La Terza Guerra Mondiale
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Re: La Terza Guerra Mondiale
LA CALDA ESTATE DEL 2016
CRONACA DI GIORNI DI GUERRA
MONDO
Libia & C.: l’Italia si sganci dal meccanismo della guerra
di Fabio Marcelli | 7 agosto 2016
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Fabio Marcelli
Giurista internazionale
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Con un rapporto pubblicato recentemente, due organismi attivi sul campo della raccolta d’informazione in ordine a corruzione e traffici internazionali, il Birn (Balkan Investigative Reporting Network) e l’Occrp (Organized Crime and Corruption Reporting Project) hanno denunciato un traffico d’armi del valore di ben 1,2 miliardi di euro verso il Medio Oriente e il Nordafrica.
Si tratta di armi e munizioni provenienti da Paesi dell’Est europeo quasi tutti membri della Nato (Croazia, Repubblica Ceca, Serbia, Slovacchia, Bulgaria, Romania Bosnia-Erzegovina, Montenegro) e dirette verso Paesi medio- orientali (Arabia Saudita, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Turchia).
Ma destinatari finali del traffico sono gruppi armati operanti in Siria, Libia ed Yemen, tra i quali il famigerato Isis ed altre formazioni fondamentaliste.
Il rapporto in questione fornisce informazioni dettagliate sui vettori del traffico (compresa la Marina militare statunitense) e la sua entità e composizione (tanto per fare un esempio 10.000 kalashnikov e 300 tanks forniti all’Arabia Saudita).
Altra circostanza degna di nota è che il traffico in questione si sia sviluppato soprattutto a partire dal 2012, in coincidenza con gli eventi noti come “primavera araba”.
Il ruolo di distribuzione degli armamenti e delle munizioni in loco è svolto da centri noti come Military Operations Center (MOC) e formati da personale militare e dei servizi di Turchia, Paesi del Golfo, Giordania e Stati Uniti.
Secondo Robert Stephen Ford, ambasciatore statunitense in Siria dal 2011 al 2014, anche la CIA è direttamente coinvolta, ma la decisione finale su chi possa ricevere armamenti è riservata ai Paesi direttamente impegnati nel rifornire i gruppi armati.
Lo Special Operations Command (SOCOM) del Dipartimento di Difesa statunitense ha operato a sua volta ingenti trasferimenti di armi e munizioni ai gruppi impegnati nella guerra civile siriana.
Vale la pena di sottolineare come i due organismi autori del rapporto menzionato siano delle reti investigative di giornalisti indipendenti.
Sarebbe del resto stato illusorio aspettarsi che i governi, che sono i principali colpevoli di questo traffico totalmente illegale, fornissero al riguardo alcun elemento. L’opinione pubblica è lasciata nel buio più totale e chiedere ad enti che istituzionalmente dovrebbero vegliare alla sicurezza nazionale e internazionale di muoversi per bloccarlo sarebbe come chiedere alla Rai di Campo Dall’Orto di svolgere un’informazione completa e obiettiva sul referendum costituzionale.
Dobbiamo apprezzare la sincerità del ministro serbo Vucic quando afferma di “adorare” le esportazioni di armamenti verso l’Arabia Saudita.
Nella consapevolezza tuttavia che la presenza di personaggi del genere al vertice degli Stati avvicina notevolmente l’estinzione del genere umano e produce violazioni dei diritti e sofferenze inaudite.
Dobbiamo peraltro riflettere sul meccanismo che è stato posto in atto e che rischia di ricevere ulteriore slancio dall’escalation dei bombardamenti occidentali in Libia ai quali, sia pure in veste come sempre subalterna, è associato anche il nostro Paese.
Il meccanismo in questione consiste nella sostanza in questo, con una mano si riforniscono i vari gruppi più o meno terroristici operanti nei Paesi menzionati, di armamenti di ogni genere e con l’altra li si bombarda quando conviene farlo o perché diventano troppo pericolosi.
Lo si vede attualmente in Libia, laddove i bombardamenti sono direttamente funzionali al sostegno di un governo non troppo dotato di sostegno popolare come quello di Al Sarraj, nel contesto anche di dinamiche di conflittualità interna tra potenze imperialiste tutte fortemente interessate ai giacimenti libici (la Francia, principale responsabile dell’attuale situzione di caos nel Paese, sostiene Haftar contro Al Sarraj).
Certamente formazioni come Isis vanno estirpate anche con il ricorso alla forza armata ma non ha certo senso a tale scopo armarli fino ai denti come hanno fatto e continuano a fare i Paesi menzionati.
Ci vuole inoltre un progetto politico che sembra totalmente assente in Libia, mentre in Siria comincia a delinearsi quello della riorganizzazione del Paese su base federale esemplificato dal governo della Rojava.
Andrebbe potenziato il ruolo del Consiglio di Sicurezza che ha emanato al riguardo la risoluzione 2259, superando le tendenze alla ripresa all’unilateralismo esemplificate dalla decisione statunitense.
La nostra mediocre classe politica, rappresentata da personaggi chiaramente non all’altezza della situazione come Renzi, Gentiloni, Pinotti e Mogherini, continua a barcamenarsi.
Per tutto un periodo ha giustamente rifiutato (almeno a parole) un impegno diretto nel sanguinoso pasticcio libico, ma senza riuscire ad elaborare alcuna posizione degna di questo nome, tanto è vero che oggi accorre scodinzolando all’irresistibile richiamo dei padroni di sempre.
L’Italia, in omaggio al suo ruolo di potenza mediterranea, dovrebbe invece restarne fuori e cominciare a smontare il meccanismo mortifero e diabolico di cui si è parlato.
Quantomeno seguendo l’esempio dell’Olanda che ha decretato la fine delle esportazioni di armamenti verso l’Arabia saudita, a costo di privare i propri funzionari dei preziosi Rolex elargiti dal governo di quest’ultima.
Ma non c’è spazio per decisioni di questo tipo all’interno dell’asfittico orizzonte di politica estera praticato dal nostro governo che si proietta verso una nuova avventura bellica dagli sviluppi ed esiti indefiniti aggirando ogni controllo parlamentare e popolare.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/08 ... a/2942216/
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di Fabio Marcelli | 7 agosto 2016
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Con un rapporto pubblicato recentemente, due organismi attivi sul campo della raccolta d’informazione in ordine a corruzione e traffici internazionali, il Birn (Balkan Investigative Reporting Network) e l’Occrp (Organized Crime and Corruption Reporting Project) hanno denunciato un traffico d’armi del valore di ben 1,2 miliardi di euro verso il Medio Oriente e il Nordafrica.
Si tratta di armi e munizioni provenienti da Paesi dell’Est europeo quasi tutti membri della Nato (Croazia, Repubblica Ceca, Serbia, Slovacchia, Bulgaria, Romania Bosnia-Erzegovina, Montenegro) e dirette verso Paesi medio- orientali (Arabia Saudita, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Turchia).
