorie tossiche nel prato dove giocano i suoi figli». Un ragionamento che prende in prestito da Noam Chomsky una celebre riflessione sulla comunicazione mainstream, ispirata dal potere: il pubblico viene “astratto” dalla percezione del reale e rinchiuso in un “cerchio magico”, in cui vigono le regole del “mago”, il persuasore di massa, il cui obiettivo è sempre la manipolazione, quindi la neutralizzazione della coscienza critica di chi ascolta. «A questo scopo, viene regolarmente fabbricato un nemico da detestare». Quando questo nemico tramonta – esempio, Al-Qaeda – c’è già pronto il nuovo nemico, l’Isis. «L’importante è che noi odiamo il nemico di turno, senza collegare le cose e senza mai domandarci chi vi sta dietro, a chi serve tutto il male che viene creato a suon di bombe». E’ la legge della paura, per paralizzare la società: strategia della tensione, appunto.
«L’intensità del terrorismo sta crescendo – sottolinea Carpeoro – perché, evidentemente, chi lo organizza pensa di non avere più altre chances per dominarci». A preoccupare i registi occulti del terrore, sempre secondo Carpeoro, sono le importanti defezioni che ormai si registrano in tutto l’Occidente, dall’Europa agli Usa, anche nel mondo massonico e finanziario, ma non solo: «Alle primarie americane un “socialista” dichiarato come Bernie Sanders si è imposto nello Stato di Washington: un segnale inequivocabile». Qualcosa si è incrinato, nell’élite di potere, e i vecchi “dominus” non si sentono più così al sicuro: temono di perdere l’attuale onnipotenza, che consente loro – attraverso la finanza – di fare e disfare popoli, guerre, crisi, esodi (e affari colossali, nell’impunità più assoluta). Ed ecco allora il crescere dell’instabilità, il ricorso sistematico al terrore. I grandi assenti? Manco a dirlo, siamo noi: serve una contro-politica, per imporre un nuovo sistema di valori, capace di farci uscire dal delirio crisi-guerra. Se scoppiano più bombe, dice Carpeoro, è perché chi comanda ha paura che si possa arrivare a un rovesciamento dell’attuale governance. Problema: «Ci vorrà molto tempo, e intanto la situazione peggiorerà ancora. Non possiamo restare a guardare, bisognerà pur fare qualcosa». E cioè: spingere la società a risvegliarsi, per rompere l’assedio dell’orrore, ormai sistematico e quotidiano.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
il manifesto 5.4.16
La necessità di un nuovo ordine internazionale
Europa. Nell’ostilità contro i nuovi flussi migratori si occultano le responsabilità dirette che le potenze euro-atlantiche hanno nelle guerre e negli squilibri economici che condannano all’emigrazione
di Ignazio Masulli
In più di un ventennio, gli Usa e i loro maggiori alleati europei hanno intrapreso azioni militari con i più vari e pretestuosi obiettivi, senza alcun risultato coerente e apprezzabile. Lo stesso è avvenuto in tanti interventi, affatto interessati e arbitrari, nei conflitti interni di altri paesi. Su un altro versante, le pur giustificate reazioni a violenti attentati terroristici sono apparse spesso velleitarie o fuori misura se non, addirittura, strumentali. Ancor più grave e desolante è l’incapacità di rispondere in modo responsabile e adeguato ai nuovi e crescenti flussi migratori, cui si reagisce con vane chiusure e negazione dei diritti umani.
Su tutti e tre i fronti sono apparsi del tutto evidenti i limiti delle politiche internazionali perseguite dai paesi della Nato negli ultimi decenni. Limiti che non lasciano intravedere alcuna prospettiva affidabile per il futuro, sia immediato che di più lungo periodo.
Nel 1990, col venir meno dell’equilibrio bipolare che aveva contrassegnato, in modo duro e minaccioso, i rapporti internazionali dal secondo dopoguerra, si ritenne possibile la costruzione di un nuovo ordine nei rapporti internazionali. Un ordine pluripolare e basato su politiche di pace e cooperazione.
Purtroppo, nulla di tutto questo si è verificato. All’ordine bipolare se n’è sostituito uno monopolare e affatto unilaterale. I paesi del Patto Atlantico, di fronte a uno scacchiere libero dai precedenti vincoli, si sono lanciati in una partita economica e politica in cui hanno affermato in modo prepotente e univoco gli interessi dei propri gruppi dominanti, economici, tecnologici, tecno-militari e politici.
La conseguenza è stata la riproposizione di modelli e strategie di politica internazionale, aggressivi e bellicisti, non molto dissimili da quelli praticati nei decenni precedenti.
Così è stato, ad esempio, nel controllo di zone d’influenza da mantenere ed espandere in antagonismo con altri paesi. Un altro strumento ben collaudato e tornato in auge è stato quello di far leva sulle ambizioni di un paese in una determinata regione contrapponendole a quelle di un altro ritenuto più distante o ostile rispetto agli interessi perseguiti. Salvo verificare poi che, proprio per l’azione svolta, il regime di cui ci si è serviti ha acquistato un potere e autonomia giudicati eccessivi e, quindi, da ridimensionare. Così è accaduto per l’Iraq di Saddam Hussein, l’Egitto di Hosni Mubarak, la Tunisia di Ben Ali e simili. Altre volte, i pretestuosi obiettivi di combattere contro minacce incombenti o in difesa della democrazia sono stati agitati contro regimi ritenuti decisamente ostili, come nel caso di Mu’ammar Gheddafi in Libia e Bashar al-Assad in Siria. In ogni caso, i risultati sono stati fallimentari e hanno comportato solo grandi sofferenze per le popolazioni civili.
In diversi contesti, non ci si è fatto scrupolo di rinfocolare vecchie contrapposizioni etniche o religiose per strumentalizzarle ai propri fini o giustificare interventi affatto arbitrari. Com’è accaduto in vari paesi dell’Africa centrale e orientale.
La logica unilaterale che, in tal modo, si è affermata nella regolazione dei rapporti internazionali ha avuto l’esigenza della continua individuazione di un nemico e di una presunta minaccia esterna.
La funzione vicaria e meramente strumentale di tale esigenza è dimostrata da accuse, poi smentite, come quella del possesso di “armi di distruzioni di massa”.
Perfino nei casi, obiettivi e drammatici, di gravi attentati terroristici, il carattere chiaramente sproporzionato ed erroneo delle reazioni ha dimostrato l’uso strumentale che se n’è fatto, sia a fini interni che internazionali. E nell’ostilità dispiegata contro i nuovi flussi migratori si occultano le responsabilità dirette che proprio le potenze euro-atlantiche hanno nelle guerre e negli squilibri economici che condannano molti milioni di persone all’emigrazione. Si fa credere che un fenomeno di tale portata può essere effettivamente arginato. Si cerca di deviare l’attenzione delle popolazioni autoctone dalle cause effettive del peggioramento delle loro condizioni di lavoro e di vita. Si omettono i vantaggi demografici, economici e sociali che dai flussi migratori possono derivare solo che si voglia e si sia capaci di governarli in modo positivo e inclusivo. Capacità che manca non per difetti soggettivi, bensì per scelte politiche conservatrici. Scelte che vanno in direzione esattamente opposta alle trasformazioni necessarie e possibili nell’interesse di tutti.
Sono proprio queste mistificazioni, che sempre più facilmente si mischiano e si sovrappongono, a mostrare come ci si stia muovendo in una situazione di confusione e instabilità nello scenario internazionale assai pericolosa e priva di prospettive.
Nonostante la fine della guerra fredda, la logica dei rapporti internazionali è rimasta unilaterale e aggressiva, basata sulla chiusura più che sull’apertura, sulla competizione più che sulla cooperazione, sull’affermazione di false identità più che sul dialogo e il riconoscimento dell’altro. Ma si tratta, appunto, di un ordine residuale e velleitario.
La spiegazione di questo stato di cose va ricercata nel fatto che l’attuale ordine dei rapporti internazionali si è costruito nella difesa dei blocchi di potere dei paesi del capitalismo storico consolidati nella contrapposizione a un’alleanza politico-militare e modello sociale avversi e ritenuti pericolosi per i propri interessi dominanti.
La costruzione necessaria di un nuovo ordine internazionale foriero di pace, aperto alla cooperazione economica, alla partnership e collaborazione politica non può avvenire se non modificando i blocchi di potere così come si sono costituiti all’interno dei paesi euro-atlantici e nelle loro diramazioni internazionali dal secondo dopoguerra a oggi.
Si tratta di una sfida certamente assai ardua. Ma non si vede come sia possibile affrontare i problemi complessi e strettamente interdipendenti del mondo contemporaneo se non in una logica e pratica dei rapporti internazionali assai diverse dalla parzialità, disordine e assenza di prospettive che caratterizzano quelle attuali.
La necessità di un nuovo ordine internazionale
Europa. Nell’ostilità contro i nuovi flussi migratori si occultano le responsabilità dirette che le potenze euro-atlantiche hanno nelle guerre e negli squilibri economici che condannano all’emigrazione
di Ignazio Masulli
In più di un ventennio, gli Usa e i loro maggiori alleati europei hanno intrapreso azioni militari con i più vari e pretestuosi obiettivi, senza alcun risultato coerente e apprezzabile. Lo stesso è avvenuto in tanti interventi, affatto interessati e arbitrari, nei conflitti interni di altri paesi. Su un altro versante, le pur giustificate reazioni a violenti attentati terroristici sono apparse spesso velleitarie o fuori misura se non, addirittura, strumentali. Ancor più grave e desolante è l’incapacità di rispondere in modo responsabile e adeguato ai nuovi e crescenti flussi migratori, cui si reagisce con vane chiusure e negazione dei diritti umani.
Su tutti e tre i fronti sono apparsi del tutto evidenti i limiti delle politiche internazionali perseguite dai paesi della Nato negli ultimi decenni. Limiti che non lasciano intravedere alcuna prospettiva affidabile per il futuro, sia immediato che di più lungo periodo.
Nel 1990, col venir meno dell’equilibrio bipolare che aveva contrassegnato, in modo duro e minaccioso, i rapporti internazionali dal secondo dopoguerra, si ritenne possibile la costruzione di un nuovo ordine nei rapporti internazionali. Un ordine pluripolare e basato su politiche di pace e cooperazione.
Purtroppo, nulla di tutto questo si è verificato. All’ordine bipolare se n’è sostituito uno monopolare e affatto unilaterale. I paesi del Patto Atlantico, di fronte a uno scacchiere libero dai precedenti vincoli, si sono lanciati in una partita economica e politica in cui hanno affermato in modo prepotente e univoco gli interessi dei propri gruppi dominanti, economici, tecnologici, tecno-militari e politici.
La conseguenza è stata la riproposizione di modelli e strategie di politica internazionale, aggressivi e bellicisti, non molto dissimili da quelli praticati nei decenni precedenti.
Così è stato, ad esempio, nel controllo di zone d’influenza da mantenere ed espandere in antagonismo con altri paesi. Un altro strumento ben collaudato e tornato in auge è stato quello di far leva sulle ambizioni di un paese in una determinata regione contrapponendole a quelle di un altro ritenuto più distante o ostile rispetto agli interessi perseguiti. Salvo verificare poi che, proprio per l’azione svolta, il regime di cui ci si è serviti ha acquistato un potere e autonomia giudicati eccessivi e, quindi, da ridimensionare. Così è accaduto per l’Iraq di Saddam Hussein, l’Egitto di Hosni Mubarak, la Tunisia di Ben Ali e simili. Altre volte, i pretestuosi obiettivi di combattere contro minacce incombenti o in difesa della democrazia sono stati agitati contro regimi ritenuti decisamente ostili, come nel caso di Mu’ammar Gheddafi in Libia e Bashar al-Assad in Siria. In ogni caso, i risultati sono stati fallimentari e hanno comportato solo grandi sofferenze per le popolazioni civili.
In diversi contesti, non ci si è fatto scrupolo di rinfocolare vecchie contrapposizioni etniche o religiose per strumentalizzarle ai propri fini o giustificare interventi affatto arbitrari. Com’è accaduto in vari paesi dell’Africa centrale e orientale.
La logica unilaterale che, in tal modo, si è affermata nella regolazione dei rapporti internazionali ha avuto l’esigenza della continua individuazione di un nemico e di una presunta minaccia esterna.
La funzione vicaria e meramente strumentale di tale esigenza è dimostrata da accuse, poi smentite, come quella del possesso di “armi di distruzioni di massa”.
Perfino nei casi, obiettivi e drammatici, di gravi attentati terroristici, il carattere chiaramente sproporzionato ed erroneo delle reazioni ha dimostrato l’uso strumentale che se n’è fatto, sia a fini interni che internazionali. E nell’ostilità dispiegata contro i nuovi flussi migratori si occultano le responsabilità dirette che proprio le potenze euro-atlantiche hanno nelle guerre e negli squilibri economici che condannano molti milioni di persone all’emigrazione. Si fa credere che un fenomeno di tale portata può essere effettivamente arginato. Si cerca di deviare l’attenzione delle popolazioni autoctone dalle cause effettive del peggioramento delle loro condizioni di lavoro e di vita. Si omettono i vantaggi demografici, economici e sociali che dai flussi migratori possono derivare solo che si voglia e si sia capaci di governarli in modo positivo e inclusivo. Capacità che manca non per difetti soggettivi, bensì per scelte politiche conservatrici. Scelte che vanno in direzione esattamente opposta alle trasformazioni necessarie e possibili nell’interesse di tutti.
Sono proprio queste mistificazioni, che sempre più facilmente si mischiano e si sovrappongono, a mostrare come ci si stia muovendo in una situazione di confusione e instabilità nello scenario internazionale assai pericolosa e priva di prospettive.
Nonostante la fine della guerra fredda, la logica dei rapporti internazionali è rimasta unilaterale e aggressiva, basata sulla chiusura più che sull’apertura, sulla competizione più che sulla cooperazione, sull’affermazione di false identità più che sul dialogo e il riconoscimento dell’altro. Ma si tratta, appunto, di un ordine residuale e velleitario.
La spiegazione di questo stato di cose va ricercata nel fatto che l’attuale ordine dei rapporti internazionali si è costruito nella difesa dei blocchi di potere dei paesi del capitalismo storico consolidati nella contrapposizione a un’alleanza politico-militare e modello sociale avversi e ritenuti pericolosi per i propri interessi dominanti.
