La Terza Guerra Mondiale
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Re: La Terza Guerra Mondiale
LA CALDA ESTATE DEL 2016
CRONACA DI GIORNI DI GUERRA
LIBRE news
Colonnello: reclutano kamikaze che hanno motivo di odiarci
Scritto il 05/8/16 • nella Categoria: idee Condividi
«Il terrorismo negli ultimi 25 anni non ha fatto che aumentare. Avevamo 400 attentati all’anno nel 1999. Oggi siamo arrivati a quasi 15.000 e non ci siamo mai domandati la ragione di quest’incremento». Lo afferma il colonnello svizzero Jacques Baud, un esperto in sicurezza, autore del saggio “Terrorismo, menzogne politiche e strategie fatali dell’Occidente”. Al di là delle manipolazioni di potere che, di volta in volta configurano nuovi aspetti del “radicalismo” di matrice islamica, debitamente pilotato, sarebbe imperdonabile non tener conto del vasto e motivatissimo risentimento che in Medio Oriente si è accumulato contro l’egemonia imperiale occidentale. Un retroterra che rende facilissimo il reclutamento di giovani “radicalizzati”. Nell’ultimo quarto di secolo, gli interventi occidentali condotti in Medio Oriente erano privi di legittimità: «Ogni volta si è imbrogliato un po’», dice il colonnello Baud, intervistato da “Tv5 Monde”, citando la montatura delle “armi di distruzione di massa” attribuite a Saddam. «Ma in realtà, tutti gli altri conflitti che si sono susseguiti sono stati anche loro viziati da imbrogli e disinformazione».In verità, sostiene il colonnello nell’intervista (ripresa e tradotta da “Come Don Chisciotte”) non si sono affatto compresi i meccanismi che oggi conducono molti giovani emarginati, in Medio Oriente ma anche in Europa, a “radicalizzarsi”. «Si è parlato molto di “radicalismo”, della maniera nella quale la radicalizzazione si esercita, attraverso Internet o i social network. Ma si è assai poco riflettuto sulle ragioni, sulle motivazioni. E, quando si legge la bibliografia islamista – Daesh e non solo – si constata che la spiegazione, che è la stessa dalla fine degli anni Novanta, va ricercata nei nostri interventi in Medio Oriente». Secondo l’alto ufficiale elvetico, il terrorismo è (anche) «una maniera per suggerire ai nostri governi di smetterla di colpire, di bombardare e d’intervenire militarmente». Un paragone storico? Quello dei “bombardamenti strategici”, altamente terroristici, «che gli americani condussero contro la popolazione civile tedesca negli anni Quaranta per costringere la popolazione a ribellarsi ai suoi dirigenti. È un po’ ciò che accade oggi con lo Stato Islamico».Lo conferma un video-appello del cosiddetto Isis: “Dite ai vostri governi di smetterla di bombardarci”. Il video, dice Baud, cita l’esempio della Spagna, che – dopo gli attentati a Madrid dell’11 marzo 2004, alla vigilia delle elezioni – ritirò le proprie truppe dall’Iraq. Il fatto è che «è difficile, in Occidente, mettere in discussione le nostre politiche», ammette il colonnello, «in primis per ragioni ovvie: ci sono scadenze elettorali e, se si comincia a rimettere in discussione le scelte politiche, evidentemente si otterranno risultati che si rifletteranno nelle urne». In Europa, poi, «c’è una sorta di etnocentrismo che, in effetti, ci impedisce di riflettere in maniera critica su quanto facciamo, di vedere in maniera critica i risultati di quanto abbiamo fatto». Come ad esempio in Libia: abbiamo eliminato Gheddafi, che in ogni caso era il capo di un paese che nel 2010, «qualunque fosse la natura del regime», era, secondo le Nazioni Unite, «il paese africano con il più alto indice di sviluppo umano». Noi invece «abbiamo ridotto la Libia a un campo di battaglia per fazioni jihadiste senza fornire alcuna alternativa. Abbiamo bombardato, abbiamo distrutto e siamo ripartiti. Abbiamo fatto più o meno la stessa cosa in Iraq e in Afghanistan».Il nostro sistema politico mainstream «ha il vizio di far passare il jihadismo, o il terrorismo, come una fatalità», continua il colonnello. Abbiamo gestito male l’immigrazione, specie in paesi come Francia e Belgio? Senz’altro, «ma è comodo legare il terrorismo ai migranti». Il Mullah Omar, l’ex leader dei Talebani, considerava Bush «un regalo prezioso», capace cioè di rendere spaventosamente evidente l’abuso violento dell’Occidente contro gli islamici. Lo riteneva «il testimonial del nostro movimento nel mondo». E’ un aspetto che Jacques Baud aveva descritto nel libro precedente, “La guerra asimmetrica”: «La jihad è fondamentalmente una risposta. E questa risposta è alimentata dalle nostre azioni offensive». In altre parole: «A causa delle nostre azioni, alimentiamo costantemente la jihad, come conferma il Mullah Omar». Altra cosa è valutare quale disegno segreto vi sia a monte, ovviamente, da pare di chi – in Occidente – punta proprio sull’opzione-guerra per consolidare il proprio dominio. Ma è certo che, senza questa diffusa percezione di asimmetria e ingiustizia, una “creatura” come Abu Bakr Al-Baghdadi non sarebbe mai neanche potuta esistere.Complotti veri i solo complottismo? Il colonnello Baud resta prudente: non crede alla tesi fondamentale del cospirazionismo, secondo cui a dominare è «un’intelligenza superiore, nascosta, clandestina, che tira i fili dei complotti al fine di ottenere dei vantaggi strategici». E’ pià propenso a vedere «una serie di furbizie, di opportunismi politici a breve termine». Per esempio, l’11 Settembre. L’Fbi, dice l’ufficiale svizzero, sapeva perfettamente che Osama Bin Laden era estraneo all’attentato delle Torri Gemelle. Se l’ha trasformato in un caprio espiatorio era «per mostrare che, nonostante si fossero lasciati passare i terroristi, malgrado questi terroristi fossero passati attraverso le maglie della rete, si aveva comunque un’idea di chi l’avesse fatto». E questo, in una certa misura, «permetteva loro di salvare la faccia». Non mancano segnali in controtendenza, per fortuna: «Il Canada è un paese occidentale che ha deciso di fare un passo indietro». A febbraio, il nuovo premier Justin Trudeau ha dichiarato: «Le popolazioni terrorizzate dallo Stato Islamico non hanno bisogno della nostra vendetta, hanno bisogno del nostro aiuto». E ha deciso di ritirare il suo paese dalla coalizione che bombarda in Iraq e Siria. «Penso sia il risultato di un’analisi e ritengo che ci siano dei servizi di informazione che l’hanno guidato verso questa decisione», conclude Jacques Baud. «È una decisione saggia che dovrebbe farci riflettere».
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Colonnello: reclutano kamikaze che hanno motivo di odiarci
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«Il terrorismo negli ultimi 25 anni non ha fatto che aumentare. Avevamo 400 attentati all’anno nel 1999. Oggi siamo arrivati a quasi 15.000 e non ci siamo mai domandati la ragione di quest’incremento». Lo afferma il colonnello svizzero Jacques Baud, un esperto in sicurezza, autore del saggio “Terrorismo, menzogne politiche e strategie fatali dell’Occidente”. Al di là delle manipolazioni di potere che, di volta in volta configurano nuovi aspetti del “radicalismo” di matrice islamica, debitamente pilotato, sarebbe imperdonabile non tener conto del vasto e motivatissimo risentimento che in Medio Oriente si è accumulato contro l’egemonia imperiale occidentale. Un retroterra che rende facilissimo il reclutamento di giovani “radicalizzati”. Nell’ultimo quarto di secolo, gli interventi occidentali condotti in Medio Oriente erano privi di legittimità: «Ogni volta si è imbrogliato un po’», dice il colonnello Baud, intervistato da “Tv5 Monde”, citando la montatura delle “armi di distruzione di massa” attribuite a Saddam. «Ma in realtà, tutti gli altri conflitti che si sono susseguiti sono stati anche loro viziati da imbrogli e disinformazione».In verità, sostiene il colonnello nell’intervista (ripresa e tradotta da “Come Don Chisciotte”) non si sono affatto compresi i meccanismi che oggi conducono molti giovani emarginati, in Medio Oriente ma anche in Europa, a “radicalizzarsi”. «Si è parlato molto di “radicalismo”, della maniera nella quale la radicalizzazione si esercita, attraverso Internet o i social network. Ma si è assai poco riflettuto sulle ragioni, sulle motivazioni. E, quando si legge la bibliografia islamista – Daesh e non solo – si constata che la spiegazione, che è la stessa dalla fine degli anni Novanta, va ricercata nei nostri interventi in Medio Oriente». Secondo l’alto ufficiale elvetico, il terrorismo è (anche) «una maniera per suggerire ai nostri governi di smetterla di colpire, di bombardare e d’intervenire militarmente». Un paragone storico? Quello dei “bombardamenti strategici”, altamente terroristici, «che gli americani condussero contro la popolazione civile tedesca negli anni Quaranta per costringere la popolazione a ribellarsi ai suoi dirigenti. È un po’ ciò che accade oggi con lo Stato Islamico».Lo conferma un video-appello del cosiddetto Isis: “Dite ai vostri governi di smetterla di bombardarci”. Il video, dice Baud, cita l’esempio della Spagna, che – dopo gli attentati a Madrid dell’11 marzo 2004, alla vigilia delle elezioni – ritirò le proprie truppe dall’Iraq. Il fatto è che «è difficile, in Occidente, mettere in discussione le nostre politiche», ammette il colonnello, «in primis per ragioni ovvie: ci sono scadenze elettorali e, se si comincia a rimettere in discussione le scelte politiche, evidentemente si otterranno risultati che si rifletteranno nelle urne». In Europa, poi, «c’è una sorta di etnocentrismo che, in effetti, ci impedisce di riflettere in maniera critica su quanto facciamo, di vedere in maniera critica i risultati di quanto abbiamo fatto». Come ad esempio in Libia: abbiamo eliminato Gheddafi, che in ogni caso era il capo di un paese che nel 2010, «qualunque fosse la natura del regime», era, secondo le Nazioni Unite, «il paese africano con il più alto indice di sviluppo umano». Noi invece «abbiamo ridotto la Libia a un campo di battaglia per fazioni jihadiste senza fornire alcuna alternativa. Abbiamo bombardato, abbiamo distrutto e siamo ripartiti. Abbiamo fatto più o meno la stessa cosa in Iraq e in Afghanistan».Il nostro sistema politico mainstream «ha il vizio di far passare il jihadismo, o il terrorismo, come una fatalità», continua il colonnello. Abbiamo gestito male l’immigrazione, specie in paesi come Francia e Belgio? Senz’altro, «ma è comodo legare il terrorismo ai migranti». Il Mullah Omar, l’ex leader dei Talebani, considerava Bush «un regalo prezioso», capace cioè di rendere spaventosamente evidente l’abuso violento dell’Occidente contro gli islamici. Lo riteneva «il testimonial del nostro movimento nel mondo». E’ un aspetto che Jacques Baud aveva descritto nel libro precedente, “La guerra asimmetrica”: «La jihad è fondamentalmente una risposta. E questa risposta è alimentata dalle nostre azioni offensive». In altre parole: «A causa delle nostre azioni, alimentiamo costantemente la jihad, come conferma il Mullah Omar». Altra cosa è valutare quale disegno segreto vi sia a monte, ovviamente, da pare di chi – in Occidente – punta proprio sull’opzione-guerra per consolidare il proprio dominio. Ma è certo che, senza questa diffusa percezione di asimmetria e ingiustizia, una “creatura” come Abu Bakr Al-Baghdadi non sarebbe mai neanche potuta esistere.Complotti veri i solo complottismo? Il colonnello Baud resta prudente: non crede alla tesi fondamentale del cospirazionismo, secondo cui a dominare è «un’intelligenza superiore, nascosta, clandestina, che tira i fili dei complotti al fine di ottenere dei vantaggi strategici». E’ pià propenso a vedere «una serie di furbizie, di opportunismi politici a breve termine». Per esempio, l’11 Settembre. L’Fbi, dice l’ufficiale svizzero, sapeva perfettamente che Osama Bin Laden era estraneo all’attentato delle Torri Gemelle. Se l’ha trasformato in un caprio espiatorio era «per mostrare che, nonostante si fossero lasciati passare i terroristi, malgrado questi terroristi fossero passati attraverso le maglie della rete, si aveva comunque un’idea di chi l’avesse fatto». E questo, in una certa misura, «permetteva loro di salvare la faccia». Non mancano segnali in controtendenza, per fortuna: «Il Canada è un paese occidentale che ha deciso di fare un passo indietro». A febbraio, il nuovo premier Justin Trudeau ha dichiarato: «Le popolazioni terrorizzate dallo Stato Islamico non hanno bisogno della nostra vendetta, hanno bisogno del nostro aiuto». E ha deciso di ritirare il suo paese dalla coalizione che bombarda in Iraq e Siria. «Penso sia il risultato di un’analisi e ritengo che ci siano dei servizi di informazione che l’hanno guidato verso questa decisione», conclude Jacques Baud. «È una decisione saggia che dovrebbe farci riflettere».
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Re: La Terza Guerra Mondiale
LA CALDA ESTATE DEL 2016
CRONACA DI GIORNI DI GUERRA
I GIORNI DELLA FOLLIA.
Perché i falsi cattolici e i falsi cristiani sono in agitazione e tendono a far prevalere la loro concezione (falsamente religiosa) della guerra di religione, di predominio religioso, sulle altre religioni.
Non siamo più al Dio unico, ma al Dio dei cattolici e a Quello degli islamici.
Il Dio dei cattolici, buono. Il Dio degli islamici, cattivo. E viceversa.
Dal: Dizionario di Italiano
il Sabatini Coletti Dizionario della Lingua Italiana Codice da incorporare »
fondamentalista
[fon-da-men-ta-lì-sta] s.m. e f. (pl.m. -sti)
• • Religioso intransigente nell'esigere il più stretto rispetto dei fondamenti della propria fede SIN integralista
• • Anche in funzione di agg.
• • a. 1946
Oggi i fondamentalisti, integralisti, sono tutti quanti in agitazione.
Dalla quinta pagina di Libero Quotidiano di Venerdì. 5 agosto 2016:
QUALE ECUMENISMO Il Santo partì per la Terra
Santa per annunciare la vera fede ai saraceni e il sovrano
Islamico lo liberò per timore che convincesse i suoi.
terrore quotidiano
L’altro Francesco le crociate le faceva
Il poverello di Assisi, a cui il Papa ha reso omaggio, è stato uno dei più alti esempi di quel <<fondamentalismo>>
che Bergoglio rifiuta, seguiva il Vangelo alla lettera, senza interpretazioni e affrontò il Sultano per convertirlo.
ANTONIO SOCCI.