Ma destinatari finali del traffico sono gruppi armati operanti in Siria, Libia ed Yemen, tra i quali il famigerato Isis ed altre formazioni fondamentaliste.
Il rapporto in questione fornisce informazioni dettagliate sui vettori del traffico (compresa la Marina militare statunitense) e la sua entità e composizione (tanto per fare un esempio 10.000 kalashnikov e 300 tanks forniti all’Arabia Saudita).
Altra circostanza degna di nota è che il traffico in questione si sia sviluppato soprattutto a partire dal 2012, in coincidenza con gli eventi noti come “primavera araba”.
Il ruolo di distribuzione degli armamenti e delle munizioni in loco è svolto da centri noti come Military Operations Center (MOC) e formati da personale militare e dei servizi di Turchia, Paesi del Golfo, Giordania e Stati Uniti.
Secondo Robert Stephen Ford, ambasciatore statunitense in Siria dal 2011 al 2014, anche la CIA è direttamente coinvolta, ma la decisione finale su chi possa ricevere armamenti è riservata ai Paesi direttamente impegnati nel rifornire i gruppi armati.
Lo Special Operations Command (SOCOM) del Dipartimento di Difesa statunitense ha operato a sua volta ingenti trasferimenti di armi e munizioni ai gruppi impegnati nella guerra civile siriana.
Vale la pena di sottolineare come i due organismi autori del rapporto menzionato siano delle reti investigative di giornalisti indipendenti.
Sarebbe del resto stato illusorio aspettarsi che i governi, che sono i principali colpevoli di questo traffico totalmente illegale, fornissero al riguardo alcun elemento. L’opinione pubblica è lasciata nel buio più totale e chiedere ad enti che istituzionalmente dovrebbero vegliare alla sicurezza nazionale e internazionale di muoversi per bloccarlo sarebbe come chiedere alla Rai di Campo Dall’Orto di svolgere un’informazione completa e obiettiva sul referendum costituzionale.
Dobbiamo apprezzare la sincerità del ministro serbo Vucic quando afferma di “adorare” le esportazioni di armamenti verso l’Arabia Saudita.
Nella consapevolezza tuttavia che la presenza di personaggi del genere al vertice degli Stati avvicina notevolmente l’estinzione del genere umano e produce violazioni dei diritti e sofferenze inaudite.
Dobbiamo peraltro riflettere sul meccanismo che è stato posto in atto e che rischia di ricevere ulteriore slancio dall’escalation dei bombardamenti occidentali in Libia ai quali, sia pure in veste come sempre subalterna, è associato anche il nostro Paese.
Il meccanismo in questione consiste nella sostanza in questo, con una mano si riforniscono i vari gruppi più o meno terroristici operanti nei Paesi menzionati, di armamenti di ogni genere e con l’altra li si bombarda quando conviene farlo o perché diventano troppo pericolosi.
Lo si vede attualmente in Libia, laddove i bombardamenti sono direttamente funzionali al sostegno di un governo non troppo dotato di sostegno popolare come quello di Al Sarraj, nel contesto anche di dinamiche di conflittualità interna tra potenze imperialiste tutte fortemente interessate ai giacimenti libici (la Francia, principale responsabile dell’attuale situzione di caos nel Paese, sostiene Haftar contro Al Sarraj).
Certamente formazioni come Isis vanno estirpate anche con il ricorso alla forza armata ma non ha certo senso a tale scopo armarli fino ai denti come hanno fatto e continuano a fare i Paesi menzionati.
Ci vuole inoltre un progetto politico che sembra totalmente assente in Libia, mentre in Siria comincia a delinearsi quello della riorganizzazione del Paese su base federale esemplificato dal governo della Rojava.
Andrebbe potenziato il ruolo del Consiglio di Sicurezza che ha emanato al riguardo la risoluzione 2259, superando le tendenze alla ripresa all’unilateralismo esemplificate dalla decisione statunitense.
La nostra mediocre classe politica, rappresentata da personaggi chiaramente non all’altezza della situazione come Renzi, Gentiloni, Pinotti e Mogherini, continua a barcamenarsi.
Per tutto un periodo ha giustamente rifiutato (almeno a parole) un impegno diretto nel sanguinoso pasticcio libico, ma senza riuscire ad elaborare alcuna posizione degna di questo nome, tanto è vero che oggi accorre scodinzolando all’irresistibile richiamo dei padroni di sempre.
L’Italia, in omaggio al suo ruolo di potenza mediterranea, dovrebbe invece restarne fuori e cominciare a smontare il meccanismo mortifero e diabolico di cui si è parlato.
Quantomeno seguendo l’esempio dell’Olanda che ha decretato la fine delle esportazioni di armamenti verso l’Arabia saudita, a costo di privare i propri funzionari dei preziosi Rolex elargiti dal governo di quest’ultima.
Ma non c’è spazio per decisioni di questo tipo all’interno dell’asfittico orizzonte di politica estera praticato dal nostro governo che si proietta verso una nuova avventura bellica dagli sviluppi ed esiti indefiniti aggirando ogni controllo parlamentare e popolare.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/08 ... a/2942216/
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Re: La Terza Guerra Mondiale
LA CALDA ESTATE DEL 2016
CRONACA DI GIORNI DI GUERRA
8 AGO 2016 12:15
QUATTRO DONNE VELATE ENTRANO IN UNA CHIESA DI VENEZIA, SPUTANO SUL CROCIFISSO E VITTORIO FELTRI SI SCATENA: “C’E’ VOLUTO IL GRUPPO DI PUTTANELLE ISLAMICHE PER CONVINCERE IL PARROCO ALLA DENUNCIA. NON VOLEVA FARLO: TEMEVA DI PASSARE PER RAZZISTA.
LA REAZIONE VIOLENTA E’ SACROSANTA. RIBELLIAMOCI!”
La chiesa di San Zulian a Venezia è stata in questi giorni il luogo di un attacco terroristico subdolo, senza sangue, ma che fa sanguinare il cuore di uno come me che è ateo, ma è pur sempre figlio di questa terra dove suonano le campane e il panorama è pieno di croci e crocifissi.
Due volte. Prima alcuni giovanotti arabi si sono presentati a messa. Hanno ricevuto la comunione fingendosi devoti cattolici e subito hanno vomitato l'ostia sull' altare come fosse cibo del diavolo, bestemmiando Gesù Cristo. Poi, passato un giorno, quattro ragazze con il velo islamico si sono dirette verso il crocifisso e gli hanno sputato sul volto: quello sarà stato di legno, ma io ho sentito la bava di questa gentaglia sulla mia faccia, anzi sul volto dei miei che mi hanno insegnato il segno della croce, e dei loro padri e indietro ancora, a quelli che hanno fatto l'Italia, un paese che farà anche pena, ma è il mio paese. Il nostro paese.