La costruzione necessaria di un nuovo ordine internazionale foriero di pace, aperto alla cooperazione economica, alla partnership e collaborazione politica non può avvenire se non modificando i blocchi di potere così come si sono costituiti all’interno dei paesi euro-atlantici e nelle loro diramazioni internazionali dal secondo dopoguerra a oggi.
Si tratta di una sfida certamente assai ardua. Ma non si vede come sia possibile affrontare i problemi complessi e strettamente interdipendenti del mondo contemporaneo se non in una logica e pratica dei rapporti internazionali assai diverse dalla parzialità, disordine e assenza di prospettive che caratterizzano quelle attuali.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Corriere 5.16
Perché Obama con l’Isis si sta giocando la Storia
di Franco Venturini
Barack Obama è alla vigilia della scelta più difficile della sua presidenza: deciderà di scendere a compromessi con Mosca pur di battere l’Isis entro quest’anno, oppure uscirà dalla Casa Bianca senza aver davvero affrontato quella che egli stesso definisce la più terribile minaccia che pesa sull’Occidente? Se l’Isis avesse l’atomica la userebbe, ha detto il presidente al vertice sulla sicurezza nucleare che si è appena tenuto a Washington. Nessuno ne dubita, e tutti sanno che una bomba «sporca» non è poi tanto difficile da mettere insieme.
N on solo: gli Usa sono consapevoli degli effetti destabilizzanti che il terrorismo e le ondate migratorie provocano in Europa, e sanno che in entrambi i casi sono l’Isis e la tragedia siriana a soffiare sul fuoco. Soprattutto, in un mondo che pare frantumarsi ogni giorno di più, i successi dell’accordo con l'Iran e del disgelo con Cuba non bastano più. La presidenza di Obama sarà invece giudicata dalla Storia sul metro della risposta data alla minaccia globale dell’Isis, e del parallelo recupero di dignità politica degli Stati Uniti nei confronti di una Russia rivelatasi maestra nel ristabilire, a tempo di record, la sua influenza in Medio Oriente.
Il presidente non ha molto tempo per sciogliere il suo dilemma. In Siria l’esercito di Assad continua ad avanzare dopo aver riconquistato Palmira con il decisivo appoggio dei cacciabombardieri russi (altro che ritiro, come aveva annunciato Putin). Aleppo è virtualmente assediata. E si parla ormai apertamente, anche a Mosca, di un prossimo attacco a Raqqa, la «capitale» dell’Isis, sferrato anche in questo caso da truppe regolari siriane e aerei russi. Con loro potrebbero agire formazioni miste curdo-arabe che gli Usa da tempo tentano di consolidare, ma ecco allora emergere il tormento di Obama: è concepibile che l’America collabori con Assad il sanguinario pur di battere l’Isis? La Casa Bianca se la sente di fare pressioni sugli oppositori e sulla Turchia per agevolare l’operazione russo-siriana, che non sarebbe comunque una passeggiata?
Fonti autorevoli assicurano che proprio di questo si è parlato il 25 marzo scorso al Cremlino, quando John Kerry ha reso visita al collega Lavrov e a Vladimir Putin. E ciò malgrado la permanenza di un contrasto forte, che ufficialmente nessuna delle due parti vuole negare, sul trattamento da riservare a Bashar al-Assad: uscita morbida, non pregiudizievole per gli alawiti e dopo elezioni secondo i russi; uscita più ravvicinata nell’ambito di una transizione concordata con le opposizioni secondo gli americani (e gli europei) . Con gli americani che aspettano indicazioni più chiare da Obama.
Tanto più che si potrebbe ipotizzare una tenaglia anti Isis tra Siria e Iraq, perché anche in Iraq è in preparazione una offensiva contro la capitale del Califfato, Mosul. Qui si muovono reparti iracheni appena addestrati (anche dagli italiani), truppe speciali e un centinaio di marines americani, reparti curdi (quelli di Barzani) addestrati dai turchi, volontari appartenenti alle tribù sunnite che si è riusciti a mobilitare. E dall’alto la copertura è garantita (potrebbe accadere anche a Raqqa) dalla coalizione guidata dagli Usa. Niente esercito da Assad, da queste parti. Il che rende politicamente più facile una impresa che militarmente resta ardua.
Eccola, la cornice nella quale Obama deve decidere se vuole ritagliarsi un ruolo da protagonista. Mandando giù qualche boccone amaro in Siria, ma avendo anche la possibilità di incidere sul negoziato che tra pochi giorni riprenderà a Ginevra tra potere di Damasco e formazioni resistenti, il che significa con Iran, Hezbollah e Russia da un lato e Turchia, Arabia Saudita e altre monarchie del Golfo dall’altro. Tra operazioni militari e negoziato diplomatico l’antica strategia del doppio binario torna a essere possibile, almeno fino alla liquidazione dell’Isis. Beninteso ciò richiederebbe un accordo serio tra Usa e Russia sul Califfato e ancor più sul futuro della Siria, senza badare troppo a polemiche di contorno come quelle sui miliardi russi scoperti offshore.
Obama farebbe bene a pensarci e a decidere senza altri tentennamenti, perché il treno per sconfiggere l’Isis e per arrestare in seguito la mattanza siriana potrebbe non passare più. Almeno durante la sua presidenza.
E tra chi non può più aspettare ci siamo anche noi, c’è anche l’Europa. Sconfiggere l’Isis in Siria e in Iraq significa isolare l’Isis in Libia, rendere molto più difficile la sua penetrazione in tutte le aree calde dell’Africa. E ridurre il vantaggio strategico che viene al comando «regionale» di Sirte dalla vicinanza alle coste dell’Italia e dell’Europa. In attesa che venga fatta luce sulle prossime iniziative occidentali in Libia. E ancora, estirpare l’Isis in Siria e in Iraq può avviare processi di pacificazione che resterebbero complessi ma sarebbero tali da ridurre la pressione migratoria verso l’Europa del centronord (non quella in forte aumento che sin qui riguarda l’Italia, figlia dell’Africa e delle milizie libiche).
Obama vorrà mettersi in gioco? Speriamo di sì, ma non illudiamoci. Una sconfitta militare colpirebbe a morte soltanto l’organizzazione dell’Isis. Continuerebbero a vivere il fanatismo atroce che ha propagato in una parte del mondo islamico, il tentativo di sovvertire le comunità musulmane residenti in Europa, la volontà di tornare all’Islam del VII secolo. La guerra può essere vinta domani, la lotta per le coscienze durerà molto di più.
fventurini500@gmail.com
La Stampa 5.4.16
Crisi economica e corruzione
Brasile diviso sulla fine di Dilma
Impeachment più vicino per la presidente mollata dagli alleati La borghesia in festa, Lula e gli intellettuali difendono la leader
di Emiliano Guanella
Davanti al televisore, pronti con una padella e un mestolo in mano. Appena il «Jornal Nacional», seguitissimo tg serale della Rede Globo, mostra i discorsi di Dilma Rousseff ci si fionda alla finestra e si fa rumore. È la protesta della classe media che chiede l’impeachment della presidente.
Nel frattempo Lula da Silva, l’ex presidente e mentore politico di Dilma percorre il Nord-Est del Paese e riempie le piazze «contro il golpe» e in difesa del governo: «La riscossa del Brasile povero», l’hanno chiamata, in una battaglia che sta dividendo un Paese tradizionalmente lontano dalla politica, ma che sta vivendo una stagione inedita sullo sfondo della peggiore crisi economica degli ultimi 25 anni.
La popolarità di Dilma è bassissima, per gli scandali di corruzione, ma anche per la crisi di un sistema che si è inceppato da tempo. Politica, economia, giustizia, tutto legato e chiuso nel rebus di Dilma che cade o che resta in sella, dicotomia che divide la popolazione, provoca tensioni in famiglia, litigate sui social media, cortei e molta incertezza.
Da tre anni il Brasile non cresce più, il lavoro manca. Per il governo è colpa della crisi internazionale, della Cina che non compra come faceva un tempo. Per la gente in strada che protesta con le pentole in mano l’origine dei mali è la corruzione scoperchiata dalla maxi inchiesta del giudice Sergio Moro che ha colpito soprattutto il Partito dei Lavoratori di Dilma e Lula. Una strana coppia, unita nei momenti difficili, ma mai innamorata. Lula scelse Dilma come sua erede nel 2010, quando aveva una popolarità enorme e con un Paese che cresceva ancora. Era l’unico nome spendibile in un partito decimato dal penultimo scandalo, il «mensalao», compravendita di deputati dell’opposizione. Dilma testarda, spigolosa, ha imbarcato alleati dalla dubbia fedeltà in un Parlamento-bolgia con 26 partiti, dove il gattopardismo è talmente comune che esiste una finestra di un mese all’anno dove è possibile cambiare di casacca, fondare nuove sigle, passando da destra a sinistra al centro. Partiti-fisarmonica e lobby trasversali a difesa degli interessi di evangelici, produttori di armi, fazenderos rurali, dirigenti di calcio e così via.
È questo Congresso, con un 30% di inquisiti e il 10% di condannati, che dovrà decidere, fra non più di due settimane, se aprire o no il processo politico a Dilma, accusata di aver truccato i bilanci dello Stato nel 2014 per nascondere dei gravi buchi finanziari della sua gestione. Ieri i suoi avvocati hanno esposto la difesa ufficiale; quegli ammanchi sono stati una scelta obbligata per poter garantire la continuità di decine di milioni di programmi assistenziali. Un sacrificio necessario, un errore contabile, nulla di più.
A Brasilia si contano i voti e si offre di tutto e di più per la fedeltà o il tradimento alla Corona. Lula opera dietro le quinte, dopo che la sua nomina a Capo di Gabinetto è stata congelata dalla giustizia. Nel suo quartier generale di una suite d’albergo a sette chilometri dal Palazzo presidenziale di Planalto passano deputati ed emissari; dopo le intercettazioni diffuse dal giudice Moro, che ha dovuto scusarsi di fronte alla Corte Suprema che le ha giudicate improprie, nessuna si fida più a parlare al telefono.
L’ultimo pallottoliere dava 261 deputati favorevoli all’impeachment e 117 contrari; 135 sono indecisi, accettano proposte. Il governo deve arrivare a quota 172, un terzo dei seggi, per salvare la Presidente; molto difficile, ma teoricamente non impossibile. Dopo la Camera, si vota al Senato, a maggioranza assoluta. In caso affermativo, Dilma è «congelata» per un periodo massimo di 180 giorni e il suo vice Michel Temer assume la presidenza ad interim. Mentre si svolge il processo, Temer ha la facoltà di nominare ministri, cambiando de facto la fisionomia del governo. Se sarà giudicata colpevole, Dilma decade e sarà inibita per 8 anni; se assolta, tornerà di nuovo al comando con Temer come vice, da separati in casa.
Per alcuni giuristi si sta trasformando un regime presidenzialista in uno semi-parlamentario, dove è il Congresso di fatto a scegliere chi comanda. L’unico precedente è del 1992, con Fernando Collor de Melo che diede le dimissioni dopo che la Camera lo aveva condannato con un ampia maggioranza. Ma allora c’era un Paese intero contro di lui. Oggi è diverso; se è vero che il 68% dei brasiliani, stando ai sondaggi, è favorevole alla destituzione di Dilma, dall’altra parte c’è un governo che ha dimostrato di poter contare ancora su una forte base, capace di riempire le piazze, anche se con proporzioni minori rispetto agli avversari. Con Dilma si è schierata anche buona parte dell’intellighenzia brasiliana, da musicisti come Chico Buarque, a Caetano Veloso a centinaia di professori universitari, intellettuali, ricercatori, in difesa dei programmi sociali che hanno combattuto la fame e permesso ai giovani delle periferie di andare all’università. Mero assistenzialismo populista, invece, secondo il popolo delle pentole, che aspetta e spera nella caduta della presidente pronta ormai all’ultima battaglia.
Perché Obama con l’Isis si sta giocando la Storia
di Franco Venturini
Barack Obama è alla vigilia della scelta più difficile della sua presidenza: deciderà di scendere a compromessi con Mosca pur di battere l’Isis entro quest’anno, oppure uscirà dalla Casa Bianca senza aver davvero affrontato quella che egli stesso definisce la più terribile minaccia che pesa sull’Occidente? Se l’Isis avesse l’atomica la userebbe, ha detto il presidente al vertice sulla sicurezza nucleare che si è appena tenuto a Washington. Nessuno ne dubita, e tutti sanno che una bomba «sporca» non è poi tanto difficile da mettere insieme.
N on solo: gli Usa sono consapevoli degli effetti destabilizzanti che il terrorismo e le ondate migratorie provocano in Europa, e sanno che in entrambi i casi sono l’Isis e la tragedia siriana a soffiare sul fuoco. Soprattutto, in un mondo che pare frantumarsi ogni giorno di più, i successi dell’accordo con l'Iran e del disgelo con Cuba non bastano più. La presidenza di Obama sarà invece giudicata dalla Storia sul metro della risposta data alla minaccia globale dell’Isis, e del parallelo recupero di dignità politica degli Stati Uniti nei confronti di una Russia rivelatasi maestra nel ristabilire, a tempo di record, la sua influenza in Medio Oriente.
Il presidente non ha molto tempo per sciogliere il suo dilemma. In Siria l’esercito di Assad continua ad avanzare dopo aver riconquistato Palmira con il decisivo appoggio dei cacciabombardieri russi (altro che ritiro, come aveva annunciato Putin). Aleppo è virtualmente assediata. E si parla ormai apertamente, anche a Mosca, di un prossimo attacco a Raqqa, la «capitale» dell’Isis, sferrato anche in questo caso da truppe regolari siriane e aerei russi. Con loro potrebbero agire formazioni miste curdo-arabe che gli Usa da tempo tentano di consolidare, ma ecco allora emergere il tormento di Obama: è concepibile che l’America collabori con Assad il sanguinario pur di battere l’Isis? La Casa Bianca se la sente di fare pressioni sugli oppositori e sulla Turchia per agevolare l’operazione russo-siriana, che non sarebbe comunque una passeggiata?