Con questi pazzi fondamentalisti in giro, il futuro dell’Italia e del resto del mondo è fortemente compromesso.
Dopo Bechis che ha scomunicato Papa Bergoglio, adesso ci si mette anche anche quel buontempone perditempo di Socci.
Questi loschi figuri, ai tempi di Gesù Cristo avrebbero, senza esitazione, volto il dito verso il basso per condannarlo a morte tramite crocifissione.
“Cristianesimo và de retro.” Anche si spacciano per ferventi cattolici che seguono il Vangelo alla lettera.
“Ma come li ho fatti male questi uomini, che dopo milioni di anni sono sempre gli stessi. In cosa ho sbagliato, si domanda costantemente il Padre Eterno?”
CRONACA DI GIORNI DI GUERRA
I GIORNI DELLA FOLLIA.
Perché i falsi cattolici e i falsi cristiani sono in agitazione e tendono a far prevalere la loro concezione (falsamente religiosa) della guerra di religione, di predominio religioso, sulle altre religioni.
Non siamo più al Dio unico, ma al Dio dei cattolici e a Quello degli islamici.
Il Dio dei cattolici, buono. Il Dio degli islamici, cattivo. E viceversa.
Dal: Dizionario di Italiano
il Sabatini Coletti Dizionario della Lingua Italiana Codice da incorporare »
fondamentalista
[fon-da-men-ta-lì-sta] s.m. e f. (pl.m. -sti)
• • Religioso intransigente nell'esigere il più stretto rispetto dei fondamenti della propria fede SIN integralista
• • Anche in funzione di agg.
• • a. 1946
Oggi i fondamentalisti, integralisti, sono tutti quanti in agitazione.
Dalla quinta pagina di Libero Quotidiano di Venerdì. 5 agosto 2016:
QUALE ECUMENISMO Il Santo partì per la Terra
Santa per annunciare la vera fede ai saraceni e il sovrano
Islamico lo liberò per timore che convincesse i suoi.
terrore quotidiano
L’altro Francesco le crociate le faceva
Il poverello di Assisi, a cui il Papa ha reso omaggio, è stato uno dei più alti esempi di quel <<fondamentalismo>>
che Bergoglio rifiuta, seguiva il Vangelo alla lettera, senza interpretazioni e affrontò il Sultano per convertirlo.
ANTONIO SOCCI.
Con questi pazzi fondamentalisti in giro, il futuro dell’Italia e del resto del mondo è fortemente compromesso.
Dopo Bechis che ha scomunicato Papa Bergoglio, adesso ci si mette anche anche quel buontempone perditempo di Socci.
Questi loschi figuri, ai tempi di Gesù Cristo avrebbero, senza esitazione, volto il dito verso il basso per condannarlo a morte tramite crocifissione.
“Cristianesimo và de retro.” Anche si spacciano per ferventi cattolici che seguono il Vangelo alla lettera.
“Ma come li ho fatti male questi uomini, che dopo milioni di anni sono sempre gli stessi. In cosa ho sbagliato, si domanda costantemente il Padre Eterno?”
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Re: La Terza Guerra Mondiale
LA CALDA ESTATE DEL 2016
CRONACA DI GIORNI DI GUERRA
LA DESTRA DEI FALSI CATTOLICI, NON MOLLA. DOPO AVER ACCETTATO OBTORTO COLLO, ISLAMICI E CATTOLICI INSIEME ALLA MESSA DI DOMENICA SCORSA, APPENA PUO' L'INTEGRALISMO NOSTRANO TORNA ALL'ATTACCO.
"Musulmani in chiesa non ce li voglio": linea dura del parroco
Un prete dell'isola dElba esulta su Facebook perché nessun musulmano si era presentato alla messa della domenica in segno di solidarietà
Luca Romano - Ven, 05/08/2016 - 14:13
commenta
I musulmani in chiesa proprio non li voleva. Così il parroco di Campo nell'Elba, don Mauro Renzi, ha deciso di prevenire visite a lui poco gradite e ha scelto di mettere le cose in chiaro.
All'indomani degli attentati di Rouen, la scorsa domenica alcuni fedeli dell'islam hanno preso parte alla Santa Messa in moltissime chiese della Cristianità. Un gesto di solidarietà con il popolo cattolico prostrato dalla barbara esecuzione di un prete in Normandia da parte di estremisti del jihad e più in generale dalla lunga serie di attentati che hanno insanguinato l'Europa negli ultimi mesi.
Un gesto che però non è stato apprezzato ugualmente dappertutto. Sicuramente non da don Renzi, che anzi si è detto lieto che domenica scorsa nessun musulmano si sia presentato alla porta della sua chiesa.
Non solo. Sul proprio profilo Facebook, racconta La Nazione, il religioso avrebbe consigliato un articolo del vaticanista Aldo Maria Valli, in cui si giudica "molto rispettosa, dignitosa e coerente la scelta dei musulmani che hanno deciso di non andare nelle chiese cattoliche per manifestare la loro contrarietà al terrorismo di matrice islamica e la loro solidarietà ai cristiani."
L'intervento però ha suscitato non poche polemiche fra i fedeli e dopo qualche giorno il post incriminato è stato fatto sparire. Intervistato dal sito locale quinewselba, però, don Renzi ribadisce: "La solidarietà è benvenuta, ma sia espressa altrove". In chiesa proprio no. È fuori luogo.
CRONACA DI GIORNI DI GUERRA
LA DESTRA DEI FALSI CATTOLICI, NON MOLLA. DOPO AVER ACCETTATO OBTORTO COLLO, ISLAMICI E CATTOLICI INSIEME ALLA MESSA DI DOMENICA SCORSA, APPENA PUO' L'INTEGRALISMO NOSTRANO TORNA ALL'ATTACCO.
"Musulmani in chiesa non ce li voglio": linea dura del parroco
Un prete dell'isola dElba esulta su Facebook perché nessun musulmano si era presentato alla messa della domenica in segno di solidarietà
Luca Romano - Ven, 05/08/2016 - 14:13
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I musulmani in chiesa proprio non li voleva. Così il parroco di Campo nell'Elba, don Mauro Renzi, ha deciso di prevenire visite a lui poco gradite e ha scelto di mettere le cose in chiaro.
All'indomani degli attentati di Rouen, la scorsa domenica alcuni fedeli dell'islam hanno preso parte alla Santa Messa in moltissime chiese della Cristianità. Un gesto di solidarietà con il popolo cattolico prostrato dalla barbara esecuzione di un prete in Normandia da parte di estremisti del jihad e più in generale dalla lunga serie di attentati che hanno insanguinato l'Europa negli ultimi mesi.
Un gesto che però non è stato apprezzato ugualmente dappertutto. Sicuramente non da don Renzi, che anzi si è detto lieto che domenica scorsa nessun musulmano si sia presentato alla porta della sua chiesa.
Non solo. Sul proprio profilo Facebook, racconta La Nazione, il religioso avrebbe consigliato un articolo del vaticanista Aldo Maria Valli, in cui si giudica "molto rispettosa, dignitosa e coerente la scelta dei musulmani che hanno deciso di non andare nelle chiese cattoliche per manifestare la loro contrarietà al terrorismo di matrice islamica e la loro solidarietà ai cristiani."
L'intervento però ha suscitato non poche polemiche fra i fedeli e dopo qualche giorno il post incriminato è stato fatto sparire. Intervistato dal sito locale quinewselba, però, don Renzi ribadisce: "La solidarietà è benvenuta, ma sia espressa altrove". In chiesa proprio no. È fuori luogo.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
LA CALDA ESTATE DEL 2016
CRONACA DI GIORNI DI GUERRA
5 AGO 2016 17:17
GUERRA ROBOTICA
- I MARINES TESTANO IL ROBOT MAARS: UN MINI CARRO ARMATO CON COMANDO A DISTANZA IN GRADO DI IMPUGNARE MITRAGLIATRICI, LANCIARE ESPLOSIVI CONTRO I NEMICI E TRASPORTARE I SOLDATI FERITI IN OSPEDALE (VIDEO)
VEDI FOTO E VIDEO:
http://www.dagospia.com/rubrica-29/cron ... 130115.htm
CRONACA DI GIORNI DI GUERRA
5 AGO 2016 17:17
GUERRA ROBOTICA
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VEDI FOTO E VIDEO:
http://www.dagospia.com/rubrica-29/cron ... 130115.htm
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Re: La Terza Guerra Mondiale
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CRONACA DI GIORNI DI GUERRA
LIBRE news
Terrore e media: è nato il nuovo business della strage
Scritto il 06/8/16 • nella Categoria: idee Condividi
«E’ nata una formidabile alleanza tra due conglomerati, quello della morte e quello dei media, che porta enormi profitti a entrambi».
Lo sostiene Mauro Baldrati su “Carmilla online”, dopo la proliferazione di “terroristi fai-da-te” e presunti “lupi solitari”, che uccidono in varie parti del mondo prima di essere uccisi o di farsi saltare in aria.
Pagine intere sui giornali, sterminate dirette televisive.
E immagini-fiume: guerriglieri che agitano Kalashnikov e coltelli «forse sognando di decapitare qualcuno perché, ci informano i soliti media, le liste d’attesa dell’Isis sono piene di aspiranti tagliatori di teste».
Frasi a effetto e video virali sui social, «come quel ragazzo di 17 anni che voleva “scannare” tutti i tedeschi, o l’omicida-suicida di Monaco, 18 anni, in cerca, pare, di riscatto e di gloria».
L’episodio di Nizza, scrive Baldrati, ha scatenato «le menti febbricitanti dei giornalisti, dei ragazzi solitari che sognano la catarsi finale, in un bagno di sangue, e dei manager della multinazionale della morte».
Secondo l’analista, «quella del terrore è un’impresa efficiente, un conglomerato che possiede tutti i moderni requisiti aziendali».
Un network che dispone di finanziatori, sponsor, «un’organizzazione che si decentra a seconda della necessità», contando anche su reclutatori e corsi di formazione debitamente finanziati.
«Se a qualcuno, sentendo parlare di “azienda” che produce terrore e morte, viene un sorriso amaro pensando a un macabro scherzo – scrive Baldrati – invitiamo a considerare la seguente, semplice riflessione: la morte – l’omicidio – non è un semplice incidente, ma è prevista nelle strategie aziendali.
Spesso come effetto collaterale, ma anche come elemento strutturale della produzione».
I manager di molte imprese «erano perfettamente a conoscenza, da decenni, degli effetti cancerogeni dell’amianto, eppure hanno continuato a sottoporre i lavoratori alle polveri, con premeditazione».
Risultato: «Ogni anno in Italia muoiono dalle 3 alle 4.000 persone per l’amianto». E la giustizia?
«Qualcuno, dopo lunghissimi processi, subisce una specie di condanna, che tuttavia non sconterà mai».
A questo si aggiunge la delocalizzazione di molte imprese italiane, che ha creato povertà e disperazione e inoltre «genera sfruttamento nei paesi ospiti, e morti: sul lavoro, per la prevenzione inesistente, per le condizioni, le malattie».
Tutti ricordiamo come a Dacca il crollo di un capannone ha causato la morte di 380 operai tessili, aggiunge Baldrati.
Poi ci sono i morti per incidenti sul lavoro, che in Italia sono circa tre al giorno.
«Ma il conglomerato della morte, come tutte le grandi aziende, ha un altro importante requisito: la pubblicità e il marketing».
Sfruttando Internet, veicola filmati autoprodotti che rappresentano decapitazioni, torture e «omelie deliranti dei predicatori della strage».
Tutte immagini che fanno il giro del mondo, «suscitando orrore, ma anche voyeurismo macabro, nonché una preziosa esaltazione di menti disturbate, giovani sparsi per il pianeta che accumulano rabbia, frustrazione, odio, per la loro condizione di emarginati in un mondo che considerano ostile».
Giovani che «cercano di raggiungere i centri di addestramento, per combattere come “soldati” di una guerra senza fine, alcuni diventando kamikaze ansiosi di assassinare decine di persone prima di farsi saltare in aria o di essere abbattuti».
Baldrati parla di una “sindrome di imitazione” che si traduce in una sorta di riscatto finale preparato con cura, con l’ausilio di psicologi-predicatori che usano la religione per introdurre nelle loro menti un pensiero unico che prevede lo sterminio di tutti gli “impuri”.
Secondo l’analista, è forse questo l’aspetto più interessante dell’attività del “conglomerato della morte”: la natura e l’intensità del marketing, che non ha eguali in nessuna parte del mondo.
«Ha una straordinaria potenza dirompente, e una diffusione capillare che tutti gli altri operatori ammirano.
E invidiano, perché ha una caratteristica unica: è completamente gratuito.
I titolari delle aziende – di qualsiasi produzione si occupino – spendono milioni di euro o di dollari per pagine pubblicitarie, o spot di pochi secondi.
Invece questi assassini specializzati hanno sei pagine di giornale e servizi di ore e ore sulle maggiori televisioni. Gratis. Sempre».
Così, gli aggressori proliferano.
«E i manager della strage sono pronti a farne “cosa loro”, capitalizzandone l’operato, anche se non li hanno mai sentiti nominare.
Generano comunque senso di minaccia, ansia, terrore, che è la materia prima della produzione aziendale.
Soprattutto è manovalanza gratuita, che deriva da un marketing gigantesco, persuasivo, altrettanto gratuito».
Il problema ovviamente non è la produzione di notizie, ma l’ossessiva spettacolarizzazione, «indugiando su dettagli che si giustificano solo con la propagazione di un gossip mortifero che ha l’unico fine di stimolare le menti già scosse dei lettori/spettatori».
Terrore e media: il nuovo business del “conglomerato della morte”.
CRONACA DI GIORNI DI GUERRA
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Terrore e media: è nato il nuovo business della strage
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«E’ nata una formidabile alleanza tra due conglomerati, quello della morte e quello dei media, che porta enormi profitti a entrambi».
Lo sostiene Mauro Baldrati su “Carmilla online”, dopo la proliferazione di “terroristi fai-da-te” e presunti “lupi solitari”, che uccidono in varie parti del mondo prima di essere uccisi o di farsi saltare in aria.
Pagine intere sui giornali, sterminate dirette televisive.
E immagini-fiume: guerriglieri che agitano Kalashnikov e coltelli «forse sognando di decapitare qualcuno perché, ci informano i soliti media, le liste d’attesa dell’Isis sono piene di aspiranti tagliatori di teste».
Frasi a effetto e video virali sui social, «come quel ragazzo di 17 anni che voleva “scannare” tutti i tedeschi, o l’omicida-suicida di Monaco, 18 anni, in cerca, pare, di riscatto e di gloria».
L’episodio di Nizza, scrive Baldrati, ha scatenato «le menti febbricitanti dei giornalisti, dei ragazzi solitari che sognano la catarsi finale, in un bagno di sangue, e dei manager della multinazionale della morte».
Secondo l’analista, «quella del terrore è un’impresa efficiente, un conglomerato che possiede tutti i moderni requisiti aziendali».
