Diario della caduta di un regime.

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camillobenso
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Re: Diario della caduta di un regime.

Messaggio da camillobenso »

.....................LUI E’ TORNATO


QUELLI DI LIBRE, AVREBBERO DOVUTO TITOLARE COSI’, OGGI, 29 MAGGIO 2016, L’ARTICOLO DI MARCO DELLA LUNA,
Colpi di mano e tradimenti, nell’ascesa di Renzi (e di Hitler)

MA VISTO CHE NON C’E’ NESSUN ACCENNO AL BEST SELLER TEDESCO E ALLA TRADUZIONE CINEMATOGRAFICA CHE NE E’ SEGUITA, DOBBIAMO SUPPORRE CHE NON E FOSSERO A CONOSCENZA.

NON MI SORPRENDE AFFATTO IL CONTENUTO RIPORTATO DA DELLA LUNA, MA IL FATTO CHE SIA LUI CHE QUELLI DI LIBRE ABBIANO AVUTO IL CORAGGIO CIVILE DI PUBBLICARLO.

^^^^^^^


Colpi di mano e tradimenti, nell’ascesa di Renzi (e di Hitler)

Scritto il 29/5/16 • nella Categoria: idee


Questo appunto, serio e faceto insieme, intende descrivere oggettive analogie di metodo politico-giuridico nella scalata al potere compiuta dai due statisti e non affermare qualsivoglia equivalenza dei loro meriti o demeriti, né assimilar tra loro le rispettive personalità.


Hitler nel 1933 e Renzi nel 2016 stanno ambedue giocandosi il tutto per tutto per scalare il controllo dello Stato e per mutarne radicalmente la Costituzione vigente, ma nel rispetto formale delle sue norme, ossia per rivoltarli dall’interno, servendosi dei poteri dello Stato, anziché attaccandoli materialmente dall’esterno.


Entrambi riconoscono che l’ostacolo principale al loro progetto è la separazione dei poteri dello Stato assieme all’esistenza di organi di controllo indipendenti, e puntano a eliminarlo unendo in sé il potere esecutivo, quello legislativo, quello di nomina degli organi di controllo.



Entrambi vengono terzi e ultimi di una serie di premier (il primo dopo Von Papen e Von Schleicher, il secondo dopo Monti e Letta) che sono “premier del presidente” (rispettivamente, del vecchio presidente Von Hindenburg e del vecchio presidente Napolitano), dove “premier del presidente” significa “capo del governo scelto e sostenuto dal capo dello Stato” che gli firma i decreti legge anche al di fuori dei presupposti costituzionali per la loro emissione e che assicura loro il voto del Parlamento (forzando i partiti a collaborare e minacciando i parlamentari di scioglierlo se gli vota la sfiducia, così da far loro perdere seggio e vitalizio).


E qui segnalo una differenza tra Hitler e Renzi: Von Hindenburg era stato eletto dal popolo a maggioranza assoluta, mentre Napolitano da una maggioranza parlamentare frutto di una legge poi dichiarata incostituzionale, cioè del Porcellum, che è la medesima maggioranza con cui Renzi ha fatto votare la sua Costituzione.


Quindi il percorso di Renzi verso il potere è meno democraticamente legittimato e meno formalmente “legalitario” di quello di Hitler.



Torniamo alle analogie. Entrambi epurarono l’ala sociale del loro partito (rappresentate rispettivamente, diciamo, da Strasser e da Fassina) per assicurarsi l’appoggio e le sovvenzioni del grande capitale.



Hitler divenne premier pugnalando alle spalle Von Schleicher, Renzi pugnalando alle spalle Enrico Letta.



Entrambi rassicurarono la vittima prima di colpirla. Hitler fece uccidere Von Schleicher il 30 giugno 1934.



Ambedue hanno cercato invano di ottenere la maggioranza assoluta alla elezioni generali, e hanno conseguito il potere sfruttando le divisioni e la miopia dell’insieme delle altre forze politiche.



Ambedue hanno sfiorato il 40% dei suffragi popolari, per poi iniziare a perdere consensi, ma hanno continuato nondimeno la scalata al potere e le rispettive riforme, fino a conseguirle, nonostante il declino della fiducia popolare.



Una volta divenuti premier, entrambi hanno preteso e ottenuto di modificare la Costituzione in modo da accentrare nelle proprie mani le fila di tutti i poteri dello Stato, eliminando i controlli indipendenti di garanzia e la possibilità di una reale opposizione parlamentare.



Entrambi hanno usato il governo, il potere esecutivo, per promuovere queste riforme costituzionali.



Entrambi hanno chiamato il popolo a un referendum confermativo del nuovo ordine – Hitler nell’agosto 1934, Renzi nell’ottobre 2016 – presentando il referendum come un plebiscito per legittimare politicamente la propria persona senza sottoporsi ad elezioni generali, e per legare alla propria persona il nuovo ordine costituzionale.




Entrambi hanno fatto riforme che limitano sostanzialmente la partecipazione e la scelta politica popolari in favore delle liste bloccate redatte dal capo del partito.



Inoltre entrambi hanno preteso e ottenuto di sopprimere le autonomie federali, imponendo ai governi e i parlamenti regionali il principio di supremazia del governo centrale.


Ancora, entrambi hanno soppiantato la figura del presidente, dopo averla usata per scalare il potere: Hitler assorbendone le funzioni alla morte di Von Hindenburg, Renzi, alle dimissioni di Napolitano, scegliendosi in proprio una persona assecondante, senza spicco né autonomia, come poi avverrà automaticamente sotto la sua Costituzione, con effetto analogo a quello ottenuto da Hitler quando riunì alla propria carica di premier quella di presidente.



Entrambi, prima delle votazioni decisive, si sono assicurati appoggio e visibilità da parte dei principali mezzi di informazione di massa, sostituendo i direttori delle testate con uomini di loro fiducia: Hitler prevalentemente con la forza, Renzi prevalentemente con le sovvenzioni, il canone in bolletta e soprattutto occupando la direzione della Rai.



Entrambi hanno saputo comperare, fino all’ultimo, il sostegno dei cattolici centristi.



Hitler li scaricò non appena possibile.



Entrambi, infine e naturalmente, hanno agito per il dominio della Germania sull’Europa.

(Marco Della Luna, “Hitler e Renzi, analogie di metodo”, dal blog di Della Luna del 15 maggio 2016).
camillobenso
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Re: Diario della caduta di un regime.

Messaggio da camillobenso »

A destra si stanno svegliando e a sinistra????

Se stiamo all'Unità occupata manu militari da Adolf Mussoloni, siamo a posto.