Fonti autorevoli assicurano che proprio di questo si è parlato il 25 marzo scorso al Cremlino, quando John Kerry ha reso visita al collega Lavrov e a Vladimir Putin. E ciò malgrado la permanenza di un contrasto forte, che ufficialmente nessuna delle due parti vuole negare, sul trattamento da riservare a Bashar al-Assad: uscita morbida, non pregiudizievole per gli alawiti e dopo elezioni secondo i russi; uscita più ravvicinata nell’ambito di una transizione concordata con le opposizioni secondo gli americani (e gli europei) . Con gli americani che aspettano indicazioni più chiare da Obama.
Tanto più che si potrebbe ipotizzare una tenaglia anti Isis tra Siria e Iraq, perché anche in Iraq è in preparazione una offensiva contro la capitale del Califfato, Mosul. Qui si muovono reparti iracheni appena addestrati (anche dagli italiani), truppe speciali e un centinaio di marines americani, reparti curdi (quelli di Barzani) addestrati dai turchi, volontari appartenenti alle tribù sunnite che si è riusciti a mobilitare. E dall’alto la copertura è garantita (potrebbe accadere anche a Raqqa) dalla coalizione guidata dagli Usa. Niente esercito da Assad, da queste parti. Il che rende politicamente più facile una impresa che militarmente resta ardua.
Eccola, la cornice nella quale Obama deve decidere se vuole ritagliarsi un ruolo da protagonista. Mandando giù qualche boccone amaro in Siria, ma avendo anche la possibilità di incidere sul negoziato che tra pochi giorni riprenderà a Ginevra tra potere di Damasco e formazioni resistenti, il che significa con Iran, Hezbollah e Russia da un lato e Turchia, Arabia Saudita e altre monarchie del Golfo dall’altro. Tra operazioni militari e negoziato diplomatico l’antica strategia del doppio binario torna a essere possibile, almeno fino alla liquidazione dell’Isis. Beninteso ciò richiederebbe un accordo serio tra Usa e Russia sul Califfato e ancor più sul futuro della Siria, senza badare troppo a polemiche di contorno come quelle sui miliardi russi scoperti offshore.
Obama farebbe bene a pensarci e a decidere senza altri tentennamenti, perché il treno per sconfiggere l’Isis e per arrestare in seguito la mattanza siriana potrebbe non passare più. Almeno durante la sua presidenza.
E tra chi non può più aspettare ci siamo anche noi, c’è anche l’Europa. Sconfiggere l’Isis in Siria e in Iraq significa isolare l’Isis in Libia, rendere molto più difficile la sua penetrazione in tutte le aree calde dell’Africa. E ridurre il vantaggio strategico che viene al comando «regionale» di Sirte dalla vicinanza alle coste dell’Italia e dell’Europa. In attesa che venga fatta luce sulle prossime iniziative occidentali in Libia. E ancora, estirpare l’Isis in Siria e in Iraq può avviare processi di pacificazione che resterebbero complessi ma sarebbero tali da ridurre la pressione migratoria verso l’Europa del centronord (non quella in forte aumento che sin qui riguarda l’Italia, figlia dell’Africa e delle milizie libiche).
Obama vorrà mettersi in gioco? Speriamo di sì, ma non illudiamoci. Una sconfitta militare colpirebbe a morte soltanto l’organizzazione dell’Isis. Continuerebbero a vivere il fanatismo atroce che ha propagato in una parte del mondo islamico, il tentativo di sovvertire le comunità musulmane residenti in Europa, la volontà di tornare all’Islam del VII secolo. La guerra può essere vinta domani, la lotta per le coscienze durerà molto di più.
fventurini500@gmail.com
La Stampa 5.4.16
Crisi economica e corruzione
Brasile diviso sulla fine di Dilma
Impeachment più vicino per la presidente mollata dagli alleati La borghesia in festa, Lula e gli intellettuali difendono la leader
di Emiliano Guanella
Davanti al televisore, pronti con una padella e un mestolo in mano. Appena il «Jornal Nacional», seguitissimo tg serale della Rede Globo, mostra i discorsi di Dilma Rousseff ci si fionda alla finestra e si fa rumore. È la protesta della classe media che chiede l’impeachment della presidente.
Nel frattempo Lula da Silva, l’ex presidente e mentore politico di Dilma percorre il Nord-Est del Paese e riempie le piazze «contro il golpe» e in difesa del governo: «La riscossa del Brasile povero», l’hanno chiamata, in una battaglia che sta dividendo un Paese tradizionalmente lontano dalla politica, ma che sta vivendo una stagione inedita sullo sfondo della peggiore crisi economica degli ultimi 25 anni.
La popolarità di Dilma è bassissima, per gli scandali di corruzione, ma anche per la crisi di un sistema che si è inceppato da tempo. Politica, economia, giustizia, tutto legato e chiuso nel rebus di Dilma che cade o che resta in sella, dicotomia che divide la popolazione, provoca tensioni in famiglia, litigate sui social media, cortei e molta incertezza.
Da tre anni il Brasile non cresce più, il lavoro manca. Per il governo è colpa della crisi internazionale, della Cina che non compra come faceva un tempo. Per la gente in strada che protesta con le pentole in mano l’origine dei mali è la corruzione scoperchiata dalla maxi inchiesta del giudice Sergio Moro che ha colpito soprattutto il Partito dei Lavoratori di Dilma e Lula. Una strana coppia, unita nei momenti difficili, ma mai innamorata. Lula scelse Dilma come sua erede nel 2010, quando aveva una popolarità enorme e con un Paese che cresceva ancora. Era l’unico nome spendibile in un partito decimato dal penultimo scandalo, il «mensalao», compravendita di deputati dell’opposizione. Dilma testarda, spigolosa, ha imbarcato alleati dalla dubbia fedeltà in un Parlamento-bolgia con 26 partiti, dove il gattopardismo è talmente comune che esiste una finestra di un mese all’anno dove è possibile cambiare di casacca, fondare nuove sigle, passando da destra a sinistra al centro. Partiti-fisarmonica e lobby trasversali a difesa degli interessi di evangelici, produttori di armi, fazenderos rurali, dirigenti di calcio e così via.
È questo Congresso, con un 30% di inquisiti e il 10% di condannati, che dovrà decidere, fra non più di due settimane, se aprire o no il processo politico a Dilma, accusata di aver truccato i bilanci dello Stato nel 2014 per nascondere dei gravi buchi finanziari della sua gestione. Ieri i suoi avvocati hanno esposto la difesa ufficiale; quegli ammanchi sono stati una scelta obbligata per poter garantire la continuità di decine di milioni di programmi assistenziali. Un sacrificio necessario, un errore contabile, nulla di più.
A Brasilia si contano i voti e si offre di tutto e di più per la fedeltà o il tradimento alla Corona. Lula opera dietro le quinte, dopo che la sua nomina a Capo di Gabinetto è stata congelata dalla giustizia. Nel suo quartier generale di una suite d’albergo a sette chilometri dal Palazzo presidenziale di Planalto passano deputati ed emissari; dopo le intercettazioni diffuse dal giudice Moro, che ha dovuto scusarsi di fronte alla Corte Suprema che le ha giudicate improprie, nessuna si fida più a parlare al telefono.
L’ultimo pallottoliere dava 261 deputati favorevoli all’impeachment e 117 contrari; 135 sono indecisi, accettano proposte. Il governo deve arrivare a quota 172, un terzo dei seggi, per salvare la Presidente; molto difficile, ma teoricamente non impossibile. Dopo la Camera, si vota al Senato, a maggioranza assoluta. In caso affermativo, Dilma è «congelata» per un periodo massimo di 180 giorni e il suo vice Michel Temer assume la presidenza ad interim. Mentre si svolge il processo, Temer ha la facoltà di nominare ministri, cambiando de facto la fisionomia del governo. Se sarà giudicata colpevole, Dilma decade e sarà inibita per 8 anni; se assolta, tornerà di nuovo al comando con Temer come vice, da separati in casa.
Per alcuni giuristi si sta trasformando un regime presidenzialista in uno semi-parlamentario, dove è il Congresso di fatto a scegliere chi comanda. L’unico precedente è del 1992, con Fernando Collor de Melo che diede le dimissioni dopo che la Camera lo aveva condannato con un ampia maggioranza. Ma allora c’era un Paese intero contro di lui. Oggi è diverso; se è vero che il 68% dei brasiliani, stando ai sondaggi, è favorevole alla destituzione di Dilma, dall’altra parte c’è un governo che ha dimostrato di poter contare ancora su una forte base, capace di riempire le piazze, anche se con proporzioni minori rispetto agli avversari. Con Dilma si è schierata anche buona parte dell’intellighenzia brasiliana, da musicisti come Chico Buarque, a Caetano Veloso a centinaia di professori universitari, intellettuali, ricercatori, in difesa dei programmi sociali che hanno combattuto la fame e permesso ai giovani delle periferie di andare all’università. Mero assistenzialismo populista, invece, secondo il popolo delle pentole, che aspetta e spera nella caduta della presidente pronta ormai all’ultima battaglia.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Corriere 5.16
Perché Obama con l’Isis si sta giocando la Storia
di Franco Venturini
Barack Obama è alla vigilia della scelta più difficile della sua presidenza: deciderà di scendere a compromessi con Mosca pur di battere l’Isis entro quest’anno, oppure uscirà dalla Casa Bianca senza aver davvero affrontato quella che egli stesso definisce la più terribile minaccia che pesa sull’Occidente? Se l’Isis avesse l’atomica la userebbe, ha detto il presidente al vertice sulla sicurezza nucleare che si è appena tenuto a Washington. Nessuno ne dubita, e tutti sanno che una bomba «sporca» non è poi tanto difficile da mettere insieme.
N on solo: gli Usa sono consapevoli degli effetti destabilizzanti che il terrorismo e le ondate migratorie provocano in Europa, e sanno che in entrambi i casi sono l’Isis e la tragedia siriana a soffiare sul fuoco. Soprattutto, in un mondo che pare frantumarsi ogni giorno di più, i successi dell’accordo con l'Iran e del disgelo con Cuba non bastano più. La presidenza di Obama sarà invece giudicata dalla Storia sul metro della risposta data alla minaccia globale dell’Isis, e del parallelo recupero di dignità politica degli Stati Uniti nei confronti di una Russia rivelatasi maestra nel ristabilire, a tempo di record, la sua influenza in Medio Oriente.
Il presidente non ha molto tempo per sciogliere il suo dilemma. In Siria l’esercito di Assad continua ad avanzare dopo aver riconquistato Palmira con il decisivo appoggio dei cacciabombardieri russi (altro che ritiro, come aveva annunciato Putin). Aleppo è virtualmente assediata. E si parla ormai apertamente, anche a Mosca, di un prossimo attacco a Raqqa, la «capitale» dell’Isis, sferrato anche in questo caso da truppe regolari siriane e aerei russi. Con loro potrebbero agire formazioni miste curdo-arabe che gli Usa da tempo tentano di consolidare, ma ecco allora emergere il tormento di Obama: è concepibile che l’America collabori con Assad il sanguinario pur di battere l’Isis? La Casa Bianca se la sente di fare pressioni sugli oppositori e sulla Turchia per agevolare l’operazione russo-siriana, che non sarebbe comunque una passeggiata?
Fonti autorevoli assicurano che proprio di questo si è parlato il 25 marzo scorso al Cremlino, quando John Kerry ha reso visita al collega Lavrov e a Vladimir Putin. E ciò malgrado la permanenza di un contrasto forte, che ufficialmente nessuna delle due parti vuole negare, sul trattamento da riservare a Bashar al-Assad: uscita morbida, non pregiudizievole per gli alawiti e dopo elezioni secondo i russi; uscita più ravvicinata nell’ambito di una transizione concordata con le opposizioni secondo gli americani (e gli europei) . Con gli americani che aspettano indicazioni più chiare da Obama.
Tanto più che si potrebbe ipotizzare una tenaglia anti Isis tra Siria e Iraq, perché anche in Iraq è in preparazione una offensiva contro la capitale del Califfato, Mosul. Qui si muovono reparti iracheni appena addestrati (anche dagli italiani), truppe speciali e un centinaio di marines americani, reparti curdi (quelli di Barzani) addestrati dai turchi, volontari appartenenti alle tribù sunnite che si è riusciti a mobilitare. E dall’alto la copertura è garantita (potrebbe accadere anche a Raqqa) dalla coalizione guidata dagli Usa. Niente esercito da Assad, da queste parti. Il che rende politicamente più facile una impresa che militarmente resta ardua.
Eccola, la cornice nella quale Obama deve decidere se vuole ritagliarsi un ruolo da protagonista. Mandando giù qualche boccone amaro in Siria, ma avendo anche la possibilità di incidere sul negoziato che tra pochi giorni riprenderà a Ginevra tra potere di Damasco e formazioni resistenti, il che significa con Iran, Hezbollah e Russia da un lato e Turchia, Arabia Saudita e altre monarchie del Golfo dall’altro. Tra operazioni militari e negoziato diplomatico l’antica strategia del doppio binario torna a essere possibile, almeno fino alla liquidazione dell’Isis. Beninteso ciò richiederebbe un accordo serio tra Usa e Russia sul Califfato e ancor più sul futuro della Siria, senza badare troppo a polemiche di contorno come quelle sui miliardi russi scoperti offshore.
Obama farebbe bene a pensarci e a decidere senza altri tentennamenti, perché il treno per sconfiggere l’Isis e per arrestare in seguito la mattanza siriana potrebbe non passare più. Almeno durante la sua presidenza.
E tra chi non può più aspettare ci siamo anche noi, c’è anche l’Europa. Sconfiggere l’Isis in Siria e in Iraq significa isolare l’Isis in Libia, rendere molto più difficile la sua penetrazione in tutte le aree calde dell’Africa. E ridurre il vantaggio strategico che viene al comando «regionale» di Sirte dalla vicinanza alle coste dell’Italia e dell’Europa. In attesa che venga fatta luce sulle prossime iniziative occidentali in Libia. E ancora, estirpare l’Isis in Siria e in Iraq può avviare processi di pacificazione che resterebbero complessi ma sarebbero tali da ridurre la pressione migratoria verso l’Europa del centronord (non quella in forte aumento che sin qui riguarda l’Italia, figlia dell’Africa e delle milizie libiche).