Un network che dispone di finanziatori, sponsor, «un’organizzazione che si decentra a seconda della necessità», contando anche su reclutatori e corsi di formazione debitamente finanziati.
«Se a qualcuno, sentendo parlare di “azienda” che produce terrore e morte, viene un sorriso amaro pensando a un macabro scherzo – scrive Baldrati – invitiamo a considerare la seguente, semplice riflessione: la morte – l’omicidio – non è un semplice incidente, ma è prevista nelle strategie aziendali.
Spesso come effetto collaterale, ma anche come elemento strutturale della produzione».
I manager di molte imprese «erano perfettamente a conoscenza, da decenni, degli effetti cancerogeni dell’amianto, eppure hanno continuato a sottoporre i lavoratori alle polveri, con premeditazione».
Risultato: «Ogni anno in Italia muoiono dalle 3 alle 4.000 persone per l’amianto». E la giustizia?
«Qualcuno, dopo lunghissimi processi, subisce una specie di condanna, che tuttavia non sconterà mai».
A questo si aggiunge la delocalizzazione di molte imprese italiane, che ha creato povertà e disperazione e inoltre «genera sfruttamento nei paesi ospiti, e morti: sul lavoro, per la prevenzione inesistente, per le condizioni, le malattie».
Tutti ricordiamo come a Dacca il crollo di un capannone ha causato la morte di 380 operai tessili, aggiunge Baldrati.
Poi ci sono i morti per incidenti sul lavoro, che in Italia sono circa tre al giorno.
«Ma il conglomerato della morte, come tutte le grandi aziende, ha un altro importante requisito: la pubblicità e il marketing».
Sfruttando Internet, veicola filmati autoprodotti che rappresentano decapitazioni, torture e «omelie deliranti dei predicatori della strage».
Tutte immagini che fanno il giro del mondo, «suscitando orrore, ma anche voyeurismo macabro, nonché una preziosa esaltazione di menti disturbate, giovani sparsi per il pianeta che accumulano rabbia, frustrazione, odio, per la loro condizione di emarginati in un mondo che considerano ostile».
Giovani che «cercano di raggiungere i centri di addestramento, per combattere come “soldati” di una guerra senza fine, alcuni diventando kamikaze ansiosi di assassinare decine di persone prima di farsi saltare in aria o di essere abbattuti».
Baldrati parla di una “sindrome di imitazione” che si traduce in una sorta di riscatto finale preparato con cura, con l’ausilio di psicologi-predicatori che usano la religione per introdurre nelle loro menti un pensiero unico che prevede lo sterminio di tutti gli “impuri”.
Secondo l’analista, è forse questo l’aspetto più interessante dell’attività del “conglomerato della morte”: la natura e l’intensità del marketing, che non ha eguali in nessuna parte del mondo.
«Ha una straordinaria potenza dirompente, e una diffusione capillare che tutti gli altri operatori ammirano.
E invidiano, perché ha una caratteristica unica: è completamente gratuito.
I titolari delle aziende – di qualsiasi produzione si occupino – spendono milioni di euro o di dollari per pagine pubblicitarie, o spot di pochi secondi.
Invece questi assassini specializzati hanno sei pagine di giornale e servizi di ore e ore sulle maggiori televisioni. Gratis. Sempre».
Così, gli aggressori proliferano.
«E i manager della strage sono pronti a farne “cosa loro”, capitalizzandone l’operato, anche se non li hanno mai sentiti nominare.
Generano comunque senso di minaccia, ansia, terrore, che è la materia prima della produzione aziendale.
Soprattutto è manovalanza gratuita, che deriva da un marketing gigantesco, persuasivo, altrettanto gratuito».
Il problema ovviamente non è la produzione di notizie, ma l’ossessiva spettacolarizzazione, «indugiando su dettagli che si giustificano solo con la propagazione di un gossip mortifero che ha l’unico fine di stimolare le menti già scosse dei lettori/spettatori».
Terrore e media: il nuovo business del “conglomerato della morte”.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
LA CALDA ESTATE DEL 2016
CRONACA DI GIORNI DI GUERRA
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/08 ... -gia-in-cr
Olimpiadi Rio 2016, altro che Giochi low cost: budget esploso e rischio di ricaduta zero sull’economia già in crisi
Approfondimenti
Alla fine la manifestazione costerà 4.6 miliardi di dollari, il 51 per cento in più di quanto il Brasile aveva preventivato nel 2009, quando vennero assegnati e il Paese viveva uno dei migliori momenti della sua storia. Mentre ora, tra scandali finanziari e impasse politica, i Giochi potrebbero trasformarsi in un clamoroso boomerang
di Andrea Tundo | 5 agosto 2016
COMMENTI (42)
Costeranno un terzo di quelle di Londra, eppure per il Brasile saranno tutto fuorché un affare. Come del resto qualsiasi edizione delle ultime trenta Olimpiadi, estive e invernali. I conti sono della Said Business School della Oxford University e sono stati recentemente pubblicati in un report che parla chiaro. Alla fine i Giochi hanno smosso 4.6 miliardi di dollari. Molto meno dei 15 spesi dal Regno Unito quattro anni fa, ma comunque il 51 per cento in più di quanto il Brasile aveva preventivato nel 2009, quando vennero assegnati e il Paese viveva uno dei migliori momenti della sua storia con il Pil che galoppava e uno sviluppo che sembrava non conoscere limiti. Mentre ora, tra scandali finanziari e una delle più grandi crisi politiche ed economiche dagli Anni Trenta, che coinvolge in particolare proprio lo stato di Rio de Janeiro, le Olimpiadi potrebbero trasformarsi in un clamoroso boomerang. Il Paese è in recessione: il prodotto interno lordo nel 2016 dovrebbe assestarsi attorno al -3.3 per cento e due mesi fa Rio ha dichiarato lo stato di ‘calamità’.
E non basta una ricerca firmata da IHS, società specializzata nel settore dei dati analitici dedicati ai mercati finanziari, a tranquillizzare gli animi dei brasiliani. Secondo l’azienda infatti circa il 70 per cento dei costi di Rio 2016 sono stati finanziati dai privati, con in prima fila il network delle comunicazioni NET e il Banco Bradesco, la più grossa banca privata brasiliana. Una contribuzione in termini percentuali seconda solo all’edizione di Atlanta ’96. Lo sforzo è stato dunque importante, se non fosse che non comprende la spesa per i trasporti e le altre infrastrutture, finanziati con soldi pubblici, e cresciuta del 25% rispetto alle previsione di inizio dell’avventura. E recentemente il Governo federale ha autorizzato nuovi investimenti per 2.9 milioni di real (890 milioni di dollari) perché Rio provvedesse a far fronte a nuovi problemi legati a infrastrutture e sicurezza, compresi gli stipendi dei poliziotti che negli scorsi mesi sono rimasti senza salario con il rischio, già concretizzatosi a giugno e luglio, di scioperi e proteste durante le Olimpiadi.
E per non dover pompare ancora soldi, lo scorso anno alcune voci erano state tagliate. Le cerimonie di apertura e chiusura saranno più sobrie delle edizioni precedenti e di quanto previsto originariamente, anche la produzione interna di video promozionali è stata rivista al ribasso, così come il numero di volontari – sceso da 70 a 60mila – e gli accessori nel villaggio olimpico, finito al centro delle polemiche negli scorsi giorni per i ritardi nella consegna di alcune palazzine. Il Comitato sorride solo per i biglietti: oltre l’80% dei tagliandi è stato venduto per un incasso di oltre 319 milioni di dollari, incassi importanti ma destinati a coprire comunque una parte marginale dei costi.
Ma a fronte delle spese extra affrontate in un periodo difficile per l’economia, il Brasile avrà almeno un ritorno? No, secondo diverse fonti. Nelle scorse settimane l’agenzia di rating Moody’s ha parlato di “impatto complessivo minimo per la maggior parte delle imprese”, costituito sostanzialmente “da un aumento delle vendite di breve durata e da benefici intangibili sul marketing exposure”. I benefici legati alle aziende di costruzione, per esempio, hanno già dispiegato i loro effetti e i prestiti concessi dalle banche locali per finanziari i progetti olimpici, sempre secondo il rapporto di Moody’s, “ammontano a una piccola parte dei loro prestiti in essere”.
Una visione condivisa dalla Said Business School di Oxford che ha analizzato le ultime trenta edizioni dei Giochi Olimpici, estivi e invernali. La ricerca ha evidenziato come a tarpare le ali a un reale sviluppo post evento sia soprattutto la quantità di denaro investita per ospitarlo: “La spesa non è mai stata in linea con i budget iniziali e quasi nella metà delle occasioni i costi sono stati eccedenti per più del 100 per cento”. Andew Zimbalist, professore di Economia e autore di Circus Maximus: The Economic Gamble Behind Hosting The Olympics and The World Cup, ha dichiarato al Financial Times: “In alcuni casi si argomenta dicendo che il deficit viene ripagato nel lungo periodo dall’incremento del turismo, degli investimenti e degli scambi commerciali. Ma i dati non suggeriscono che ciò avvenga realmente”. Dopo Tokyo nel 2020, toccherà a una tra Roma, Parigi e Los Angeles. Come raccontato da ilfattoquotidiano.it, nei 5.3 miliardi di budget stimati dal Comitato organizzatore presieduto da Luca Cordero di Montezemolo sono escluse infrastrutture, metropolitane, aeroporti e spese per il turismo. Il presidente del Coni Giovanni Malagò aveva parlato di uno “dei budget più bassi della storia per i Giochi estivi”. Comunque già più alto di Rio. E, secondo la storia, con ogni probabilità più basso – e di molto – di quanto verrà realmente speso.isi/2950610/
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Olimpiadi Rio 2016, altro che Giochi low cost: budget esploso e rischio di ricaduta zero sull’economia già in crisi
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Alla fine la manifestazione costerà 4.6 miliardi di dollari, il 51 per cento in più di quanto il Brasile aveva preventivato nel 2009, quando vennero assegnati e il Paese viveva uno dei migliori momenti della sua storia. Mentre ora, tra scandali finanziari e impasse politica, i Giochi potrebbero trasformarsi in un clamoroso boomerang
di Andrea Tundo | 5 agosto 2016
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Costeranno un terzo di quelle di Londra, eppure per il Brasile saranno tutto fuorché un affare. Come del resto qualsiasi edizione delle ultime trenta Olimpiadi, estive e invernali. I conti sono della Said Business School della Oxford University e sono stati recentemente pubblicati in un report che parla chiaro. Alla fine i Giochi hanno smosso 4.6 miliardi di dollari. Molto meno dei 15 spesi dal Regno Unito quattro anni fa, ma comunque il 51 per cento in più di quanto il Brasile aveva preventivato nel 2009, quando vennero assegnati e il Paese viveva uno dei migliori momenti della sua storia con il Pil che galoppava e uno sviluppo che sembrava non conoscere limiti. Mentre ora, tra scandali finanziari e una delle più grandi crisi politiche ed economiche dagli Anni Trenta, che coinvolge in particolare proprio lo stato di Rio de Janeiro, le Olimpiadi potrebbero trasformarsi in un clamoroso boomerang. Il Paese è in recessione: il prodotto interno lordo nel 2016 dovrebbe assestarsi attorno al -3.3 per cento e due mesi fa Rio ha dichiarato lo stato di ‘calamità’.
E non basta una ricerca firmata da IHS, società specializzata nel settore dei dati analitici dedicati ai mercati finanziari, a tranquillizzare gli animi dei brasiliani. Secondo l’azienda infatti circa il 70 per cento dei costi di Rio 2016 sono stati finanziati dai privati, con in prima fila il network delle comunicazioni NET e il Banco Bradesco, la più grossa banca privata brasiliana. Una contribuzione in termini percentuali seconda solo all’edizione di Atlanta ’96. Lo sforzo è stato dunque importante, se non fosse che non comprende la spesa per i trasporti e le altre infrastrutture, finanziati con soldi pubblici, e cresciuta del 25% rispetto alle previsione di inizio dell’avventura. E recentemente il Governo federale ha autorizzato nuovi investimenti per 2.9 milioni di real (890 milioni di dollari) perché Rio provvedesse a far fronte a nuovi problemi legati a infrastrutture e sicurezza, compresi gli stipendi dei poliziotti che negli scorsi mesi sono rimasti senza salario con il rischio, già concretizzatosi a giugno e luglio, di scioperi e proteste durante le Olimpiadi.
E per non dover pompare ancora soldi, lo scorso anno alcune voci erano state tagliate. Le cerimonie di apertura e chiusura saranno più sobrie delle edizioni precedenti e di quanto previsto originariamente, anche la produzione interna di video promozionali è stata rivista al ribasso, così come il numero di volontari – sceso da 70 a 60mila – e gli accessori nel villaggio olimpico, finito al centro delle polemiche negli scorsi giorni per i ritardi nella consegna di alcune palazzine. Il Comitato sorride solo per i biglietti: oltre l’80% dei tagliandi è stato venduto per un incasso di oltre 319 milioni di dollari, incassi importanti ma destinati a coprire comunque una parte marginale dei costi.
Ma a fronte delle spese extra affrontate in un periodo difficile per l’economia, il Brasile avrà almeno un ritorno? No, secondo diverse fonti. Nelle scorse settimane l’agenzia di rating Moody’s ha parlato di “impatto complessivo minimo per la maggior parte delle imprese”, costituito sostanzialmente “da un aumento delle vendite di breve durata e da benefici intangibili sul marketing exposure”. I benefici legati alle aziende di costruzione, per esempio, hanno già dispiegato i loro effetti e i prestiti concessi dalle banche locali per finanziari i progetti olimpici, sempre secondo il rapporto di Moody’s, “ammontano a una piccola parte dei loro prestiti in essere”.