Quell'acqua sporca chiamata democrazia
Si va verso il partito unico al comando, verso la maggioranza unica al comando e verso la Camera unica al comando



Paolo Guzzanti - Dom, 29/05/2016 - 23:50
commenta
A Renzi piace abusare della metafora dell'acqua sporca e del bambino dentro. Allora, per venirgli incontro, gli ricordiamo che dell'espressione «bicameralismo perfetto», «perfetto» è l'acqua sporca da eliminare, mentre «bicameralismo» dovrebbe essere il bambino da salvare, specie nel momento in cui la democrazia è sospesa (lo ricordava Berlusconi da Porro) e i contrappesi parlamentari da opporre al potere sono più necessari che mai.


A me non piaceva neanche prima l'idea di ammazzare il Senato facendone una camera delle corporazioni regionali, ma adesso è da proteste in piazza: si va verso il partito unico al comando, verso la maggioranza unica al comando e verso la Camera unica al comando. Chi non batte le manine, è licenziato. Di giornali d'opposizione al governo ne è rimasto uno solo, il nostro. Non è una soddisfazione, è una sirena d'allarme. Tutti gli altri hanno imparato a barrire.

Sembra di assistere al Rinoceronte di Eugene Jonesco del 1959, commedia dell'assurdo in cui ad uno ad uno tutti diventano rinoceronti, cantano la bellezza dell'essere rinoceronte e l'immoralità di chi non vuole diventarlo chiudendosi in casa assediato da chi ha scelto un corno sul naso.

Possibile che nessuno senta puzza di bruciato? Vi pare il momento di sopprimere una Camera elettiva come il Senato che potrebbe e dovrebbe essere usata come strumento di micidiale controllo sul governo e i ministri, come avviene negli Stati Uniti? Che cosa vogliono buttare via a Palazzo Chigi, la democrazia o l'acqua sporca?
camillobenso
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Re: Diario della caduta di un regime.

Messaggio da camillobenso »

EIA, EIA, EIA. ALALÀ! ALALÀ! ALALÀ!

https://www.youtube.com/watch?v=sI_ykm60Cmc E FILMATI SUCCESSIVI.

- “Io non ho creato il fascismo, l’ho tratto dall’inconscio degli italiani.” . BM.


- “La libertà senza ordine e senza disciplina significa dissoluzione e catastrofe.” BM.

- “Regimi democratici possono essere definiti quelli nei quali, di tanto in tanto, si dà al popolo l'illusione di essere sovrano.” BM.

- Governare l'Italia non è impossibile, è inutile. BM



SCENARI
Referendum, così Matteo Renzi costruisce un suo partito con i comitati per il sì

I gruppi costituiti per far sostenere la riforma alla consultazione di ottobre sulla Costituzione sono nati da un’idea del premier. E sembrano l’embrione di una nuova formazione politica che superi il Pd
DI MARCO DAMILANO
30 maggio 2016





Referendum, così Matteo Renzi costruisce un suo partito con i comitati per il sì
Matteo Renzi al teatro sociale di Bergamo
Gli apostoli del Sì, il catechismo per gli elettori, il credo da diffondere in ogni angolo della penisola. Un’organizzazione molto più capillare e più agile del partito di provenienza. E un mix di vecchio e di nuovo: nuovi i data da aggiornare con tutte le informazioni utili sui votanti, come consigliato dal guru americano Jim Messina, antiche le tecniche di propaganda che ricalcano le campagne elettorali del passato, con tanto di prontuario con le domande e le risposte, per convincere gli indecisi. Obiettivo: raccogliere i voti di tanti elettori per il Sì. Quanti? Quattordici milioni, almeno.

Il referendum con cui gli italiani saranno chiamati ad approvare o bocciare la riforma della Costituzione voluta da Matteo Renzi è ancora lontano, mancano più di quattro mesi (la data ipotetica del voto è domenica 16 ottobre), semmai incombono le elezioni amministrative, ma la macchina del Sì è già partita. Con un impegno e un dispiegamento di forze che trovano pochi precedenti nella storia repubblicana.

Solo in rarissimi casi si è visto un presidente del Consiglio scendere così apertamente in campo in prima persona. E ancora più rari quelli in cui, potendo contare su un partito di cui è leader, il capo del governo ha invece preferito mettere su una rete di comitati paralleli, congelando nel frattempo il resto dell’attività del Pd.

All’ultima riunione dei segretari regionali è stato comunicato che i congressi territoriali già convocati per eleggere i loro organismi, per esempio il Veneto, saranno rimandati a dopo il referendum. Tutto bloccato. Ora la priorità è raccogliere più voti possibile per il Sì. Una messa in mora delle strutture di partito chiamate a mettersi al servizio esclusivamente della rete dei comitati del Sì.

Da ora e fino a metà ottobre è quello il luogo privilegiato per chi vuole impegnarsi, rendersi disponibile, mettersi in mostra. Prepararsi alla partita successiva, le elezioni politiche del 2018, sempre che non ci sia un anticipo. È nei comitati del Sì che c’è l’embrione del nuovo partito, con i candidati alla Camera per lo squadrone di Renzi da scegliere con la nuova legge elettorale Italicum.

Già sul podio del teatro Sociale di Bergamo, il luogo deciso dal premier per il lancio ufficiale della campagna referendaria, il logo del vecchio Pd è apparso trasformato in un Sì tricolore stilizzato. Come un passaggio, una mutazione che agli elettori dovrà apparire naturale: dal Partito democratico al partito del Sì. Sì al referendum costituzionale, naturalmente. Ma sì, soprattutto, all’Italia di Matteo, alla politica di Renzi. Con un corollario inevitabile che preoccupa molto Pier Luigi Bersani e la minoranza interna : chi nel Pd non dirà sì o dirà un sì molto tiepido sarà messo automaticamente fuori dal nuovo partito che verrà.

In apparenza lo scontro tra il sì e il no è trasversale e taglia tutti gli schieramenti. Nella realtà, ancora una volta la linea di divisione passa a sinistra, è tutta all’interno del Pd. Si spiega così la polemica tra il ministro Maria Elena Boschi e il direttivo nazionale dell’Anpi , l’associazione nazionale partigiani: il vertice dell’associazione si è schierato per il no, il ministro in tv si è fatta sfuggire che «molti partigiani, quelli veri, quelli che hanno combattuto durante la Resistenza», voteranno per il sì ed è stata poi costretta a rettificare. Oppure la caccia alla citazione di un leader comunista del passato favorevole al monocameralismo: Enrico Berlinguer, Pietro Ingrao, Nilde Iotti.