C'è voluto che il fatto si ripetesse, che arrivasse il gruppo di puttanelle islamiche per convincere il parroco alla denuncia pubblica. Il sacrestano quasi si vergognava a farlo sapere, mica che gli dessero del visionario o del razzista fondamentalista. Il prete infine ha rivelato pubblicamente il sopruso. Ed è già un miracolo di coraggio. Perché ora dovrà subire lui il processo: gli diranno di non avere misericordia, di prestarsi alla reazione violenta, ad esempio, di Libero.
Violenta? Sacrosanta. Se non ci difendiamo, se non tuteliamo quello che abbiamo ricevuto da chi ci ha preceduto calpestando coi suoi piedi questa valle di lacrime, tanto vale arrendersi, consegnarci direttamente al Califfo e ai suoi mullah. Ribelliamoci. Chiediamo che la comunità islamica consegni alle forze dell' ordine questi loro soci. Figuriamoci. I musulmani in Italia, visto che non hanno il santo timor di Dio, come recitava il catechismo del mio curato, e neppure della legge, ne abbiano almeno di una salutare reazione dell' opinione pubblica. Temo sia tardi.
Nei giorni scorsi ho letto un reportage sul Foglio di Cristina Giudici da un quartiere di Milano, vicino a San Siro, trasformato ormai in una succursale della Mecca. Scriveva: «A metà pomeriggio, nel quartiere popoloso e popolare a cento metri dallo stadio, sembra di stare quasi al Cairo. Ciò che colpisce di più è l'immagine delle numerose donne che nel pomeriggio affollano il marciapiede con molti bambini.
Tutte velate, molte con il velo integrale. Il quadrilatero della vecchia San Siro è diventato una mini Molenbeek. Ne sa qualcosa Giovanna De Matteis, madre di un alunno di quarta elementare, con un solo compagno di classe italiano, che ha ingaggiato una battaglia per difendere, ci dice, il crocifisso e impedire che venisse accolta la richiesta di alcuni genitori di mandare alla scuola elementare le bambine con il velo. Una richiesta che indica il grado di radicalizzazione esploso in quartiere negli ultimi due anni».
La giornalista racconta che i musulmani non fanno entrare chi non è dei loro in certi negozi. Almeno impediamo che ci insozzino le chiese, che non sono proprietà solo di chi vi accende devotamente le candele, ma sono luoghi della nostra anima o animaccia che sia.
Ci sono le impronte della memoria senza cui non esiste nazione, civiltà e non si resiste all'invasore. Noi non siamo come loro, come gli islamici intendo. In Pakistan hanno buttato in una fornace due sposi cattolici accusati (falsamente) di aver bruciato una pagina del Corano: si sono mossi in mille per linciarli.
Hanno fatto scoppiare rivolte, e assassinato vignettisti a sangue freddo, per un paio di disegnini. Noi non siamo così. Ma quelli che hanno sputato le ostie li sputerei su un canotto, con acqua e viveri beninteso e persino una copia del Corano, e li spingerei al largo verso i loro minareti libici, egizi o marocchini. Non andremo a insozzargli le moschee. Ma state a casa vostra.
Il Padreterno si arrangerà a suo tempo a sbatterli all'inferno, sempre che non sia Allah a comandare anche nell'aldilà, visto che nell'aldiquà già imperversa. Oppure li perdonerà. È il suo lavoro. I bravi cristiani seguiranno l'esempio del Papa (chi sono io per giudicare?) e diranno che è colpa delle multinazionali, dei fabbricanti di armi e ultimamente di quelli dei Tir. Io non ci sto.
Posso permettermelo, non essendo un bravo cattolico. Ma penso che uno Stato laico, che non è obbligato a perdonare 70 volte 7, debba reagire con forza, riprendere il controllo di tutto il territorio, appoggiato da teste di destra, di sinistra e di centro. Mi illudo. Sono sicuro che i giornaloni minimizzeranno, riducendo il tutto a un caso di folklore tra opposti baciapile. Balle.
CRONACA DI GIORNI DI GUERRA
8 AGO 2016 12:15
QUATTRO DONNE VELATE ENTRANO IN UNA CHIESA DI VENEZIA, SPUTANO SUL CROCIFISSO E VITTORIO FELTRI SI SCATENA: “C’E’ VOLUTO IL GRUPPO DI PUTTANELLE ISLAMICHE PER CONVINCERE IL PARROCO ALLA DENUNCIA. NON VOLEVA FARLO: TEMEVA DI PASSARE PER RAZZISTA.
LA REAZIONE VIOLENTA E’ SACROSANTA. RIBELLIAMOCI!”
La chiesa di San Zulian a Venezia è stata in questi giorni il luogo di un attacco terroristico subdolo, senza sangue, ma che fa sanguinare il cuore di uno come me che è ateo, ma è pur sempre figlio di questa terra dove suonano le campane e il panorama è pieno di croci e crocifissi.
Due volte. Prima alcuni giovanotti arabi si sono presentati a messa. Hanno ricevuto la comunione fingendosi devoti cattolici e subito hanno vomitato l'ostia sull' altare come fosse cibo del diavolo, bestemmiando Gesù Cristo. Poi, passato un giorno, quattro ragazze con il velo islamico si sono dirette verso il crocifisso e gli hanno sputato sul volto: quello sarà stato di legno, ma io ho sentito la bava di questa gentaglia sulla mia faccia, anzi sul volto dei miei che mi hanno insegnato il segno della croce, e dei loro padri e indietro ancora, a quelli che hanno fatto l'Italia, un paese che farà anche pena, ma è il mio paese. Il nostro paese.
C'è voluto che il fatto si ripetesse, che arrivasse il gruppo di puttanelle islamiche per convincere il parroco alla denuncia pubblica. Il sacrestano quasi si vergognava a farlo sapere, mica che gli dessero del visionario o del razzista fondamentalista. Il prete infine ha rivelato pubblicamente il sopruso. Ed è già un miracolo di coraggio. Perché ora dovrà subire lui il processo: gli diranno di non avere misericordia, di prestarsi alla reazione violenta, ad esempio, di Libero.
Violenta? Sacrosanta. Se non ci difendiamo, se non tuteliamo quello che abbiamo ricevuto da chi ci ha preceduto calpestando coi suoi piedi questa valle di lacrime, tanto vale arrendersi, consegnarci direttamente al Califfo e ai suoi mullah. Ribelliamoci. Chiediamo che la comunità islamica consegni alle forze dell' ordine questi loro soci. Figuriamoci. I musulmani in Italia, visto che non hanno il santo timor di Dio, come recitava il catechismo del mio curato, e neppure della legge, ne abbiano almeno di una salutare reazione dell' opinione pubblica. Temo sia tardi.