Obama vorrà mettersi in gioco? Speriamo di sì, ma non illudiamoci. Una sconfitta militare colpirebbe a morte soltanto l’organizzazione dell’Isis. Continuerebbero a vivere il fanatismo atroce che ha propagato in una parte del mondo islamico, il tentativo di sovvertire le comunità musulmane residenti in Europa, la volontà di tornare all’Islam del VII secolo. La guerra può essere vinta domani, la lotta per le coscienze durerà molto di più.
fventurini500@gmail.com
La Stampa 5.4.16
Crisi economica e corruzione
Brasile diviso sulla fine di Dilma
Impeachment più vicino per la presidente mollata dagli alleati La borghesia in festa, Lula e gli intellettuali difendono la leader
di Emiliano Guanella
Davanti al televisore, pronti con una padella e un mestolo in mano. Appena il «Jornal Nacional», seguitissimo tg serale della Rede Globo, mostra i discorsi di Dilma Rousseff ci si fionda alla finestra e si fa rumore. È la protesta della classe media che chiede l’impeachment della presidente.
Nel frattempo Lula da Silva, l’ex presidente e mentore politico di Dilma percorre il Nord-Est del Paese e riempie le piazze «contro il golpe» e in difesa del governo: «La riscossa del Brasile povero», l’hanno chiamata, in una battaglia che sta dividendo un Paese tradizionalmente lontano dalla politica, ma che sta vivendo una stagione inedita sullo sfondo della peggiore crisi economica degli ultimi 25 anni.
La popolarità di Dilma è bassissima, per gli scandali di corruzione, ma anche per la crisi di un sistema che si è inceppato da tempo. Politica, economia, giustizia, tutto legato e chiuso nel rebus di Dilma che cade o che resta in sella, dicotomia che divide la popolazione, provoca tensioni in famiglia, litigate sui social media, cortei e molta incertezza.
Da tre anni il Brasile non cresce più, il lavoro manca. Per il governo è colpa della crisi internazionale, della Cina che non compra come faceva un tempo. Per la gente in strada che protesta con le pentole in mano l’origine dei mali è la corruzione scoperchiata dalla maxi inchiesta del giudice Sergio Moro che ha colpito soprattutto il Partito dei Lavoratori di Dilma e Lula. Una strana coppia, unita nei momenti difficili, ma mai innamorata. Lula scelse Dilma come sua erede nel 2010, quando aveva una popolarità enorme e con un Paese che cresceva ancora. Era l’unico nome spendibile in un partito decimato dal penultimo scandalo, il «mensalao», compravendita di deputati dell’opposizione. Dilma testarda, spigolosa, ha imbarcato alleati dalla dubbia fedeltà in un Parlamento-bolgia con 26 partiti, dove il gattopardismo è talmente comune che esiste una finestra di un mese all’anno dove è possibile cambiare di casacca, fondare nuove sigle, passando da destra a sinistra al centro. Partiti-fisarmonica e lobby trasversali a difesa degli interessi di evangelici, produttori di armi, fazenderos rurali, dirigenti di calcio e così via.
È questo Congresso, con un 30% di inquisiti e il 10% di condannati, che dovrà decidere, fra non più di due settimane, se aprire o no il processo politico a Dilma, accusata di aver truccato i bilanci dello Stato nel 2014 per nascondere dei gravi buchi finanziari della sua gestione. Ieri i suoi avvocati hanno esposto la difesa ufficiale; quegli ammanchi sono stati una scelta obbligata per poter garantire la continuità di decine di milioni di programmi assistenziali. Un sacrificio necessario, un errore contabile, nulla di più.
A Brasilia si contano i voti e si offre di tutto e di più per la fedeltà o il tradimento alla Corona. Lula opera dietro le quinte, dopo che la sua nomina a Capo di Gabinetto è stata congelata dalla giustizia. Nel suo quartier generale di una suite d’albergo a sette chilometri dal Palazzo presidenziale di Planalto passano deputati ed emissari; dopo le intercettazioni diffuse dal giudice Moro, che ha dovuto scusarsi di fronte alla Corte Suprema che le ha giudicate improprie, nessuna si fida più a parlare al telefono.
L’ultimo pallottoliere dava 261 deputati favorevoli all’impeachment e 117 contrari; 135 sono indecisi, accettano proposte. Il governo deve arrivare a quota 172, un terzo dei seggi, per salvare la Presidente; molto difficile, ma teoricamente non impossibile. Dopo la Camera, si vota al Senato, a maggioranza assoluta. In caso affermativo, Dilma è «congelata» per un periodo massimo di 180 giorni e il suo vice Michel Temer assume la presidenza ad interim. Mentre si svolge il processo, Temer ha la facoltà di nominare ministri, cambiando de facto la fisionomia del governo. Se sarà giudicata colpevole, Dilma decade e sarà inibita per 8 anni; se assolta, tornerà di nuovo al comando con Temer come vice, da separati in casa.
Per alcuni giuristi si sta trasformando un regime presidenzialista in uno semi-parlamentario, dove è il Congresso di fatto a scegliere chi comanda. L’unico precedente è del 1992, con Fernando Collor de Melo che diede le dimissioni dopo che la Camera lo aveva condannato con un ampia maggioranza. Ma allora c’era un Paese intero contro di lui. Oggi è diverso; se è vero che il 68% dei brasiliani, stando ai sondaggi, è favorevole alla destituzione di Dilma, dall’altra parte c’è un governo che ha dimostrato di poter contare ancora su una forte base, capace di riempire le piazze, anche se con proporzioni minori rispetto agli avversari. Con Dilma si è schierata anche buona parte dell’intellighenzia brasiliana, da musicisti come Chico Buarque, a Caetano Veloso a centinaia di professori universitari, intellettuali, ricercatori, in difesa dei programmi sociali che hanno combattuto la fame e permesso ai giovani delle periferie di andare all’università. Mero assistenzialismo populista, invece, secondo il popolo delle pentole, che aspetta e spera nella caduta della presidente pronta ormai all’ultima battaglia.
Perché Obama con l’Isis si sta giocando la Storia
di Franco Venturini
Barack Obama è alla vigilia della scelta più difficile della sua presidenza: deciderà di scendere a compromessi con Mosca pur di battere l’Isis entro quest’anno, oppure uscirà dalla Casa Bianca senza aver davvero affrontato quella che egli stesso definisce la più terribile minaccia che pesa sull’Occidente? Se l’Isis avesse l’atomica la userebbe, ha detto il presidente al vertice sulla sicurezza nucleare che si è appena tenuto a Washington. Nessuno ne dubita, e tutti sanno che una bomba «sporca» non è poi tanto difficile da mettere insieme.
N on solo: gli Usa sono consapevoli degli effetti destabilizzanti che il terrorismo e le ondate migratorie provocano in Europa, e sanno che in entrambi i casi sono l’Isis e la tragedia siriana a soffiare sul fuoco. Soprattutto, in un mondo che pare frantumarsi ogni giorno di più, i successi dell’accordo con l'Iran e del disgelo con Cuba non bastano più. La presidenza di Obama sarà invece giudicata dalla Storia sul metro della risposta data alla minaccia globale dell’Isis, e del parallelo recupero di dignità politica degli Stati Uniti nei confronti di una Russia rivelatasi maestra nel ristabilire, a tempo di record, la sua influenza in Medio Oriente.
Il presidente non ha molto tempo per sciogliere il suo dilemma. In Siria l’esercito di Assad continua ad avanzare dopo aver riconquistato Palmira con il decisivo appoggio dei cacciabombardieri russi (altro che ritiro, come aveva annunciato Putin). Aleppo è virtualmente assediata. E si parla ormai apertamente, anche a Mosca, di un prossimo attacco a Raqqa, la «capitale» dell’Isis, sferrato anche in questo caso da truppe regolari siriane e aerei russi. Con loro potrebbero agire formazioni miste curdo-arabe che gli Usa da tempo tentano di consolidare, ma ecco allora emergere il tormento di Obama: è concepibile che l’America collabori con Assad il sanguinario pur di battere l’Isis? La Casa Bianca se la sente di fare pressioni sugli oppositori e sulla Turchia per agevolare l’operazione russo-siriana, che non sarebbe comunque una passeggiata?
Fonti autorevoli assicurano che proprio di questo si è parlato il 25 marzo scorso al Cremlino, quando John Kerry ha reso visita al collega Lavrov e a Vladimir Putin. E ciò malgrado la permanenza di un contrasto forte, che ufficialmente nessuna delle due parti vuole negare, sul trattamento da riservare a Bashar al-Assad: uscita morbida, non pregiudizievole per gli alawiti e dopo elezioni secondo i russi; uscita più ravvicinata nell’ambito di una transizione concordata con le opposizioni secondo gli americani (e gli europei) . Con gli americani che aspettano indicazioni più chiare da Obama.
Tanto più che si potrebbe ipotizzare una tenaglia anti Isis tra Siria e Iraq, perché anche in Iraq è in preparazione una offensiva contro la capitale del Califfato, Mosul. Qui si muovono reparti iracheni appena addestrati (anche dagli italiani), truppe speciali e un centinaio di marines americani, reparti curdi (quelli di Barzani) addestrati dai turchi, volontari appartenenti alle tribù sunnite che si è riusciti a mobilitare. E dall’alto la copertura è garantita (potrebbe accadere anche a Raqqa) dalla coalizione guidata dagli Usa. Niente esercito da Assad, da queste parti. Il che rende politicamente più facile una impresa che militarmente resta ardua.
Eccola, la cornice nella quale Obama deve decidere se vuole ritagliarsi un ruolo da protagonista. Mandando giù qualche boccone amaro in Siria, ma avendo anche la possibilità di incidere sul negoziato che tra pochi giorni riprenderà a Ginevra tra potere di Damasco e formazioni resistenti, il che significa con Iran, Hezbollah e Russia da un lato e Turchia, Arabia Saudita e altre monarchie del Golfo dall’altro. Tra operazioni militari e negoziato diplomatico l’antica strategia del doppio binario torna a essere possibile, almeno fino alla liquidazione dell’Isis. Beninteso ciò richiederebbe un accordo serio tra Usa e Russia sul Califfato e ancor più sul futuro della Siria, senza badare troppo a polemiche di contorno come quelle sui miliardi russi scoperti offshore.
Obama farebbe bene a pensarci e a decidere senza altri tentennamenti, perché il treno per sconfiggere l’Isis e per arrestare in seguito la mattanza siriana potrebbe non passare più. Almeno durante la sua presidenza.
E tra chi non può più aspettare ci siamo anche noi, c’è anche l’Europa. Sconfiggere l’Isis in Siria e in Iraq significa isolare l’Isis in Libia, rendere molto più difficile la sua penetrazione in tutte le aree calde dell’Africa. E ridurre il vantaggio strategico che viene al comando «regionale» di Sirte dalla vicinanza alle coste dell’Italia e dell’Europa. In attesa che venga fatta luce sulle prossime iniziative occidentali in Libia. E ancora, estirpare l’Isis in Siria e in Iraq può avviare processi di pacificazione che resterebbero complessi ma sarebbero tali da ridurre la pressione migratoria verso l’Europa del centronord (non quella in forte aumento che sin qui riguarda l’Italia, figlia dell’Africa e delle milizie libiche).
Obama vorrà mettersi in gioco? Speriamo di sì, ma non illudiamoci. Una sconfitta militare colpirebbe a morte soltanto l’organizzazione dell’Isis. Continuerebbero a vivere il fanatismo atroce che ha propagato in una parte del mondo islamico, il tentativo di sovvertire le comunità musulmane residenti in Europa, la volontà di tornare all’Islam del VII secolo. La guerra può essere vinta domani, la lotta per le coscienze durerà molto di più.
fventurini500@gmail.com
La Stampa 5.4.16
Crisi economica e corruzione
Brasile diviso sulla fine di Dilma
Impeachment più vicino per la presidente mollata dagli alleati La borghesia in festa, Lula e gli intellettuali difendono la leader
di Emiliano Guanella
Davanti al televisore, pronti con una padella e un mestolo in mano. Appena il «Jornal Nacional», seguitissimo tg serale della Rede Globo, mostra i discorsi di Dilma Rousseff ci si fionda alla finestra e si fa rumore. È la protesta della classe media che chiede l’impeachment della presidente.
Nel frattempo Lula da Silva, l’ex presidente e mentore politico di Dilma percorre il Nord-Est del Paese e riempie le piazze «contro il golpe» e in difesa del governo: «La riscossa del Brasile povero», l’hanno chiamata, in una battaglia che sta dividendo un Paese tradizionalmente lontano dalla politica, ma che sta vivendo una stagione inedita sullo sfondo della peggiore crisi economica degli ultimi 25 anni.
La popolarità di Dilma è bassissima, per gli scandali di corruzione, ma anche per la crisi di un sistema che si è inceppato da tempo. Politica, economia, giustizia, tutto legato e chiuso nel rebus di Dilma che cade o che resta in sella, dicotomia che divide la popolazione, provoca tensioni in famiglia, litigate sui social media, cortei e molta incertezza.
Da tre anni il Brasile non cresce più, il lavoro manca. Per il governo è colpa della crisi internazionale, della Cina che non compra come faceva un tempo. Per la gente in strada che protesta con le pentole in mano l’origine dei mali è la corruzione scoperchiata dalla maxi inchiesta del giudice Sergio Moro che ha colpito soprattutto il Partito dei Lavoratori di Dilma e Lula. Una strana coppia, unita nei momenti difficili, ma mai innamorata. Lula scelse Dilma come sua erede nel 2010, quando aveva una popolarità enorme e con un Paese che cresceva ancora. Era l’unico nome spendibile in un partito decimato dal penultimo scandalo, il «mensalao», compravendita di deputati dell’opposizione. Dilma testarda, spigolosa, ha imbarcato alleati dalla dubbia fedeltà in un Parlamento-bolgia con 26 partiti, dove il gattopardismo è talmente comune che esiste una finestra di un mese all’anno dove è possibile cambiare di casacca, fondare nuove sigle, passando da destra a sinistra al centro. Partiti-fisarmonica e lobby trasversali a difesa degli interessi di evangelici, produttori di armi, fazenderos rurali, dirigenti di calcio e così via.
È questo Congresso, con un 30% di inquisiti e il 10% di condannati, che dovrà decidere, fra non più di due settimane, se aprire o no il processo politico a Dilma, accusata di aver truccato i bilanci dello Stato nel 2014 per nascondere dei gravi buchi finanziari della sua gestione. Ieri i suoi avvocati hanno esposto la difesa ufficiale; quegli ammanchi sono stati una scelta obbligata per poter garantire la continuità di decine di milioni di programmi assistenziali. Un sacrificio necessario, un errore contabile, nulla di più.