Citazioni anti-storiche, perché nella cultura del Pci c’era la centralità del Parlamento contrapposta alla prevalenza del governo sulle assemblee legislative, che invece è esattamente lo scopo della riforma Renzi. Ma è un dettaglio, più importante è dimostrare al popolo della sinistra che i rottamatori arrivati al potere senza un passato alle spalle possono invece vantare padri nobili e un cuore antico.

Ecco perché un altro pensatore post-comunista, il presidente della fondazione istituto Gramsci Giuseppe Vacca, studioso non revisionista di Palmiro Togliatti e amico e consigliere di Massimo D’Alema, ha accettato di guidare i comitati del Sì, per ora nel Lazio. A spingere per questa soluzione è stato il presidente della regione Nicola Zingaretti, l’ultimo discendente della stirpe cresciuta nei corridoi di Botteghe Oscure. Per anni è stato indicato dalla sinistra del Pd come un possibile anti-Renzi, oggi prova a raggiungere un accordo con l’antico rivale.

Sul referendum si fanno le prove delle nuove alleanze. Ancora una volta, la partita è conquistare la base della sinistra, indispensabile per conquistare i quattordici milioni di voti che servono per far volare il sì referendario. Per capire le dimensioni dell’impresa, alle elezioni europee del 2014 il Pd del trionfale e mai raggiunto 40 per cento prese undici milioni e 200mila voti. Ora ne servono molti di più, tenuto conto che al referendum sulle trivelle di aprile (fallito per il mancato quorum) hanno votato quasi 16 milioni di votanti, in gran parte ostili al governo che aveva consigliato agli elettori di astenersi. E bisogna bloccare sul nascere un’emorragia di voti a sinistra.

Il partito del Sì ha un leader naturale, Matteo Renzi, un nume tutelare, l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che è andato a predicare le ragioni della riforma costituzionale anche alla scuola di formazione politica di Enrico Letta: «Le due debolezze fatali della storia repubblicana sono stati la minorità dell’esecutivo e il bicameralismo perfetto». E c’è un portavoce, anzi, un segretario in pectore, che dà la linea sul piano politico: il ministro Boschi.

Anche lei nel voto di ottobre mette in gioco la sua carriera: se il sì perderà, lascerà la politica, come il premier. Se invece dovesse vincere, sarebbe una vittoria anche sua, sul piano personale. C’è poi un comitato di docenti universitari e professori chiamati a ribattere al manifesto dei 56 costituzionalisti schierati per il no. Il gruppo dei 193 è nato nelle stanze del ministero delle Riforme.

A coordinarlo è il consigliere giuridico della Boschi Massimo Rubechi. Il motore è il costituzionalista Stefano Ceccanti, ex senatore del Pd, presidente del comitato toscano del Sì. Tra i firmatari ci sono docenti di area centro-destra come Ida Nicotra, Lorenza Violini, Vincenzo Lippolis, o di certo non riconducibili al Pd, per esempio il politologo e editorialista del “Corriere della Sera” Angelo Panebianco. Accanto a Franco Bassanini, Sergio Fabbrini, Leonardo Morlino, Andrea Morrone, Michele Salvati. Carlo Fusaro, ordinario di Diritto pubblico a Firenze, ha fatto di più. Ha prodotto per il comitato del Sì una guida al voto. «La Costituzione più bella del mondo? Critica ideologica... La riforma crea troppe incertezze e produrrà contenzioso? Critica non giustificata, frutto di pavloviani istinti conservatori... Ingiustificato che solo i deputati abbiano l’indennità parlamentare? Mah...». Come si usava un tempo, quando i partiti di massa fornivano ai loro agitprop in campagna elettorale un librettino con le domande più ricorrenti dei cittadini e gli argomenti degli avversari. Un catechismo referendario, per un voto che i fronti contrapposti già vivono come una guerra di religione.

Un clima di scontro che fa reagire il leader della minoranza interna Bersani: «Renzi può vincere senza spaccare l’Italia in due. Oppure può continuare a dare mazzate addosso a chi non la pensa come lui. Se vuole dare un segnale al Paese deve riaprire la legge elettorale Italicum, ammettere che qualche esponente del Pd possa votare per il no senza incorrere in sanzioni. E presentare prima del referendum la legge con cui si eleggeranno i futuri senatori: per ora non esiste».

Non è un tecnicismo: la modalità di elezione dei prossimi inquilini di Palazzo Madama, scelti tra i consiglieri regionali, per molti costituzionalisti è il buco nero della riforma su cui il nuovo sistema rischia di incartarsi prima di nascere, lo stesso Renzi si è impegnato a presentare un progetto nei prossimi mesi. Ma non si giocherà su questo la vittoria del sì. Il voto di ottobre è solo un passo per il premier. Il giorno dopo, in caso di vittoria, il Sì si trasformerà in partito: il primo della Seconda (o Terza) Repubblica fondata su Renzi.
camillobenso
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Re: Diario della caduta di un regime.

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camillobenso ha scritto:EIA, EIA, EIA. ALALÀ! ALALÀ! ALALÀ!

https://www.youtube.com/watch?v=sI_ykm60Cmc E FILMATI SUCCESSIVI.

- “Io non ho creato il fascismo, l’ho tratto dall’inconscio degli italiani.” . BM.


- “La libertà senza ordine e senza disciplina significa dissoluzione e catastrofe.” BM.

- “Regimi democratici possono essere definiti quelli nei quali, di tanto in tanto, si dà al popolo l'illusione di essere sovrano.” BM.

- Governare l'Italia non è impossibile, è inutile. BM



SCENARI
Referendum, così Matteo Renzi costruisce un suo partito con i comitati per il sì

I gruppi costituiti per far sostenere la riforma alla consultazione di ottobre sulla Costituzione sono nati da un’idea del premier. E sembrano l’embrione di una nuova formazione politica che superi il Pd
DI MARCO DAMILANO
30 maggio 2016





Referendum, così Matteo Renzi costruisce un suo partito con i comitati per il sì
Matteo Renzi al teatro sociale di Bergamo
Gli apostoli del Sì, il catechismo per gli elettori, il credo da diffondere in ogni angolo della penisola. Un’organizzazione molto più capillare e più agile del partito di provenienza. E un mix di vecchio e di nuovo: nuovi i data da aggiornare con tutte le informazioni utili sui votanti, come consigliato dal guru americano Jim Messina, antiche le tecniche di propaganda che ricalcano le campagne elettorali del passato, con tanto di prontuario con le domande e le risposte, per convincere gli indecisi. Obiettivo: raccogliere i voti di tanti elettori per il Sì. Quanti? Quattordici milioni, almeno.