Nei giorni scorsi ho letto un reportage sul Foglio di Cristina Giudici da un quartiere di Milano, vicino a San Siro, trasformato ormai in una succursale della Mecca. Scriveva: «A metà pomeriggio, nel quartiere popoloso e popolare a cento metri dallo stadio, sembra di stare quasi al Cairo. Ciò che colpisce di più è l'immagine delle numerose donne che nel pomeriggio affollano il marciapiede con molti bambini.
Tutte velate, molte con il velo integrale. Il quadrilatero della vecchia San Siro è diventato una mini Molenbeek. Ne sa qualcosa Giovanna De Matteis, madre di un alunno di quarta elementare, con un solo compagno di classe italiano, che ha ingaggiato una battaglia per difendere, ci dice, il crocifisso e impedire che venisse accolta la richiesta di alcuni genitori di mandare alla scuola elementare le bambine con il velo. Una richiesta che indica il grado di radicalizzazione esploso in quartiere negli ultimi due anni».
La giornalista racconta che i musulmani non fanno entrare chi non è dei loro in certi negozi. Almeno impediamo che ci insozzino le chiese, che non sono proprietà solo di chi vi accende devotamente le candele, ma sono luoghi della nostra anima o animaccia che sia.
Ci sono le impronte della memoria senza cui non esiste nazione, civiltà e non si resiste all'invasore. Noi non siamo come loro, come gli islamici intendo. In Pakistan hanno buttato in una fornace due sposi cattolici accusati (falsamente) di aver bruciato una pagina del Corano: si sono mossi in mille per linciarli.
Hanno fatto scoppiare rivolte, e assassinato vignettisti a sangue freddo, per un paio di disegnini. Noi non siamo così. Ma quelli che hanno sputato le ostie li sputerei su un canotto, con acqua e viveri beninteso e persino una copia del Corano, e li spingerei al largo verso i loro minareti libici, egizi o marocchini. Non andremo a insozzargli le moschee. Ma state a casa vostra.
Il Padreterno si arrangerà a suo tempo a sbatterli all'inferno, sempre che non sia Allah a comandare anche nell'aldilà, visto che nell'aldiquà già imperversa. Oppure li perdonerà. È il suo lavoro. I bravi cristiani seguiranno l'esempio del Papa (chi sono io per giudicare?) e diranno che è colpa delle multinazionali, dei fabbricanti di armi e ultimamente di quelli dei Tir. Io non ci sto.
Posso permettermelo, non essendo un bravo cattolico. Ma penso che uno Stato laico, che non è obbligato a perdonare 70 volte 7, debba reagire con forza, riprendere il controllo di tutto il territorio, appoggiato da teste di destra, di sinistra e di centro. Mi illudo. Sono sicuro che i giornaloni minimizzeranno, riducendo il tutto a un caso di folklore tra opposti baciapile. Balle.
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LA CALDA ESTATE DEL 2016
CRONACA DI GIORNI DI GUERRA
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LA MAPPA
Vacanze al tempo dell’Is: Jihadisti sull’uscio
L’avamposto dello Stato islamico più vicino a noi è a Bihac, Bosnia. E dista 153 chilometri da Trieste. Ecco i luoghi nei Balcani dove si è radicato l’estremismo
DI ENRICO BIANDA
08 agosto 2016
Dalla sacca di Bihac, Nord-ovest della Bosnia, a Trieste corrono in linea d’aria 153 chilometri (vedi cartina a fianco). È l’avamposto più avanzato verso i nostri confini dove sventola una bandiera nera del Califfo. È assai probabile, anzi è sicuro, che cellule jihadiste siano anche più vicine, in Francia, ad esempio, o addirittura che si trovino all’interno dell’Italia stessa (il Viminale ha censito alcune decine di italiani di origine araba partiti per combattere col Califfo). Ma a Bihac c’è una fetta di territorio sfuggito dal controllo statale, dove la polizia non entra e dove esiste una vera exclave dello Stato islamico. Non è la sola nei tormentati Balcani dove grumi di guerra santa punteggiano l’intera dorsale di quella che un tempo si chiamava Jugoslavia. E questo è un viaggio-censimento di un pericolo che sta a un braccio di mare dalle nostre coste, sull’altra sponda dell’Adriatico.
KOSOVO
Vacanze al tempo dell’Is: Jihadisti sull’uscio
Dalla sacca di Bihac, Nord-ovest della Bosnia, a Trieste corrono in linea d’aria 153 chilometri (vedi cartina a fianco). È l’avamposto più avanzato verso i nostri confini dove sventola una bandiera nera del Califfo. È assai probabile, anzi è sicuro, che cellule jihadiste siano anche più vicine, in Francia, ad esempio, o addirittura che si trovino all’interno dell’Italia stessa (il Viminale ha censito alcune decine di italiani di origine araba partiti per combattere col Califfo). Ma a Bihac c’è una fetta di territorio sfuggito dal controllo statale, dove la polizia non entra e dove esiste una vera exclave dello Stato islamico. Non è la sola nei tormentati Balcani dove grumi di guerra santa punteggiano l’intera dorsale di quella che un tempo si chiamava Jugoslavia. E questo è un viaggio-censimento di un pericolo che sta a un braccio di mare dalle nostre coste, sull’altra sponda dell’Adriatico.
KOSOVO
L’imam della moschea Sinaan Pasa Camii di Kacanik, dopo aver tentennato per qualche istante, rifiuta categoricamente di incontrarci. «Non c’è alcuna possibilità che io parli con voi», dice al cellulare. Sono due giorni che proviamo a metterci in contatto con lui, Florin Nezir. La possibilità è sfumata, nonostante il responsabile finanziario della moschea ci avesse passato il numero di cellulare dell’imam. Florin Nezir è legato ad alcune associazioni islamiche estremiste della città di Kacanik. Ha buone protezioni nella Comunità islamica del Kosovo, di cui è capo in questa città non lontana dal confine con la Macedonia.
I suoi sponsor sono stati Ilir Berisha e Jetmir Kycyku, entrambi arrestati per terrorismo in un’operazione dell’ Eulex (la missione europea in Kosovo). Ma il grande sostenitore di Nezir è Lavdrim Muhaxheri, albanese, oggi uno dei capi dello Stato islamico, ex collaboratore della Kfor (la missione Nato di stabilizzazione del Kosovo dopo la guerra del 1999), famoso per essersi fatto ritrarre mentre decapitava prigionieri in Siria.
Il reclutamento di giovani jihadisti che partono per Siria e Iraq è un fenomeno diffuso in tutta l’area che si è ulteriormente aggravato con il ritorno di gruppi di foreign fighters. Diventati pedine importanti e anelli di congiunzione tra l’Europa e il Medio Oriente.
