Renzi
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Re: Renzi
D’Alema ancora contro Renzi: “Non può essere premier e segretario del partito”
Politica
Intervista a Ballarò: "Noi restiamo nel partito per spirito di sacrificio per il rispetto verso quei militanti che con abnegazione continuano a lavorare dentro i circoli. E ci restiamo perché speriamo di poterlo cambiare"
di F. Q. | 28 giugno 2016
COMMENTI
Una settimana fa aveva detto: “Voto no alle riforme, sono peggio di quelle di Berlusconi”. Oggi Massimo D’Alema va oltre: dopo aver invocato lo “spirito di sacrificio”, dopo aver citato il padre costituente Concetto Marchesi, dopo aver invitato alla rappacificazione delle tante anime del Pd e dopo aver parlato di Europa, punta deciso contro Matteo Renzi. E lo fa, dal salotto di Ballarò, per invitare l’attuale premier-segretario a lasciare la guida di un partito “abbandonato a se stesso: Renzi non può sommare la carica di premier e di segretario del partito”.
Certo, è l’affondo che lascia intendere, ove necessario, lo stato dei rapporti tra i due, il segretario lo riesce a fare visto che, dice, nella Direzione del Pd, “c’è un sala di supporter, se non stai attento ti possono anche aggredire…” . “Noi restiamo nel partito per spirito di sacrificio“, è la premessa di D’Alema che spiega che lì chi non la pensa come Renzi ci resta “per il rispetto verso quei militanti che con abnegazione continuano a lavorare dentro i circoli. E ci restiamo perché speriamo di poterlo cambiare”.
Ma su questo, lo stesso ex premier, non punta nemmeno una fiches: “Renzi dice tante cose ma non sempre corrispondono alla verità. Bisogna stare attenti a valutarle”, ammonisce visto che l’attuale premier gli ricorda, “più giovane”, “altre personalità politiche con questa tendenza…”. E se il malcelato paragone a Berlusconi non bastasse, D’Alema avverte Renzi e i renziani sulle loro future battaglie: “Sul voto politico si è vincolati alla disciplina di partito ma sulla riforma costituzionale, sulla Carta fondamentale che riguarda tutti i cittadini non può esserci nessuna disciplina di partito, e ognuno vota secondo la propria coscienza”. E lui? “Io voto no”, avverte telegrafico guardando al referendum e al rifiuto di Marchesi di obbedire a Togliatti sull’articolo 7 della nuova Costituzione.
Ma “non c’è nessuna guerra”, aggiunge. Anche se, alla fine ammette, “se c’è qualcuno che allora ha dichiarato guerra è stato Renzi”. E tanto per far fare un tuffo nell’attualità a chi insiste su certi binari, D’Alema ricorda quanto accaduto in Gran Bretagna: “Cameron furbescamente, per vincere le elezioni, ha promesso il referendum agli antieuropeisti del suo partito nella illusione di poterlo poi arginare. Pensava di essere furbo, ha cavalcato il populismo e ne è stato travolto”.
di F. Q. | 28 giugno 2016
Politica
Intervista a Ballarò: "Noi restiamo nel partito per spirito di sacrificio per il rispetto verso quei militanti che con abnegazione continuano a lavorare dentro i circoli. E ci restiamo perché speriamo di poterlo cambiare"
di F. Q. | 28 giugno 2016
COMMENTI
Una settimana fa aveva detto: “Voto no alle riforme, sono peggio di quelle di Berlusconi”. Oggi Massimo D’Alema va oltre: dopo aver invocato lo “spirito di sacrificio”, dopo aver citato il padre costituente Concetto Marchesi, dopo aver invitato alla rappacificazione delle tante anime del Pd e dopo aver parlato di Europa, punta deciso contro Matteo Renzi. E lo fa, dal salotto di Ballarò, per invitare l’attuale premier-segretario a lasciare la guida di un partito “abbandonato a se stesso: Renzi non può sommare la carica di premier e di segretario del partito”.
Certo, è l’affondo che lascia intendere, ove necessario, lo stato dei rapporti tra i due, il segretario lo riesce a fare visto che, dice, nella Direzione del Pd, “c’è un sala di supporter, se non stai attento ti possono anche aggredire…” . “Noi restiamo nel partito per spirito di sacrificio“, è la premessa di D’Alema che spiega che lì chi non la pensa come Renzi ci resta “per il rispetto verso quei militanti che con abnegazione continuano a lavorare dentro i circoli. E ci restiamo perché speriamo di poterlo cambiare”.
Ma su questo, lo stesso ex premier, non punta nemmeno una fiches: “Renzi dice tante cose ma non sempre corrispondono alla verità. Bisogna stare attenti a valutarle”, ammonisce visto che l’attuale premier gli ricorda, “più giovane”, “altre personalità politiche con questa tendenza…”. E se il malcelato paragone a Berlusconi non bastasse, D’Alema avverte Renzi e i renziani sulle loro future battaglie: “Sul voto politico si è vincolati alla disciplina di partito ma sulla riforma costituzionale, sulla Carta fondamentale che riguarda tutti i cittadini non può esserci nessuna disciplina di partito, e ognuno vota secondo la propria coscienza”. E lui? “Io voto no”, avverte telegrafico guardando al referendum e al rifiuto di Marchesi di obbedire a Togliatti sull’articolo 7 della nuova Costituzione.
Ma “non c’è nessuna guerra”, aggiunge. Anche se, alla fine ammette, “se c’è qualcuno che allora ha dichiarato guerra è stato Renzi”. E tanto per far fare un tuffo nell’attualità a chi insiste su certi binari, D’Alema ricorda quanto accaduto in Gran Bretagna: “Cameron furbescamente, per vincere le elezioni, ha promesso il referendum agli antieuropeisti del suo partito nella illusione di poterlo poi arginare. Pensava di essere furbo, ha cavalcato il populismo e ne è stato travolto”.
di F. Q. | 28 giugno 2016
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Re: Renzi
Certo è che Dagospia è il sito più duro con Mussoloni-Bomba.
Il linguaggio è da bar ma anche nel Cerchio Tragico accettano la realtà.
Sulla prima pagina in questo momento, compare:
MATTEO IL CAZZONE
A caratteri molto più grandi di questi.
30 GIU 2016 10:35
1. RETROSCENA DEL RETROSCEMO
- LA MERKEL AVEVA DATO IL VIA LIBERA ALLA RICHIESTA DI RENZI DI SOSPENDERE LE REGOLE SUL BAIL IN E DI RICAPITALIZZARE LE BANCHE CON SOLDI PUBBLICI. MA L’ITALIA DOVEVA FARLO SENZA DIRLO. INVECE RENZI, POSSEDUTO DALLA VANAGLORIA, L'HA SBANDIERATO AI QUATTRO VENTI. E ANGELONA L'HA MANDATO A CAGARE
2. A RENZI RACCONTANO DI UN COMPLOTTO DEI POPOLARI EUROPEI PER FARLO CADERE. NULLA DI PIÙ FALSO. LA CANCELLIERA HA TUTTO L’INTERESSE CHE RENZI RIMANGA AL SUO POSTO. ALMENO FINQUANDO NON METTE A POSTO LA LEGGE ELETTORALE. QUELLA ATTUALE RISCHIA DI MANDARE A GRILLO A PALAZZO CHIGI. UN RISCHIO CHE ANGELONA NON SI PUÒ PERMETTERE
Aspirina per Dagospia
Matteo Renzi sta pagando sulla sua pelle la mancata conoscenza delle regole europee. Soprattutto di quelle non scritte. A Berlino, il premier di Rignano aveva accennato alla Merkel l’idea di sospendere le regole del bail in e di creare un fondo pubblico salvabanche.