Il referendum con cui gli italiani saranno chiamati ad approvare o bocciare la riforma della Costituzione voluta da Matteo Renzi è ancora lontano, mancano più di quattro mesi (la data ipotetica del voto è domenica 16 ottobre), semmai incombono le elezioni amministrative, ma la macchina del Sì è già partita. Con un impegno e un dispiegamento di forze che trovano pochi precedenti nella storia repubblicana.

Solo in rarissimi casi si è visto un presidente del Consiglio scendere così apertamente in campo in prima persona. E ancora più rari quelli in cui, potendo contare su un partito di cui è leader, il capo del governo ha invece preferito mettere su una rete di comitati paralleli, congelando nel frattempo il resto dell’attività del Pd.

All’ultima riunione dei segretari regionali è stato comunicato che i congressi territoriali già convocati per eleggere i loro organismi, per esempio il Veneto, saranno rimandati a dopo il referendum. Tutto bloccato. Ora la priorità è raccogliere più voti possibile per il Sì. Una messa in mora delle strutture di partito chiamate a mettersi al servizio esclusivamente della rete dei comitati del Sì.

Da ora e fino a metà ottobre è quello il luogo privilegiato per chi vuole impegnarsi, rendersi disponibile, mettersi in mostra. Prepararsi alla partita successiva, le elezioni politiche del 2018, sempre che non ci sia un anticipo. È nei comitati del Sì che c’è l’embrione del nuovo partito, con i candidati alla Camera per lo squadrone di Renzi da scegliere con la nuova legge elettorale Italicum.

Già sul podio del teatro Sociale di Bergamo, il luogo deciso dal premier per il lancio ufficiale della campagna referendaria, il logo del vecchio Pd è apparso trasformato in un Sì tricolore stilizzato. Come un passaggio, una mutazione che agli elettori dovrà apparire naturale: dal Partito democratico al partito del Sì. Sì al referendum costituzionale, naturalmente. Ma sì, soprattutto, all’Italia di Matteo, alla politica di Renzi. Con un corollario inevitabile che preoccupa molto Pier Luigi Bersani e la minoranza interna : chi nel Pd non dirà sì o dirà un sì molto tiepido sarà messo automaticamente fuori dal nuovo partito che verrà.

In apparenza lo scontro tra il sì e il no è trasversale e taglia tutti gli schieramenti. Nella realtà, ancora una volta la linea di divisione passa a sinistra, è tutta all’interno del Pd. Si spiega così la polemica tra il ministro Maria Elena Boschi e il direttivo nazionale dell’Anpi , l’associazione nazionale partigiani: il vertice dell’associazione si è schierato per il no, il ministro in tv si è fatta sfuggire che «molti partigiani, quelli veri, quelli che hanno combattuto durante la Resistenza», voteranno per il sì ed è stata poi costretta a rettificare. Oppure la caccia alla citazione di un leader comunista del passato favorevole al monocameralismo: Enrico Berlinguer, Pietro Ingrao, Nilde Iotti.

Citazioni anti-storiche, perché nella cultura del Pci c’era la centralità del Parlamento contrapposta alla prevalenza del governo sulle assemblee legislative, che invece è esattamente lo scopo della riforma Renzi. Ma è un dettaglio, più importante è dimostrare al popolo della sinistra che i rottamatori arrivati al potere senza un passato alle spalle possono invece vantare padri nobili e un cuore antico.

Ecco perché un altro pensatore post-comunista, il presidente della fondazione istituto Gramsci Giuseppe Vacca, studioso non revisionista di Palmiro Togliatti e amico e consigliere di Massimo D’Alema, ha accettato di guidare i comitati del Sì, per ora nel Lazio. A spingere per questa soluzione è stato il presidente della regione Nicola Zingaretti, l’ultimo discendente della stirpe cresciuta nei corridoi di Botteghe Oscure. Per anni è stato indicato dalla sinistra del Pd come un possibile anti-Renzi, oggi prova a raggiungere un accordo con l’antico rivale.

Sul referendum si fanno le prove delle nuove alleanze. Ancora una volta, la partita è conquistare la base della sinistra, indispensabile per conquistare i quattordici milioni di voti che servono per far volare il sì referendario. Per capire le dimensioni dell’impresa, alle elezioni europee del 2014 il Pd del trionfale e mai raggiunto 40 per cento prese undici milioni e 200mila voti. Ora ne servono molti di più, tenuto conto che al referendum sulle trivelle di aprile (fallito per il mancato quorum) hanno votato quasi 16 milioni di votanti, in gran parte ostili al governo che aveva consigliato agli elettori di astenersi. E bisogna bloccare sul nascere un’emorragia di voti a sinistra.

Il partito del Sì ha un leader naturale, Matteo Renzi, un nume tutelare, l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che è andato a predicare le ragioni della riforma costituzionale anche alla scuola di formazione politica di Enrico Letta: «Le due debolezze fatali della storia repubblicana sono stati la minorità dell’esecutivo e il bicameralismo perfetto». E c’è un portavoce, anzi, un segretario in pectore, che dà la linea sul piano politico: il ministro Boschi.

Anche lei nel voto di ottobre mette in gioco la sua carriera: se il sì perderà, lascerà la politica, come il premier. Se invece dovesse vincere, sarebbe una vittoria anche sua, sul piano personale. C’è poi un comitato di docenti universitari e professori chiamati a ribattere al manifesto dei 56 costituzionalisti schierati per il no. Il gruppo dei 193 è nato nelle stanze del ministero delle Riforme.

A coordinarlo è il consigliere giuridico della Boschi Massimo Rubechi. Il motore è il costituzionalista Stefano Ceccanti, ex senatore del Pd, presidente del comitato toscano del Sì. Tra i firmatari ci sono docenti di area centro-destra come Ida Nicotra, Lorenza Violini, Vincenzo Lippolis, o di certo non riconducibili al Pd, per esempio il politologo e editorialista del “Corriere della Sera” Angelo Panebianco. Accanto a Franco Bassanini, Sergio Fabbrini, Leonardo Morlino, Andrea Morrone, Michele Salvati. Carlo Fusaro, ordinario di Diritto pubblico a Firenze, ha fatto di più. Ha prodotto per il comitato del Sì una guida al voto. «La Costituzione più bella del mondo? Critica ideologica... La riforma crea troppe incertezze e produrrà contenzioso? Critica non giustificata, frutto di pavloviani istinti conservatori... Ingiustificato che solo i deputati abbiano l’indennità parlamentare? Mah...». Come si usava un tempo, quando i partiti di massa fornivano ai loro agitprop in campagna elettorale un librettino con le domande più ricorrenti dei cittadini e gli argomenti degli avversari. Un catechismo referendario, per un voto che i fronti contrapposti già vivono come una guerra di religione.