Terrorismo, così sono cambiate le vacanze
A Kacanik operavano liberamente fino allo scorso anno due organizzazioni islamiche radicali: Parimi e Rik (Rinia Islame Kacanik), un’organizzazione giovanile islamica, guidata da un emiro, che stando alle informazioni della polizia, è ancora Lavdrim Muhaxheri. Solo da questa piccola città sono partiti nel 2014 almeno 7 giovani di età compresa tra i 25 e i 31 anni, di cui conosciamo solo le iniziali. Entrambe le organizzazioni hanno subito, sempre nel corso del 2014, la chiusura delle sedi, grazie soprattutto alle misure antiterrorismo decise con la legge sui foreign fighters approvata nel 2014 dal Parlamento di Pristina.
Qui a Kacanik la vicenda dei giovani partiti per combattere in Siria o Iraq, nelle fila dello Stato Islamico o del fronte al Nusra (filiazione di al Qaeda), è molto delicata. Kacanik è stata la prima delle città kosovare a votare la costituzione, quando ancora il paese era parte della Serbia. Per cui fatica a convivere con l’appellativo di capitale dell’estremismo islamico, quando è stata in passato l’apripista di una costituzione molto laica.
Il portavoce della municipalità, Hajrush Dullenjy, afferma di non sapere assolutamente nulla dei giovani che hanno lasciato il Paese per combattere. Ma poi, a taccuini chiusi, ci racconta le circostanze della scomparsa di uno dei giovani, F.D., nato nel 1990, che ha fatto perdere le tracce una mattina abbandonando il mercato della città.
L’Imam che celebra la preghiera nella moschea retta da Florim Nezir, si chiama Bujar, conosce i giovani miliziani e sostiene che nel caso non vogliano rientrare ed integrarsi, l’arresto è l’unica soluzione. Intanto durante la preghiera, osserviamo i partecipanti che mentre pronunciano Allahu akbar (Dio è il più grande) sollevano l’indice della mano destra, a sottolineare l’unicità di Allah.
I risultati dell’applicazione della legge sui guerriglieri islamisti sono confortanti, secondo il portavoce della polizia kosovara a Pristina Baki Kelani: qualche mese fa, in una giornata, un’operazione congiunta di esercito e polizia ha portato all’arresto di cinquanta persone legate all’estremismo islamico e coinvolte nella partenza di combattenti per Siria e Iraq. Gli indagati (dati del 2015) sono 130, 80 arresti gli arrestati e altrettante le associazioni controllate per sospetti legami col terrorismo.
A Pristina la sede dell’Associazione che si occupa delle attività dei musulmani in tutto il Paese ha un ingresso sontuoso, in fase di ristrutturazione: lavorano alla posa di un bassorilievo in pietra. Uffici silenziosi, personale in abiti occidentali, qui si controlla tutto: dagli stipendi degli imam al finanziamento delle scuole coraniche con l’invio di giovani studiosi nei vari Paesi dove terminare le scuole, Yemen e Arabia Saudita principalmente. La stessa Associazione drena molto denaro, di cui non si conosce la destinazione finale. Si parla di 55 milioni di euro arrivati in Kosovo nel corso degli ultimi 3 anni: investimenti, salari, donazioni, servizi e beni. Stando a Osman Musliu, imam a Drenas, la comunità islamica usa il denaro in modo poco trasparente, gestendo operazioni non chiare nel quadro di finanziamenti alle associazioni radicali come Parimi, le cui sedi sono state chiuse da operazioni di polizia anti terrorismo. Osman Musliu non è un imam qualunque: è lui che ha celebrato i funerali dell’eroe nazionale della guerra contro la Serbia Adem Jashari.
Esiste un documento riservato della Banca centrale kosovara che ha recentemente messo in evidenza i flussi di denaro che hanno finanziato alcune organizzazioni che nel corso degli anni hanno avuto rapporti con l’estremismo islamico radicale. A consegnarcelo è un giornalista economico della testata infokusi.com, Shkelzen Dakaj.
BOSNIA
Il quadro generale dell’Islam radicale in Kosovo è complicato e preoccupante come in quasi tutti i Paesi dell’area balcanica: Bosnia, Macedonia, Sangiaccato serbo conoscono situazioni simili. A partire dall’inizio degli Anni 90 in queste regioni scosse da guerre civili che hanno contrapposto comunità musulmane a comunità ortodosse o cattoliche, l’ingresso in alcune aree di mujaheddin, finanziati dall’Arabia Saudita, ha contribuito a far crescere il numero dei musulmani wahabiti. Due aspetti sono risultati fondamentali per l’espansione del wahabismo nei Balcani: la forza della propaganda grazie all’attività di associazioni sul filo della legalità da un lato, e i cospicui finanziamenti dall’altro. Tali correnti integraliste vanno collegate alla guerra del 1992-1995, quando in Bosnia giunsero alcune centinaia di volontari arabi e islamici (secondo altre fonti sono stati migliaia) per combattere a fianco dei musulmani bosniaci, inquadrati nell’esercito governativo.
Su invito delle autorità, molti di questi hanno lasciato il Paese dopo la fine del conflitto e la firma del trattato di pace di Dayton, ma alcuni gruppi sono rimasti dopo aver assunto la cittadinanza bosniaca per meriti militari, e soprattutto grazie al matrimonio con donne bosniache.
Comunità consistenti di musulmani integralisti bosniaci sono sorte in particolare nei villaggi di Bocinja, presso Maglaj, in Bosnia centrale, e Gornja Maoca, presso Brcko, dove periodicamente la polizia effettua blitz e retate di islamisti radicali. Secondo stime non ufficiali, sarebbero almeno 150 gli integralisti partiti dalla Bosnia per combattere in Siria e Iraq, 50 di loro rientrati in patria e una ventina di loro finora sarebbero stati uccisi.
Gli anni della ricostruzione post guerra sono stati caratterizzati dall’arrivo di numerose organizzazioni umanitarie patrocinate da Paesi islamici: Alto Comitato saudita, Fondazione Al-Haramain, Società per la rinascita del patrimonio islamico.
Oltre alla costruzione di moschee quali la Re Fahd, considerata la più grande dei Balcani ed eretta con soldi sauditi, queste organizzazioni hanno sponsorizzato un Islam diverso da quello professato tradizionalmente in Bosnia. In alcune zone della Bosnia come a Bihac, Teslic, Zeppe, Zenicae Gornja Maoca sono ormai presenti delle sacche wahabite dove si seguono alla lettera gli insegnamenti di Abu Muhammad al-Maqdisi, predicatore giordano-palestinese noto per le sue posizioni radicali. In queste regioni i wahabiti vivono secondo le leggi della Sharia seguendo gli insegnamenti di imam radicali come Husein Bilal Bosnic e Nusret Imamovic. Il villaggio di Gornja Maoca, situato vicino alla città di Brcko, risulta essere la stazione di transito, stando ad alcuni rapporti del Middle East Media Research Institute, attraverso la quale avviene il passaggio per jihadisti stranieri in viaggio per lo Yemen, l’Iraq e la Siria, e in questo contesto il nome di Bilal Bosnic ricorre frequentemente in relazione alle attività di trasporto dei guerriglieri.