Una visione condivisa dalla Said Business School di Oxford che ha analizzato le ultime trenta edizioni dei Giochi Olimpici, estivi e invernali. La ricerca ha evidenziato come a tarpare le ali a un reale sviluppo post evento sia soprattutto la quantità di denaro investita per ospitarlo: “La spesa non è mai stata in linea con i budget iniziali e quasi nella metà delle occasioni i costi sono stati eccedenti per più del 100 per cento”. Andew Zimbalist, professore di Economia e autore di Circus Maximus: The Economic Gamble Behind Hosting The Olympics and The World Cup, ha dichiarato al Financial Times: “In alcuni casi si argomenta dicendo che il deficit viene ripagato nel lungo periodo dall’incremento del turismo, degli investimenti e degli scambi commerciali. Ma i dati non suggeriscono che ciò avvenga realmente”. Dopo Tokyo nel 2020, toccherà a una tra Roma, Parigi e Los Angeles. Come raccontato da ilfattoquotidiano.it, nei 5.3 miliardi di budget stimati dal Comitato organizzatore presieduto da Luca Cordero di Montezemolo sono escluse infrastrutture, metropolitane, aeroporti e spese per il turismo. Il presidente del Coni Giovanni Malagò aveva parlato di uno “dei budget più bassi della storia per i Giochi estivi”. Comunque già più alto di Rio. E, secondo la storia, con ogni probabilità più basso – e di molto – di quanto verrà realmente speso.isi/2950610/
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Re: La Terza Guerra Mondiale
LA CALDA ESTATE DEL 2016
CRONACA DI GIORNI DI GUERRA
FOTO <<1/12>> IN:
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/08 ... a/2958015/
Aleppo, parchi pubblici diventano orti e cimiteri: “Coltiviamo i cetrioli accanto alle tombe”. Vita e morte nella città assediata
PRIMA PUNTATA - Aleppo est, 300mila persone assediate da oltre un mese dalle forze fedeli al governo di Damasco. Il cibo comincia a scarseggiare: verdura e frutta sono introvabili, il pane finirà entro metà agosto. "Abbiamo cominciato a coltivare un giardino nel quartiere di Salaheddine - racconta Younes Shasho, capo di una ong locale - piantiamo solo verdura che cresce in fretta, come melanzane e zucchine: metà del giardino è per i vivi, il resto è per le lapidi di chi non c'è più"
di Shady Hamadi | 6 agosto 2016
“Appena mi sveglio, la prima cosa che faccio è assicurarmi di essere ancora vivo”. Assad Younes parla al telefono, le bombe cadono in sottofondo, questa volta sembrano voler risparmiare la sua casa. “La notte, mentre dormi, non sai mai se una bomba colpirà casa tua. Metti in conto che ti potresti risvegliare sotto le macerie. Ogni mattina, poi, mi ritrovo con i ragazzi della strada dove vivo. Beviamo il caffè e ci informiamo l’un l’altro sugli amici e i famigliari per sapere se qualcuno è morto nella notte, sotto un raid aereo, se gli altri sono stati risparmiati”.
Aleppo est, 300mila persone assediate da oltre un mese dalle forze fedeli al governo di Damasco. Qualche giorno fa, la Russia, responsabile dei raid aerei sulla parte della città controllata dall’opposizione, ha annunciato l’apertura di corridoi umanitari per far uscire i civili. “Ma quale corridoi – protesta Khaled, 20 anni, fotografo per la Protezione Civile Siriana nella zona assediata – io vivo qui e lo so: non si può scappare”. La consapevolezza ha fatto si che la quotidianità si sia plasmata intorno alla condizione di assediati.
“Qui si vive giorno per giorno – racconta Assad – e questo è per me il futuro. A 20 anni ho già visto in faccia la morte e ora vivo alla giornata. Prima della guerra ero uno studente, andavo in palestra. Dopo la scuola uscivo con gli amici, andavamo in giro per Aleppo, mentre ora esci di casa solo se dal cielo non piovono le bombe. L’umanità è finita ad Aleppo: vediamo morire una cinquantina di persone al giorno e ci siamo abituati”.
Morte e vita si incontrano e convivono anche nei giardini pubblici, trasformati in cimiteri e orti. “Da una settimana abbiamo cominciato a coltivare un giardino nel quartiere di Salaheddine – racconta Younes Shasho, a capo di una ong locale che si occupa di vari progetti umanitari – abbiamo piantato solo la verdura che può crescere in fretta, come melanzane, zucchine e cetrioli: metà del giardino è coltivato per i vivi, la parte restante è per le tombe di chi non c’è più”.
Ortaggi accanto alle lapidi. L’istinto di sopravvivenza che convive con chi non c’è più e da lì riparte. Bisogna coltivare, coltivare il più possibile perché i viveri stanno finendo. Mentre Younes racconta si sente un boato in lontananza, ma lui continua come se nulla fosse: “Lo hai sentito? La mia vita oggi è questo. Non c’è un orario in cui mangio o dormo. Se casca un missile mi sveglio e vado a vedere cosa è successo, aiuto i feriti o a seppellire un morto. La maggior parte del mio tempo lo dedico al lavoro. Gestisco un’organizzazione che dirige cinque scuole, una cucina che dà da mangiare gratuitamente a 5mila persone al giorno”.
Da quando è cominciato l’assedio, la cucina dell’organizzazione di Younes si è dovuta fermare: “Abbiamo ancora qualche legume ma non verdura o frutta, queste sono introvabili in città e chi le ha le tiene per sé”. Anche il pane, stimano alcune ong locali, è destinato a finire a metà agosto, insieme alle ultime scorte di grano. Aleppo non è mai stata una città dedita all’agricoltura e i rifornimenti per la parte est, che oggi è sotto assedio, arrivavano tutti dalle zone limitrofe.
Prima della guerra, Younes era uno studente all’università e lavoravo nel commercio con il padre. “Ma non vivevamo in libertà – precisa Younes. Io sono curdo, entrambi i miei genitori sono curdi e sono stati perseguitati. Un mio zio è stato in carcere 10 anni e un altro parente è morto durante gli eventi degli anni ottanta. La Siria era di Assad e della sua famiglia. Non potevi raggiungere nessuna posizione o ingrandire il tuo commercio se non pagavi le tangenti. Certo, non pensavamo, quando è cominciata la rivolta, di arrivare a questo punto. Ma ancora vogliamo un Paese per tutti i siriani”.
(Foto di Younes Shasho)
CRONACA DI GIORNI DI GUERRA
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Aleppo, parchi pubblici diventano orti e cimiteri: “Coltiviamo i cetrioli accanto alle tombe”. Vita e morte nella città assediata
PRIMA PUNTATA - Aleppo est, 300mila persone assediate da oltre un mese dalle forze fedeli al governo di Damasco. Il cibo comincia a scarseggiare: verdura e frutta sono introvabili, il pane finirà entro metà agosto. "Abbiamo cominciato a coltivare un giardino nel quartiere di Salaheddine - racconta Younes Shasho, capo di una ong locale - piantiamo solo verdura che cresce in fretta, come melanzane e zucchine: metà del giardino è per i vivi, il resto è per le lapidi di chi non c'è più"
di Shady Hamadi | 6 agosto 2016
“Appena mi sveglio, la prima cosa che faccio è assicurarmi di essere ancora vivo”. Assad Younes parla al telefono, le bombe cadono in sottofondo, questa volta sembrano voler risparmiare la sua casa. “La notte, mentre dormi, non sai mai se una bomba colpirà casa tua. Metti in conto che ti potresti risvegliare sotto le macerie. Ogni mattina, poi, mi ritrovo con i ragazzi della strada dove vivo. Beviamo il caffè e ci informiamo l’un l’altro sugli amici e i famigliari per sapere se qualcuno è morto nella notte, sotto un raid aereo, se gli altri sono stati risparmiati”.
Aleppo est, 300mila persone assediate da oltre un mese dalle forze fedeli al governo di Damasco. Qualche giorno fa, la Russia, responsabile dei raid aerei sulla parte della città controllata dall’opposizione, ha annunciato l’apertura di corridoi umanitari per far uscire i civili. “Ma quale corridoi – protesta Khaled, 20 anni, fotografo per la Protezione Civile Siriana nella zona assediata – io vivo qui e lo so: non si può scappare”. La consapevolezza ha fatto si che la quotidianità si sia plasmata intorno alla condizione di assediati.
“Qui si vive giorno per giorno – racconta Assad – e questo è per me il futuro. A 20 anni ho già visto in faccia la morte e ora vivo alla giornata. Prima della guerra ero uno studente, andavo in palestra. Dopo la scuola uscivo con gli amici, andavamo in giro per Aleppo, mentre ora esci di casa solo se dal cielo non piovono le bombe. L’umanità è finita ad Aleppo: vediamo morire una cinquantina di persone al giorno e ci siamo abituati”.
Morte e vita si incontrano e convivono anche nei giardini pubblici, trasformati in cimiteri e orti. “Da una settimana abbiamo cominciato a coltivare un giardino nel quartiere di Salaheddine – racconta Younes Shasho, a capo di una ong locale che si occupa di vari progetti umanitari – abbiamo piantato solo la verdura che può crescere in fretta, come melanzane, zucchine e cetrioli: metà del giardino è coltivato per i vivi, la parte restante è per le tombe di chi non c’è più”.
Ortaggi accanto alle lapidi. L’istinto di sopravvivenza che convive con chi non c’è più e da lì riparte. Bisogna coltivare, coltivare il più possibile perché i viveri stanno finendo. Mentre Younes racconta si sente un boato in lontananza, ma lui continua come se nulla fosse: “Lo hai sentito? La mia vita oggi è questo. Non c’è un orario in cui mangio o dormo. Se casca un missile mi sveglio e vado a vedere cosa è successo, aiuto i feriti o a seppellire un morto. La maggior parte del mio tempo lo dedico al lavoro. Gestisco un’organizzazione che dirige cinque scuole, una cucina che dà da mangiare gratuitamente a 5mila persone al giorno”.
Da quando è cominciato l’assedio, la cucina dell’organizzazione di Younes si è dovuta fermare: “Abbiamo ancora qualche legume ma non verdura o frutta, queste sono introvabili in città e chi le ha le tiene per sé”. Anche il pane, stimano alcune ong locali, è destinato a finire a metà agosto, insieme alle ultime scorte di grano. Aleppo non è mai stata una città dedita all’agricoltura e i rifornimenti per la parte est, che oggi è sotto assedio, arrivavano tutti dalle zone limitrofe.
Prima della guerra, Younes era uno studente all’università e lavoravo nel commercio con il padre. “Ma non vivevamo in libertà – precisa Younes. Io sono curdo, entrambi i miei genitori sono curdi e sono stati perseguitati. Un mio zio è stato in carcere 10 anni e un altro parente è morto durante gli eventi degli anni ottanta. La Siria era di Assad e della sua famiglia. Non potevi raggiungere nessuna posizione o ingrandire il tuo commercio se non pagavi le tangenti. Certo, non pensavamo, quando è cominciata la rivolta, di arrivare a questo punto. Ma ancora vogliamo un Paese per tutti i siriani”.
(Foto di Younes Shasho)
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Re: La Terza Guerra Mondiale
LA CALDA ESTATE DEL 2016
CRONACA DI GIORNI DI GUERRA
TERRORISMO ALL'ITALIANA
Corre nudo per strada urlando "Allahu Akbar!": tunisino espulso
Sorpreso mentre gridava "Allahu Akbar" correndo nudo tra i passanti. Lo ha fatto per ben due volte. Ieri è stato espulso dalla questura di Padova
Giovanni Corato - Sab, 06/08/2016 - 14:32
commenta
Lo ha fatto ben due volte nel giro di pochi giorni. Terrorizzava i turisti, che si trovano in Prato della Valle, urlando "Allahu Akbar!" e correndo nudo come un matto (guarda il video).
Tra i passanti la Cardinale
Ieri, però, il tunisino Bargaoui Marouene (22 anni) è stato espulso dalla questura di Padova.
Il primo episodio risale alla sera dello scorso primo luglio, poco prima di mezzanotte, quando, in stato di alterazione psicofisica, si era messo a correre senza vestiti in mezzo alla gente a passeggio nella piazza. In quell'occasione, alcuni passanti preoccupati avevano allertato il 113 e subito dopo una pattuglia della polizia, intervenuta sul posto, aveva tentato di calmarlo per accompagnarlo in questura, ma il giovane era riuscito a divincolarsi fuggendo verso la basilica di Santa Giustina. Con l'aiuto di altre due pattuglie, giunte in appoggio, il tunisino è stato rincorso e bloccato, nonostante per fuggire avesse colpito con uno schiaffo un agente e morso alla mano un altro poliziotto. L'immigrato è, quindi, stato denunciato in stato di libertà per resistenza a pubblico ufficiale e atti osceni in luogo pubblico e trasportato al pronto soccorso dell'ospedale civile dal 118, dove è stato ricoverato in psichiatria.
Dopo due settimane, lo scorso 15 luglio alle 10.30, nuovamente, il tunisino ha ripetuto la scena, correndo nudo per la principale piazza della città patavina e urlando frasi in arabo tra cui "Allahu Akbar!" (guarda il video), sotto gli occhi esterrefatti dei passanti tra cui la nota attrice Claudia Cardinale, in quei giorni a Padova per le riprese del suo ultimo film. Allertata la polizia, dopo averlo rincorso per Prato della Valle, sempre con difficoltà, gli agenti sono riusciti a bloccarlo e ammanettarlo.
Sbarcato a Lampedusa nel 2011, Bargaoui Marouene è entrato e uscito dal carcere più volte. In più di un'occasione è stato arrestato per detenzione di sostanze stupefacenti a fini di spaccio. E ancora: è plurindagato per reati contro la persona commessi anche durante la detenzione. Nel 2013, poi, l'Ufficio Immigrazione di Padova ha rigettato l'istanza di rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di pericolosità sociale notificandogli il decreto mentre era ancora in prigione. Ieri è stato espulso.
CRONACA DI GIORNI DI GUERRA
TERRORISMO ALL'ITALIANA
Corre nudo per strada urlando "Allahu Akbar!": tunisino espulso
Sorpreso mentre gridava "Allahu Akbar" correndo nudo tra i passanti. Lo ha fatto per ben due volte. Ieri è stato espulso dalla questura di Padova
Giovanni Corato - Sab, 06/08/2016 - 14:32
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Lo ha fatto ben due volte nel giro di pochi giorni. Terrorizzava i turisti, che si trovano in Prato della Valle, urlando "Allahu Akbar!" e correndo nudo come un matto (guarda il video).
Tra i passanti la Cardinale
Ieri, però, il tunisino Bargaoui Marouene (22 anni) è stato espulso dalla questura di Padova.
Il primo episodio risale alla sera dello scorso primo luglio, poco prima di mezzanotte, quando, in stato di alterazione psicofisica, si era messo a correre senza vestiti in mezzo alla gente a passeggio nella piazza. In quell'occasione, alcuni passanti preoccupati avevano allertato il 113 e subito dopo una pattuglia della polizia, intervenuta sul posto, aveva tentato di calmarlo per accompagnarlo in questura, ma il giovane era riuscito a divincolarsi fuggendo verso la basilica di Santa Giustina. Con l'aiuto di altre due pattuglie, giunte in appoggio, il tunisino è stato rincorso e bloccato, nonostante per fuggire avesse colpito con uno schiaffo un agente e morso alla mano un altro poliziotto. L'immigrato è, quindi, stato denunciato in stato di libertà per resistenza a pubblico ufficiale e atti osceni in luogo pubblico e trasportato al pronto soccorso dell'ospedale civile dal 118, dove è stato ricoverato in psichiatria.
Dopo due settimane, lo scorso 15 luglio alle 10.30, nuovamente, il tunisino ha ripetuto la scena, correndo nudo per la principale piazza della città patavina e urlando frasi in arabo tra cui "Allahu Akbar!" (guarda il video), sotto gli occhi esterrefatti dei passanti tra cui la nota attrice Claudia Cardinale, in quei giorni a Padova per le riprese del suo ultimo film. Allertata la polizia, dopo averlo rincorso per Prato della Valle, sempre con difficoltà, gli agenti sono riusciti a bloccarlo e ammanettarlo.