La Cancelliera non gli aveva detto no. Al contrario, aveva fatto capire che non si sarebbe opposta. L’Italia faceva il suo fondo e lei avrebbe evitato che la Commissione europea si potesse mettere di traverso. L’intesa presupponeva, però, la totale riservatezza sull’operazione.
Matteo, invece, cos’ha fatto? In primo luogo lo ha detto a Padoan (ed a chi doveva dirlo?). Ed il ministro dell’Economia, non sicurissimo che il premier avesse capito bene il via libera della Merkel, ha iniziato a far filtrare la notizia del fondo salvabanche sui giornali, così da garantirsi una vena di ufficiosità (ovviamente d’accordo con Palazzo Chigi).
Il risultato è che la Merkel di fronte all’ufficiosità del fondo salvabanche italiano non ha potuto far altro che smentire le aperture concesse a quattr’occhi a Berlino: ‘’le regole non si cambiano ogni due anni’’, ha detto ieri a Bruxelles.
Ed oggi i titoli bancari soffrono in Borsa proprio per la doccia fredda di informazioni contrapposte e contraddittorie ricevute nel giro di 48 ore.
Renzi è stato preso in contropiede dalla Merkel. O meglio, la Merkel è stata presa in contropiede dall’ignoranza del premier italiano delle regole non scritte europee. Nei corridoi di Bruxelles vince solo chi ha giocato a pallone all’oratorio, che conosce le regole sugli sgambetti e sotterfugi.
Proprio il contrario degli insegnamenti degli scout. E Matteo lo è stato.
L’inquilino pro tempore di Palazzo Chigi ieri ha balbettato una reazione: è stata la Germania ad essere stata salvata dal deficit eccessivo.
Errore. La presidenza di turno italiana (Giulio Tremonti), nel novembre del 2003, impedì l’applicazione delle sanzioni a Francia e Germania, congelando la procedura per deficit eccessivo.
In realtà, quel che Matteuccio non può ancora raccontare sono gli scenari apocalittici che gli vengono offerti dagli sherpa per giustificare il loro errore di valutazione sull’atteggiamento della Merkel a Berlino.
Pur di non riconoscere lo sbaglio stanno raccontando al premier di fantasmagorici complotti dei popolari europei per farlo cadere.
Nulla di più falso. La Merkel ha tutto l’interesse che Renzi rimanga al suo posto. Almeno finquando non mette a posto la legge elettorale. Quella attuale rischia di mandare a Grillo a Palazzo Chigi. Un rischio che Angelona non si può permettere.
Il linguaggio è da bar ma anche nel Cerchio Tragico accettano la realtà.
Sulla prima pagina in questo momento, compare:
MATTEO IL CAZZONE
A caratteri molto più grandi di questi.
30 GIU 2016 10:35
1. RETROSCENA DEL RETROSCEMO
- LA MERKEL AVEVA DATO IL VIA LIBERA ALLA RICHIESTA DI RENZI DI SOSPENDERE LE REGOLE SUL BAIL IN E DI RICAPITALIZZARE LE BANCHE CON SOLDI PUBBLICI. MA L’ITALIA DOVEVA FARLO SENZA DIRLO. INVECE RENZI, POSSEDUTO DALLA VANAGLORIA, L'HA SBANDIERATO AI QUATTRO VENTI. E ANGELONA L'HA MANDATO A CAGARE
2. A RENZI RACCONTANO DI UN COMPLOTTO DEI POPOLARI EUROPEI PER FARLO CADERE. NULLA DI PIÙ FALSO. LA CANCELLIERA HA TUTTO L’INTERESSE CHE RENZI RIMANGA AL SUO POSTO. ALMENO FINQUANDO NON METTE A POSTO LA LEGGE ELETTORALE. QUELLA ATTUALE RISCHIA DI MANDARE A GRILLO A PALAZZO CHIGI. UN RISCHIO CHE ANGELONA NON SI PUÒ PERMETTERE
Aspirina per Dagospia
Matteo Renzi sta pagando sulla sua pelle la mancata conoscenza delle regole europee. Soprattutto di quelle non scritte. A Berlino, il premier di Rignano aveva accennato alla Merkel l’idea di sospendere le regole del bail in e di creare un fondo pubblico salvabanche.
La Cancelliera non gli aveva detto no. Al contrario, aveva fatto capire che non si sarebbe opposta. L’Italia faceva il suo fondo e lei avrebbe evitato che la Commissione europea si potesse mettere di traverso. L’intesa presupponeva, però, la totale riservatezza sull’operazione.
Matteo, invece, cos’ha fatto? In primo luogo lo ha detto a Padoan (ed a chi doveva dirlo?). Ed il ministro dell’Economia, non sicurissimo che il premier avesse capito bene il via libera della Merkel, ha iniziato a far filtrare la notizia del fondo salvabanche sui giornali, così da garantirsi una vena di ufficiosità (ovviamente d’accordo con Palazzo Chigi).
Il risultato è che la Merkel di fronte all’ufficiosità del fondo salvabanche italiano non ha potuto far altro che smentire le aperture concesse a quattr’occhi a Berlino: ‘’le regole non si cambiano ogni due anni’’, ha detto ieri a Bruxelles.
Ed oggi i titoli bancari soffrono in Borsa proprio per la doccia fredda di informazioni contrapposte e contraddittorie ricevute nel giro di 48 ore.
Renzi è stato preso in contropiede dalla Merkel. O meglio, la Merkel è stata presa in contropiede dall’ignoranza del premier italiano delle regole non scritte europee. Nei corridoi di Bruxelles vince solo chi ha giocato a pallone all’oratorio, che conosce le regole sugli sgambetti e sotterfugi.
Proprio il contrario degli insegnamenti degli scout. E Matteo lo è stato.
L’inquilino pro tempore di Palazzo Chigi ieri ha balbettato una reazione: è stata la Germania ad essere stata salvata dal deficit eccessivo.
Errore. La presidenza di turno italiana (Giulio Tremonti), nel novembre del 2003, impedì l’applicazione delle sanzioni a Francia e Germania, congelando la procedura per deficit eccessivo.
In realtà, quel che Matteuccio non può ancora raccontare sono gli scenari apocalittici che gli vengono offerti dagli sherpa per giustificare il loro errore di valutazione sull’atteggiamento della Merkel a Berlino.
Pur di non riconoscere lo sbaglio stanno raccontando al premier di fantasmagorici complotti dei popolari europei per farlo cadere.
Nulla di più falso. La Merkel ha tutto l’interesse che Renzi rimanga al suo posto. Almeno finquando non mette a posto la legge elettorale. Quella attuale rischia di mandare a Grillo a Palazzo Chigi. Un rischio che Angelona non si può permettere.
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Re: Renzi
Dopo aver ascoltato il TG7, definire ARROGANTE, Mussoloni, corrisponde ad applicare un termine minimalista, ultra benevolo.
100 GIGA DI ARROGANZA RENDE PIU' CHIARA LA REALTA'.
MANCO MUSSOLINI ERA ARROGANTE FINO A QUESTO PUNTO.