Dai Balcani raggiungere la Siria risulta ormai molto facile: ogni grande città della regione è collegata con Istanbul, sia con pullman che con l’aereo. In seguito, stando alle indicazioni della polizia bosniaca, i volontari si muovono alla volta di Antiochia, per attraversare la frontiera di Bab Al-Hawa con l’aiuto della resistenza siriana, per raggiungere successivamente il Fronte al-Nusra.
SERBIA SANGIACCATO
Anche in Serbia preoccupa l’influsso crescente del fattore religioso di natura integralista nelle comunità musulmane del sud, nel Sangiaccato e nella regione a maggioranza albanese di Presevo e Bujanovac. Sarebbero tra i 30 e i 50 i combattenti serbo-musulmani in Siria e Iraq, almeno 10 i morti.
Il muftì Muamer Zukorlic, nato nel 1970, è l’uomo forte del Sangiaccato, leader della Comunità islamica della regione. Negli anni è diventato un punto di riferimento imprescindibile per la politica dell’area. Non ci sono rappresentanti ufficiali serbi o stranieri, di passaggio a Novi Pazar, che non gli abbiano fatto visita.
Nel Sangiaccato, il wahabismo ha preso piede a metà degli anni Novanta, prima a Novi Pazar, poi a Sjenica e Priboj, ottenendo immediatamente un vasto sostegno popolare, soprattutto grazie alla legittimazione da parte di Muamer Zukorlic. Mentre in altri Paesi dei Balcani, come in Bosnia Erzegovina essi sono visti con aperta ostilità e con sospetto, qui gli viene concessa persino la possibilità di partecipare attivamente alle riunioni della Comunità islamica.
Gli aderenti dell’Islam in Serbia sono organizzati in due corpi separati, uno subordinato alla Comunità islamica della Bosnia-Erzegovina, e l’altra, fondata nel 2007, affonda le sue origini al Principato di Serbia ed è guidata dal reis ul ulema Mustafa Ceric di Bosnia.
MACEDONIA
Di recente in una località al confine con il Kosovo, Kumanovo, si sono registrati scontri armati tra milizie islamiche macedoni e polizia con diversi morti soprattutto tra gli agenti. Secondo il portavoce della polizia macedone Ivo Kotevski, gli islamisti sarebbero entrati in Macedonia da un Paese confinante, l’Albania o più verosimilmente il Kosovo. Sempre secondo il portavoce della polizia i membri del gruppo armato pianificavano un attacco terroristico contro le istituzioni macedoni. Questo accadeva solo tre settimane dopo che una quarantina di militanti kosovari aveva preso il controllo di una stazione di polizia sul confine rivendicando la creazione di una enclave indipendente albanese in Macedonia.
Un segnale di vivacità e attivismo delle forze estremiste che soffiano sul fuoco etnico per estendere l’area del conflitto, per portare il jihad nei Balcani, secondo le conclusioni dei più pessimisti. Ci sono molti dettagli che fanno pensare che le persone che hanno preso parte agli scontri di Kumanovo fossero professionisti molto ben addestrati per operazioni terroristiche. Probabilmente alcune di loro avevano combattuto in Siria e Iraq (sono un centinaio i macedoni attivi sui fronti mediorientale) e dunque si può intuire l’idea con la quale erano arrivati in Macedonia: questo è il jihad e questo è il progetto della diffusione sul suolo europeo di un Islam radicale.
La componente estremista del wahabismo in Macedonia è stata poi coinvolta nei tentativi di assumere il controllo di alcune importanti moschee della capitale Skopje: Yahya Pasha, Sultan Murat, Hudaverdi e Kjosekadi.
© Riproduzione riservata 08 agosto 2016
CRONACA DI GIORNI DI GUERRA
LA MAPPA
Vacanze al tempo dell’Is: Jihadisti sull’uscio
L’avamposto dello Stato islamico più vicino a noi è a Bihac, Bosnia. E dista 153 chilometri da Trieste. Ecco i luoghi nei Balcani dove si è radicato l’estremismo
DI ENRICO BIANDA
08 agosto 2016
Dalla sacca di Bihac, Nord-ovest della Bosnia, a Trieste corrono in linea d’aria 153 chilometri (vedi cartina a fianco). È l’avamposto più avanzato verso i nostri confini dove sventola una bandiera nera del Califfo. È assai probabile, anzi è sicuro, che cellule jihadiste siano anche più vicine, in Francia, ad esempio, o addirittura che si trovino all’interno dell’Italia stessa (il Viminale ha censito alcune decine di italiani di origine araba partiti per combattere col Califfo). Ma a Bihac c’è una fetta di territorio sfuggito dal controllo statale, dove la polizia non entra e dove esiste una vera exclave dello Stato islamico. Non è la sola nei tormentati Balcani dove grumi di guerra santa punteggiano l’intera dorsale di quella che un tempo si chiamava Jugoslavia. E questo è un viaggio-censimento di un pericolo che sta a un braccio di mare dalle nostre coste, sull’altra sponda dell’Adriatico.
KOSOVO
Vacanze al tempo dell’Is: Jihadisti sull’uscio
Dalla sacca di Bihac, Nord-ovest della Bosnia, a Trieste corrono in linea d’aria 153 chilometri (vedi cartina a fianco). È l’avamposto più avanzato verso i nostri confini dove sventola una bandiera nera del Califfo. È assai probabile, anzi è sicuro, che cellule jihadiste siano anche più vicine, in Francia, ad esempio, o addirittura che si trovino all’interno dell’Italia stessa (il Viminale ha censito alcune decine di italiani di origine araba partiti per combattere col Califfo). Ma a Bihac c’è una fetta di territorio sfuggito dal controllo statale, dove la polizia non entra e dove esiste una vera exclave dello Stato islamico. Non è la sola nei tormentati Balcani dove grumi di guerra santa punteggiano l’intera dorsale di quella che un tempo si chiamava Jugoslavia. E questo è un viaggio-censimento di un pericolo che sta a un braccio di mare dalle nostre coste, sull’altra sponda dell’Adriatico.