A Brasilia si contano i voti e si offre di tutto e di più per la fedeltà o il tradimento alla Corona. Lula opera dietro le quinte, dopo che la sua nomina a Capo di Gabinetto è stata congelata dalla giustizia. Nel suo quartier generale di una suite d’albergo a sette chilometri dal Palazzo presidenziale di Planalto passano deputati ed emissari; dopo le intercettazioni diffuse dal giudice Moro, che ha dovuto scusarsi di fronte alla Corte Suprema che le ha giudicate improprie, nessuna si fida più a parlare al telefono.
L’ultimo pallottoliere dava 261 deputati favorevoli all’impeachment e 117 contrari; 135 sono indecisi, accettano proposte. Il governo deve arrivare a quota 172, un terzo dei seggi, per salvare la Presidente; molto difficile, ma teoricamente non impossibile. Dopo la Camera, si vota al Senato, a maggioranza assoluta. In caso affermativo, Dilma è «congelata» per un periodo massimo di 180 giorni e il suo vice Michel Temer assume la presidenza ad interim. Mentre si svolge il processo, Temer ha la facoltà di nominare ministri, cambiando de facto la fisionomia del governo. Se sarà giudicata colpevole, Dilma decade e sarà inibita per 8 anni; se assolta, tornerà di nuovo al comando con Temer come vice, da separati in casa.
Per alcuni giuristi si sta trasformando un regime presidenzialista in uno semi-parlamentario, dove è il Congresso di fatto a scegliere chi comanda. L’unico precedente è del 1992, con Fernando Collor de Melo che diede le dimissioni dopo che la Camera lo aveva condannato con un ampia maggioranza. Ma allora c’era un Paese intero contro di lui. Oggi è diverso; se è vero che il 68% dei brasiliani, stando ai sondaggi, è favorevole alla destituzione di Dilma, dall’altra parte c’è un governo che ha dimostrato di poter contare ancora su una forte base, capace di riempire le piazze, anche se con proporzioni minori rispetto agli avversari. Con Dilma si è schierata anche buona parte dell’intellighenzia brasiliana, da musicisti come Chico Buarque, a Caetano Veloso a centinaia di professori universitari, intellettuali, ricercatori, in difesa dei programmi sociali che hanno combattuto la fame e permesso ai giovani delle periferie di andare all’università. Mero assistenzialismo populista, invece, secondo il popolo delle pentole, che aspetta e spera nella caduta della presidente pronta ormai all’ultima battaglia.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
i
E noi dovremmo combattere per quest’Europa da incubo?
Scritto il 08/4/16 • nella Categoria: idee
Se il terrorismo islamico colpisce l’Europa al cuore, occorre rispondere rilanciando il sogno europeo, esprimendo maggiore unità e determinazione nella difesa dei valori che esprime: è questo, in sintesi, e al netto delle solite sparate xenofobe, il motivo dominante nel discorso pubblico degli ultimi giorni. C’è la consapevolezza che ci vorrà molto tempo, ma anche la convinzione che la barbarie sarà sconfitta, come è successo con il nazifascismo. Manca però il senso della realtà: il sogno europeo si è da tempo trasformato in un incubo, incapace di suscitare passioni neppure lontanamente accostabili a quelle che furono alla base della lotta di Liberazione. Proprio in quegli anni venne scritto il celeberrimo Manifesto di Ventotene, nato dalla convinzione che la democrazia comporta l’affermazione dell’«uguaglianza di fatto», e quindi del principio per cui «le forze economiche non debbono dominare gli uomini». A questo, secondo Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, si sarebbe dovuta ispirare la costruzione europea, anche e soprattutto per costituire un argine contro le dittature fasciste, che avevano invece affossato la democrazia per salvare il capitalismo.Se si fosse realizzata, l’Europa sognata a Ventotene avrebbe certamente emozionato per le tensioni ideali che l’avevano generata, e appassionato per il progetto politico cha avrebbe a sua volta alimentato. Sarebbe stata un’Europa capace di costruire relazioni internazionali fondate sulla pace e il dialogo, di gettare ponti tra culture, di offrire esempi circa lo stare insieme come società. Un’Europa nella quale credere, per la quale combattere con la forza e la determinazione di chi è mosso da valori alti. Purtroppo l’Europa di Bruxelles non ha nulla a che spartire con l’Europa di Ventotene. È un Superstato di polizia economica, che con ottusità e fanatismo impone l’osservanza delle leggi del mercato, pianificando nel loro nome il dominio sulle persone. Non solo: è un Leviatano che sull’altare del principio di concorrenza sacrifica la democrazia, denigrata come feticcio di chi ancora coltiva l’illusione di poter resistere agli imperativi categorici formulati dal mercato. Altrimenti detto, l’Europa di Bruxelles è la prosecuzione dell’incubo che il sogno di Ventotene voleva definitivamente archiviare.Non solo è l’Europa del pareggio di bilancio, dell’austerità, del lavoro precarizzato e svalutato, delle privatizzazioni e liberalizzazioni, della distruzione del welfare, dei debiti pubblici e privati. Ma è anche l’Europa che per realizzare tutto questo deve necessariamente comprimere la democrazia. Le misure appena richiamate producono livelli impressionanti di disoccupazione, sacche di povertà sempre più vaste a fronte di una crescente concentrazione della ricchezza, disagio sociale e scempio ambientale: per imporle occorre disattivare o almeno forzare il circuito democratico. Insomma, il sistema di dominio economico sulle persone presidiato dalla costruzione europea non potrebbe mai essere avallato da un sistema fondato sulla sovranità popolare. Per questo i Trattati europei si sono premurati di spoliticizzare il mercato, di renderlo un luogo messo al riparo dal conflitto democratico, affidato a una tecnocrazia selezionata in quanto depositaria di un sapere scientifico indiscutibile, in virtù del quale provvedere all’efficiente amministrazione dell’esistente. Con ciò mostrando di ritenere, come in epoca fascista, che la democrazia è solamente aritmetica elettoralistica, fiducia mal riposta nella mera consistenza numerica di mutevoli maggioranze che «per loro natura non possono partecipare all’esercizio del potere e all’emanazione di leggi».Si usa dire che le crisi possono avviare circoli virtuosi e dunque rappresentare occasioni di riscatto o rinascita tanto insperate quanto robuste. Nel caso dell’Europa di Bruxelles sono invece il momento in cui il Re si appalesa in tutta la sua imbarazzante nudità, l’opportunità per mostrare al mondo l’esaurimento della propria ragion d’essere. La crisi economica e finanziaria ha mostrato tutti i limiti del dogmatismo tecnocratico, incapace di modificare politiche fiscali pensate per un ciclo economico espansivo: di impedire che divenissero il catalizzatore di un declino di cui non si vede la fine. Con il risultato che la Banca centrale europea sta oramai da tempo tentando di supplire attraverso politiche monetarie che per ora si mostrano semplicemente inefficaci, mentre in futuro potrebbero rivelarsi all’origine di nuove bolle finanziarie e dunque di nuovi disastri. La crisi dei profughi ha sbattuto in faccia a masse di disperati tutta la pochezza e l’isteria di un ceto politico rappresentativo di mezzo miliardo di persone e un terzo circa del prodotto interno lordo mondiale, disposto però ad accogliere solo qualche decina di migliaia di migranti. E per il resto pronto a tutto pur di non vedere la tragedia umanitaria che questo sta provocando e provocherà: occhio non vede e cuore non duole.I profughi che giungeranno dalla Turchia verranno infatti restituiti alle autorità di Ankara, a parole nel rispetto del diritto internazionale, ma nei fatti in violazione dei più elementari diritti di chi fugge dalle guerre. In cambio la Turchia potrà perseverare nella sua politica di annientamento del popolo curdo, oltre che di scempio dei diritti del suo popolo, ottenere ingenti aiuti finanziari di cui non si potrà verificare la destinazione, e tornare a sperare in un ingresso nell’Unione europea. E che dire delle reazioni al terrorismo islamico. Nella migliore delle ipotesi hanno condotto a misure eccezionali rivelatesi efficaci solo nell’intaccare il sistema delle libertà fondamentali: con danni all’ordine democratico ora violato, oltre che dalle politiche austeritarie, anche da quelle securitarie. Ma sono altri e forse più gravi i danni provocati dal terrorismo: se lo stato di eccezione ha una scadenza temporale, lo stesso non può dirsi per il dilagare di discorsi identitari incentrati su valori premoderni.Assistiamo alla riaffermazione di una sorta di orgoglio cattolico, essenza delle mitiche radici cristiane europee, da agitare contro l’islamizzazione del Vecchio continente. Il tutto articolato secondo il consueto rosario fatto di dio, patria e famiglia, invocati con fervore crociato da un crescente stuolo di invasati che propongono cure sempre meno distinguibili dal male contro cui sono dirette. E ovviamente si tratta degli stessi invasati che, al netto delle generiche invettive contro i complotti orditi dalle banche, sono tra i più rigidi sacerdoti del neoliberalismo: l’altra religione che sta soffocando la politica e l’economia e europee. Insomma, è davvero difficile difendere questa Europa, che più è sotto attacco e più si mostra indifendibile. Forse è questa la vera arma dei terroristi, decisamente più micidiale dei loro ordigni, perché niente e nessuno appare al momento capace di disinnescarla.(Alessandro Somma, “Combattere per questa Europa?”, da “Micromega” del 26 marzo 2016).
E noi dovremmo combattere per quest’Europa da incubo?
Scritto il 08/4/16 • nella Categoria: idee
Se il terrorismo islamico colpisce l’Europa al cuore, occorre rispondere rilanciando il sogno europeo, esprimendo maggiore unità e determinazione nella difesa dei valori che esprime: è questo, in sintesi, e al netto delle solite sparate xenofobe, il motivo dominante nel discorso pubblico degli ultimi giorni. C’è la consapevolezza che ci vorrà molto tempo, ma anche la convinzione che la barbarie sarà sconfitta, come è successo con il nazifascismo. Manca però il senso della realtà: il sogno europeo si è da tempo trasformato in un incubo, incapace di suscitare passioni neppure lontanamente accostabili a quelle che furono alla base della lotta di Liberazione. Proprio in quegli anni venne scritto il celeberrimo Manifesto di Ventotene, nato dalla convinzione che la democrazia comporta l’affermazione dell’«uguaglianza di fatto», e quindi del principio per cui «le forze economiche non debbono dominare gli uomini». A questo, secondo Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, si sarebbe dovuta ispirare la costruzione europea, anche e soprattutto per costituire un argine contro le dittature fasciste, che avevano invece affossato la democrazia per salvare il capitalismo.Se si fosse realizzata, l’Europa sognata a Ventotene avrebbe certamente emozionato per le tensioni ideali che l’avevano generata, e appassionato per il progetto politico cha avrebbe a sua volta alimentato. Sarebbe stata un’Europa capace di costruire relazioni internazionali fondate sulla pace e il dialogo, di gettare ponti tra culture, di offrire esempi circa lo stare insieme come società. Un’Europa nella quale credere, per la quale combattere con la forza e la determinazione di chi è mosso da valori alti. Purtroppo l’Europa di Bruxelles non ha nulla a che spartire con l’Europa di Ventotene. È un Superstato di polizia economica, che con ottusità e fanatismo impone l’osservanza delle leggi del mercato, pianificando nel loro nome il dominio sulle persone. Non solo: è un Leviatano che sull’altare del principio di concorrenza sacrifica la democrazia, denigrata come feticcio di chi ancora coltiva l’illusione di poter resistere agli imperativi categorici formulati dal mercato. Altrimenti detto, l’Europa di Bruxelles è la prosecuzione dell’incubo che il sogno di Ventotene voleva definitivamente archiviare.Non solo è l’Europa del pareggio di bilancio, dell’austerità, del lavoro precarizzato e svalutato, delle privatizzazioni e liberalizzazioni, della distruzione del welfare, dei debiti pubblici e privati. Ma è anche l’Europa che per realizzare tutto questo deve necessariamente comprimere la democrazia. Le misure appena richiamate producono livelli impressionanti di disoccupazione, sacche di povertà sempre più vaste a fronte di una crescente concentrazione della ricchezza, disagio sociale e scempio ambientale: per imporle occorre disattivare o almeno forzare il circuito democratico. Insomma, il sistema di dominio economico sulle persone presidiato dalla costruzione europea non potrebbe mai essere avallato da un sistema fondato sulla sovranità popolare. Per questo i Trattati europei si sono premurati di spoliticizzare il mercato, di renderlo un luogo messo al riparo dal conflitto democratico, affidato a una tecnocrazia selezionata in quanto depositaria di un sapere scientifico indiscutibile, in virtù del quale provvedere all’efficiente amministrazione dell’esistente. Con ciò mostrando di ritenere, come in epoca fascista, che la democrazia è solamente aritmetica elettoralistica, fiducia mal riposta nella mera consistenza numerica di mutevoli maggioranze che «per loro natura non possono partecipare all’esercizio del potere e all’emanazione di leggi».Si usa dire che le crisi possono avviare circoli virtuosi e dunque rappresentare occasioni di riscatto o rinascita tanto insperate quanto robuste. Nel caso dell’Europa di Bruxelles sono invece il momento in cui il Re si appalesa in tutta la sua imbarazzante nudità, l’opportunità per mostrare al mondo l’esaurimento della propria ragion d’essere. La crisi economica e finanziaria ha mostrato tutti i limiti del dogmatismo tecnocratico, incapace di modificare politiche fiscali pensate per un ciclo economico espansivo: di impedire che divenissero il catalizzatore di un declino di cui non si vede la fine. Con il risultato che la Banca centrale europea sta oramai da tempo tentando di supplire attraverso politiche monetarie che per ora si mostrano semplicemente inefficaci, mentre in futuro potrebbero rivelarsi all’origine di nuove bolle finanziarie e dunque di nuovi disastri. La crisi dei profughi ha sbattuto in faccia a masse di disperati tutta la pochezza e l’isteria di un ceto politico rappresentativo di mezzo miliardo di persone e un terzo circa del prodotto interno lordo mondiale, disposto però ad accogliere solo qualche decina di migliaia di migranti. E per il resto pronto a tutto pur di non vedere la tragedia umanitaria che questo sta provocando e provocherà: occhio non vede e cuore non duole.I profughi che giungeranno dalla Turchia verranno infatti restituiti alle autorità di Ankara, a parole nel rispetto del diritto internazionale, ma nei fatti in violazione dei più elementari diritti di chi fugge dalle guerre. In cambio la Turchia potrà perseverare nella sua politica di annientamento del popolo curdo, oltre che di scempio dei diritti del suo popolo, ottenere ingenti aiuti finanziari di cui non si potrà verificare la destinazione, e tornare a sperare in un ingresso nell’Unione europea. E che dire delle reazioni al terrorismo islamico. Nella migliore delle ipotesi hanno condotto a misure eccezionali rivelatesi efficaci solo nell’intaccare il sistema delle libertà fondamentali: con danni all’ordine democratico ora violato, oltre che dalle politiche austeritarie, anche da quelle securitarie. Ma sono altri e forse più gravi i danni provocati dal terrorismo: se lo stato di eccezione ha una scadenza temporale, lo stesso non può dirsi per il dilagare di discorsi identitari incentrati su valori premoderni.Assistiamo alla riaffermazione di una sorta di orgoglio cattolico, essenza delle mitiche radici cristiane europee, da agitare contro l’islamizzazione del Vecchio continente. Il tutto articolato secondo il consueto rosario fatto di dio, patria e famiglia, invocati con fervore crociato da un crescente stuolo di invasati che propongono cure sempre meno distinguibili dal male contro cui sono dirette. E ovviamente si tratta degli stessi invasati che, al netto delle generiche invettive contro i complotti orditi dalle banche, sono tra i più rigidi sacerdoti del neoliberalismo: l’altra religione che sta soffocando la politica e l’economia e europee. Insomma, è davvero difficile difendere questa Europa, che più è sotto attacco e più si mostra indifendibile. Forse è questa la vera arma dei terroristi, decisamente più micidiale dei loro ordigni, perché niente e nessuno appare al momento capace di disinnescarla.(Alessandro Somma, “Combattere per questa Europa?”, da “Micromega” del 26 marzo 2016).