100 GIGA DI ARROGANZA RENDE PIU' CHIARA LA REALTA'.
MANCO MUSSOLINI ERA ARROGANTE FINO A QUESTO PUNTO.
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Re: Renzi
Direzione Pd, Matteo Renzi è davvero senza vergogna
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/07 ... a/2882994/
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Re: Renzi
La calda estate di Renzi
FORSE SI E' INCEPPATO IL SUO LANCIAFIAMME'?????
La calda estate di Renzi
Il premier in difficoltà su tutti i fronti. Italicum, referendum, banche e fronde nel Pd: tutte le spine nel fianco di Renzi
Claudio Torre - Sab, 09/07/2016 - 21:40
commenta
Quella che si sta per aprire per Renzi è forse l'estate più calda da quando è a palazzo Chigi.
Troppi i nervi scoperti del governo: le banche, il referendum, l'italicum e le fronde da affrontare ormai ogni giorno. Il premier non ha più la stessa libertà di manovra che aveva un anno fa. È stretto nella morsa del suo stesso partito che ormai delle indicazioni del premier-segretario fa a meno e che di fatto ormai viaggia per conto suo guidato in silenzio dalla "Ditta". Mai nessuno, prima di questa estate aveva messo in dubbio il doppio incarico da segretario e da premier dell'ex sindaco di Firenze. Adesso Renzi viene vissuto da buona parte del Pd come una presenza ingombrante che fa perdere consensi. E così già alla direzione di qualche giorno fa, la minoranza dem ha fatto capire chiaramente di essersi posizionata sul fronte del no e dunque in aperta opposzione col premier sul voto di autunno. Ma a far tremare Renzi è di certo la posizione dei suoi parlamentari su un altro fronte caldissimo, quello dell'Italicum.
Un sondaggio del Corriere della Sera sui parlamentari dem fotografa bene la situazione: su 181 onorevoli che hanno risposto, il 62% chiede un nuovo sistema di voto o di modificare quello attuale. il messaggio è chiaro, l'Italicum va cambiato. Fra i deputati interpellati, solo 68 non hanno dubbi: "L’Italicum non si tocca. I motivi per cui l’abbiamo votato non cambiano. Sarebbe un segnale di cedimento nei confronti del nostro elettorato". E così Renzi è stato costretto ad una timida retromarcia. Durante il vertice Nato ha lasciato intendere che nel caso in cui in Parlamento si trovasse una maggioranza disposta a cambiare strada sull'Italicum, allora le porte per le modifiche si spalancherebbero. Un messaggio che ha subito mosso la fronda della "Ditta" che con Cuperlo fa sapere di "aver appreso in modo positivo il fatto che il premier restituisca al Parlamento l'opportunità di poter modificare la legge elettorale". Ed è su questa partita che Renzi si gioca la sua estate. Ma c'è un altro fronte che lo preoccupa, ed è quello del sistema bancario. Le banche italiane, una su tutte Mps, sono in prfonda crisi e dall'europa per il momento non sono arrivati segnali confortanti per una soluzione rapida della situazione. L'Economist solo qualche giorno fa aveva avvisato il premier che la prossima tessera che rischia di cadere in Europa è proprio quella dell'Italia esposta con i problemi degli istituti di credito a pericolose speculazioni che potrebbero aggravare ulteriormente la crisi. Renzi per il momento resta alla finestra. La sensazione è che il premier sia ormai alla frutta e che provi ad alzare la voce solo per effetto scenico più che per una reale strategia di leadership. Dentro il Pd in tanti cominciano a mettere i piedi fuori dalla barca renziana e pian piano il premier resterà solo al timone prima di affondare.
FORSE SI E' INCEPPATO IL SUO LANCIAFIAMME'?????
La calda estate di Renzi
Il premier in difficoltà su tutti i fronti. Italicum, referendum, banche e fronde nel Pd: tutte le spine nel fianco di Renzi
Claudio Torre - Sab, 09/07/2016 - 21:40
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Quella che si sta per aprire per Renzi è forse l'estate più calda da quando è a palazzo Chigi.
Troppi i nervi scoperti del governo: le banche, il referendum, l'italicum e le fronde da affrontare ormai ogni giorno. Il premier non ha più la stessa libertà di manovra che aveva un anno fa. È stretto nella morsa del suo stesso partito che ormai delle indicazioni del premier-segretario fa a meno e che di fatto ormai viaggia per conto suo guidato in silenzio dalla "Ditta". Mai nessuno, prima di questa estate aveva messo in dubbio il doppio incarico da segretario e da premier dell'ex sindaco di Firenze. Adesso Renzi viene vissuto da buona parte del Pd come una presenza ingombrante che fa perdere consensi. E così già alla direzione di qualche giorno fa, la minoranza dem ha fatto capire chiaramente di essersi posizionata sul fronte del no e dunque in aperta opposzione col premier sul voto di autunno. Ma a far tremare Renzi è di certo la posizione dei suoi parlamentari su un altro fronte caldissimo, quello dell'Italicum.
Un sondaggio del Corriere della Sera sui parlamentari dem fotografa bene la situazione: su 181 onorevoli che hanno risposto, il 62% chiede un nuovo sistema di voto o di modificare quello attuale. il messaggio è chiaro, l'Italicum va cambiato. Fra i deputati interpellati, solo 68 non hanno dubbi: "L’Italicum non si tocca. I motivi per cui l’abbiamo votato non cambiano. Sarebbe un segnale di cedimento nei confronti del nostro elettorato". E così Renzi è stato costretto ad una timida retromarcia. Durante il vertice Nato ha lasciato intendere che nel caso in cui in Parlamento si trovasse una maggioranza disposta a cambiare strada sull'Italicum, allora le porte per le modifiche si spalancherebbero. Un messaggio che ha subito mosso la fronda della "Ditta" che con Cuperlo fa sapere di "aver appreso in modo positivo il fatto che il premier restituisca al Parlamento l'opportunità di poter modificare la legge elettorale". Ed è su questa partita che Renzi si gioca la sua estate. Ma c'è un altro fronte che lo preoccupa, ed è quello del sistema bancario. Le banche italiane, una su tutte Mps, sono in prfonda crisi e dall'europa per il momento non sono arrivati segnali confortanti per una soluzione rapida della situazione. L'Economist solo qualche giorno fa aveva avvisato il premier che la prossima tessera che rischia di cadere in Europa è proprio quella dell'Italia esposta con i problemi degli istituti di credito a pericolose speculazioni che potrebbero aggravare ulteriormente la crisi. Renzi per il momento resta alla finestra. La sensazione è che il premier sia ormai alla frutta e che provi ad alzare la voce solo per effetto scenico più che per una reale strategia di leadership. Dentro il Pd in tanti cominciano a mettere i piedi fuori dalla barca renziana e pian piano il premier resterà solo al timone prima di affondare.
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Re: Renzi
Renzi verso il game over
Dalle primarie al governo fino al successo alle Europee, il leader Pd si accorge che il vento cambia e va tutto a picco
Davide Giacalone - Dom, 10/07/2016 - 08:04
commenta
Da Verdi a Chopin. Dalla marcia trionfale alla funebre. Com'è successo? E come possiamo evitare il lutto collettivo? La marcia di Matteo Renzi verso la presa del governo era stata irresistibile.