Un clima di scontro che fa reagire il leader della minoranza interna Bersani: «Renzi può vincere senza spaccare l’Italia in due. Oppure può continuare a dare mazzate addosso a chi non la pensa come lui. Se vuole dare un segnale al Paese deve riaprire la legge elettorale Italicum, ammettere che qualche esponente del Pd possa votare per il no senza incorrere in sanzioni. E presentare prima del referendum la legge con cui si eleggeranno i futuri senatori: per ora non esiste».

Non è un tecnicismo: la modalità di elezione dei prossimi inquilini di Palazzo Madama, scelti tra i consiglieri regionali, per molti costituzionalisti è il buco nero della riforma su cui il nuovo sistema rischia di incartarsi prima di nascere, lo stesso Renzi si è impegnato a presentare un progetto nei prossimi mesi. Ma non si giocherà su questo la vittoria del sì. Il voto di ottobre è solo un passo per il premier. Il giorno dopo, in caso di vittoria, il Sì si trasformerà in partito: il primo della Seconda (o Terza) Repubblica fondata su Renzi.

http://espresso.repubblica.it/palazzo/2 ... =HEF_RULLO
lilly
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Re: Diario della caduta di un regime.

Messaggio da lilly »

Ma che scherziamo la camera delle regioni è importante perche evita la dittatura della maggioranza dal momento che può richiamare a maggioranza assoluta dei suoi rappresentanti una legge introducendo degli emendamenti che la camera però può rigettare,ma se c'è l'esiguità della rappresenta e quindi l'effetto maggioritario le minoranze in parlamento non potranno mai richiedere una legge se c'è la stessa maggioranza sia alla camera dei deputati che a quella delle regioni e questo implicherebbe almeno duecento rappresentanti che sono a parità di costo perche Pzzo Madama non dà indennità il rappresentante alla camera delle regioni avrà solo ed esclusivamente l'indennità di parlamentare regionale in cui una parte a parità di indennità come adesso viene considerata come trasferta.Questo non rallenta l'iter delle leggi perche la camera delle regioni non è obbligata a richiamare una legge.La rappresentanza dovrebbe essere anche paritetica perche questo fà in modo che le maggioranze dsi creino sull'alleanza della rappresentanza fra regioni.La legge che disciplina l'elezione può essere semplice.Le regioni designano chi ha avuto più preferenze nell'ambito del partito di riferimento e i sindaci sulla base di delle preferenze ottenute in ambito comunale.Quindi saranno designati i sindaci che avranno avuto più preferenze e questo evita l'arbitrarietà
camillobenso
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Re: Diario della caduta di un regime.

Messaggio da camillobenso »

30 MAG 2016 17:06
MAL DI PANSA PER RENZI

- “IL PREMIER NON È UN POLITICO DI PACE, BENSÌ UN CAPO DA GUERRA CIVILE: PRIVILEGIA L’INSULTO E AMA DIMOSTRARSI UNA CAROGNA PERFETTA

- LA BOSCHI? UNA SIGNORA IN PREDA ALLA VOLGARITA’”

- "LA CRISI E LA QUESTIONE MIGRANTI ACCRESCERANNO IL RANCORE VERSO IL GOVERNO" - - - -


"Senza volerlo e con una gaffe da principianti, il premier e la Boschi hanno offerto un argomento d'acciaio ai sostenitori del no. Volete mandare a casa il governo? Basta sconfiggere il sì. Non sarà per niente facile, poiché Renzi è una tigre rabbiosa, dalle sette vite. Però vale la pena di provarci. Poi sarà quel che sarà"....



Giampaolo Pansa per “Libero Quotidiano”


Molti si sono sbagliati nel giudicare il personaggio di Matteo Renzi. Quando comparve sulla scena nazionale come leader del Partito democratico e subito dopo da presidente del Consiglio, tanti non compresero chi fosse per davvero quell' ex ragazzone fiorentino che voleva diventare il padrone assoluto della repubblica italiana.

Sembrava un quarantenne innocuo, tendente alla pinguedine, senza nessun passato importante.

Un democristiano riciclato nei ranghi della Margherita, con una scarsa attitudine agli incarichi politici decisivi.

Quelli limitati alla presidenza della provincia di Firenze e poi alla guida di una città tra le più belle del mondo.

Quando non viene mandata a ramengo da un tubo dell' acqua che si rompe.


Splendido luogo per viverci, ma avamposto pubblico di serie C nell' era moderna.

Infatti quando si parlava di qualche leader consegnato alla storia si citava sempre quel sant' uomo di Giorgio La Pira e nessun altro.

L' allarme non suonò neppure quando l' ex boy scout iniziò a sbandierare il suo programma di governo.

Consisteva in una parola sola: rottamazione.

Appena cinque sillabe, ma dal significato preciso: al governo ci devo andare soltanto io, gli altri vanno gettati nel guardaroba dei cani.

E nessuno si preoccupò quando Renzi, per dimostrare che non scherzava, tagliò la gola al premier che veniva prima di lui, Enrico Letta. Dopo avergli raccomandato di stare sereno e di prepararsi a rimanere a lungo nelle stanze di Palazzo Chigi.

Questo accadeva nel febbraio del 2014.

Da allora sono trascorsi due anni e gli italiani che ancora si interessano alla politica hanno compreso di quale pasta sia fatto il capo del governo.

Prima di tutto, Renzi non è un uomo che unisce, ma divide.


Non è un politico di pace, bensì un capo da guerra civile, disposto a tutto pur di vincerla.
[/b]

Ama dimostrarsi una carogna perfetta.


Privilegia l' insulto e non l' armonia.



Come sempre accade anche per i premier, il diavolo si nasconde nei dettagli.


Pensiamo alle contumelie che sin dall' inizio del suo ciclo è andato distribuendo agli avversari.


Ecco i gufi, i rosiconi, i menagramo, i professoroni incompetenti, i conservatori prezzolati.

Si è allineata a questo stile becero anche la ministra che Renzi ama più di qualsiasi altro: Maria Elena Boschi, una dilettante con il compito delicatissimo di condurre in porto la riforma costituzionale.

Ecco una signora ormai in preda alla volgarità.


Urla che quanti rifiutano il suo capolavoro istituzionale sono soltanto dei fascisti, uguali ai neri di Casa Pound.