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Isis, l'esodo dei jihadisti dall'Africa nera alla Siria
Dall'Africa nera 6 mila combattenti partiti per il Califfato. Anche da Paesi stabili come il Senegal. Colpa degli emiri del Golfo. Offrono aiuti. E radicalizzazione.
di Mauro Pompili | 10 Aprile 2016
da Beirut
Isis cerca e trova proseliti anche molto lontano dai confini del Califfato. L’Africa, povera e sempre più islamica, sta diventando una fertile terra di reclutamento di jihadisti.
«Fino a poco tempo fa, si riteneva che Paesi come il Senegal, caratterizzati dalla tolleranza dell’Islam di derivazione sufi, avrebbero fatto argine alla penetrazione di forme più radicali come il salafismo, che ha facilmente trovato seguito nelle aree più povere dell’Africa occidentale, come il Mali e la Nigeria», spiega Farouk Kandour, ricercatore libanese che da anni studia il fondamentalismo islamico e la sua diffusione nel mondo.
Invece il denaro e la propaganda militante stanno dando consistenza al reclutamento, anche in una nazione come il Senegal stabile e democratica. «Emblematica è la storia di Peter Sahadi, giovane senegalese che ho potuto contattare e che da pochi mesi ha raggiunto Raqqa per unirsi agli uomini di Isis».
DA STUDENTE A MEDICO JIHADISTA. Sahadi, studente al quinto anno di medicina a Dakar, ha risposto all’appello lanciato dagli integralisti che chiedono ai giovani africani di raggiungerli a Raqqa o nella loro roccaforte di Sirte, in quella Libia facilmente raggiungibile dai paesi sub-sahariani.
«Parlando da Raqqa – continua Kandour – mi ha raccontato di essere partito un anno dopo aver abbracciato l’ideologia di Isis. Ha aggiunto che il Senegal era stato fortunato, prima di partire stava progettando un attentato a Dakar. Non lo ha fatto solo perché gli emissari di Isis hanno anticipato la sua partenza. Con un forte orgoglio nella voce ha affermato che ora era diventato un medico jihadista».
Tra i 3 e i 6 mila giovani sub-sahariani hanno aderito a Isis
(© Ansa)
Fonti di propaganda di Isis affermano che combattenti provenienti da Paesi come il Ciad, il Ghana, il Senegal e la Nigeria sono in Siria, in Iraq e soprattutto in Libia, dove il gruppo sta consolidando la sua presenza. Il numero di africani sub-sahariani che hanno aderito a Isis non è certo, ma si stima che, per ora, siano tra i 3 e i 6 mila.
Un numero che sembra in continua crescita. «Attualmente cercano soprattutto di raggiungere il Califfato in Libia, usando le stesse strade dei migranti: il disordine politico del Paese permette ai nuovi combattenti di entrare facilmente».
I DOLLARI DEL GOLFO RADICALIZZANO L’ISLAM. In tutta la regione del Sahel da tempo gli analisti notano una crescente diffusione della visione più radicale ed estremista dell’Islam, facilitata dall’arrivo ogni anno di decine di milioni di dollari in donazioni per beneficenza dai paesi del Golfo, Arabia Saudita e Qatar in testa.
In Niger, ad esempio, sono ormai molti i leader religiosi che chiedono una re-islamizzazione per contrastare il laicismo imposto dalla ex potenza coloniale francese. Un processo che appare già evidente nella capitale, Niamey, dove molte donne hanno iniziato a portare il velo integrale e a pagare tariffe più alte sul taxi per evitare di viaggiare con gli uomini.
Questo fiume di denaro ufficialmente arriva per realizzare opere di carità, ma secondo Kandour «i contributi teoricamente destinati ad aiutare i poveri e alla costruzione delle moschee spesso sono deviati per attività di propaganda e proselitismo».
Il Mali ha avviato controlli sulle moschee; la Mauritania chiude scuole coraniche
Nella sua città natale Peter frequentava una moschea finanziato da un’associazione kuwaitiana, la African Muslims Agency.
«Peter non mi ha detto chi lo ha aiutato a raggiungere Isis, ha fatto soltanto riferimento al ruolo della guida spirituale che aveva trovato in Senegal e che lo aveva illuminato sulla jihad e sul suo dovere di buon credente».
La grande capacità di reclutamento di Isis in Africa occidentale è salita agli onori della cronaca dopo gli attacchi in Mali, Burkina-Faso e Costa d'Avorio.
IL RISCHIO DI RIVOLTA CONTRO LE ISTITUZIONI. Qualcosa si sta muovendo per cercare di porre un freno. La Mauritania ha chiuso numerose scuole coraniche per motivi di sicurezza; in Mali, dove la rivolta islamista si sta intensificando, si cerca di avviare controlli sulle moschee e sulle associazioni di beneficenza islamiche.
«Le istituzioni, però, devono muoversi con attenzione e non possono bloccare tute le moschee e le associazioni. Privare le comunità povere di servizi, come gli orfanotrofi o i viaggi di studio gratuiti in Arabia Saudita, potrebbe fare il gioco degli integralisti e provocare una reazione violenta all’interno dei Paesi».
Twitter @MauroPompili
© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.lettera43.it/persone/isis-l- ... 240432.htm
Dall'Africa nera 6 mila combattenti partiti per il Califfato. Anche da Paesi stabili come il Senegal. Colpa degli emiri del Golfo. Offrono aiuti. E radicalizzazione.
di Mauro Pompili | 10 Aprile 2016
da Beirut
Isis cerca e trova proseliti anche molto lontano dai confini del Califfato. L’Africa, povera e sempre più islamica, sta diventando una fertile terra di reclutamento di jihadisti.
«Fino a poco tempo fa, si riteneva che Paesi come il Senegal, caratterizzati dalla tolleranza dell’Islam di derivazione sufi, avrebbero fatto argine alla penetrazione di forme più radicali come il salafismo, che ha facilmente trovato seguito nelle aree più povere dell’Africa occidentale, come il Mali e la Nigeria», spiega Farouk Kandour, ricercatore libanese che da anni studia il fondamentalismo islamico e la sua diffusione nel mondo.
Invece il denaro e la propaganda militante stanno dando consistenza al reclutamento, anche in una nazione come il Senegal stabile e democratica. «Emblematica è la storia di Peter Sahadi, giovane senegalese che ho potuto contattare e che da pochi mesi ha raggiunto Raqqa per unirsi agli uomini di Isis».
DA STUDENTE A MEDICO JIHADISTA. Sahadi, studente al quinto anno di medicina a Dakar, ha risposto all’appello lanciato dagli integralisti che chiedono ai giovani africani di raggiungerli a Raqqa o nella loro roccaforte di Sirte, in quella Libia facilmente raggiungibile dai paesi sub-sahariani.
«Parlando da Raqqa – continua Kandour – mi ha raccontato di essere partito un anno dopo aver abbracciato l’ideologia di Isis. Ha aggiunto che il Senegal era stato fortunato, prima di partire stava progettando un attentato a Dakar. Non lo ha fatto solo perché gli emissari di Isis hanno anticipato la sua partenza. Con un forte orgoglio nella voce ha affermato che ora era diventato un medico jihadista».
Tra i 3 e i 6 mila giovani sub-sahariani hanno aderito a Isis
(© Ansa)
Fonti di propaganda di Isis affermano che combattenti provenienti da Paesi come il Ciad, il Ghana, il Senegal e la Nigeria sono in Siria, in Iraq e soprattutto in Libia, dove il gruppo sta consolidando la sua presenza. Il numero di africani sub-sahariani che hanno aderito a Isis non è certo, ma si stima che, per ora, siano tra i 3 e i 6 mila.
Un numero che sembra in continua crescita. «Attualmente cercano soprattutto di raggiungere il Califfato in Libia, usando le stesse strade dei migranti: il disordine politico del Paese permette ai nuovi combattenti di entrare facilmente».
I DOLLARI DEL GOLFO RADICALIZZANO L’ISLAM. In tutta la regione del Sahel da tempo gli analisti notano una crescente diffusione della visione più radicale ed estremista dell’Islam, facilitata dall’arrivo ogni anno di decine di milioni di dollari in donazioni per beneficenza dai paesi del Golfo, Arabia Saudita e Qatar in testa.
In Niger, ad esempio, sono ormai molti i leader religiosi che chiedono una re-islamizzazione per contrastare il laicismo imposto dalla ex potenza coloniale francese. Un processo che appare già evidente nella capitale, Niamey, dove molte donne hanno iniziato a portare il velo integrale e a pagare tariffe più alte sul taxi per evitare di viaggiare con gli uomini.
Questo fiume di denaro ufficialmente arriva per realizzare opere di carità, ma secondo Kandour «i contributi teoricamente destinati ad aiutare i poveri e alla costruzione delle moschee spesso sono deviati per attività di propaganda e proselitismo».
Il Mali ha avviato controlli sulle moschee; la Mauritania chiude scuole coraniche
Nella sua città natale Peter frequentava una moschea finanziato da un’associazione kuwaitiana, la African Muslims Agency.
«Peter non mi ha detto chi lo ha aiutato a raggiungere Isis, ha fatto soltanto riferimento al ruolo della guida spirituale che aveva trovato in Senegal e che lo aveva illuminato sulla jihad e sul suo dovere di buon credente».
La grande capacità di reclutamento di Isis in Africa occidentale è salita agli onori della cronaca dopo gli attacchi in Mali, Burkina-Faso e Costa d'Avorio.
IL RISCHIO DI RIVOLTA CONTRO LE ISTITUZIONI. Qualcosa si sta muovendo per cercare di porre un freno. La Mauritania ha chiuso numerose scuole coraniche per motivi di sicurezza; in Mali, dove la rivolta islamista si sta intensificando, si cerca di avviare controlli sulle moschee e sulle associazioni di beneficenza islamiche.
«Le istituzioni, però, devono muoversi con attenzione e non possono bloccare tute le moschee e le associazioni. Privare le comunità povere di servizi, come gli orfanotrofi o i viaggi di studio gratuiti in Arabia Saudita, potrebbe fare il gioco degli integralisti e provocare una reazione violenta all’interno dei Paesi».
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Inglesi già in Libia, Turchia e Israele coi terroristi in Siria
Scritto il 14/4/16 • nella Categoria: segnalazioni
Il Regno Unito ha schierato di nascosto forze speciali in Libia, mentre Israele sta chiudendo un occhio su Al-Nusra in Siria. E la Turchia vuole che gli islamisti radicali abbiano la meglio in Medio Oriente ed entrino in Europa: sono le sconvolgenti informazioni che re Abdullah di Giordania ha confidenzialmente condiviso con i parlamentari degli Stati Uniti. Il sovrano giordano, al potere dal 1999, ha dato questa schietta valutazione ai leader del Congresso, tra cui John McCain e Paul Ryan, in un incontro a porte chiuse durante la sua visita negli Stati Uniti a gennaio. Lo si apprende tramite una fuga di notizie finita sul “Guardian”. Nella rivelazione più importante, il reale ha detto che le forze speciali giordane operanti in Libia sono state incorporate in un contingente britannico di unità “Sas” per aiutare i corpi speciali inglesi a superare le barriere culturali e linguistiche. L’agenzia di intelligence Stratfor conferma: le “Sas” inglesi in Libia starebbero «scortando squadre del Mi6», impegnate ad «incontrare i funzionari libici per la fornitura di armi e addestramento all’esercito siriano e alle milizie in lotta contro lo Stato Islamico».
Sempre secondo la Stratfor, anche i velivoli Sentinel delle forze aeree britanniche hanno base a Cipro per missioni di sorveglianza su Sirte, la città libica controllata dall’Isis, aggiunge “Rt” in un post ripreso da “Voci dall’Estero”. Se David Abdullah di GiordaniaCameron rifiuta di fornire informazioni sull’operazione, si sa che ufficialmente la Gran Bretagna posizionerà 1.000 soldati in Libia per aiutare i locali nell’addestramento e assistere il traballante governo libico nell’immediato futuro, «ma finora apparentemente nessuno è stato inviato nel paese, che è nella morsa di una guerra etnica e settaria da quando Muhammar Gheddafi è stato rovesciato nel 2011». Altre dichiarazioni fatte dal giordano Abdullah indicano profonde spaccature tra gli Stati Uniti e le coalizioni guidate dai sauditi col compito di eliminare lo Stato Islamico e ripristinare lo stato di diritto nella regione. Secondo Abdullah, il presidente-dittatore turco Recep Tayyip Erdogan «crede in una soluzione islamica radicale ai problemi della regione». Sicché, «i terroristi che stanno andando in Europa fanno parte della strategia politica turca».