Partì con una sconfitta, giacché il designato fu Pier Luigi Bersani, che non ci arrivò mai. Poi la vittoria nel partito, la defenestrazione di Letta, la presa del palazzo e le elezioni europee, per compensare la mancata legittimazione elettorale, che sì non è prevista dalla Costituzione, ma, insomma, non averla non è una bella cosa. Quindi la riforma costituzionale, con il passaggio di un testo che, in un frangente diverso, gli stessi che l'hanno votato l'avrebbero considerato uno scherzo. Di cattivo gusto. Infine il referendum, il coronamento, l'apoteosi. A seguire il trionfo elettorale.
Roba da coro verdiano, da incedere aidiano, da marcia nel sole splendente. Ma Chopin è magistrale nel ramo notturno, sembra gestibile, ma è travolgente. La colpa non è solo di Renzi. Ha personalizzato il referendum, certo, ma, se è per questo, ha personalizzato tutto. Ci manca poco che sia suo il merito dell'estate sopraggiunta. Poi anche il ministro Boschi ci ha tenuto a dire: vado via pure io, se perdiamo il referendum. Che son dispiaceri, ma anche tentazioni.
Sei mesi fa consideravo disperata la battaglia referendaria, persa in partenza. La propaganda a tre palle un soldo avrebbe vinto, a colpi di: meno politica, meno politici, meno Parlamento. Poi i giovani condottieri ci hanno messo del loro, e il vento è cambiato. Ma, attenzione, capita anche perché le cose vanno male. La ripresa è illusoria. Non solo cresciamo la metà della media europea, ma poco più di quel che è indotto dalle scelte della Banca centrale europea.
L'occupazione seguirà la ripresa, che non c'è ancora. Il Jobs Act è una buona riforma, ma serve a nulla se non c'è vera domanda di lavoro. I bonus aiutano i risultati elettorali, ma non i consumi, anche perché se ne vanno in aumenti delle tasse e delle tariffe amministrate (luce, acqua, gas, nettezza urbana, etc.) che crescono molto più dell'inflazione (che non c'è). Butta male, insomma.
Per Renzi la Brexit è stata una fortuna, che di suo è una follia, ma ti voglio vedere, dopo questa roba, a negare all'Italia un punticino più di Pil in deficit, per convincere gli elettori.
Ma prima è arrivato il problema delle banche. Le deroghe non possono essere infinite, i soldi non lo sono di certo.
Così, mentre Chopin avanza, la data del referendum, che si voleva immediata, s'allontana e la Corte costituzionale, vista prima come una iattura, forse aiuterà a ridiscutere una legge elettorale che somiglia a una lotteria. Per giunta con le Amministrative lì a dire che la riffa si può perderla. Eccome. Così come un aereo non ha la retromarcia, il renzismo non è adatto a mediare. O vince o cade.
Già, ma noi, pubblico pagante, perché dovremmo rassegnarci al lutto? C'è una via d'uscita? C'è: a) il referendum diventa i referendum, perché è stato un abominio usare l'articolo 138 della Costituzione per riformarla in modo scombiccherato e disorganico, sarebbe ancor peggio proporre il pasticcio agli elettori, quindi meglio più quesiti, con il che cade la chiamata a sopprimere o glorificare una sola persona; b) la Corte Costituzionale provvede alle condizioni per ridiscutere la legge elettorale; c) nel frattempo chi ha ancora una testa, e la tiene dalle parti delle spalle, s'accorge che non solo all'Europa, ma neanche ai mercati e alla gente interessa un fico secco di tutta questa roba, sicché il Nazareno, in tutti i sensi inteso, lo si cerca sul terreno economico. Il solo veramente decisivo.
Twitter:@DavideGiac
Dalle primarie al governo fino al successo alle Europee, il leader Pd si accorge che il vento cambia e va tutto a picco
Davide Giacalone - Dom, 10/07/2016 - 08:04
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Da Verdi a Chopin. Dalla marcia trionfale alla funebre. Com'è successo? E come possiamo evitare il lutto collettivo? La marcia di Matteo Renzi verso la presa del governo era stata irresistibile.
Partì con una sconfitta, giacché il designato fu Pier Luigi Bersani, che non ci arrivò mai. Poi la vittoria nel partito, la defenestrazione di Letta, la presa del palazzo e le elezioni europee, per compensare la mancata legittimazione elettorale, che sì non è prevista dalla Costituzione, ma, insomma, non averla non è una bella cosa. Quindi la riforma costituzionale, con il passaggio di un testo che, in un frangente diverso, gli stessi che l'hanno votato l'avrebbero considerato uno scherzo. Di cattivo gusto. Infine il referendum, il coronamento, l'apoteosi. A seguire il trionfo elettorale.
Roba da coro verdiano, da incedere aidiano, da marcia nel sole splendente. Ma Chopin è magistrale nel ramo notturno, sembra gestibile, ma è travolgente. La colpa non è solo di Renzi. Ha personalizzato il referendum, certo, ma, se è per questo, ha personalizzato tutto. Ci manca poco che sia suo il merito dell'estate sopraggiunta. Poi anche il ministro Boschi ci ha tenuto a dire: vado via pure io, se perdiamo il referendum. Che son dispiaceri, ma anche tentazioni.
Sei mesi fa consideravo disperata la battaglia referendaria, persa in partenza. La propaganda a tre palle un soldo avrebbe vinto, a colpi di: meno politica, meno politici, meno Parlamento. Poi i giovani condottieri ci hanno messo del loro, e il vento è cambiato. Ma, attenzione, capita anche perché le cose vanno male. La ripresa è illusoria. Non solo cresciamo la metà della media europea, ma poco più di quel che è indotto dalle scelte della Banca centrale europea.
L'occupazione seguirà la ripresa, che non c'è ancora. Il Jobs Act è una buona riforma, ma serve a nulla se non c'è vera domanda di lavoro. I bonus aiutano i risultati elettorali, ma non i consumi, anche perché se ne vanno in aumenti delle tasse e delle tariffe amministrate (luce, acqua, gas, nettezza urbana, etc.) che crescono molto più dell'inflazione (che non c'è). Butta male, insomma.
Per Renzi la Brexit è stata una fortuna, che di suo è una follia, ma ti voglio vedere, dopo questa roba, a negare all'Italia un punticino più di Pil in deficit, per convincere gli elettori.
Ma prima è arrivato il problema delle banche. Le deroghe non possono essere infinite, i soldi non lo sono di certo.
Così, mentre Chopin avanza, la data del referendum, che si voleva immediata, s'allontana e la Corte costituzionale, vista prima come una iattura, forse aiuterà a ridiscutere una legge elettorale che somiglia a una lotteria. Per giunta con le Amministrative lì a dire che la riffa si può perderla. Eccome. Così come un aereo non ha la retromarcia, il renzismo non è adatto a mediare. O vince o cade.
Già, ma noi, pubblico pagante, perché dovremmo rassegnarci al lutto? C'è una via d'uscita? C'è: a) il referendum diventa i referendum, perché è stato un abominio usare l'articolo 138 della Costituzione per riformarla in modo scombiccherato e disorganico, sarebbe ancor peggio proporre il pasticcio agli elettori, quindi meglio più quesiti, con il che cade la chiamata a sopprimere o glorificare una sola persona; b) la Corte Costituzionale provvede alle condizioni per ridiscutere la legge elettorale; c) nel frattempo chi ha ancora una testa, e la tiene dalle parti delle spalle, s'accorge che non solo all'Europa, ma neanche ai mercati e alla gente interessa un fico secco di tutta questa roba, sicché il Nazareno, in tutti i sensi inteso, lo si cerca sul terreno economico. Il solo veramente decisivo.