E nel caso che si dichiarino ex partigiani, dicono il falso poiché il resistente vero è soltanto quello che vota Renzi.

Il premier si è rivelato una fabbrica di offese che non si ferma mai e funziona giorno e notte.

L' ultimo sberleffo è di questa fine di maggio.

Rivolto ai candidati dei Cinque Stelle li ha definiti «i co.co.pro della Casaleggio associati», vale a dire scherani assoldati dalla società che nell' immaginario renzista è la vera proprietaria della banda di Grillo & C.


Che cosa dirà domani, nel fuoco della battaglia elettorale amministrativa? Accuserà Virginia Raggi, candidata a sindaco di Roma, di essere l' amante del ruvido Grillo o del signorino Di Maio?

Chi segue per ragioni professionali o di schieramento la battaglia per i sindaci delle grandi città e, soprattutto, il conflitto a proposito del referendum costituzionale di ottobre, a volte non se ne rende conto sino in fondo.


Ma l' Italia è entrata in un tunnel pericoloso: quello di una guerra civile, per ora soltanto di parole rabbiose, ma capace di passare dalla verbosità isterica ai fatti.


Mi considero un anziano tranquillo e di solito ottimista.




Però vedo attorno a me i sintomi di uno stress che può avere conseguenze disastrose.




Il cuore dell' Italia ha iniziato a battere in modo anomalo.



Come se fosse alle prese con quelle che i medici chiamano fibrillazioni atriali parossistiche.



La nostra convivenza si sta alterando, per lo meno ai piani alti della struttura sociale: imprenditori, politici, esponenti della cultura, giornalisti, magistrati, sindacalisti, potenti di ogni risma.




Vedo dovunque un' ansia di schierarsi, di parteggiare, di assalire, di offendere.


Ricordo una sola circostanza simile a quella d' oggi.


Era il 1948 e il paese si trovava diviso in due blocchi che si odiavano.


Guidati da due leader alternativi: Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti.


Dopo una campagna elettorale selvaggia, tutto si appianò, grazie alla vittoria del politico più rassicurante, il capo della Democrazia cristiana.


Ma l' Italia di allora era una società giovane e vitale, che voleva costruire il proprio boom e riuscì nell' intento.



Non era l' Italia spaventata di oggi, alle prese con un' Europa sempre più matrigna, una crisi economica che non si risolve e, soprattutto, con il gigantesco problema dei migranti che trasformerà l' estate del 2016 in un tormento senza fine.


E accrescerà il rancore dell' italiano qualunque nei confronti del governo.



Sempre più spesso mi domando se Renzi sia consapevole del futuro che lo attende, insieme a tutti noi.





Oppure se vorrà essere sino in fondo una specie di Dittatore dello Stato libero di Bananas, simile a quello del celebre film di Woody Allen.






Circondato da sudditi fedeli che aspettano la mancia del premier: un posto in una società pubblica, una consulenza ben pagata, una presidenza ad honorem.



Ecco un altro lato oscuro di Matteone I: la costruzione di un cerchio magico di fedelissimi da premiare.


La cronaca è una signora bizzosa e si diverte a scoprire altarini che nessuno conosceva.



L' ultimo è emerso dopo la frana che ha devastato il centro storico di Firenze, retrocesso al rango di un quartiere romano dilaniato dall' incuria e tradito dalla politica.

La società che, a sentire il sindaco Nardella, sarebbe responsabile del tubo che ha provocato il disastro, era un giardinetto di stipendi lucrosi per le clientele renziste.



Nel consiglio di amministrazione la signorina Boschi ha posato le chiappe dal 2009 al 2013, con un appannaggio di novantamila euro l' anno.


In compagnia di un altro fedelissimo renzista, poi mandato a dirigere l' Unità, un azzardo assurdo voluto dal premier, insuperabile come il tonno nel premiare gli incapaci.


Adesso il premier accusa i suoi avversari, quelli del no al referendum che si terrà in ottobre, di aver trasformato la consultazione in un processo nei suoi confronti.


Renzi la chiama «personalizzazione», fingendo di dimenticare che è stato lui a lanciare il grido di guerra:

«Se perdo, me ne vado a casa e lascio la vita politica».


Per imitazione affettiva, il ministro Boschi ha garantito che, nell' eventualità di una vittoria del no, pure lei farà le valige e ritornerà ad Arezzo, dove ad aspettarla troverà il disastro della Banca Etruria.



Incauti e boriosi.


Mostrano di essere così il premier e la sua Mariaele, la ministra più ministra di tutte.


Senza volerlo e con una gaffe da principianti, hanno offerto un argomento d' acciaio ai sostenitori del no.


Volete mandare a casa il super Matteo, la sua donna simbolo e l' intero governo?



Nelle mani avete un' arma che può essere letale: sconfiggere il sì chiesto dal governo.


Non sarà per niente facile, poiché Renzi è una tigre rabbiosa, dalle sette vite.


Però vale la pena di provarci. Poi sarà quel che sarà.
camillobenso
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Re: Diario della caduta di un regime.

Messaggio da camillobenso »

QUANDO LE SOCIETA' SI SFALDANO PER DECOMPOSIZIONE OCCORRE METTERE IN CONTO ANCHE QUESTO.

LA CRISI DELLA SOCIETA' ITALIANA NON E' SOLO ECONOMICO-FINANZIARIA, LAVORATIVA-OCCUPAZIONALE, MA ANCHE ETICO-MORALE.



SOCIETÀ

Roma, la ragazza semicarbonizzata e i passanti indifferenti. Ma per la scienza non siamo una società fredda

Società
di Marco Venturini | 31 maggio 2016
COMMENTI (23)



La storia di Sara Di Pietrantonio, la 22enne uccisa carbonizzata dal suo ex e ritrovata domenica all’alba alla Magliana a Roma, è scioccante. Ad aggiungersi allo sgomento pubblico è una colpa che appare ancora più grave, perché non di un singolo e folle criminale lontano da noi, ma nostra, una colpa collettiva: quella dell’indifferenza dei passanti, i quali, pur avendo vista la ragazza chiedere aiuto, non si sono fermati. A generare il senso di colpa collettivo è il pm che sottolinea: “Sara ha chiesto aiuto a diversi automobilisti, ma nessuno si è fermato”. Penso che il significato dato a queste parole dalla maggior parte delle tv e dei giornali sia solo del sensazionalismo. Niente di più. Uno sgradevole sensazionalismo. E spero che non fossero queste le intenzioni del pm nel pronunciarle. Quella dell’orribile indifferenza dei passanti, o apatia sociale, è una teoria che torna periodicamente sui giornali, da sempre, ogni volta che avviene una tragedia in pubblico.