La rivelazione arriva subito dopo l’annuncio dell’accordo che la Turchia ha concluso con l’Unione Europea sui profughi, in cambio di miliardi di euro. Israele, dal canto suo, è accusato di “guardare dall’altra parte” quando si tratta delle milizie siriane di Al-Nusra, collegate ad Al-Qaeda, che controllano ampie fasce di territorio siriano. Israele proteggerebbe Al-Nusra perché il gruppo è «una opposizione ad Hezbollah», la milizia libanese finanziata dagli iraniani che combatte per il presidente Bashar Assad nel conflitto siriano. In precedenza, sui media c’erano state accuse che sostenevano che Israele stesse anche assicurando cure mediche ai combattenti di Al-Nusra, dopo aver stabilito un canale di comunicazione diretto tra l’esercito israeliano e il gruppo terrorista. Infine, re Abdullah punta il dito contro Al-Shabaab, il gruppo jihadista dell’Africa orientale. Ha un profilo più basso rispetto ad Isis, Boko Haram e altri, ma ha cominciato a «introdursi in Libia». L’esercito di Amman è pronto a intervenire: «Abbiamo una forza di dispiegamento rapido che si schiererà con gli inglesi e il Kenya ed è pronta ad entrare in Somalia», ha detto il sovrano ai membri del Congresso statunitense.
Scritto il 14/4/16 • nella Categoria: segnalazioni
Il Regno Unito ha schierato di nascosto forze speciali in Libia, mentre Israele sta chiudendo un occhio su Al-Nusra in Siria. E la Turchia vuole che gli islamisti radicali abbiano la meglio in Medio Oriente ed entrino in Europa: sono le sconvolgenti informazioni che re Abdullah di Giordania ha confidenzialmente condiviso con i parlamentari degli Stati Uniti. Il sovrano giordano, al potere dal 1999, ha dato questa schietta valutazione ai leader del Congresso, tra cui John McCain e Paul Ryan, in un incontro a porte chiuse durante la sua visita negli Stati Uniti a gennaio. Lo si apprende tramite una fuga di notizie finita sul “Guardian”. Nella rivelazione più importante, il reale ha detto che le forze speciali giordane operanti in Libia sono state incorporate in un contingente britannico di unità “Sas” per aiutare i corpi speciali inglesi a superare le barriere culturali e linguistiche. L’agenzia di intelligence Stratfor conferma: le “Sas” inglesi in Libia starebbero «scortando squadre del Mi6», impegnate ad «incontrare i funzionari libici per la fornitura di armi e addestramento all’esercito siriano e alle milizie in lotta contro lo Stato Islamico».
Sempre secondo la Stratfor, anche i velivoli Sentinel delle forze aeree britanniche hanno base a Cipro per missioni di sorveglianza su Sirte, la città libica controllata dall’Isis, aggiunge “Rt” in un post ripreso da “Voci dall’Estero”. Se David Abdullah di GiordaniaCameron rifiuta di fornire informazioni sull’operazione, si sa che ufficialmente la Gran Bretagna posizionerà 1.000 soldati in Libia per aiutare i locali nell’addestramento e assistere il traballante governo libico nell’immediato futuro, «ma finora apparentemente nessuno è stato inviato nel paese, che è nella morsa di una guerra etnica e settaria da quando Muhammar Gheddafi è stato rovesciato nel 2011». Altre dichiarazioni fatte dal giordano Abdullah indicano profonde spaccature tra gli Stati Uniti e le coalizioni guidate dai sauditi col compito di eliminare lo Stato Islamico e ripristinare lo stato di diritto nella regione. Secondo Abdullah, il presidente-dittatore turco Recep Tayyip Erdogan «crede in una soluzione islamica radicale ai problemi della regione». Sicché, «i terroristi che stanno andando in Europa fanno parte della strategia politica turca».
La rivelazione arriva subito dopo l’annuncio dell’accordo che la Turchia ha concluso con l’Unione Europea sui profughi, in cambio di miliardi di euro. Israele, dal canto suo, è accusato di “guardare dall’altra parte” quando si tratta delle milizie siriane di Al-Nusra, collegate ad Al-Qaeda, che controllano ampie fasce di territorio siriano. Israele proteggerebbe Al-Nusra perché il gruppo è «una opposizione ad Hezbollah», la milizia libanese finanziata dagli iraniani che combatte per il presidente Bashar Assad nel conflitto siriano. In precedenza, sui media c’erano state accuse che sostenevano che Israele stesse anche assicurando cure mediche ai combattenti di Al-Nusra, dopo aver stabilito un canale di comunicazione diretto tra l’esercito israeliano e il gruppo terrorista. Infine, re Abdullah punta il dito contro Al-Shabaab, il gruppo jihadista dell’Africa orientale. Ha un profilo più basso rispetto ad Isis, Boko Haram e altri, ma ha cominciato a «introdursi in Libia». L’esercito di Amman è pronto a intervenire: «Abbiamo una forza di dispiegamento rapido che si schiererà con gli inglesi e il Kenya ed è pronta ad entrare in Somalia», ha detto il sovrano ai membri del Congresso statunitense.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Inglesi già in Libia, Turchia e Israele coi terroristi in Siria
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Il Regno Unito ha schierato di nascosto forze speciali in Libia, mentre Israele sta chiudendo un occhio su Al-Nusra in Siria. E la Turchia vuole che gli islamisti radicali abbiano la meglio in Medio Oriente ed entrino in Europa: sono le sconvolgenti informazioni che re Abdullah di Giordania ha confidenzialmente condiviso con i parlamentari degli Stati Uniti. Il sovrano giordano, al potere dal 1999, ha dato questa schietta valutazione ai leader del Congresso, tra cui John McCain e Paul Ryan, in un incontro a porte chiuse durante la sua visita negli Stati Uniti a gennaio. Lo si apprende tramite una fuga di notizie finita sul “Guardian”. Nella rivelazione più importante, il reale ha detto che le forze speciali giordane operanti in Libia sono state incorporate in un contingente britannico di unità “Sas” per aiutare i corpi speciali inglesi a superare le barriere culturali e linguistiche. L’agenzia di intelligence Stratfor conferma: le “Sas” inglesi in Libia starebbero «scortando squadre del Mi6», impegnate ad «incontrare i funzionari libici per la fornitura di armi e addestramento all’esercito siriano e alle milizie in lotta contro lo Stato Islamico».
Sempre secondo la Stratfor, anche i velivoli Sentinel delle forze aeree britanniche hanno base a Cipro per missioni di sorveglianza su Sirte, la città libica controllata dall’Isis, aggiunge “Rt” in un post ripreso da “Voci dall’Estero”. Se David Abdullah di GiordaniaCameron rifiuta di fornire informazioni sull’operazione, si sa che ufficialmente la Gran Bretagna posizionerà 1.000 soldati in Libia per aiutare i locali nell’addestramento e assistere il traballante governo libico nell’immediato futuro, «ma finora apparentemente nessuno è stato inviato nel paese, che è nella morsa di una guerra etnica e settaria da quando Muhammar Gheddafi è stato rovesciato nel 2011». Altre dichiarazioni fatte dal giordano Abdullah indicano profonde spaccature tra gli Stati Uniti e le coalizioni guidate dai sauditi col compito di eliminare lo Stato Islamico e ripristinare lo stato di diritto nella regione. Secondo Abdullah, il presidente-dittatore turco Recep Tayyip Erdogan «crede in una soluzione islamica radicale ai problemi della regione». Sicché, «i terroristi che stanno andando in Europa fanno parte della strategia politica turca».
La rivelazione arriva subito dopo l’annuncio dell’accordo che la Turchia ha concluso con l’Unione Europea sui profughi, in cambio di miliardi di euro. Israele, dal canto suo, è accusato di “guardare dall’altra parte” quando si tratta delle milizie siriane di Al-Nusra, collegate ad Al-Qaeda, che controllano ampie fasce di territorio siriano. Israele proteggerebbe Al-Nusra perché il gruppo è «una opposizione ad Hezbollah», la milizia libanese finanziata dagli iraniani che combatte per il presidente Bashar Assad nel conflitto siriano. In precedenza, sui media c’erano state accuse che sostenevano che Israele stesse anche assicurando cure mediche ai combattenti di Al-Nusra, dopo aver stabilito un canale di comunicazione diretto tra l’esercito israeliano e il gruppo terrorista. Infine, re Abdullah punta il dito contro Al-Shabaab, il gruppo jihadista dell’Africa orientale. Ha un profilo più basso rispetto ad Isis, Boko Haram e altri, ma ha cominciato a «introdursi in Libia». L’esercito di Amman è pronto a intervenire: «Abbiamo una forza di dispiegamento rapido che si schiererà con gli inglesi e il Kenya ed è pronta ad entrare in Somalia», ha detto il sovrano ai membri del Congresso statunitense.
Scritto il 14/4/16 • nella Categoria: segnalazioni
Il Regno Unito ha schierato di nascosto forze speciali in Libia, mentre Israele sta chiudendo un occhio su Al-Nusra in Siria. E la Turchia vuole che gli islamisti radicali abbiano la meglio in Medio Oriente ed entrino in Europa: sono le sconvolgenti informazioni che re Abdullah di Giordania ha confidenzialmente condiviso con i parlamentari degli Stati Uniti. Il sovrano giordano, al potere dal 1999, ha dato questa schietta valutazione ai leader del Congresso, tra cui John McCain e Paul Ryan, in un incontro a porte chiuse durante la sua visita negli Stati Uniti a gennaio. Lo si apprende tramite una fuga di notizie finita sul “Guardian”. Nella rivelazione più importante, il reale ha detto che le forze speciali giordane operanti in Libia sono state incorporate in un contingente britannico di unità “Sas” per aiutare i corpi speciali inglesi a superare le barriere culturali e linguistiche. L’agenzia di intelligence Stratfor conferma: le “Sas” inglesi in Libia starebbero «scortando squadre del Mi6», impegnate ad «incontrare i funzionari libici per la fornitura di armi e addestramento all’esercito siriano e alle milizie in lotta contro lo Stato Islamico».
Sempre secondo la Stratfor, anche i velivoli Sentinel delle forze aeree britanniche hanno base a Cipro per missioni di sorveglianza su Sirte, la città libica controllata dall’Isis, aggiunge “Rt” in un post ripreso da “Voci dall’Estero”. Se David Abdullah di GiordaniaCameron rifiuta di fornire informazioni sull’operazione, si sa che ufficialmente la Gran Bretagna posizionerà 1.000 soldati in Libia per aiutare i locali nell’addestramento e assistere il traballante governo libico nell’immediato futuro, «ma finora apparentemente nessuno è stato inviato nel paese, che è nella morsa di una guerra etnica e settaria da quando Muhammar Gheddafi è stato rovesciato nel 2011». Altre dichiarazioni fatte dal giordano Abdullah indicano profonde spaccature tra gli Stati Uniti e le coalizioni guidate dai sauditi col compito di eliminare lo Stato Islamico e ripristinare lo stato di diritto nella regione. Secondo Abdullah, il presidente-dittatore turco Recep Tayyip Erdogan «crede in una soluzione islamica radicale ai problemi della regione». Sicché, «i terroristi che stanno andando in Europa fanno parte della strategia politica turca».