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Re: Renzi
"Non c'è problema sulle banche". Renzi smentito dai numeri
Per Renzi non si tratta di emergenza, ma sicuramente le banche italiane hanno problemi
Luca Romano - Dom, 10/07/2016 - 09:51
commenta
Sul sistema bancario "la mia posizione è uguale a quella di Padoan e del governatore Visco, non ho nulla da aggiungere.
Non c'è un problema italiano. C'è qualche singola situazione aperta per mille motivi. Queste situazioni vengono seguite da un gioco di squadra del Paese che si preoccupa di risolvere eventuali problemi prima che accadano". Così Matteo Renzi riferendosi al dialogo in corso con i leader europei sulla sofferenza del sistema bancario sui mercati dopo Brexit. "L'obiettivo è evitare problemi agli italiani e ai correntisti. C'è il pieno supporto degli altri partner europei, ne ho parlato anche con Juncker, l'Italia non è sotto osservazione".
Sarà, eppure non sarà una emergenza ma di sicuramente le banche italiane hanno problemi. Infatti, come spiega La Stampa, "la montagna di sofferenze che grava sui conti delle nostre banche riguarda innanzitutto i big del settore. Infatti sui 12 principali gruppi creditizi italiani pesa circa il 40% dei 360 miliardi di crediti deteriorati e ben il 75% delle sofferenze nette (65,9 miliardi su 87). Su un totale di 1305 miliardi di euro di crediti netti in essere al 31 marzo scorso, rivela uno studio della Uilca, la federazione dei lavoratori bancari della Uil, i crediti deteriorati delle prime 12 banche italiane, dalle sofferenze sino ai finanziamenti scaduti, ammontano 143,9 miliardi (11,03% del totale). La metà di questa cifra (72,7 miliardi) fa capo ai due gruppi maggiori, Intesa e Unicredit. Ma mentre queste due banche, grazie ad un maggior equilibrio del rischio sia a livello di settori che di Paesi, dovuto alle loro maggiori dimensioni, presentano una esposizione sotto la media (rispettivamente 9,2 e 7,9%), tutte le altre 10 insieme generano l’altra metà delle crediti deteriorati (che incidono per il 15,8%) pur erogando la metà del credito delle prime due (461,2 miliardi)".
Entrando più nel dettaglio, sono cinque le banche che versano in gravi condizioni finanziarie: Mps, Veneto Banca, Banca Carige, Credito Valtellinese e Banco Popolare (anche se quest'ultima con la fusione con Bpm si è messa al riparo).
Per Renzi non si tratta di emergenza, ma sicuramente le banche italiane hanno problemi
Luca Romano - Dom, 10/07/2016 - 09:51
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Sul sistema bancario "la mia posizione è uguale a quella di Padoan e del governatore Visco, non ho nulla da aggiungere.
Non c'è un problema italiano. C'è qualche singola situazione aperta per mille motivi. Queste situazioni vengono seguite da un gioco di squadra del Paese che si preoccupa di risolvere eventuali problemi prima che accadano". Così Matteo Renzi riferendosi al dialogo in corso con i leader europei sulla sofferenza del sistema bancario sui mercati dopo Brexit. "L'obiettivo è evitare problemi agli italiani e ai correntisti. C'è il pieno supporto degli altri partner europei, ne ho parlato anche con Juncker, l'Italia non è sotto osservazione".
Sarà, eppure non sarà una emergenza ma di sicuramente le banche italiane hanno problemi. Infatti, come spiega La Stampa, "la montagna di sofferenze che grava sui conti delle nostre banche riguarda innanzitutto i big del settore. Infatti sui 12 principali gruppi creditizi italiani pesa circa il 40% dei 360 miliardi di crediti deteriorati e ben il 75% delle sofferenze nette (65,9 miliardi su 87). Su un totale di 1305 miliardi di euro di crediti netti in essere al 31 marzo scorso, rivela uno studio della Uilca, la federazione dei lavoratori bancari della Uil, i crediti deteriorati delle prime 12 banche italiane, dalle sofferenze sino ai finanziamenti scaduti, ammontano 143,9 miliardi (11,03% del totale). La metà di questa cifra (72,7 miliardi) fa capo ai due gruppi maggiori, Intesa e Unicredit. Ma mentre queste due banche, grazie ad un maggior equilibrio del rischio sia a livello di settori che di Paesi, dovuto alle loro maggiori dimensioni, presentano una esposizione sotto la media (rispettivamente 9,2 e 7,9%), tutte le altre 10 insieme generano l’altra metà delle crediti deteriorati (che incidono per il 15,8%) pur erogando la metà del credito delle prime due (461,2 miliardi)".
Entrando più nel dettaglio, sono cinque le banche che versano in gravi condizioni finanziarie: Mps, Veneto Banca, Banca Carige, Credito Valtellinese e Banco Popolare (anche se quest'ultima con la fusione con Bpm si è messa al riparo).
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Re: Renzi
RIGORE E BUON SENSOIl problema numero
uno è Mps. Troppo importante per fallire
Credito, governo,
Ue. Ecco cosa c’è
in palio a Siena
La bomba l’ha innescata
la pubblicazione, lunedì
scorso, di una lettera
riservata in cui la Vigilanza
della Banca centrale europea
chiedeva al Monte dei Paschi
di smaltire altri 10 miliardi di
crediti inesigibili entro tre
anni. Una richiesta in grado di
far andare gambe all’aria l’istituto
senese, già traballante
proprio per l’enorme mole di
sofferenze in bilancio, e in
preoccupata attesa della sentenza
della Vigilanza sugli
stress test, il certificato sulla
solidità patrimoniale atteso
per il 29 luglio. Risultato: panico
in Borsa, ondata di vendite
su tutti i titoli bancari, timori
di un dissesti finanziario
in grande stile.
L’AZIONE MPS che già aveva
perso tre quarti del suo valore
da gennaio, lasciava sul terreno
un altro 25% in una settimana.
Lo spettro del bail-in, il
salvataggio a spese dei risparmiatori,
che già si aggirava in
Italia dalla fine dell’an n o
scorso, da quando è stato applicato
alle banche di Etrurua,
Ferrara, Chieti e Marche, è diventato
d’un tratto per il
Monte dei Paschi l’unica realtà
possibile nel rispetto delle
norme europee. Che dicono,
in sostanza, questo: lo stato
dovrebbe stare fuori dai salvataggi,
e se ci entra lo può fare
solo dopo che sono stati coinvolti
azionisti e obbligazionisti
subordinati. È evidente
che dopo la baraonda seguita
al bail-in delle banche locali,
quattro gatti e quattro soldi se
confrontate al Monte dei Paschi,
Matteo Renzi non si può
permettere un altro disastro a
carico dei risparmiatori, proprio
nella sua Toscana e proprio
proprio
a ridosso del referendum
costituzionale. Il governo si è
quindi imbarcato in un braccio
di ferro con le autorità Ue,
cercando un compromesso
che salvi i risparmiatori che
hanno comprato bond subordinati
collocati allegramente
allo sportello negli anni della
finanza facile. Un alternarsi di
richieste di flessibilità da una
parte e di dichiarazioni intransigenti
dall’altra, con in
prima fila il presidente
dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloe
e la commissaria alla
Concorrenza Marghrete Vestager.