Ricorderete un episodio celebre del 2010, quello di una donna colpita a morte con un pugno nella metro di Roma, nell’indifferenza dei passanti. Ma anche più recentemente, circa un mese fa un marocchino di 39 anni è stato ucciso nell’indifferenza dei passanti. Abbiamo poi crude scene dall’estero, che ci arrivano in questi giorni, di una donna americana picchiata nell’indifferenza dei passanti e di un’altra donna, cinese, caduta a terra con la moto nell’indifferenza dei passanti. Episodi di questo tipo capitano, purtroppo, di continuo. Ogni volta riecco emergere nei talk show e sui giornali il quadro di una generazione fatta di individui egoisti e insensibili, induriti dalla vita moderna, specialmente nelle metropoli: la società fredda, indifferente ai bisogni e alle richieste. Quindi è d’obbligo chiederci: siamo tutti dei mostri, dal cuore di cemento come le grandi città che abbiamo creato e che ci hanno rubato l’anima, oppure c’è una spiegazione meno dolorosa a questo assurdo comportamento collettivo che ricorre, tragedia dopo tragedia?




Gli psicologi sociali, negli anni 60, sono stati i primi a cercare una risposta a questa apatia collettiva, dandogli anche un nome: effetto bystander (effetto spettatore). Il tutto è partito da un caso di cronaca simile a quello di cui ci troviamo a parlare oggi. Alle tre di notte del 13 marzo 1964, nel quartiere di Queens a New York, una giovane donna, Catherine Genovese (italo-americana), era stata aggredita e uccisa nella strada di casa mentre tornava dal lavoro. La notizia di un omicidio, in una metropoli come New York, avrebbe avuto poco spazio sui media se non fosse emerso un particolare, scoperto durante le indagini, che aveva lasciato tutti sbigottiti: l’aggressore aveva inseguito e colpito Catherine per tre volte, nell’arco di una mezz’ora, prima di ridurla al silenzio e nientemeno che trentotto vicini di casa avevano assistito a tutta la scena dalle finestre senza alzare un dito, nemmeno per chiamare la polizia.

Ovviamente il New York Times uscì con un lungo articolo in prima pagina, destinato a suscitare – come avviene oggi – un polverone di commenti e discussioni. Il pezzo diceva: “Per oltre mezz’ora, trentotto cittadini onesti e rispettabili del Queens sono stati a guardare un assassino inseguire e pugnalare una donna nei Kew Gardens in tre successivi assalti”. I giornalisti, gli opinionisti e i testimoni oculari interrogati cercarono di dare delle spiegazioni chiamando in causa la paura o il desiderio di non essere immischiati. Anche oggi il sostituto procuratore di Roma, Maria Monteleone, ha chiamato in causa il coraggio in merito all’assassinio di Sara: “Ci vuole coraggio, se si vedono cose strane è dovere chiamare il 113” (la gravità dell’omissione di soccorso ovviamente non è neanche in discussione, in questo post sono in discussione le cause che in alcuni casi possono generarla. Vedremo anche delle soluzioni sul finale).

Tali spiegazioni però non reggevano affatto: una semplice telefonata anonima alla polizia avrebbe potuto salvare la vita della ragazza in quella notte americana, senza il minimo rischio per il testimone. La spiegazione doveva essere un’altra. Quale sarebbe allora la soluzione? Due psicologi di New York, Bibb Latané e John Darley, trovarono la risposta. Nessuno era intervenuto non, come si era sempre detto, benché ci fossero trentotto testimoni oculari, ma proprio per questa ragione, perché c’era tanta gente a guardare. Secondo Latané e Darley, ci sono almeno due ragioni per cui chi assiste a un caso d’emergenza difficilmente interviene se ci sono o passano diverse altre persone. La prima è molto semplice: la responsabilità personale di ciascuno si diluisce e così, mentre ognuno pensa che sia già intervenuto o stia per intervenire qualcun altro, nessuno fa nulla.

La seconda ragione è psicologicamente più sottile, fondata sul principio della riprova sociale (Cialdini, 2001): qui entra in gioco l’effetto d’ignoranza collettiva. Molto spesso succede che un’emergenza non sia immediatamente riconoscibile. I colpi che si sentono dalla strada sono spari o tubi di scappamento? La confusione che si sente nella casa accanto è un’aggressione o un litigio particolarmente rumoroso fra marito e moglie? La persona che mi corre incontro vuole aiuto o vuole aggredirmi? Che cosa sta succedendo? In momenti di incertezza come questi, la tendenza naturale è guardarsi intorno per vedere come si comportano gli altri e capire da questo se si tratti o meno di un’emergenza. Il problema però è che anche tutti gli altri che osservano l’evento probabilmente sono in cerca di una spiegazione osservando il comportamento altrui. E siccome, in pubblico, tutti vogliono apparire posati e tranquilli, probabilmente ci si limita a brevi occhiate di sfuggita.

La conseguenza è che ognuno vedrà che nessuno degli altri si scompone e non interpreterà l’evento come un caso d’emergenza. Ma basterà che uno si fermi ed ecco che si creerà il capannello di persone, quello delle code di curiosi sull’autostrada o del “circolare gente, non c’è nulla da vedere qui” o ancora del “fate spazio, facciamolo respirare”. Ecco come la stessa società di mostri insensibili diventa improvvisamente una società solidale e (a volte fin troppo) premurosa. I due ricercatori fecero degli esperimenti che confermarono la loro teoria. Conoscendo questi processi psicologici quindi, da oggi, quando sarete nel dubbio avvicinatevi sempre al soggetto e chiedete se ha bisogno di aiuto; se vi è proprio impossibile avvicinarvi o fermarvi, chiamate sempre il 113, anche nel dubbio che l’abbia già fatto qualcuno. Un’eventuale doppia chiamata non darà fastidio alle forze dell’ordine e ai soccorsi: hanno un centralino apposta.