La rivelazione arriva subito dopo l’annuncio dell’accordo che la Turchia ha concluso con l’Unione Europea sui profughi, in cambio di miliardi di euro. Israele, dal canto suo, è accusato di “guardare dall’altra parte” quando si tratta delle milizie siriane di Al-Nusra, collegate ad Al-Qaeda, che controllano ampie fasce di territorio siriano. Israele proteggerebbe Al-Nusra perché il gruppo è «una opposizione ad Hezbollah», la milizia libanese finanziata dagli iraniani che combatte per il presidente Bashar Assad nel conflitto siriano. In precedenza, sui media c’erano state accuse che sostenevano che Israele stesse anche assicurando cure mediche ai combattenti di Al-Nusra, dopo aver stabilito un canale di comunicazione diretto tra l’esercito israeliano e il gruppo terrorista. Infine, re Abdullah punta il dito contro Al-Shabaab, il gruppo jihadista dell’Africa orientale. Ha un profilo più basso rispetto ad Isis, Boko Haram e altri, ma ha cominciato a «introdursi in Libia». L’esercito di Amman è pronto a intervenire: «Abbiamo una forza di dispiegamento rapido che si schiererà con gli inglesi e il Kenya ed è pronta ad entrare in Somalia», ha detto il sovrano ai membri del Congresso statunitense.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Tutti a casa, aspettando che finiscano di sfasciare il mondo
Scritto il 17/4/16 • nella Categoria: segnalazioni
Cosa sta succedendo? Ovvero: che portata hanno le trasformazioni epocali che sta vivendo attualmente il mondo, a cominciare dall’Occidente? Gli sconvolgimenti planetari in corso – crisi, migrazioni, guerre – sono a dir poco spettacolari e, in apparenza, senza soluzione. Una costante riguarda l’informazione: il sistema mainstream, divenuto totalizzante, evita accuratamente di riferire le notizie principali e le spiegazioni sulle cause degli eventi che determinano le rilevantissime modificazioni nella vita sociale ed economica di oggi, quindi l’avvenire delle prossime generazioni. L’enormità degli avvenimenti suscita clamore sul web e nei blog, ma coglie impreparati molti degli osservatori ufficiali, intellettuali, economisti, scrittori, accademici. La situazione economica in Europa si è fatta catastrofica. Per la prima volta, dopo 70 anni di sviluppo ininterrotto, i figli crescono sapendo che avranno una vita meno facile di quella dei loro genitori. Il livello di disoccupazione è desolante, e non si vedono vie d’uscita: non ci sono alternative sul tappeto.La “buona politica” di cui si avverte disperatamente il bisogno, semplicemente, non esiste: tutto il personale politico in campo, nonostante movimenti anche recenti, è sostanzialmente allineato al dogmatismo del mainstream neoliberale e neo-feudale, che – dopo le violente campagne anti-casta degli anni e decenni scorsi – predica l’erosione dell’interesse pubblico e la sparizione progressiva dello Stato come soggetto strategico, sociale ed economico. In Eurozona, il miglior governo che venisse eletto sarebbe di fatto impotente, costretto a limitare la propria spesa strategica al 3% del Pil. Impossibile utilizzare, come in passato, la leva monetaria: in un paese come l’Italia, il debito pubblico ha permesso di realizzare colossali investimenti sociali e infrastrutturali che hanno determinato il boom economico degli anni ‘60 e poi i mini-boom degli anni ‘80 e ‘90. Oggi, senza più sovranità statale, fiscale, economica, finanziaria e monetaria, questo scenario non è più ripetibile.A livello geopolitico, la situazione sta assumendo caratteristiche da incubo. Un crescendo di instabilità e orrori, a partire dal collasso dell’Urss: Jugoslavia, Somalia, Cecenia; poi, dopo l’11 Settembre, la drammatica accelerazione degli ultimi 15 anni, con le guerre in Iraq, Afghanistan, Libia, Yemen, Ucraina, Siria. In tutti questi teatri, gli Usa sono passati all’offensiva, allo scopo di destabilizzare interi continenti, prima che la Cina potesse assumere una leadership pericolosa per il monopolio americano, anche l’attraverso l’asse con la Russia di Putin. L’Europa è travolta dalla tempesta profughi e terremotata dal terrorismo pilotato dall’intelligence occidentale, utilizzando la falsa bandiera dell’Isis, che ha preso il posto di Al-Qaeda. Uno dei principali obiettivi è proprio l’Europa: prima lo scandalo Volkwagen, poi il caso Bnp-Paribas, quindi l’attacco al segreto bancario svizzero, ora la vicenda Panama. Sul tappeto resta il trattato segreto Ttip, che trasferirà potere giuridico direttamente alle multinazionali, scavalcando leggi e Stati. Il trattato resta segreto, e nessuno ne parla. Il governo dell’Ue non tenta neppure di inscenare la ritualità di una democrazia formale.Il terrorismo è l’altra grande leva dell’operazione eversiva in corso. Sorretto da settori della Cia e del Pentagono, Daesh è finanziato da Arabia Saudita, Qatar, Turchia e altri paesi del Golfo. Proprio le stragi di Parigi, Charlie Hebdo e 13 novembre, e ora quella di Bruxelles, hanno spinto alcuni esponenti della massoneria ad effettuare denunce clamorose, rimaste escluse dal mainstream ma circolate sul web. La tesi riguarda l’ispirazione massonica degli attentati e il loro contenuto simbolico nascosto utilizzato come “firma”, a partire dallo stesso acronimo Isis, che corrisponde alla dea Iside, il cui secondo nome è Hathor – e Hathor Pentalpha, secondo Gioele Magaldi, è il nome della famigerata superloggia fondata dai Bush negli anni ‘80, cui avrebbero aderito Blair, Sarkozy e lo stesso Erdogan, cioè gli uomini che hanno promosso le guerre in Iraq, in Libia e in Siria, dopo aver ideato gli attentati dell’11 Settembre.Un’intera narrazione sta crollando, giorno per giorno, sotto i colpi delle rivelazioni che illuminano i retroscena della cronaca: il mainstream continua a proporla, l’informazione ufficiale, ma non riscuote più la fiducia della maggioranza dei cittadini, sempre più scettici, tentati dall’astensionismo (convinti che votare sia ormai inutile) e in ogni caso diffidenti di fronte alle notizie sfornate a ciclo continuo. In parallelo, si assiste a clamorose rivelazioni in serie: prima Julian Assange e Wikileaks, poi lo scandalo dello spionaggio di massa targato Nsa, denunciato da Edward Snowden. Sul piano culturale, in Italia e non solo, è parallelo il percorso di uno studioso isolato come Mauro Biglino, che propone la (sconcertante) traduzione letterale della Bibbia: lo Jahwè dell’Antico Testamento non è affatto una divinità, ma un feroce guerriero venuto da non si sa dove e impegnato – insieme ad alcuni “colleghi” – a instaurare un dominio di tipo coloniale in Palestina, peraltro sul Sapiens che, secondo la Genesi, sarebbe stato creato in laboratorio, mediante clonazione genetica. La teologia della creazione? Pura fantasia, di cui nella Bibbia non c’è traccia.Secondo l’ex avvocato Paolo Franceschetti, autore di contro-indagini clamorose su alcuni misteri della cronaca italiana, dalle Bestie di Satana al Mostro di Firenze (l’intuizione della spaventosa realtà dei delitti rituali compiuti da sette occulte, affollate da potentissimi insospettabili) il bicchiere mezzo pieno consiste nel fatto che, se certi orrori si sono sempre verificati, oggi finalmente se ne comincia a parlare. Un altro osservatore come Fausto Carotenuto, già analista strategico dei servizi segreti italiani, sostiene che la crescente violenza cui stiamo assistendo corrisponda all’inquietudine dell’élite al potere, che sa di aver perso il consenso di almeno il 20-30% della popolazione e quindi preme sull’acceleratore della paura per condizionare la parte restante, quella che ancora è facilmente manipolabile. Lo afferma anche un massone come Gianfranco Carpeoro, grande esperto di codici esoterici e simbolici: la strategia della tensione come arma estrema, da parte di chi pensa di non avere più altri strumenti per condizionare le masse.L’arma più antica – il terrore – per tentare di portare a compimento il grande disegno emerso negli ultimi decenni, ben illustrato da Paolo Barnard nel saggio “Il più grande crimine”: la riduzione in schiavitù del cittadino occidentale, affrancatosi dal feudalesimo con la Rivoluzione Francese, per farlo retrocedere al rango di suddito, senza più uno Stato democratico che lo tuteli. Il progetto della globalizzazione neoliberista è semplice, aggiunge Carpeoro: allineare tutti noi al livello degli abitanti del terzo mondo, cioè lavoratori pre-moderni e senza diritti. Il piano procede inesorabilmente: con le crisi finanziarie, le guerre, le bombe, le menzogne quotidiane sfornate dal “pensiero magico”, la suprema manipolazione cui ricorre il massimo potere, sempre impegnato a costruire nemici artificiali che il popolo dovrà odiare, evitando di farsi le domande giuste. Che può fare, il cittadino comune? Ricordarsi di esistere, risponde Erri De Luca: per esempio, la partecipazione al referendum contro le trivellazioni è un grido contro “l’anestesia delle coscienze”. Sapendo però che di ben altra “rianimazione” ci sarebbe bisogno, in un paese che ancora accetta l’euro, considera una sciagura il debito sovrano e pensa che, dopo Bruxelles, sarà bene avere meno libertà in cambio di più sicurezza.
Scritto il 17/4/16 • nella Categoria: segnalazioni
Cosa sta succedendo? Ovvero: che portata hanno le trasformazioni epocali che sta vivendo attualmente il mondo, a cominciare dall’Occidente? Gli sconvolgimenti planetari in corso – crisi, migrazioni, guerre – sono a dir poco spettacolari e, in apparenza, senza soluzione. Una costante riguarda l’informazione: il sistema mainstream, divenuto totalizzante, evita accuratamente di riferire le notizie principali e le spiegazioni sulle cause degli eventi che determinano le rilevantissime modificazioni nella vita sociale ed economica di oggi, quindi l’avvenire delle prossime generazioni. L’enormità degli avvenimenti suscita clamore sul web e nei blog, ma coglie impreparati molti degli osservatori ufficiali, intellettuali, economisti, scrittori, accademici. La situazione economica in Europa si è fatta catastrofica. Per la prima volta, dopo 70 anni di sviluppo ininterrotto, i figli crescono sapendo che avranno una vita meno facile di quella dei loro genitori. Il livello di disoccupazione è desolante, e non si vedono vie d’uscita: non ci sono alternative sul tappeto.La “buona politica” di cui si avverte disperatamente il bisogno, semplicemente, non esiste: tutto il personale politico in campo, nonostante movimenti anche recenti, è sostanzialmente allineato al dogmatismo del mainstream neoliberale e neo-feudale, che – dopo le violente campagne anti-casta degli anni e decenni scorsi – predica l’erosione dell’interesse pubblico e la sparizione progressiva dello Stato come soggetto strategico, sociale ed economico. In Eurozona, il miglior governo che venisse eletto sarebbe di fatto impotente, costretto a limitare la propria spesa strategica al 3% del Pil. Impossibile utilizzare, come in passato, la leva monetaria: in un paese come l’Italia, il debito pubblico ha permesso di realizzare colossali investimenti sociali e infrastrutturali che hanno determinato il boom economico degli anni ‘60 e poi i mini-boom degli anni ‘80 e ‘90. Oggi, senza più sovranità statale, fiscale, economica, finanziaria e monetaria, questo scenario non è più ripetibile.A livello geopolitico, la situazione sta assumendo caratteristiche da incubo. Un crescendo di instabilità e orrori, a partire dal collasso dell’Urss: Jugoslavia, Somalia, Cecenia; poi, dopo l’11 Settembre, la drammatica accelerazione degli ultimi 15 anni, con le guerre in Iraq, Afghanistan, Libia, Yemen, Ucraina, Siria. In tutti questi teatri, gli Usa sono passati all’offensiva, allo scopo di destabilizzare interi continenti, prima che la Cina potesse assumere una leadership pericolosa per il monopolio americano, anche l’attraverso l’asse con la Russia di Putin. L’Europa è travolta dalla tempesta profughi e terremotata dal terrorismo pilotato dall’intelligence occidentale, utilizzando la falsa bandiera dell’Isis, che ha preso il posto di Al-Qaeda. Uno dei principali obiettivi è proprio l’Europa: prima lo scandalo Volkwagen, poi il caso Bnp-Paribas, quindi l’attacco al segreto bancario svizzero, ora la vicenda Panama. Sul tappeto resta il trattato segreto Ttip, che trasferirà potere giuridico direttamente alle multinazionali, scavalcando leggi e Stati. Il trattato resta segreto, e nessuno ne parla. Il governo dell’Ue non tenta neppure di inscenare la ritualità di una democrazia formale.Il terrorismo è l’altra grande leva dell’operazione eversiva in corso. Sorretto da settori della Cia e del Pentagono, Daesh è finanziato da Arabia Saudita, Qatar, Turchia e altri paesi del Golfo. Proprio le stragi di Parigi, Charlie Hebdo e 13 novembre, e ora quella di Bruxelles, hanno spinto alcuni esponenti della massoneria ad effettuare denunce clamorose, rimaste escluse dal mainstream ma circolate sul web. La tesi riguarda l’ispirazione massonica degli attentati e il loro contenuto simbolico nascosto utilizzato come “firma”, a partire dallo stesso acronimo Isis, che corrisponde alla dea Iside, il cui secondo nome è Hathor – e Hathor Pentalpha, secondo Gioele Magaldi, è il nome della famigerata superloggia fondata dai Bush negli anni ‘80, cui avrebbero aderito Blair, Sarkozy e lo stesso Erdogan, cioè gli uomini che hanno promosso le guerre in Iraq, in Libia e in Siria, dopo aver ideato gli attentati dell’11 Settembre.Un’intera narrazione sta crollando, giorno per giorno, sotto i colpi delle rivelazioni che illuminano i retroscena della cronaca: il mainstream continua a proporla, l’informazione ufficiale, ma non riscuote più la fiducia della maggioranza dei cittadini, sempre più scettici, tentati dall’astensionismo (convinti che votare sia ormai inutile) e in ogni caso diffidenti di fronte alle notizie sfornate a ciclo continuo. In parallelo, si assiste a clamorose rivelazioni in serie: prima Julian Assange e Wikileaks, poi lo scandalo dello spionaggio di massa targato Nsa, denunciato da Edward Snowden. Sul piano culturale, in Italia e non solo, è parallelo il percorso di uno studioso isolato come Mauro Biglino, che propone la (sconcertante) traduzione letterale della Bibbia: lo Jahwè dell’Antico Testamento non è affatto una divinità, ma un feroce guerriero venuto da non si sa dove e impegnato – insieme ad alcuni “colleghi” – a instaurare un dominio di tipo coloniale in Palestina, peraltro sul Sapiens che, secondo la Genesi, sarebbe stato creato in laboratorio, mediante clonazione genetica. La teologia della creazione? Pura fantasia, di cui nella Bibbia non c’è traccia.Secondo l’ex avvocato Paolo Franceschetti, autore di contro-indagini clamorose su alcuni misteri della cronaca italiana, dalle Bestie di Satana al Mostro di Firenze (l’intuizione della spaventosa realtà dei delitti rituali compiuti da sette occulte, affollate da potentissimi insospettabili) il bicchiere mezzo pieno consiste nel fatto che, se certi orrori si sono sempre verificati, oggi finalmente se ne comincia a parlare. Un altro osservatore come Fausto Carotenuto, già analista strategico dei servizi segreti italiani, sostiene che la crescente violenza cui stiamo assistendo corrisponda all’inquietudine dell’élite al potere, che sa di aver perso il consenso di almeno il 20-30% della popolazione e quindi preme sull’acceleratore della paura per condizionare la parte restante, quella che ancora è facilmente manipolabile. Lo afferma anche un massone come Gianfranco Carpeoro, grande esperto di codici esoterici e simbolici: la strategia della tensione come arma estrema, da parte di chi pensa di non avere più altri strumenti per condizionare le masse.L’arma più antica – il terrore – per tentare di portare a compimento il grande disegno emerso negli ultimi decenni, ben illustrato da Paolo Barnard nel saggio “Il più grande crimine”: la riduzione in schiavitù del cittadino occidentale, affrancatosi dal feudalesimo con la Rivoluzione Francese, per farlo retrocedere al rango di suddito, senza più uno Stato democratico che lo tuteli. Il progetto della globalizzazione neoliberista è semplice, aggiunge Carpeoro: allineare tutti noi al livello degli abitanti del terzo mondo, cioè lavoratori pre-moderni e senza diritti. Il piano procede inesorabilmente: con le crisi finanziarie, le guerre, le bombe, le menzogne quotidiane sfornate dal “pensiero magico”, la suprema manipolazione cui ricorre il massimo potere, sempre impegnato a costruire nemici artificiali che il popolo dovrà odiare, evitando di farsi le domande giuste. Che può fare, il cittadino comune? Ricordarsi di esistere, risponde Erri De Luca: per esempio, la partecipazione al referendum contro le trivellazioni è un grido contro “l’anestesia delle coscienze”. Sapendo però che di ben altra “rianimazione” ci sarebbe bisogno, in un paese che ancora accetta l’euro, considera una sciagura il debito sovrano e pensa che, dopo Bruxelles, sarà bene avere meno libertà in cambio di più sicurezza.
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