KOSOVO
L’imam della moschea Sinaan Pasa Camii di Kacanik, dopo aver tentennato per qualche istante, rifiuta categoricamente di incontrarci. «Non c’è alcuna possibilità che io parli con voi», dice al cellulare. Sono due giorni che proviamo a metterci in contatto con lui, Florin Nezir. La possibilità è sfumata, nonostante il responsabile finanziario della moschea ci avesse passato il numero di cellulare dell’imam. Florin Nezir è legato ad alcune associazioni islamiche estremiste della città di Kacanik. Ha buone protezioni nella Comunità islamica del Kosovo, di cui è capo in questa città non lontana dal confine con la Macedonia.
I suoi sponsor sono stati Ilir Berisha e Jetmir Kycyku, entrambi arrestati per terrorismo in un’operazione dell’ Eulex (la missione europea in Kosovo). Ma il grande sostenitore di Nezir è Lavdrim Muhaxheri, albanese, oggi uno dei capi dello Stato islamico, ex collaboratore della Kfor (la missione Nato di stabilizzazione del Kosovo dopo la guerra del 1999), famoso per essersi fatto ritrarre mentre decapitava prigionieri in Siria.
Il reclutamento di giovani jihadisti che partono per Siria e Iraq è un fenomeno diffuso in tutta l’area che si è ulteriormente aggravato con il ritorno di gruppi di foreign fighters. Diventati pedine importanti e anelli di congiunzione tra l’Europa e il Medio Oriente.
Terrorismo, così sono cambiate le vacanze
A Kacanik operavano liberamente fino allo scorso anno due organizzazioni islamiche radicali: Parimi e Rik (Rinia Islame Kacanik), un’organizzazione giovanile islamica, guidata da un emiro, che stando alle informazioni della polizia, è ancora Lavdrim Muhaxheri. Solo da questa piccola città sono partiti nel 2014 almeno 7 giovani di età compresa tra i 25 e i 31 anni, di cui conosciamo solo le iniziali. Entrambe le organizzazioni hanno subito, sempre nel corso del 2014, la chiusura delle sedi, grazie soprattutto alle misure antiterrorismo decise con la legge sui foreign fighters approvata nel 2014 dal Parlamento di Pristina.
Qui a Kacanik la vicenda dei giovani partiti per combattere in Siria o Iraq, nelle fila dello Stato Islamico o del fronte al Nusra (filiazione di al Qaeda), è molto delicata. Kacanik è stata la prima delle città kosovare a votare la costituzione, quando ancora il paese era parte della Serbia. Per cui fatica a convivere con l’appellativo di capitale dell’estremismo islamico, quando è stata in passato l’apripista di una costituzione molto laica.
Il portavoce della municipalità, Hajrush Dullenjy, afferma di non sapere assolutamente nulla dei giovani che hanno lasciato il Paese per combattere. Ma poi, a taccuini chiusi, ci racconta le circostanze della scomparsa di uno dei giovani, F.D., nato nel 1990, che ha fatto perdere le tracce una mattina abbandonando il mercato della città.
L’Imam che celebra la preghiera nella moschea retta da Florim Nezir, si chiama Bujar, conosce i giovani miliziani e sostiene che nel caso non vogliano rientrare ed integrarsi, l’arresto è l’unica soluzione. Intanto durante la preghiera, osserviamo i partecipanti che mentre pronunciano Allahu akbar (Dio è il più grande) sollevano l’indice della mano destra, a sottolineare l’unicità di Allah.
I risultati dell’applicazione della legge sui guerriglieri islamisti sono confortanti, secondo il portavoce della polizia kosovara a Pristina Baki Kelani: qualche mese fa, in una giornata, un’operazione congiunta di esercito e polizia ha portato all’arresto di cinquanta persone legate all’estremismo islamico e coinvolte nella partenza di combattenti per Siria e Iraq. Gli indagati (dati del 2015) sono 130, 80 arresti gli arrestati e altrettante le associazioni controllate per sospetti legami col terrorismo.
A Pristina la sede dell’Associazione che si occupa delle attività dei musulmani in tutto il Paese ha un ingresso sontuoso, in fase di ristrutturazione: lavorano alla posa di un bassorilievo in pietra. Uffici silenziosi, personale in abiti occidentali, qui si controlla tutto: dagli stipendi degli imam al finanziamento delle scuole coraniche con l’invio di giovani studiosi nei vari Paesi dove terminare le scuole, Yemen e Arabia Saudita principalmente. La stessa Associazione drena molto denaro, di cui non si conosce la destinazione finale. Si parla di 55 milioni di euro arrivati in Kosovo nel corso degli ultimi 3 anni: investimenti, salari, donazioni, servizi e beni. Stando a Osman Musliu, imam a Drenas, la comunità islamica usa il denaro in modo poco trasparente, gestendo operazioni non chiare nel quadro di finanziamenti alle associazioni radicali come Parimi, le cui sedi sono state chiuse da operazioni di polizia anti terrorismo. Osman Musliu non è un imam qualunque: è lui che ha celebrato i funerali dell’eroe nazionale della guerra contro la Serbia Adem Jashari.
Esiste un documento riservato della Banca centrale kosovara che ha recentemente messo in evidenza i flussi di denaro che hanno finanziato alcune organizzazioni che nel corso degli anni hanno avuto rapporti con l’estremismo islamico radicale. A consegnarcelo è un giornalista economico della testata infokusi.com, Shkelzen Dakaj.
BOSNIA
Il quadro generale dell’Islam radicale in Kosovo è complicato e preoccupante come in quasi tutti i Paesi dell’area balcanica: Bosnia, Macedonia, Sangiaccato serbo conoscono situazioni simili. A partire dall’inizio degli Anni 90 in queste regioni scosse da guerre civili che hanno contrapposto comunità musulmane a comunità ortodosse o cattoliche, l’ingresso in alcune aree di mujaheddin, finanziati dall’Arabia Saudita, ha contribuito a far crescere il numero dei musulmani wahabiti. Due aspetti sono risultati fondamentali per l’espansione del wahabismo nei Balcani: la forza della propaganda grazie all’attività di associazioni sul filo della legalità da un lato, e i cospicui finanziamenti dall’altro. Tali correnti integraliste vanno collegate alla guerra del 1992-1995, quando in Bosnia giunsero alcune centinaia di volontari arabi e islamici (secondo altre fonti sono stati migliaia) per combattere a fianco dei musulmani bosniaci, inquadrati nell’esercito governativo.
Su invito delle autorità, molti di questi hanno lasciato il Paese dopo la fine del conflitto e la firma del trattato di pace di Dayton, ma alcuni gruppi sono rimasti dopo aver assunto la cittadinanza bosniaca per meriti militari, e soprattutto grazie al matrimonio con donne bosniache.
Comunità consistenti di musulmani integralisti bosniaci sono sorte in particolare nei villaggi di Bocinja, presso Maglaj, in Bosnia centrale, e Gornja Maoca, presso Brcko, dove periodicamente la polizia effettua blitz e retate di islamisti radicali. Secondo stime non ufficiali, sarebbero almeno 150 gli integralisti partiti dalla Bosnia per combattere in Siria e Iraq, 50 di loro rientrati in patria e una ventina di loro finora sarebbero stati uccisi.