Sbarcato a Lampedusa nel 2011, Bargaoui Marouene è entrato e uscito dal carcere più volte. In più di un'occasione è stato arrestato per detenzione di sostanze stupefacenti a fini di spaccio. E ancora: è plurindagato per reati contro la persona commessi anche durante la detenzione. Nel 2013, poi, l'Ufficio Immigrazione di Padova ha rigettato l'istanza di rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di pericolosità sociale notificandogli il decreto mentre era ancora in prigione. Ieri è stato espulso.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
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CRONACA DI GIORNI DI GUERRA
LIBRE news
Odio, nemico, guerra: potere cannibale, siamo tutti soldati
Scritto il 07/8/16 • nella Categoria: idee Condividi
1. Empatia. Poniamo che io sia un pastore errante per l’Asia, con il mio picciol gregge. Che salga il pendio di un colle, e affacciato dalla sommità, veda un pastore errante per il Sahel, con pochi dromedariucci. Ciascuno di noi sorriderà all’alterità che così gli si rivela. Empatia. Che è, sì, partecipazione emotiva, è sì affinità, ma non elettiva, non dunque cercata, non voluta, e neppure passivamente accettata. Senza l’empatia, molto si può fare, non però le cose che si sottraggono alla sfera razionale, alla Discorsività. Si può per esempio tradurre un testo in modo che appaia accettabile alla scrittura (intesa come opposta alla letteratura che è al servizio del potere e delle sue norme grammaticali e sintattiche)? Si può eseguire, cioè tradurre in sonorità, uno spartito musicale, in modo che si distacchi e redima dalla discorsività che si esprime nel battito ritmico del piede dell’ascoltatore? Penso che né il testo né lo spartito possano venire degnamente interpretati muovendo dalla convinzione che soprattutto per la traduzione di opere scritte sia necessaria un’attività affine a un esercizio algebrico. A contestare l’empatia, interviene però quella prescrizione imposta dal beato Sigmund da Vienna laddove categorizza: “Wo Es war, soll Ich werden”, cioè al posto dell’Es è necessaria l’instaurazione dell’Io e, va da sé, del super-Io. Ed è la messa in mora della poiesis, la dichiarazione della sudditanza al discorso. Interviene insomma il potere, metaforizzato dal super-Io fallico nelle metastasi del dominio, che sono potere politico, potere religioso e potere di preparare e condurre la guerra.2. Dominio. Perché il dominio, per perdurare in ciascuna delle sue manifestazioni, ha bisogno di nemici che lo giustifichino. E non c’è differenza effettiva tra l’una delle metastasi in questione. Il potere politico si fonda e si replica in quello religioso e in quello bellico. E ciò fin dalla sua invenzione e introduzione nel mondo, risalente a circa quindicimila anni fa. E per la persistenza delle metastasi e dunque del Dominio stesso, è sempre indispensabile una forma o l’altra di mobilitazione. Necessaria per garantire il funzionamento degli stabilimenti industriali e degli uffici, perché occorre persuadere i dipendenti, operai o impiegati dell’opportunità di non opporsi alle rigide norme della produttività. Così, per riaffermare la fede dei credenti occorrono, certo, processioni, encicliche, corali, altre prediche e altre parafernalia, ma in primo luogo quella componente selettivamente mobilitatoria, persuasiva, che è la messa o il suo equivalente, la quale comporta l’inghiottimento del dio fatto particola o pane, di solito con accompagnamento del vino sacramentale riservato al sacerdote.In tutti i casi, la mobilitazione si basa sull’asserto che senza l’obbedienza ai superiori – manager, ministri del culto, gerarchie ecclesiastiche, comandanti militari – i nemici sempre in agguato (concorrenza nazionale e internazionale, crisi finanziarie causate da incompetenza o più spesso da malafede, eccetera) il sistema correrebbe seri pericoli. La funzionalità della mobilitazione si rivela, e anzi salta agli occhi anche di chi, operaio o impiegato, la vive o la subisce, sia pure in maniera meno palese, e anzi spesso senza che gli uni e gli altri si rendano conto della sua astanza. Ben più esplicita è la mobilitazione militare che riguarda tutti, intendo per tutti gli appartenenti alla Patria o alle strutture che parzialmente o totalmente l’hanno effettivamente o presuntamente vicariata. A questo punto, per i reggitori del sistema, padroni, uomini politici, dirigenti militari, si pone il problema, di fondamentalissima incidenza, consistente nel mascherare le esigenze e le pretese della patria o dei suoi equivalenti. Che hanno in comune i denti lunghi che sono un’eredità del cannibalismo degli antichi tempi e dei superstiti selvaggi.La Patria, voglio dire, imperversa, esige, pretende, impone – s ìenza proporre giustificazioni – il supremo sacrificio, considerandolo aprioristicamente un dovere al quale nessun mobilitato può sottrarsi. Con l’avvertenza che la preparazione alla guerra, che è perenne in tutti gli stati, non si traduce necessariamente nel richiamo immediato, urgente, alle armi. Ma è, ripeto e sottolineo, presente a tutti i livelli produttivi, persino alle attività di svago e riposo. Le quali sono appunto attività, dal momento che la consumazione esige la preventiva creazione dei mezzi, finanziari ma anche e soprattutto psicologici, che permettono lo spreco festoso. Quella che diciamo Patria, e quale che ne sia la struttura, è cannibale, pronta all’occorrenza a divorare i suoi figli, insensibile alle angosce e alle paure dei singoli mobilitati. La Patria-cannibale imperversa e a nulla serva implorare dal fondo di una trincea che si astenga dall’impiego e dall’essere il bersaglio di letali proiettili, razzi, gas tossici, assalti e distruttive manovre. La patria va però opportunamente mascherata, le sue pretese vanno attenuate, i suoi denti e le sue unghie limati. Non è bene inteso una giustificazione: è solo un sipario calato di fronte agli attori e spettatori. E lo si cala rendendo accettabile, addirittura affabile l’eventualità della morte che è lo scotto aprioristicamente imposto a chi si sia messo volontariamente o obbligatoriamente al suo servizio.3. La mobilitazione. Che, ripeto, ha luogo a tutti i livelli, compreso quelli scolastici, accademici, di produzione culturale e nell’ambito di tutte le attività economiche e produttive, comporta anche un’altra forma di persuasione, non meno importante, del richiamo del dovere verso la Madre, ed è la denigrazione sistematica del nemico. Occorre infatti che il nemico venga descritto come pericoloso, spietato, implacabile, proditorio, assetato di sangue, ma alla fin fine superabile dalle nostre armi e più ancora dal fegato e dal cuore dei nostri militi. Allo stesso modo il concorrente industriale, l’appartenente a un altro esercito produttivo che in ogni momento possa diventare ostile, sarà anch’esso necessariamente calunniato, fatto prescrittivamente oggetto di sospetto, deprecazione, finanche odio. Solo così la mobilitazione sarà effettiva ed efficace.L’operazione – odio del nemico – implica di necessità che il potenziale o attuale avversario, e in primo il nemico per antonomasia della società, il criminale comune o politico, giudicato, condannato e variamente isolato dal resto dei componenti la società mediante chiusura in carcere, detenzione in un campo di concentramento, esilio o internamento di altro genere, non sia oggetto di simpatie o anche solo di commiserazione. La punizione che gli viene inflitta deve essere pertanto resa nota, sottolineata, giustificata, spesso anzi proclamata. Il nemico interno della società deve essere cioè oggetto di disprezzo, deve essere calunniato, fatto segno di riprovazione e odio, esattamente come il nemico esterno. È quanto si è visto accadere nel caso dei campi di concentramento tedeschi, ma anche nei campi di lavoro, i gulag dei deportati sovietici. Nulla di nascosto: anzi, tutto dichiarato, esposto del ludibrio della parte “sana” delle popolazioni.4. L’Odio. Ma come si suscita ostilità e odio totale nei confronti del nemico esterno e ostilità e disprezzo di quello interno, il criminale comune o politico che sia? Va premesso che l’odio totale o l’odio temperato dal disprezzo, comunque l’ostilità, cresce – e si vuole appunto che accada – su se stessa. Una volta che il dominio sia riuscito ad avviare il meccanismo, di importanza fondamentale per al sua stessa sopravvivenza, chi se ne fa interprete o strumento andrà come alla scoperta di un continente, l’oscura, torbida regione della negatività. Io, l’odiatore, colui che ha fatto propria l’ostilità, divengo il mezzo per cui l’altro si è rivelato, si è attuato come oggetto della mia insopportabilità. Io, l’odiatore, sono l’arnese che serve ad attuare uno scopo specifico. Che è la dichiarata superiorità della mia parte – la patria o la parte sana della società. Scopro l’insopportabilità di ogni gesto, pensiero, azione del nemico dichiarato tale. Non posso – non devo – ignorare la presenza del nero accanto a me; buon cittadino di uno stato razzista, dovrò nutrire paura nei confronti dello zingaro; e, apertamente o meno, debitamente, desiderare di fargli del male, di perseguitarlo, di appenderlo a un ramo.E sono atteggiamenti emozionali in cui si riassume il desiderio di distruggere, o almeno di mettere in condizione di non nuocere, tutti i simili a lui, il nero o lo zingaro, cioè tutti quelli che stanno al di là, oltre la barricata: nei confronti dei quali, chiunque vi si trovi o corra il rischio di collocarvisi, l’odio dev’essere sempre pronto a scattare. E nell’odio, l’odiatore simboleggerà la volontà di affermare il proprio assoluto valore, la propria indiscutibile superiorità. L’odiatore sa che gli è propria una indiscutibile superiorità. L’odiatore sa che gli altri, oggetto prima del suo disprezzo (dal momento che la scuola dell’odio procede per crescenti fasi: disprezzo determinato dal fatto di detestare, via via, una, poi molte delle sue qualità) saranno al termine il bersaglio della negativa globalità dell’ostilità e dell’odio.5. Inutilità dell’Odio. Ma anche inutilità dell’odio. Per il fatto stesso di esistere, l’altro, l’odiato, costituisce un pericolo e una minaccia, ma l’odio non può sopprimere il fatto primordiale dell’esistenza altrui. L’odio è così minato da se stesso: non può impedire all’altro di rivelarsi quale presenza indispensabile. Qualcosa dell’altro mi sfugge sempre, o lo distruggo, e porto a compimento l’odio, ma in pari tempo nullifico l’odio (l’altro è esistito, l’altro fu una presenza: dell’altro aleggia il ricordo, i suoi occhi, il suo sguardo, la certezza che per questo spiraglio di luce che qualcosa mi è sfuggito) oppure gli do modo di crearsi una zona sua, non più grande di un’unghia ma imprendibile: l’odiato mi odia a sua volta, è me stesso in carne d’altri; e, a questa stregua, il mio odio non tocca il culmine, è un meccanismo che gira a vuoto. Con l’odio, la mia sconfitta è certa.Infatti, se odio faccio un ricorso come ultima istanza… che cosa mi resterebbe, che cosa ho concluso, una volta salito su un monte di cadaveri? La guerra – ogni guerra – finisce; poniamo che io, qualunque sia la nazione di mia appartenenza, abbia vinto, che guardiano di un campo di concentramento e di sterminio, abbia celebrato quella che allora è diventata la mia vittoria: ecco che mi ritrovo davanti a una folla di schiavi, che non ho più né scopo né ragione di odiare, dal momento che hanno cessato di costituire un pericolo. Ma riconquistare la propria integrità – ed è ciò che avviene al termine di ogni guerra, per quanto catastrofica sia stata – sarà tanto più difficile quanto più è avanzato il processo di decomposizione, di semplificazione, di riduzione: insomma, quanto più vasta è stata l’abiura alla mia umanità.6. Guerra. L’altra faccia della medaglia: guerra. Il problema, si è visto, è rappresentato dalle modalità usate per rendere il soldato invulnerabile alla pietà. Che il soldato possa diventare da semplice cittadino un carnefice, colui cioè che è incaricato di distruggere carne umana, è dimostrato dai campi di concentramento della Germania nazista durante la seconda guerra mondiale. I guardiani dei detenuti erano perlopiù SS che dopo aver combattuto su vari fronti, erano stati ritirati dal servizio attivo perché feriti o perché troppo usurati per venire impiegati in prima linea. Assurto alla figura di eroe, di collerico semidio incaricato di combattere e all’occorrenza eliminare, i nemici della “patria” e del sistema politico dominante: trasfigurato come tutti i guerrieri in incarnazione della violenza, dell’aldilà incontrollabile, l’SS ne reca addosso la maschera e il paludamento.Il soldato ridotto a stizzoso guardiano è anch’egli un masochista, anzi un sadomasochista. In quanto masochista, pronto a pagare uno scotto prima di commettere l’azione che sa o sospetta riprovevole. In quanto sadico, non è esattamente il beccaio: è un carnefice che deve riuscire a rendere masochista la vittima. Il suo proposito sarà dunque quello di escogitare tormenti tali da tappare la bocca del martire le cui lamentele lo irritano e incattiviscono. E martire e carnefice si vedranno così impegnati in un duello che non potrà, a un certo punto, non assumere l’apparenza della lealtà, dello scontro aperto, dichiaratamente senza esclusione di colpi. Col carnefice che dovrà, almeno con se stesso, ammettere la propria sconfitta, quando la vittima non si sia trasformata in oscurità rantolante, in annebbiamento e abiura, ma anche qualora il rantolo sia diventato irreversibilmente agonico.Supremo ideale del sadico: riuscire a trasformare l’altro in carne senza che costui cessi di essere strumento. Gli basta, per convincerlo di avere toccato la propria meta, l’implorazione della vittima? No, poiché anche nelle grida di terrore può celarsi la soperchieria. E l’atteggiamento del sadico, in questo caso soldato – carnefice, è dettato da volontà di potenza. Definizione che è una mera tautologia: resta da spiegare, infatti, il perché del gusto di dominare gli altri. E se il sadico questo impulso lo prova, è perché vede in esso la possibilità di avere la rivelazione dell’altro, – e di sé per riflesso – attraverso l’oppressione. Ma l’accettazione a cui l’altro si obbliga deve essere senza residui; e non basta neppure che la vittima rinneghi e abiuri, che strisci e urli. Occorre che quegli urli siano per così dire assoluti. In un certo senso, frutto di una libera scelta, e che tuttavia codesta scelta non lasci residui, ombre, ambiguità. La vittima dovrà interamente trasferirsi in quest’esito, senza avere più un secondo