Appreso questo, ed immaginando di essere noi stessi nella situazione di pericolo, cosa possiamo fare per essere aiutati ed evitare il compiersi di un reato gravissimo – dal punto di vista morale oltre che penale – come quello dell’omissione di soccorso da parte di più spettatori? Dagli esperimenti e dai casi di cronaca emerge che grida o lamenti non servono: possono richiamare l’attenzione ma non bastano a far capire che c’è una vera emergenza. Bisogna fare qualcosa di più che segnalare il bisogno d’aiuto, si devono eliminare tutte le incertezze sul tipo di aiuto e su chi deve darlo. Il consiglio dei ricercatori è di isolare un singolo individuo dalla folla: “Lei, signore con la giacca blu, chiami un’ambulanza”. Con quest’unica frase quella persona viene messa nel ruolo di “soccorritore”: sa che c’è un’emergenza, sa che tocca a lui fare qualcosa e non ad altri e sa esattamente che cosa fare. Tutti i dati sperimentali disponibili indicano che il risultato di una richiesta formulata in questo modo sarà un’assistenza pronta ed efficace.

In generale, quindi, la strategia migliore è ridurre le incertezze degli astanti, con la richiesta più precisa possibile, rivolta a un singolo e non genericamente al gruppo: il compito deve essere assegnato a qualcuno, altrimenti è troppo facile per ciascuno pensare che debba farlo, stia per farlo o l’abbia già fatto un altro. Spero che queste istruzioni non serviranno mai a nessuno di noi, ma il femminicidio, e le aggressioni in generale, sono un problema reale e gravissimo. Per limitarlo, credo tuttavia si debbano cercare le cause reali che lo scatenano, punire chi omette di soccorrere le vittime e non perdere tempo allargando il problema ad un’ipotetica, e per fortuna inesistente, società fredda e indifferente delle sofferenze altrui.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/05 ... a/2782396/
camillobenso
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Re: Diario della caduta di un regime.

Messaggio da camillobenso »

Da tempo ci siamo immessi nel Viale Senza Ritorno, ma in questo momento il clima sta peggiorando a vista d’occhio.

Ci dovremo abituare a vivere in questo modo???

Dalla CRONACA.

1) Parma, due italiani torturano e uccidono tunisino
“Ci ammazzano come bestie, nessuno ne parla”

Mohamed Habassi, 34 anni e un figlio di 6, è morto nel raid fatto dal compagno della sua proprietaria di casa. Voleva punirlo: pare non pagasse l’affitto. La notizia è stata pubblicata solo dalla stampa locale


2) “Aggredita, tramortita, strangolata e data
alle fiamme”: così è stata uccisa Sara


3) 900 i morti annegati nel viaggio della speranza.

4) Vincenzo D’Anna pensi a Cosentino non a Saviano
Si attacca Saviano per un po’ di visibilità
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Re: Diario della caduta di un regime.

Messaggio da camillobenso »

Renzi promette, le imprese aspettano "La PA deve ancora pagare 61 miliardi"
Questo assurdo ritardo del governo nel pagamento di questi debiti nel 2015 è costato alle imprese it
aliane la cifra di 5,4 miliardi


Luca Romano - Mer, 01/06/2016 - 17:18
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Le promesse di Matteo Renzi sono bolle di sapone. Ne sanno qualcosa le imprese italiane che aspettano ancora di ricevere i soldi che avanzano dalla Pubblica Amministrazione.




Dal taglio dell'Ires alle pensioni, tutte le promesse di Padoan

Le "pagelle" dell'Ocse all'Italia: "Fare di più per...

Giugno è il mese delle tasse: maxi salasso da 51 miliardi
E ne sa qualcosa anche Renato Brunetta, che da tempo si è focalizzato sul tema.

"Nonostante i reiterati annunci del premier Matteo Renzi, in questi ultimi due anni la Pubblica amministrazione non ha ridotto i lunghissimi tempi di pagamento di beni e servizi, mantenendo sostanzialmente invariato lo stock di debito commerciale contratto nei confronti delle imprese fornitrici. Secondo la stima di ImpresaLavoro, su dati Intrum Justitia, lo scorso 31 dicembre questo ammontava infatti a circa 61,1 miliardi di euro (in leggero calo rispetto ai 67,1 miliardi del 2014). Questo assurdo ritardo del governo nel pagamento di questi debiti nel 2015 è costato alle imprese italiane la cifra di 5,4 miliardi (in leggero calo rispetto ai 6,1 miliardi del 2014). Questa stima è stata effettuata prendendo come riferimento l'ammontare complessivo dei debiti della nostra PA, l'andamento della spesa pubblica per l'acquisto di beni e servizi (così come certificato da Eurostat) e il costo medio del capitale (pari all'8,84% su base annua) che le imprese hanno dovuto sostenere per far fronte al relativo fabbisogno finanziario generato dai mancati pagamenti".

Il presidente dei deputati di Forza Italia poi ha aggiunto: "Il fenomeno dei ritardi di pagamento della nostra Pa mantiene dimensioni che non hanno pari rispetto ai nostri principali partner europei. Per pagare i suoi fornitori lo Stato italiano impiega infatti in media 131 giorni: 16 giorni più della Grecia, 33 giorni più della Spagna, 55 giorni più del Portogallo, 73 giorni più della Francia, 91 giorni più dell'Irlanda, 101 giorni più del Regno Unito e addirittura 116 giorni più della Germania. Renzi aveva promesso ormai più di due anni fa, che i debiti della Pubblica amministrazione nei confronti delle imprese sarebbero stati azzerati in pochi mesi, promettendo a Bruno Vespa, durante una puntata di Porta a Porta, che se non avesse mantenuto l'impegno entro il 21 settembre (2014) sarebbe andato in pellegrinaggio al santuario di Monte Senario. Come da copione: impegno non mantenuto, soldi non restituiti alle imprese, debito non pagato. I numeri di ImpresaLavoro confermano che il premier è stato ancora una volta sbugiardato dai fatti. Altra balla da inserire nello speciale palmares di un presidente del Consiglio inaffidabile".
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Re: Diario della caduta di un regime.

Messaggio da camillobenso »

PARLANDO IERI CON UN AMICO, GLI FACEVO PRESENTE CHE ERA INUTILE PARLARE DEL PINOCCHIONE DI RIGNANO.

CHE SENSO HA A DISCUTERE DI BALLE.

IL PINOCCHIONE NON HA EGUALI IN TUTTA LA GALASSIA.

VIVE IN CONTINUAZIONE DI MEGA PALLE.

GLI HO FATTO PRESENTE CHE ERO CURIOSO DI SAPERE A CHE PUNTO STAVA LA PROMESSA FATTA NEL MAGGIO DEL 2014 A PORTA
A PORTA CHE ENTRO AGOSTO AVREBBE SALDATO I DEBITI DELLO STATO.

SONO PASSATI QUASI DUE ANNI E IL DEBITO SEMBRA ANCORA ESSERE DI 61 MILIARDI.

QUESTO PINOCCHIONE E' COMPLETAMENTE INATTENDIBILE.
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