Con qualche appoggio
importante per l’Italia, come
quelli del Fondo monetario
internazionale. Un’Europa
irrigidita anche per il fatto che
la Commissione a fine giugno
già aveva dato all’Italia il via
libera per una garanzia pubblica,
da 150 miliardi, per sostenere
il credito, garanzia
che però a Mps ora non serve.
Ma un collasso del sistema finanziario
italiano non lo vuole
nessuno, e proprio il rischio
di un crollo della fiducia nelle
banche in caso di un bail-in
che punisca i rispamiatori, è
l’argomento su cui ha puntato
il governo.
Il fabbisogno patrimoniale
per mettere in sicurezza ora
Mps è stimato in due - tre miliardi.
E col passare dei giorni
ha cominciato a profilarsi la
possibile soluzione: una ricapitalizzazione
con l’interven -
to indiretto dello stato. Si tratta
di aumentare la dotazione
finanziaria del Fondo Atlante,
ibrido privato-pubblico
(c’è dentro la Cassa depositi e
prestiti), già intervenuto in
soccorso di due banche venete,
in modo da permettergli di
acquistare i quasi 10 miliardi
di sofferenze indicati dalla Vigilanza
Bce. Mossa che permetterebbe
alla banca senese
di avviare una ricapitalizzazione,
con la garanzia pubblica,
e magari trovare sul mercato
un compratore. Sempre
che l’Europa infine desista dal
pretendere di coinvolgere gli
obbligazionsti subordinati.
M.MAR.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Da il Fatto quotidiano del 10/07/2016
uno è Mps. Troppo importante per fallire
Credito, governo,
Ue. Ecco cosa c’è
in palio a Siena
La bomba l’ha innescata
la pubblicazione, lunedì
scorso, di una lettera
riservata in cui la Vigilanza
della Banca centrale europea
chiedeva al Monte dei Paschi
di smaltire altri 10 miliardi di
crediti inesigibili entro tre
anni. Una richiesta in grado di
far andare gambe all’aria l’istituto
senese, già traballante
proprio per l’enorme mole di
sofferenze in bilancio, e in
preoccupata attesa della sentenza
della Vigilanza sugli
stress test, il certificato sulla
solidità patrimoniale atteso
per il 29 luglio. Risultato: panico
in Borsa, ondata di vendite
su tutti i titoli bancari, timori
di un dissesti finanziario
in grande stile.
L’AZIONE MPS che già aveva
perso tre quarti del suo valore
da gennaio, lasciava sul terreno
un altro 25% in una settimana.
Lo spettro del bail-in, il
salvataggio a spese dei risparmiatori,
che già si aggirava in
Italia dalla fine dell’an n o
scorso, da quando è stato applicato
alle banche di Etrurua,
Ferrara, Chieti e Marche, è diventato
d’un tratto per il
Monte dei Paschi l’unica realtà
possibile nel rispetto delle
norme europee. Che dicono,
in sostanza, questo: lo stato
dovrebbe stare fuori dai salvataggi,
e se ci entra lo può fare
solo dopo che sono stati coinvolti
azionisti e obbligazionisti
subordinati. È evidente
che dopo la baraonda seguita
al bail-in delle banche locali,
quattro gatti e quattro soldi se
confrontate al Monte dei Paschi,
Matteo Renzi non si può
permettere un altro disastro a
carico dei risparmiatori, proprio
nella sua Toscana e proprio
proprio
a ridosso del referendum
costituzionale. Il governo si è
quindi imbarcato in un braccio
di ferro con le autorità Ue,
cercando un compromesso
che salvi i risparmiatori che
hanno comprato bond subordinati
collocati allegramente
allo sportello negli anni della
finanza facile. Un alternarsi di
richieste di flessibilità da una
parte e di dichiarazioni intransigenti
dall’altra, con in
prima fila il presidente
dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloe
e la commissaria alla
Concorrenza Marghrete Vestager.
Con qualche appoggio
importante per l’Italia, come
quelli del Fondo monetario
internazionale. Un’Europa
irrigidita anche per il fatto che
la Commissione a fine giugno
già aveva dato all’Italia il via
libera per una garanzia pubblica,
da 150 miliardi, per sostenere
il credito, garanzia
che però a Mps ora non serve.
Ma un collasso del sistema finanziario
italiano non lo vuole
nessuno, e proprio il rischio
di un crollo della fiducia nelle
banche in caso di un bail-in
che punisca i rispamiatori, è
l’argomento su cui ha puntato
il governo.
Il fabbisogno patrimoniale
per mettere in sicurezza ora
Mps è stimato in due - tre miliardi.
E col passare dei giorni
ha cominciato a profilarsi la
possibile soluzione: una ricapitalizzazione
con l’interven -
to indiretto dello stato. Si tratta
di aumentare la dotazione
finanziaria del Fondo Atlante,
ibrido privato-pubblico
(c’è dentro la Cassa depositi e
prestiti), già intervenuto in
soccorso di due banche venete,
in modo da permettergli di
acquistare i quasi 10 miliardi
di sofferenze indicati dalla Vigilanza
Bce. Mossa che permetterebbe
alla banca senese
di avviare una ricapitalizzazione,
con la garanzia pubblica,
e magari trovare sul mercato
un compratore. Sempre
che l’Europa infine desista dal
pretendere di coinvolgere gli
obbligazionsti subordinati.
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Da il Fatto quotidiano del 10/07/2016
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Re: Renzi
POLITICA
2017, un Renzi-peronismo in gestazione?
Politica
di Pierfranco Pellizzetti | 10 luglio 2016
COMMENTI (32)
Profilo blogger
Pierfranco Pellizzetti
Saggista
Post | Articoli
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Nell’anno del Signore 2017 i conservatori erano ormai in rotta.
Sottoposto al bombardamento quotidiano di un inesauribile campionario di paure, il popolo italico rinsavì, assicurando la vittoria del “sì” al referendum costituzionale dell’ottobre precedente.
Certo la disinteressata e assolutamente attendibile informazione che l’esito contrario avrebbe determinato la perdita di mezzo punto del Pil sconvolse torme di giovani ottimisti, in fervida attesa del futuro “beautiful” assicurato dal Jobs Act.
I siderurgici dell’Ilva e della Thyssen vennero convinti dal parere pro veritate del neo presidente di Confindustria Vincenzo Boccia (erede di quella veneranda tradizione di pazzarielli napoletani installati ai vertici di viale dell’Astronomia risalente al tecno-padre Antonio d’Amato, memorabile per la sua battaglia a fianco del fu Cavaliere Berlusconi nella lotta contro il pernicioso articolo 18), quando il noto industriale grafico, invecchiato precocemente percorrendo i corridoi associativi in penombra (da cui il colorito tipico delle mozzarelle della natia Salerno), li ammonì del pericolo che la deprecabile vittoria del “no” avrebbe inoculato il fenomeno della disoccupazione; inaudito prima ancora che sconosciuto dalle nostre parti.
I correntisti di Banca Etruria furono indirizzati verso il corretto giudizio dalla presa di posizione di una persona di cui potevano fidarsi ciecamente come Mario Draghi, quando il governatore di Bce fece filtrare il suo sommesso parere che l’arresto del rinnovamento renziano poteva destabilizzare il sistema nazionale del credito, oggi fermamente dalla parte dei clienti.