fine, soprattutto quello di convincere il sadico-carnefice di avere già pagato abbastanza e pertanto di persuaderlo a rinunciare alla continuazione della tortura. E allora?La tortura cessa: o la vittima è un freddo cadavere, o è tornata coscienza, astuzia, gioco, inganno. Il sadico-carnefice si sente defraudato nell’uno come nell’altro caso. Deve pertanto impedire che venga superata una linea di confine non oggettivamente determinabile, una soglia solo probabilisticamente fissabile. La sua è quindi la condanna alla tortura perenne: in ogni istante dovrà essere circondato almeno dagli emblemi del suo potere, e come un Dracula banchettare tra i cadaveri, o come i quattro signori delle Centoventi giornate di Sodoma, prescriversi un rigido rituale, un crescendo dell’orrore. Il sadismo diviene pertanto consumazione e autofagia: il sadismo perciò stesso si rifà al suo contrario, gli estremi finiscono per toccarsi. Il sadico può scoprire la possibilità che venga applicata a lui stesso l’impresa tentata a spese degli altri. Può allora accadere che il masochismo prevalga. Che il combattente veda, nel suo avversario, il nemico che dovrebbe odiare senza remissione, ed è ormai vano farlo; che scopra, nell’uomo dell’opposta trincea, il suo simile. Può accadere dunque che si verifichi un istante di empatia, quasi un ritorno a un’origine mai dimenticata, perché indimenticabile, un vuoto di memoria che può all’improvviso colmarsi. È accaduto tante volte, durante le stragi della prima e della seconda guerra mondiale.Può accadere, in qualunque guerra, che questa divenga ritualistica – che a prevalere sia la stanchezza e che ne derivi compassione per il nemico, e che dia luogo alla rassegnazione (di chi, sepolto nel rifugio, sperimenti, cieco, l’ossessione dei bombardamenti) e alla stanchezza dei disertori e addirittura degli ammutinati. Gli eserciti zaristi, nel 1917, proprio per questo si sono disfatti. È come se la vittima, anziché semplicemente soccombere – e pur restando condannata – sia entrata nel seno della sacralità. Che divenga intoccabile, ancorché si continui a toccarla, a disfarla. Si constata allora che il gioco dell’angoscia sia sempre lo stesso, angoscia fino alla morte, al sudore di sangue. E al di là della morte e della rovina, il superamento dell’angoscia, quello che ha popolato la terra di eroi e taumaturghi, di figli del sole e nati da vergini minacciati e invincibili come il sogno dell’uomo. Viene allora fatto di chiedersi: può allora l’uomo rinunciare ai sacrifici, concreti o simbolici? Può fare a meno di vittime a carnefici? Ed è legittimo il dubbio che anche tra i nostri progenitori paleolitici – e tra gli ultimi selvaggi – superstiti della civiltà – si desse e si dia la nostra stessa, attualissima suddivisione tra sofferenti e apportatori di sofferenza? In altre parole: l’uomo poteva allora, e può ancora, rinunciare all’angoscia? O l’angoscia è costitutiva dell’umanità?7. Beltran de Born. Dante lo incontra nel suo XXVIII dell’Inferno, ai versi 118 – 149. Nona Bolgia riservata ai seminatori di scandalo e scisma, e dunque «mali consiglieri». Dove i dannati girano perennemente tutt’attorno e vengono feriti di spada dal Diavolo. Le loro ferite si rimarginano prima che gli ripassino davanti. «Io vidi certo… / un busto senza capo andar…// e il capo tronco tenea per le chiome, / presol con mano a guisa di lanterna…». È Bertram de Born (per Dante, dal Bormio) trovatore (ca.1140-1215) signore del Castello di Hautefort tra il Périgord e il Limosino, coinvolto – si dice – in dispute feudali tra Francia e Inghilterra e suscitatore, forse, di discordia tra Enrico di Inghilterra e il padre, re Enrico II. Gli si devono una trentina di sirventesi in cui celebra le virtù cavalleresche, esalta la guerra come unica fonte di gloria, la morte in battaglia come liberazione dalle miserie terrene. La più celebre di tali composizioni è stata tradotta in toscano nel XV da un poeta di cui mi sfugge il nome. Dopo aver celebrato la primavera, la bella fioritura, i dolci canti degli uccelli, Bertram cambia di colpo registro: “Ma più mi piace veder per li prati alzar le tende e stendardi piantare. / E per i campi cavalieri andare. Tutti in ischieri su cavalli armati. / E piacemi se vedo scorridori, molti ed armati a tumulto venienti. / E piacemi se vedo inseguitori. Che fan fuggire con loro robe el genti. / Et ho allegrezza assai grande mirando. Forti castelli assaltati e crollare muri abbattuti / E le schiere ristare presso le fosse steccati innalzando”.Mi si farà notare che la guerra può eccitare con l’allucinazione del potere che conferisce, con la speranza di premi e ricompense, con la liceità di “perversioni” giudicate ammissibili e anzi consigliabili; e tuttavia potrebbe in ultima analisi esercitare un fascino solo per chi attribuisce scarso e nullo significato alla propria esistenza, e dunque per quelli che ci si ostina a chiamare «dannati della terra,» o a giovani incapaci di trovare una nobile ragione per vivere. Ma mi si farà anche notare che la guerra, ogni guerra, rappresenta la prosecuzione di un clima di festa, di messa in mora delle norme consuete. Di sospensione della separazione tra realtà e sogno, tra quotidianità e avventura. Né si mancherà di ricordarmi che la guerra è necrofila, in quanto esige dal combattente familiarità con la morte propria e altrui. Un fascino oscuro, quello esercitato dalla guerra: ma sono tutte considerazioni di accento negativo, laddove la celebrazione di Bertran de Born è una affermazione di vitalità spinta ai limiti.Gli è che la guerra ha una sua intrinseca bellezza, e lo comprovano i molti, celeberrimi dipinti di ogni secolo – a partire, facile notarlo, dal Neolitico, e più avanti dirò perché – i quali illustrano fatti d’armi, si tratti delle Termopili, della carica della cavalleria scozzese alla battaglia di Waterloo, o dell’enorme numero di film che continuano ad esaltarne l’importanza, la torbida bellezza, insomma l’incidenza enorme che le guerre, e soprattutto certe battaglie conclusive, hanno avuto e hanno sulle vicende sociali. Persino sulla delimitazione dei periodi che usiamo chiamare storici. L’Inghilterra è nata dalla conquista normanna del 1166. Cos’è dunque la guerra? Risposta di Karl von Clausewitz: «Limitiamoci alla sua essenza, il duello». Dove il grande teorico della guerra rischia la confusione tra violenza e guerra, come se fossero un’unica cosa. L’errore di Clausewitz è consistito nell’aver equiparato la guerra a un atto, o una serie di atti, istintuali. Quasi si trattasse di un litigio da osteria che finisca a coltellate.Ma la guerra non è l’istintuale. Non si guerreggia obbedendo a impulsi prerazionali. No, perché le guerra sono proprie, ed esclusivamente, di società gerarchiche, strutturate in piramidi formate da un vertice autorevole e da una successione di sudditi convinti all’obbedienza. Senza questa struttura, eminentemente razionale, e di ascendenza neolitica (e come tale furto dello stanziamento, della produzione agricola, dell’allevamento del bestiame, dell’invenzione della divinità, del dominio nella sua triplice articolazione, dell’invenzione della macchina, della proprietà privata – in una parola dell’epoca, appunto il Neolitico, di cui siamo gli eredi, e anzi i continuatori). Clausewitz, celebre autore del suo celeberrimo “Della guerra”, 1832-34, si è reso conto del suo errore. Dicendo che per il militare non esiste «la pace»: esiste solo la non-guerra, la tregua armata. E alludendo dunque alla perennità della mobilitazione continua a tutti i livelli della società e di conseguenza alla condanna del militarismo inteso quale politica che abbia a propria finalità e conclusione la guerra. Della politica, infatti, la guerra è, al più, la forma suprema, il culmine. E soltanto una politica stupida (e ne abbiamo avuto nel secolo scorso esempi clamorosi, Vietnam, Iraq, Afganistan…) si tramuta senz’altro in guerra, al di là di ogni considerazione di carattere razionale e utilitaristico.8. Meccanismo della Persuasione. Sì, perché esiste una tecnoscienza, ripetuta di generazione in generazione, della mobilitazione. Ed è quella che da altri, in particolare Clyde Miller, è stata chiamata Meccanismo della Persuasione. Né è certo una novità l’intervento di «persuasori occulti,» cioè di appelli all’irrazionale nella vita delle nazione: irrazionale camuffato, sia chiaro, da richiami ai principi di realtà. Elaborata da secoli a scopi mobilitatori, la propaganda politica nella fase attuale dello sviluppo civile ha investito la società in maniera un tempo sconosciuta. Le forme di propaganda rispecchiano i fondamenti economici della società che la usa, nonché gli intenti della sua classe dirigente; e, per ciò che riguarda le società odierne – tutte borghesi seppure con varie connotazioni, che siano o meno sottoposte al controllo di un partito unico – il modulo, l’insieme di tecniche impiegate allo scopo, è sempre lo stesso, che si tratti di agire nell’ambito della caserma o del supermercato, quale che sia la merce da indurre ad apprezzare, ad accettare, ad acquistare, formaggi o ideologie.Perché i problemi della persuasione si riducono a uno solo: sviluppare certi riflessi condizionati mediante ricorso a parole-chiave. A simboli-chiave, ad azioni-chiave. Il consumatore-mobilitando, il compratore-soldato, viene “precondizionato”, gli si stampa nel cervello l’elogio del prodotto in modo da escludere dubbi sulla sua assolutezza. Si tratta di agire programmaticamente su tutti i livelli dell’opinione, soprattutto a quelli consci o preconsci, (pregiudizi, terrori, credenze ancestrali, impulsi emotivi), applicando nei confronti del milite come del consumatore i ritrovati della ricerca motivazionale, dell’analisi delle motivazioni. Il prodotto – e l’ideologia – dovrà esercitare una suggestione sui sentimenti annidati nella psiche. Ma non si tratta di prassi inedite, inaspettatamente iniettate nelle vene della società borghese, anche se hanno assunto, soprattutto a partire dalla fine della seconda guerra mondiale e della guerra fredda, un’estensione rilevantissima in concomitanza con l’espansione del mercato. E la cura costante per le esigenze psicologiche degli eserciti (fino a tempi recentissimi quelli di massa, oggi in apparenza composti da volontari salariati) ha avuto uno sviluppo parallelo a quello dell’economia di mercato. Il cliente, milite o compratore, dovrà innamorarsi del prodotto, a esso legarsi mediante una fedeltà irrazionale.Per quanto riguarda il compratore, il prodotto apparirà ( anche se in effetti contenga veleni), casalingo, puro, cortese, pulito, onesto, paziente. Nel caso dell’acquirente del prodotto patria, dovrà apparire virile, forte, potente, autoritario. Sempre il prodotto dovrà avere una personalità, la stessa della patria o dei suoi equivalenti. Si offrirà così al mobilitando un’illusione di razionalità, un pretesto con il quale nascondere a se stesso l’irrazionalità su cui si fa leva. L’estetica dell’arma, da lustrare e curare, l’arma che prolunga la personalità del combattente, kalascnicov o elicottero che sia, fa il paio con l’idea dell’automobile come mezzo di espressione dell’“aggressività” di chi la acquista. Importantissime, ai fini della mobilitazione, le parate militari, che altro non sono se non l’esposizione di certi prodotti sapientemente architettati, accuratamente designed, carri armati dall’aria cattiva, di fosco colore, dalle minacciose torrette, mostri scientifici e metafisici insieme; e velivoli senza pilota, invisibili, irrintracciabili in cielo, di invincibile pericolosità; caccia-bombardieri nei quali la funzionalità si sposi alla misteriosità, all’incomprensibilità per il profano, e la cui efficienza sia già rivelata dal fracasso che producono volando o decollando e dalle enigmatiche scie di condensazione. Se al consumatore del supermercato piace vedere una grande abbondanza di merci che lo sazia letteralmente e preventivamente, al milite piace la sensazione di essere in tanti che partono in missione, e la constatazione di disporre di tante armi, presuntamente efficientissime, che si aggiungono all’euforia tipica delle manifestazione di massa, soprattutto quelle patriottiche-militaristiche.9. Il Militarismo. Il Militarismo è l’esplicita o sottilmente insinuata finalizzazione della politica alla guerra proclamata come necessaria. E tale è stata dichiarata, a sua giustificazione, la guerra del Vietnam, come quelle successive. Noi viviamo così in società della paura (qualcuno può sempre e comunque sganciare la BOMBA). Ma l’oscuro fascino della guerra è lungi dall’essersi spento e anche solo eclissato, e sussiste pur sempre la possibilità di sottrarsi collettivamente al logos inteso come super-Io, e di abbandonarsi lontano dalla città con le sue forclusioni, a una sorta di stravolta empatia (o controempatia) con la rivelazione però, non dell’Alterità, bensì della Morte. L’ostilità è così calata dal cielo a funestare la terra – ogni lembo di terra abitato dalla civiltà, che è per definizione bianca, occidentale. Né chiamatela follia. Poiché quella che si usa definire follia – oppure psicosi o altri presunti equivalenti – è innanzi tutto condizione della poiesis.Ed è hybris, è dissoluzione del soggetto, rifiuto dell’obbligatoria felicità, contestazione della volgarità sotto forma del rappresentabile e rappresentato – pittura, teatro, danza, o dalla rappresentabilità della Logica del Tempo, della Logica dell’Inconscio, in nome dell’eccesso, dell’estremismo, dell’ekstasis, parola greca che può indicare l’uscita dai ceppi della ratio come assoluta egemone, ma dalla quale deriva, guarda caso essere, non esser-ci: voglio dire l’inattingibile Carne, mai matrugiata dalla carne, forse intravista – budella squarciate, sublime dolore, dal samurai che pratica il seppuku, – e forse per un istante raggiunga il fondo supremo della rivelazione, il simbolo palpabile dell’aldilà, della sua presenza in noi. Cosa non data al soldato, e tanto meno al cosiddetto eroe. E mai al soldato. Soldato che inesorabilmente scopre la sua propria miseria.
(Francesco Saba Sardi, “Istituzione dell’ostilità”, dalla pagina Facebook di Giovanni Francesco Carpeoro, 14 aprile 2016. Scrittore, saggista e traduttore, eminente intellettuale italiano, ha tradotto i maggiori scrittori mondiali dell’800 e del ‘900, nel 1958 ha firmato “Il Natale ha 5000 anni” e, in un altro saggio, “Dominio”, edito nel 2004, ha tracciato una lucida analisi della natura autoritaria del potere che ha guidato la civilizzazione terrestre, dall’avvento del neolitico ai giorni nostri).
CRONACA DI GIORNI DI GUERRA
LIBRE news
Odio, nemico, guerra: potere cannibale, siamo tutti soldati
Scritto il 07/8/16 • nella Categoria: idee Condividi
1. Empatia. Poniamo che io sia un pastore errante per l’Asia, con il mio picciol gregge. Che salga il pendio di un colle, e affacciato dalla sommità, veda un pastore errante per il Sahel, con pochi dromedariucci. Ciascuno di noi sorriderà all’alterità che così gli si rivela. Empatia. Che è, sì, partecipazione emotiva, è sì affinità, ma non elettiva, non dunque cercata, non voluta, e neppure passivamente accettata. Senza l’empatia, molto si può fare, non però le cose che si sottraggono alla sfera razionale, alla Discorsività. Si può per esempio tradurre un testo in modo che appaia accettabile alla scrittura (intesa come opposta alla letteratura che è al servizio del potere e delle sue norme grammaticali e sintattiche)? Si può eseguire, cioè tradurre in sonorità, uno spartito musicale, in modo che si distacchi e redima dalla discorsività che si esprime nel battito ritmico del piede dell’ascoltatore? Penso che né il testo né lo spartito possano venire degnamente interpretati muovendo dalla convinzione che soprattutto per la traduzione di opere scritte sia necessaria un’attività affine a un esercizio algebrico. A contestare l’empatia, interviene però quella prescrizione imposta dal beato Sigmund da Vienna laddove categorizza: “Wo Es war, soll Ich werden”, cioè al posto dell’Es è necessaria l’instaurazione dell’Io e, va da sé, del super-Io. Ed è la messa in mora della poiesis, la dichiarazione della sudditanza al discorso. Interviene insomma il potere, metaforizzato dal super-Io fallico nelle metastasi del dominio, che sono potere politico, potere religioso e potere di preparare e condurre la guerra.2. Dominio. Perché il dominio, per perdurare in ciascuna delle sue manifestazioni, ha bisogno di nemici che lo giustifichino. E non c’è differenza effettiva tra l’una delle metastasi in questione. Il potere politico si fonda e si replica in quello religioso e in quello bellico. E ciò fin dalla sua invenzione e introduzione nel mondo, risalente a circa quindicimila anni fa. E per la persistenza delle metastasi e dunque del Dominio stesso, è sempre indispensabile una forma o l’altra di mobilitazione. Necessaria per garantire il funzionamento degli stabilimenti industriali e degli uffici, perché occorre persuadere i dipendenti, operai o impiegati dell’opportunità di non opporsi alle rigide norme della produttività. Così, per riaffermare la fede dei credenti occorrono, certo, processioni, encicliche, corali, altre prediche e altre parafernalia, ma in primo luogo quella componente selettivamente mobilitatoria, persuasiva, che è la messa o il suo equivalente, la quale comporta l’inghiottimento del dio fatto particola o pane, di solito con accompagnamento del vino sacramentale riservato al sacerdote.In tutti i casi, la mobilitazione si basa sull’asserto che senza l’obbedienza ai superiori – manager, ministri del culto, gerarchie ecclesiastiche, comandanti militari – i nemici sempre in agguato (concorrenza nazionale e internazionale, crisi finanziarie causate da incompetenza o più spesso da malafede, eccetera) il sistema correrebbe seri pericoli. La funzionalità della mobilitazione si rivela, e anzi salta agli occhi anche di chi, operaio o impiegato, la vive o la subisce, sia pure in maniera meno palese, e anzi spesso senza che gli uni e gli altri si rendano conto della sua astanza. Ben più esplicita è la mobilitazione militare che riguarda tutti, intendo per tutti gli appartenenti alla Patria o alle strutture che parzialmente o totalmente l’hanno effettivamente o presuntamente vicariata. A questo punto, per i reggitori del sistema, padroni, uomini politici, dirigenti militari, si pone il problema, di fondamentalissima incidenza, consistente nel mascherare le esigenze e le pretese della patria o dei suoi equivalenti. Che hanno in comune i denti lunghi che sono un’eredità del cannibalismo degli antichi tempi e dei superstiti selvaggi.La Patria, voglio dire, imperversa, esige, pretende, impone – s ìenza proporre giustificazioni – il supremo sacrificio, considerandolo aprioristicamente un dovere al quale nessun mobilitato può sottrarsi. Con l’avvertenza che la preparazione alla guerra, che è perenne in tutti gli stati, non si traduce necessariamente nel richiamo immediato, urgente, alle armi. Ma è, ripeto e sottolineo, presente a tutti i livelli produttivi, persino alle attività di svago e riposo. Le quali sono appunto attività, dal momento che la consumazione esige la preventiva creazione dei mezzi, finanziari ma anche e soprattutto psicologici, che permettono lo spreco festoso. Quella che diciamo Patria, e quale che ne sia la struttura, è cannibale, pronta all’occorrenza a divorare i suoi figli, insensibile alle angosce e alle paure dei singoli mobilitati. La Patria-cannibale imperversa e a nulla serva implorare dal fondo di una trincea che si astenga dall’impiego e dall’essere il bersaglio di letali proiettili, razzi, gas tossici, assalti e distruttive manovre. La patria va però opportunamente mascherata, le sue pretese vanno attenuate, i suoi denti e le sue unghie limati. Non è bene inteso una giustificazione: è solo un sipario calato di fronte agli attori e spettatori. E lo si cala rendendo accettabile, addirittura affabile l’eventualità della morte che è lo scotto aprioristicamente imposto a chi si sia messo volontariamente o obbligatoriamente al suo servizio.3. La mobilitazione. Che, ripeto, ha luogo a tutti i livelli, compreso quelli scolastici, accademici, di produzione culturale e nell’ambito di tutte le attività economiche e produttive, comporta anche un’altra forma di persuasione, non meno importante, del richiamo del dovere verso la Madre, ed è la denigrazione sistematica del nemico. Occorre infatti che il nemico venga descritto come pericoloso, spietato, implacabile, proditorio, assetato di sangue, ma alla fin fine superabile dalle nostre armi e più ancora dal fegato e dal cuore dei nostri militi. Allo stesso modo il concorrente industriale, l’appartenente a un altro esercito produttivo che in ogni momento possa diventare ostile, sarà anch’esso necessariamente calunniato, fatto prescrittivamente oggetto di sospetto, deprecazione, finanche odio. Solo così la mobilitazione sarà effettiva ed efficace.L’operazione – odio del nemico – implica di necessità che il potenziale o attuale avversario, e in primo il nemico per antonomasia della società, il criminale comune o politico, giudicato, condannato e variamente isolato dal resto dei componenti la società mediante chiusura in carcere, detenzione in un campo di concentramento, esilio o internamento di altro genere, non sia oggetto di simpatie o anche solo di commiserazione. La punizione che gli viene inflitta deve essere pertanto resa nota, sottolineata, giustificata, spesso anzi proclamata. Il nemico interno della società deve essere cioè oggetto di disprezzo, deve essere calunniato, fatto segno di riprovazione e odio, esattamente come il nemico esterno. È quanto si è visto accadere nel caso dei campi di concentramento tedeschi, ma anche nei campi di lavoro, i gulag dei deportati sovietici. Nulla di nascosto: anzi, tutto dichiarato, esposto del ludibrio della parte “sana” delle popolazioni.4. L’Odio. Ma come si suscita ostilità e odio totale nei confronti del nemico esterno e ostilità e disprezzo di quello interno, il criminale comune o politico che sia? Va premesso che l’odio totale o l’odio temperato dal disprezzo, comunque l’ostilità, cresce – e si vuole appunto che accada – su se stessa. Una volta che il dominio sia riuscito ad avviare il meccanismo, di importanza fondamentale per al sua stessa sopravvivenza, chi se ne fa interprete o strumento andrà come alla scoperta di un continente, l’oscura, torbida regione della negatività. Io, l’odiatore, colui che ha fatto propria l’ostilità, divengo il mezzo per cui l’altro si è rivelato, si è attuato come oggetto della mia insopportabilità. Io, l’odiatore, sono l’arnese che serve ad attuare uno scopo specifico. Che è la dichiarata superiorità della mia parte – la patria o la parte sana della società. Scopro l’insopportabilità di ogni gesto, pensiero, azione del nemico dichiarato tale. Non posso – non devo – ignorare la presenza del nero accanto a me; buon cittadino di uno stato razzista, dovrò nutrire paura nei confronti dello zingaro; e, apertamente o meno, debitamente, desiderare di fargli del male, di perseguitarlo, di appenderlo a un ramo.E sono atteggiamenti emozionali in cui si riassume il desiderio di distruggere, o almeno di mettere in condizione di non nuocere, tutti i simili a lui, il nero o lo zingaro, cioè tutti quelli che stanno al di là, oltre la barricata: nei confronti dei quali, chiunque vi si trovi o corra il rischio di collocarvisi, l’odio dev’essere sempre pronto a scattare. E nell’odio, l’odiatore simboleggerà la volontà di affermare il proprio assoluto valore, la propria indiscutibile superiorità. L’odiatore sa che gli è propria una indiscutibile superiorità. L’odiatore sa che gli altri, oggetto prima del suo disprezzo (dal momento che la scuola dell’odio procede per crescenti fasi: disprezzo determinato dal fatto di detestare, via via, una, poi molte delle sue qualità) saranno al termine il bersaglio della negativa globalità dell’ostilità e dell’odio.5. Inutilità dell’Odio. Ma anche inutilità dell’odio. Per il fatto stesso di esistere, l’altro, l’odiato, costituisce un pericolo e una minaccia, ma l’odio non può sopprimere il fatto primordiale dell’esistenza altrui. L’odio è così minato da se stesso: non può impedire all’altro di rivelarsi quale presenza indispensabile. Qualcosa dell’altro mi sfugge sempre, o lo distruggo, e porto a compimento l’odio, ma in pari tempo nullifico l’odio (l’altro è esistito, l’altro fu una presenza: dell’altro aleggia il ricordo, i suoi occhi, il suo sguardo, la certezza che per questo spiraglio di luce che qualcosa mi è sfuggito) oppure gli do modo di crearsi una zona sua, non più grande di un’unghia ma imprendibile: l’odiato mi odia a sua volta, è me stesso in carne d’altri; e, a questa stregua, il mio odio non tocca il culmine, è un meccanismo che gira a vuoto. Con l’odio, la mia sconfitta è certa.Infatti, se odio faccio un ricorso come ultima istanza… che cosa mi resterebbe, che cosa ho concluso, una volta salito su un monte di cadaveri? La guerra – ogni guerra – finisce; poniamo che io, qualunque sia la nazione di mia appartenenza, abbia vinto, che guardiano di un campo di concentramento e di sterminio, abbia celebrato quella che allora è diventata la mia vittoria: ecco che mi ritrovo davanti a una folla di schiavi, che non ho più né scopo né ragione di odiare, dal momento che hanno cessato di costituire un pericolo. Ma riconquistare la propria integrità – ed è ciò che avviene al termine di ogni guerra, per quanto catastrofica sia stata – sarà tanto più difficile quanto più è avanzato il processo di decomposizione, di semplificazione, di riduzione: insomma, quanto più vasta è stata l’abiura alla mia umanità.6. Guerra. L’altra faccia della medaglia: guerra. Il problema, si è visto, è rappresentato dalle modalità usate per rendere il soldato invulnerabile alla pietà. Che il soldato possa diventare da semplice cittadino un carnefice, colui cioè che è incaricato di distruggere carne umana, è dimostrato dai campi di concentramento della Germania nazista durante la seconda guerra mondiale. I guardiani dei detenuti erano perlopiù SS che dopo aver combattuto su vari fronti, erano stati ritirati dal servizio attivo perché feriti o perché troppo usurati per venire impiegati in prima linea. Assurto alla figura di eroe, di collerico semidio incaricato di combattere e all’occorrenza eliminare, i nemici della “patria” e del sistema politico dominante: trasfigurato come tutti i guerrieri in incarnazione della violenza, dell’aldilà incontrollabile, l’SS ne reca addosso la maschera e il paludamento.Il soldato ridotto a stizzoso guardiano è anch’egli un masochista, anzi un sadomasochista. In quanto masochista, pronto a pagare uno scotto prima di commettere l’azione che sa o sospetta riprovevole. In quanto sadico, non è esattamente il beccaio: è un carnefice che deve riuscire a rendere masochista la vittima. Il suo proposito sarà dunque quello di escogitare tormenti tali da tappare la bocca del martire le cui lamentele lo irritano e incattiviscono. E martire e carnefice si vedranno così impegnati in un duello che non potrà, a un certo punto, non assumere l’apparenza della lealtà, dello scontro aperto, dichiaratamente senza esclusione di colpi. Col carnefice che dovrà, almeno con se stesso, ammettere la propria sconfitta, quando la vittima non si sia trasformata in oscurità rantolante, in annebbiamento e abiura, ma anche qualora il rantolo sia diventato irreversibilmente agonico.Supremo ideale del sadico: riuscire a trasformare l’altro in carne senza che costui cessi di essere strumento. Gli basta, per convincerlo di avere toccato la propria meta, l’implorazione della vittima? No, poiché anche nelle grida di terrore può celarsi la soperchieria. E l’atteggiamento del sadico, in questo caso soldato – carnefice, è dettato da volontà di potenza. Definizione che è una mera tautologia: resta da spiegare, infatti, il perché del gusto di dominare gli altri. E se il sadico questo impulso lo prova, è perché vede in esso la possibilità di avere la rivelazione dell’altro, – e di sé per riflesso – attraverso l’oppressione. Ma l’accettazione a cui l’altro si obbliga deve essere senza residui; e non basta neppure che la vittima rinneghi e abiuri, che strisci e urli. Occorre che quegli urli siano per così dire assoluti. In un certo senso, frutto di una libera scelta, e che tuttavia codesta scelta non lasci residui, ombre, ambiguità. La vittima dovrà interamente trasferirsi in quest’esito, senza avere più un secondo fine, soprattutto quello di convincere il sadico-carnefice di avere già pagato abbastanza e pertanto di persuaderlo a rinunciare alla continuazione della tortura. E allora?La tortura cessa: o la vittima è un freddo cadavere, o è tornata coscienza, astuzia, gioco, inganno. Il sadico-carnefice si sente defraudato nell’uno come nell’altro caso. Deve pertanto impedire che venga superata una linea di confine non oggettivamente determinabile, una soglia solo probabilisticamente fissabile. La sua è quindi la condanna alla tortura perenne: in ogni istante dovrà essere circondato almeno dagli emblemi del suo potere, e come un Dracula banchettare tra i cadaveri, o come i quattro signori delle Centoventi giornate di Sodoma, prescriversi un rigido rituale, un crescendo dell’orrore. Il sadismo diviene