Infine fu decisiva la presa di posizione di un intemerato difensore della democrazia contro qualsivoglia deriva oligarchica – quale il presidente emerito Giorgio Napolitano – preoccupato che si potesse perdere la tanto attesa occasione di liberare il popolo dalla fastidiosa incombenza di giudicare chi lo governa e liberare il ponte di comando dai fastidiosi inciampi creati da quello sfessato del Montesquieu.
Fu così che il premier golden boy Matteo Renzi poté spazzare via in un sol colpo tutti gli ostacoli alla traduzione “in fare” degli insegnamenti di un saggio mentore aretino, più noto come “Maestro Venerabile” e amichevolmente soprannominato “Licio P2”.
Il successo aumentò la lena.
Si pensava inizialmente di estendere all’intera penisola il modello Granducato di Toscana (definito dai consulenti d’organizzazione “top-down”.
Ossia, in una lettura papalina, “io so’ io e vui nun siete un c.”).
Ma poi si preferì pensare più in grande.
Nel revival latinoamericano in corso, il lider maximo si fece confezionare dallo stilista Cavalli una divisa bianca da caudillo con bottoni dorati e iniziò a fregiarsi dell’appellativo di Peron redivivo.
Sicché Juan Domingo Matteo, sulla scia del suo predecessore australe (che imbarcava oro nello yacht ormeggiato nel Rio de la Plata), fece riempire dal fido Carrai le stive dell’aereo presidenziale di certificati autorizzativi l’insediamento di outlet in tutte le zone sismiche nazionali e la trivellazione perfino delle spiagge di balneazione.
Per dare un sacrosanto esempio si procedette a garrotare in piazza Campo dei Fiori il noto sovversivo Massimo d’Alema.
E testimoni oculari attestano che, anche a esecuzione avvenuta, il pervicace continuò a rivolgere smorfie e linguacce verso Palazzo Chigi.
Intanto i professori Alessandro Pace, Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky venivano confinati in un’isoletta tirrenica, tal Ventotene.
Maria Evita Boschi fu doverosamente santificata “madonna dei descamisados (e dei veri partigiani)”; ossia la protettrice delle masse adoranti di incapienti che continuavano ad ammassarsi nelle bidonville in crescita un po’ dappertutto nelle città italiane.
La cui gestione era stata affidata a esperti del settore, titolari di un prezioso know how affinato negli appalti capitolini e con cui il ministro Poletti intratteneva già da tempo rapporti conviviali di tipo informale.
2017, un Renzi-peronismo in gestazione?
Politica
di Pierfranco Pellizzetti | 10 luglio 2016
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Nell’anno del Signore 2017 i conservatori erano ormai in rotta.
Sottoposto al bombardamento quotidiano di un inesauribile campionario di paure, il popolo italico rinsavì, assicurando la vittoria del “sì” al referendum costituzionale dell’ottobre precedente.
Certo la disinteressata e assolutamente attendibile informazione che l’esito contrario avrebbe determinato la perdita di mezzo punto del Pil sconvolse torme di giovani ottimisti, in fervida attesa del futuro “beautiful” assicurato dal Jobs Act.
I siderurgici dell’Ilva e della Thyssen vennero convinti dal parere pro veritate del neo presidente di Confindustria Vincenzo Boccia (erede di quella veneranda tradizione di pazzarielli napoletani installati ai vertici di viale dell’Astronomia risalente al tecno-padre Antonio d’Amato, memorabile per la sua battaglia a fianco del fu Cavaliere Berlusconi nella lotta contro il pernicioso articolo 18), quando il noto industriale grafico, invecchiato precocemente percorrendo i corridoi associativi in penombra (da cui il colorito tipico delle mozzarelle della natia Salerno), li ammonì del pericolo che la deprecabile vittoria del “no” avrebbe inoculato il fenomeno della disoccupazione; inaudito prima ancora che sconosciuto dalle nostre parti.
I correntisti di Banca Etruria furono indirizzati verso il corretto giudizio dalla presa di posizione di una persona di cui potevano fidarsi ciecamente come Mario Draghi, quando il governatore di Bce fece filtrare il suo sommesso parere che l’arresto del rinnovamento renziano poteva destabilizzare il sistema nazionale del credito, oggi fermamente dalla parte dei clienti.
Infine fu decisiva la presa di posizione di un intemerato difensore della democrazia contro qualsivoglia deriva oligarchica – quale il presidente emerito Giorgio Napolitano – preoccupato che si potesse perdere la tanto attesa occasione di liberare il popolo dalla fastidiosa incombenza di giudicare chi lo governa e liberare il ponte di comando dai fastidiosi inciampi creati da quello sfessato del Montesquieu.
Fu così che il premier golden boy Matteo Renzi poté spazzare via in un sol colpo tutti gli ostacoli alla traduzione “in fare” degli insegnamenti di un saggio mentore aretino, più noto come “Maestro Venerabile” e amichevolmente soprannominato “Licio P2”.
Il successo aumentò la lena.
Si pensava inizialmente di estendere all’intera penisola il modello Granducato di Toscana (definito dai consulenti d’organizzazione “top-down”.
Ossia, in una lettura papalina, “io so’ io e vui nun siete un c.”).
Ma poi si preferì pensare più in grande.
Nel revival latinoamericano in corso, il lider maximo si fece confezionare dallo stilista Cavalli una divisa bianca da caudillo con bottoni dorati e iniziò a fregiarsi dell’appellativo di Peron redivivo.
Sicché Juan Domingo Matteo, sulla scia del suo predecessore australe (che imbarcava oro nello yacht ormeggiato nel Rio de la Plata), fece riempire dal fido Carrai le stive dell’aereo presidenziale di certificati autorizzativi l’insediamento di outlet in tutte le zone sismiche nazionali e la trivellazione perfino delle spiagge di balneazione.
Per dare un sacrosanto esempio si procedette a garrotare in piazza Campo dei Fiori il noto sovversivo Massimo d’Alema.
E testimoni oculari attestano che, anche a esecuzione avvenuta, il pervicace continuò a rivolgere smorfie e linguacce verso Palazzo Chigi.
Intanto i professori Alessandro Pace, Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky venivano confinati in un’isoletta tirrenica, tal Ventotene.
Maria Evita Boschi fu doverosamente santificata “madonna dei descamisados (e dei veri partigiani)”; ossia la protettrice delle masse adoranti di incapienti che continuavano ad ammassarsi nelle bidonville in crescita un po’ dappertutto nelle città italiane.
La cui gestione era stata affidata a esperti del settore, titolari di un prezioso know how affinato negli appalti capitolini e con cui il ministro Poletti intratteneva già da tempo rapporti conviviali di tipo informale.
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Re: Renzi
UN ITALIANO VERO
Renzi blinda la poltrona: referendum a novembre ma se perdo non lascio
Ora il premier non parla più di dimissioni e anticipa la data del voto: può essere il 6
Laura Cesaretti - Mar, 12/07/2016 - 08:30
commenta
Lo «spacchettamento» del referendum costituzionale in più quesiti? «Non sta in piedi». Matteo Renzi mette la definitiva pietra tombale sulla scombiccherata proposta (cucinata dai Radicali Italiani) di smembrare la riforma in vari capitoli sottoponendo ciascuno al Sì o No degli elettori.
Che la trovata non andasse da nessuna parte si era già capito da tempo, in verità, anche per le circostanziate perplessità mostrate dalla gran parte dei giuristi (e fatte trapelare dallo stesso presidente Mattarella), ma il mondo politico e i giornali ci si sono baloccati per qualche giorno. E lo stesso premier ha lasciato fare, nell'ambito della sua nuova strategia di comunicazione «soft»: farsi vedere aperto alle richieste, sia pur bislacche, per smorzare la polemica, e incanalare la discussione verso il merito della riforma, più lontano possibile dallo scontro.