pertanto consumazione e autofagia: il sadismo perciò stesso si rifà al suo contrario, gli estremi finiscono per toccarsi. Il sadico può scoprire la possibilità che venga applicata a lui stesso l’impresa tentata a spese degli altri. Può allora accadere che il masochismo prevalga. Che il combattente veda, nel suo avversario, il nemico che dovrebbe odiare senza remissione, ed è ormai vano farlo; che scopra, nell’uomo dell’opposta trincea, il suo simile. Può accadere dunque che si verifichi un istante di empatia, quasi un ritorno a un’origine mai dimenticata, perché indimenticabile, un vuoto di memoria che può all’improvviso colmarsi. È accaduto tante volte, durante le stragi della prima e della seconda guerra mondiale.Può accadere, in qualunque guerra, che questa divenga ritualistica – che a prevalere sia la stanchezza e che ne derivi compassione per il nemico, e che dia luogo alla rassegnazione (di chi, sepolto nel rifugio, sperimenti, cieco, l’ossessione dei bombardamenti) e alla stanchezza dei disertori e addirittura degli ammutinati. Gli eserciti zaristi, nel 1917, proprio per questo si sono disfatti. È come se la vittima, anziché semplicemente soccombere – e pur restando condannata – sia entrata nel seno della sacralità. Che divenga intoccabile, ancorché si continui a toccarla, a disfarla. Si constata allora che il gioco dell’angoscia sia sempre lo stesso, angoscia fino alla morte, al sudore di sangue. E al di là della morte e della rovina, il superamento dell’angoscia, quello che ha popolato la terra di eroi e taumaturghi, di figli del sole e nati da vergini minacciati e invincibili come il sogno dell’uomo. Viene allora fatto di chiedersi: può allora l’uomo rinunciare ai sacrifici, concreti o simbolici? Può fare a meno di vittime a carnefici? Ed è legittimo il dubbio che anche tra i nostri progenitori paleolitici – e tra gli ultimi selvaggi – superstiti della civiltà – si desse e si dia la nostra stessa, attualissima suddivisione tra sofferenti e apportatori di sofferenza? In altre parole: l’uomo poteva allora, e può ancora, rinunciare all’angoscia? O l’angoscia è costitutiva dell’umanità?7. Beltran de Born. Dante lo incontra nel suo XXVIII dell’Inferno, ai versi 118 – 149. Nona Bolgia riservata ai seminatori di scandalo e scisma, e dunque «mali consiglieri». Dove i dannati girano perennemente tutt’attorno e vengono feriti di spada dal Diavolo. Le loro ferite si rimarginano prima che gli ripassino davanti. «Io vidi certo… / un busto senza capo andar…// e il capo tronco tenea per le chiome, / presol con mano a guisa di lanterna…». È Bertram de Born (per Dante, dal Bormio) trovatore (ca.1140-1215) signore del Castello di Hautefort tra il Périgord e il Limosino, coinvolto – si dice – in dispute feudali tra Francia e Inghilterra e suscitatore, forse, di discordia tra Enrico di Inghilterra e il padre, re Enrico II. Gli si devono una trentina di sirventesi in cui celebra le virtù cavalleresche, esalta la guerra come unica fonte di gloria, la morte in battaglia come liberazione dalle miserie terrene. La più celebre di tali composizioni è stata tradotta in toscano nel XV da un poeta di cui mi sfugge il nome. Dopo aver celebrato la primavera, la bella fioritura, i dolci canti degli uccelli, Bertram cambia di colpo registro: “Ma più mi piace veder per li prati alzar le tende e stendardi piantare. / E per i campi cavalieri andare. Tutti in ischieri su cavalli armati. / E piacemi se vedo scorridori, molti ed armati a tumulto venienti. / E piacemi se vedo inseguitori. Che fan fuggire con loro robe el genti. / Et ho allegrezza assai grande mirando. Forti castelli assaltati e crollare muri abbattuti / E le schiere ristare presso le fosse steccati innalzando”.Mi si farà notare che la guerra può eccitare con l’allucinazione del potere che conferisce, con la speranza di premi e ricompense, con la liceità di “perversioni” giudicate ammissibili e anzi consigliabili; e tuttavia potrebbe in ultima analisi esercitare un fascino solo per chi attribuisce scarso e nullo significato alla propria esistenza, e dunque per quelli che ci si ostina a chiamare «dannati della terra,» o a giovani incapaci di trovare una nobile ragione per vivere. Ma mi si farà anche notare che la guerra, ogni guerra, rappresenta la prosecuzione di un clima di festa, di messa in mora delle norme consuete. Di sospensione della separazione tra realtà e sogno, tra quotidianità e avventura. Né si mancherà di ricordarmi che la guerra è necrofila, in quanto esige dal combattente familiarità con la morte propria e altrui. Un fascino oscuro, quello esercitato dalla guerra: ma sono tutte considerazioni di accento negativo, laddove la celebrazione di Bertran de Born è una affermazione di vitalità spinta ai limiti.Gli è che la guerra ha una sua intrinseca bellezza, e lo comprovano i molti, celeberrimi dipinti di ogni secolo – a partire, facile notarlo, dal Neolitico, e più avanti dirò perché – i quali illustrano fatti d’armi, si tratti delle Termopili, della carica della cavalleria scozzese alla battaglia di Waterloo, o dell’enorme numero di film che continuano ad esaltarne l’importanza, la torbida bellezza, insomma l’incidenza enorme che le guerre, e soprattutto certe battaglie conclusive, hanno avuto e hanno sulle vicende sociali. Persino sulla delimitazione dei periodi che usiamo chiamare storici. L’Inghilterra è nata dalla conquista normanna del 1166. Cos’è dunque la guerra? Risposta di Karl von Clausewitz: «Limitiamoci alla sua essenza, il duello». Dove il grande teorico della guerra rischia la confusione tra violenza e guerra, come se fossero un’unica cosa. L’errore di Clausewitz è consistito nell’aver equiparato la guerra a un atto, o una serie di atti, istintuali. Quasi si trattasse di un litigio da osteria che finisca a coltellate.Ma la guerra non è l’istintuale. Non si guerreggia obbedendo a impulsi prerazionali. No, perché le guerra sono proprie, ed esclusivamente, di società gerarchiche, strutturate in piramidi formate da un vertice autorevole e da una successione di sudditi convinti all’obbedienza. Senza questa struttura, eminentemente razionale, e di ascendenza neolitica (e come tale furto dello stanziamento, della produzione agricola, dell’allevamento del bestiame, dell’invenzione della divinità, del dominio nella sua triplice articolazione, dell’invenzione della macchina, della proprietà privata – in una parola dell’epoca, appunto il Neolitico, di cui siamo gli eredi, e anzi i continuatori). Clausewitz, celebre autore del suo celeberrimo “Della guerra”, 1832-34, si è reso conto del suo errore. Dicendo che per il militare non esiste «la pace»: esiste solo la non-guerra, la tregua armata. E alludendo dunque alla perennità della mobilitazione continua a tutti i livelli della società e di conseguenza alla condanna del militarismo inteso quale politica che abbia a propria finalità e conclusione la guerra. Della politica, infatti, la guerra è, al più, la forma suprema, il culmine. E soltanto una politica stupida (e ne abbiamo avuto nel secolo scorso esempi clamorosi, Vietnam, Iraq, Afganistan…) si tramuta senz’altro in guerra, al di là di ogni considerazione di carattere razionale e utilitaristico.8. Meccanismo della Persuasione. Sì, perché esiste una tecnoscienza, ripetuta di generazione in generazione, della mobilitazione. Ed è quella che da altri, in particolare Clyde Miller, è stata chiamata Meccanismo della Persuasione. Né è certo una novità l’intervento di «persuasori occulti,» cioè di appelli all’irrazionale nella vita delle nazione: irrazionale camuffato, sia chiaro, da richiami ai principi di realtà. Elaborata da secoli a scopi mobilitatori, la propaganda politica nella fase attuale dello sviluppo civile ha investito la società in maniera un tempo sconosciuta. Le forme di propaganda rispecchiano i fondamenti economici della società che la usa, nonché gli intenti della sua classe dirigente; e, per ciò che riguarda le società odierne – tutte borghesi seppure con varie connotazioni, che siano o meno sottoposte al controllo di un partito unico – il modulo, l’insieme di tecniche impiegate allo scopo, è sempre lo stesso, che si tratti di agire nell’ambito della caserma o del supermercato, quale che sia la merce da indurre ad apprezzare, ad accettare, ad acquistare, formaggi o ideologie.Perché i problemi della persuasione si riducono a uno solo: sviluppare certi riflessi condizionati mediante ricorso a parole-chiave. A simboli-chiave, ad azioni-chiave. Il consumatore-mobilitando, il compratore-soldato, viene “precondizionato”, gli si stampa nel cervello l’elogio del prodotto in modo da escludere dubbi sulla sua assolutezza. Si tratta di agire programmaticamente su tutti i livelli dell’opinione, soprattutto a quelli consci o preconsci, (pregiudizi, terrori, credenze ancestrali, impulsi emotivi), applicando nei confronti del milite come del consumatore i ritrovati della ricerca motivazionale, dell’analisi delle motivazioni. Il prodotto – e l’ideologia – dovrà esercitare una suggestione sui sentimenti annidati nella psiche. Ma non si tratta di prassi inedite, inaspettatamente iniettate nelle vene della società borghese, anche se hanno assunto, soprattutto a partire dalla fine della seconda guerra mondiale e della guerra fredda, un’estensione rilevantissima in concomitanza con l’espansione del mercato. E la cura costante per le esigenze psicologiche degli eserciti (fino a tempi recentissimi quelli di massa, oggi in apparenza composti da volontari salariati) ha avuto uno sviluppo parallelo a quello dell’economia di mercato. Il cliente, milite o compratore, dovrà innamorarsi del prodotto, a esso legarsi mediante una fedeltà irrazionale.Per quanto riguarda il compratore, il prodotto apparirà ( anche se in effetti contenga veleni), casalingo, puro, cortese, pulito, onesto, paziente. Nel caso dell’acquirente del prodotto patria, dovrà apparire virile, forte, potente, autoritario. Sempre il prodotto dovrà avere una personalità, la stessa della patria o dei suoi equivalenti. Si offrirà così al mobilitando un’illusione di razionalità, un pretesto con il quale nascondere a se stesso l’irrazionalità su cui si fa leva. L’estetica dell’arma, da lustrare e curare, l’arma che prolunga la personalità del combattente, kalascnicov o elicottero che sia, fa il paio con l’idea dell’automobile come mezzo di espressione dell’“aggressività” di chi la acquista. Importantissime, ai fini della mobilitazione, le parate militari, che altro non sono se non l’esposizione di certi prodotti sapientemente architettati, accuratamente designed, carri armati dall’aria cattiva, di fosco colore, dalle minacciose torrette, mostri scientifici e metafisici insieme; e velivoli senza pilota, invisibili, irrintracciabili in cielo, di invincibile pericolosità; caccia-bombardieri nei quali la funzionalità si sposi alla misteriosità, all’incomprensibilità per il profano, e la cui efficienza sia già rivelata dal fracasso che producono volando o decollando e dalle enigmatiche scie di condensazione. Se al consumatore del supermercato piace vedere una grande abbondanza di merci che lo sazia letteralmente e preventivamente, al milite piace la sensazione di essere in tanti che partono in missione, e la constatazione di disporre di tante armi, presuntamente efficientissime, che si aggiungono all’euforia tipica delle manifestazione di massa, soprattutto quelle patriottiche-militaristiche.9. Il Militarismo. Il Militarismo è l’esplicita o sottilmente insinuata finalizzazione della politica alla guerra proclamata come necessaria. E tale è stata dichiarata, a sua giustificazione, la guerra del Vietnam, come quelle successive. Noi viviamo così in società della paura (qualcuno può sempre e comunque sganciare la BOMBA). Ma l’oscuro fascino della guerra è lungi dall’essersi spento e anche solo eclissato, e sussiste pur sempre la possibilità di sottrarsi collettivamente al logos inteso come super-Io, e di abbandonarsi lontano dalla città con le sue forclusioni, a una sorta di stravolta empatia (o controempatia) con la rivelazione però, non dell’Alterità, bensì della Morte. L’ostilità è così calata dal cielo a funestare la terra – ogni lembo di terra abitato dalla civiltà, che è per definizione bianca, occidentale. Né chiamatela follia. Poiché quella che si usa definire follia – oppure psicosi o altri presunti equivalenti – è innanzi tutto condizione della poiesis.Ed è hybris, è dissoluzione del soggetto, rifiuto dell’obbligatoria felicità, contestazione della volgarità sotto forma del rappresentabile e rappresentato – pittura, teatro, danza, o dalla rappresentabilità della Logica del Tempo, della Logica dell’Inconscio, in nome dell’eccesso, dell’estremismo, dell’ekstasis, parola greca che può indicare l’uscita dai ceppi della ratio come assoluta egemone, ma dalla quale deriva, guarda caso essere, non esser-ci: voglio dire l’inattingibile Carne, mai matrugiata dalla carne, forse intravista – budella squarciate, sublime dolore, dal samurai che pratica il seppuku, – e forse per un istante raggiunga il fondo supremo della rivelazione, il simbolo palpabile dell’aldilà, della sua presenza in noi. Cosa non data al soldato, e tanto meno al cosiddetto eroe. E mai al soldato. Soldato che inesorabilmente scopre la sua propria miseria.
(Francesco Saba Sardi, “Istituzione dell’ostilità”, dalla pagina Facebook di Giovanni Francesco Carpeoro, 14 aprile 2016. Scrittore, saggista e traduttore, eminente intellettuale italiano, ha tradotto i maggiori scrittori mondiali dell’800 e del ‘900, nel 1958 ha firmato “Il Natale ha 5000 anni” e, in un altro saggio, “Dominio”, edito nel 2004, ha tracciato una lucida analisi della natura autoritaria del potere che ha guidato la civilizzazione terrestre, dall’avvento del neolitico ai giorni nostri).
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Re: La Terza Guerra Mondiale
LA CALDA ESTATE DEL 2016
CRONACA DI GIORNI DI GUERRA
MENTRE DA NOI(PER IL MOMENTO) CI SI LIMITA AL TERRORISMO ALL'ITALIANA, CORRENDO NUDO NELLA CITTA' DEL SANTO, IN BELGIO FANNO SUL SERIO.
6 AGO 2016 21:11
TERRORISMO SENZA LIMITISMO
- HA GRIDATO 'ALLAH U AKBAR' L'AGGRESSORE DI DUE DONNE POLIZIOTTO A CHARLEROI, IN BELGIO, FERITE A COLPI DI MACHETE - L'AGGRESSORE È STATO POI UCCISO DA UN TERZO AGENTE
http://www.dagospia.com/rubrica-29/cron ... 130132.htm
CRONACA DI GIORNI DI GUERRA
MENTRE DA NOI(PER IL MOMENTO) CI SI LIMITA AL TERRORISMO ALL'ITALIANA, CORRENDO NUDO NELLA CITTA' DEL SANTO, IN BELGIO FANNO SUL SERIO.
6 AGO 2016 21:11
TERRORISMO SENZA LIMITISMO
- HA GRIDATO 'ALLAH U AKBAR' L'AGGRESSORE DI DUE DONNE POLIZIOTTO A CHARLEROI, IN BELGIO, FERITE A COLPI DI MACHETE - L'AGGRESSORE È STATO POI UCCISO DA UN TERZO AGENTE
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