Niente artifici tecnici per smorzare gli effetti del referendum o rinviarlo (come già accusavano le opposizioni), dunque. Anche se la data resta incerta: Renzi ieri, intervistato in diretta da Beppe Severgnini sul Corriere.it, ha ribadito che per lui l'ideale sarebbe ad ottobre, si può anche arrivare «al 6 novembre». Quanto all'esito, «non ho paura: votano i cittadini». Di più: il premier si dice convinto che, «anche se i parlamentari di Cinque Stelle voteranno No, anche per salvarsi la poltrona in Senato», per i loro elettori il discorso sia diverso: «Non credo - è suo il ragionamento - che gli elettori del M5S voteranno no alla riduzione del numero di parlamentari e al cambiamento: loro le poltrone le vogliono tagliare davvero». Su cosa accadrà se invece il referendum lo perdesse, «sul mio futuro non apro più bocca». Sull'Italicum ribadisce: «una legge elettorale c'è, e funziona: quando siamo arrivati noi non c'era nulla, perché il Porcellum era stato cancellato. Se poi il Parlamento è in grado di farne un'altra, si accomodi». Gli avvertimenti di Carlo De Benedetti, seguito a ruota da Eugenio Scalfari («Se non cambi l'Italicum votiamo no») non vengono apparentemente raccolti dal premier. Del resto ieri proprio Repubblica, in un sondaggio, dava i Sì in calo ma in testa. L'obiezione dei contrari all'Italicum («Al ballottaggio possono vincere Grillo») il premier la rintuzza così: «Alle elezioni possono vincere gli altri? Sì: si chiama democrazia».
Renzi però si guarda bene dal cercare la polemica frontale con gli avversari, grillini inclusi. Si limita, a domanda diretta, a rispondere di non credere che Luigi Di Maio sarà «il mio successore». E usa toni ecumenici con i neo-sindaci pentastellati, augurando loro «buon lavoro». Non infierisce neppure sui primi stentati passi di Virginia Raggi a Roma, anzi: «L'ho chiamata e le ho detto che il governo è pronto a darle una mano, prima delle divisioni di parte c'è l'Italia». Perché, insiste, il dibattito politico è inquinato da «troppo odio», e serve «un clima più civile: non si può pensare che gli altri partiti siano il male assoluto». Del resto, ricorda, «anche quando ero sindaco di Firenze venivo attaccato dal mio partito perché non parlavo male di Berlusconi». Anzi, racconta, «la risatina di Sarkozy e Merkel contro di lui mi fece male, perché giusto o sbagliato questo è il mio paese». Ora però, tiene a sottolineare ricordando le ultime immagine dei vertici europei che lo vedevano in cabina di regia con Francia e Germania, «non ci sono più due che ridono di noi: siamo in tre, e decidiamo insieme». L'unica perfidia, Renzi la riserva a Enrico Letta: «Sono andato a Palazzo Chigi perché il governo di prima non faceva più nulla. Se sono pentito dello stai sereno? No, ci credevo. Scriverò la ricostruzione di come andarono le cose: è arrivato il momento».
Renzi blinda la poltrona: referendum a novembre ma se perdo non lascio
Ora il premier non parla più di dimissioni e anticipa la data del voto: può essere il 6
Laura Cesaretti - Mar, 12/07/2016 - 08:30
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Lo «spacchettamento» del referendum costituzionale in più quesiti? «Non sta in piedi». Matteo Renzi mette la definitiva pietra tombale sulla scombiccherata proposta (cucinata dai Radicali Italiani) di smembrare la riforma in vari capitoli sottoponendo ciascuno al Sì o No degli elettori.
Che la trovata non andasse da nessuna parte si era già capito da tempo, in verità, anche per le circostanziate perplessità mostrate dalla gran parte dei giuristi (e fatte trapelare dallo stesso presidente Mattarella), ma il mondo politico e i giornali ci si sono baloccati per qualche giorno. E lo stesso premier ha lasciato fare, nell'ambito della sua nuova strategia di comunicazione «soft»: farsi vedere aperto alle richieste, sia pur bislacche, per smorzare la polemica, e incanalare la discussione verso il merito della riforma, più lontano possibile dallo scontro.
Niente artifici tecnici per smorzare gli effetti del referendum o rinviarlo (come già accusavano le opposizioni), dunque. Anche se la data resta incerta: Renzi ieri, intervistato in diretta da Beppe Severgnini sul Corriere.it, ha ribadito che per lui l'ideale sarebbe ad ottobre, si può anche arrivare «al 6 novembre». Quanto all'esito, «non ho paura: votano i cittadini». Di più: il premier si dice convinto che, «anche se i parlamentari di Cinque Stelle voteranno No, anche per salvarsi la poltrona in Senato», per i loro elettori il discorso sia diverso: «Non credo - è suo il ragionamento - che gli elettori del M5S voteranno no alla riduzione del numero di parlamentari e al cambiamento: loro le poltrone le vogliono tagliare davvero». Su cosa accadrà se invece il referendum lo perdesse, «sul mio futuro non apro più bocca». Sull'Italicum ribadisce: «una legge elettorale c'è, e funziona: quando siamo arrivati noi non c'era nulla, perché il Porcellum era stato cancellato. Se poi il Parlamento è in grado di farne un'altra, si accomodi». Gli avvertimenti di Carlo De Benedetti, seguito a ruota da Eugenio Scalfari («Se non cambi l'Italicum votiamo no») non vengono apparentemente raccolti dal premier. Del resto ieri proprio Repubblica, in un sondaggio, dava i Sì in calo ma in testa. L'obiezione dei contrari all'Italicum («Al ballottaggio possono vincere Grillo») il premier la rintuzza così: «Alle elezioni possono vincere gli altri? Sì: si chiama democrazia».
Renzi però si guarda bene dal cercare la polemica frontale con gli avversari, grillini inclusi. Si limita, a domanda diretta, a rispondere di non credere che Luigi Di Maio sarà «il mio successore». E usa toni ecumenici con i neo-sindaci pentastellati, augurando loro «buon lavoro». Non infierisce neppure sui primi stentati passi di Virginia Raggi a Roma, anzi: «L'ho chiamata e le ho detto che il governo è pronto a darle una mano, prima delle divisioni di parte c'è l'Italia». Perché, insiste, il dibattito politico è inquinato da «troppo odio», e serve «un clima più civile: non si può pensare che gli altri partiti siano il male assoluto». Del resto, ricorda, «anche quando ero sindaco di Firenze venivo attaccato dal mio partito perché non parlavo male di Berlusconi». Anzi, racconta, «la risatina di Sarkozy e Merkel contro di lui mi fece male, perché giusto o sbagliato questo è il mio paese». Ora però, tiene a sottolineare ricordando le ultime immagine dei vertici europei che lo vedevano in cabina di regia con Francia e Germania, «non ci sono più due che ridono di noi: siamo in tre, e decidiamo insieme». L'unica perfidia, Renzi la riserva a Enrico Letta: «Sono andato a Palazzo Chigi perché il governo di prima non faceva più nulla. Se sono pentito dello stai sereno? No, ci credevo. Scriverò la ricostruzione di come andarono le cose: è arrivato il momento».
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