Gli anni della ricostruzione post guerra sono stati caratterizzati dall’arrivo di numerose organizzazioni umanitarie patrocinate da Paesi islamici: Alto Comitato saudita, Fondazione Al-Haramain, Società per la rinascita del patrimonio islamico.
Oltre alla costruzione di moschee quali la Re Fahd, considerata la più grande dei Balcani ed eretta con soldi sauditi, queste organizzazioni hanno sponsorizzato un Islam diverso da quello professato tradizionalmente in Bosnia. In alcune zone della Bosnia come a Bihac, Teslic, Zeppe, Zenicae Gornja Maoca sono ormai presenti delle sacche wahabite dove si seguono alla lettera gli insegnamenti di Abu Muhammad al-Maqdisi, predicatore giordano-palestinese noto per le sue posizioni radicali. In queste regioni i wahabiti vivono secondo le leggi della Sharia seguendo gli insegnamenti di imam radicali come Husein Bilal Bosnic e Nusret Imamovic. Il villaggio di Gornja Maoca, situato vicino alla città di Brcko, risulta essere la stazione di transito, stando ad alcuni rapporti del Middle East Media Research Institute, attraverso la quale avviene il passaggio per jihadisti stranieri in viaggio per lo Yemen, l’Iraq e la Siria, e in questo contesto il nome di Bilal Bosnic ricorre frequentemente in relazione alle attività di trasporto dei guerriglieri.
Dai Balcani raggiungere la Siria risulta ormai molto facile: ogni grande città della regione è collegata con Istanbul, sia con pullman che con l’aereo. In seguito, stando alle indicazioni della polizia bosniaca, i volontari si muovono alla volta di Antiochia, per attraversare la frontiera di Bab Al-Hawa con l’aiuto della resistenza siriana, per raggiungere successivamente il Fronte al-Nusra.
SERBIA SANGIACCATO
Anche in Serbia preoccupa l’influsso crescente del fattore religioso di natura integralista nelle comunità musulmane del sud, nel Sangiaccato e nella regione a maggioranza albanese di Presevo e Bujanovac. Sarebbero tra i 30 e i 50 i combattenti serbo-musulmani in Siria e Iraq, almeno 10 i morti.
Il muftì Muamer Zukorlic, nato nel 1970, è l’uomo forte del Sangiaccato, leader della Comunità islamica della regione. Negli anni è diventato un punto di riferimento imprescindibile per la politica dell’area. Non ci sono rappresentanti ufficiali serbi o stranieri, di passaggio a Novi Pazar, che non gli abbiano fatto visita.
Nel Sangiaccato, il wahabismo ha preso piede a metà degli anni Novanta, prima a Novi Pazar, poi a Sjenica e Priboj, ottenendo immediatamente un vasto sostegno popolare, soprattutto grazie alla legittimazione da parte di Muamer Zukorlic. Mentre in altri Paesi dei Balcani, come in Bosnia Erzegovina essi sono visti con aperta ostilità e con sospetto, qui gli viene concessa persino la possibilità di partecipare attivamente alle riunioni della Comunità islamica.
Gli aderenti dell’Islam in Serbia sono organizzati in due corpi separati, uno subordinato alla Comunità islamica della Bosnia-Erzegovina, e l’altra, fondata nel 2007, affonda le sue origini al Principato di Serbia ed è guidata dal reis ul ulema Mustafa Ceric di Bosnia.
MACEDONIA
Di recente in una località al confine con il Kosovo, Kumanovo, si sono registrati scontri armati tra milizie islamiche macedoni e polizia con diversi morti soprattutto tra gli agenti. Secondo il portavoce della polizia macedone Ivo Kotevski, gli islamisti sarebbero entrati in Macedonia da un Paese confinante, l’Albania o più verosimilmente il Kosovo. Sempre secondo il portavoce della polizia i membri del gruppo armato pianificavano un attacco terroristico contro le istituzioni macedoni. Questo accadeva solo tre settimane dopo che una quarantina di militanti kosovari aveva preso il controllo di una stazione di polizia sul confine rivendicando la creazione di una enclave indipendente albanese in Macedonia.
Un segnale di vivacità e attivismo delle forze estremiste che soffiano sul fuoco etnico per estendere l’area del conflitto, per portare il jihad nei Balcani, secondo le conclusioni dei più pessimisti. Ci sono molti dettagli che fanno pensare che le persone che hanno preso parte agli scontri di Kumanovo fossero professionisti molto ben addestrati per operazioni terroristiche. Probabilmente alcune di loro avevano combattuto in Siria e Iraq (sono un centinaio i macedoni attivi sui fronti mediorientale) e dunque si può intuire l’idea con la quale erano arrivati in Macedonia: questo è il jihad e questo è il progetto della diffusione sul suolo europeo di un Islam radicale.
La componente estremista del wahabismo in Macedonia è stata poi coinvolta nei tentativi di assumere il controllo di alcune importanti moschee della capitale Skopje: Yahya Pasha, Sultan Murat, Hudaverdi e Kjosekadi.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
LA CALDA ESTATE DEL 2016
CRONACA DI GIORNI DI GUERRA
Siria, l’Onu chiede una tregua umanitaria: “Due milioni di civili senza acqua e luce”
Mondo
Le Nazioni Unite chiedono un cessate il fuoco di 48 ore alle forze governative e alle forze ribelli in modo da poter aiutare la popolazione. A Ginevra esperti militari russi e americani stanno discutendo la possibilità dello stop
di F. Q. | 9 agosto 2016
COMMENTI (3)
Ormai i cadaveri vengono seppelliti accanto a dove si coltivano i cetrioli: i giardini pubblici sono adibiti per metà a campo santi e per l’altra metà a orti (leggi). Ma adesso ad Aleppo, assediata da oltre un mese dalle forze fedeli ad Assad, la guerra priva sia della luce che dell’acqua una popolazione stremata da cinque anni di massacri. Oltre due milioni di civili, infatti, nelle aree sia sotto il controllo delle formazioni ribelli sia sotto quello dei governativi, sono senza elettricità e senza accesso alla rete idrica a causa di bombardamenti che hanno colpito gli impianti di distribuzione negli ultimi giorni. A dirlo è l’Onu, che chiede una tregua umanitaria di 48 ore affinché siano riparati gli impianti e ricostituite le scorte di cibo e medicinali per la popolazione.
In un comunicato Yacoub el Hillo, coordinatore residente dell’Onu per gli affari umanitari in Siria, e Kevin Kennedy, coordinatore umanitario regionale per la crisi siriana, sottolineano che, dopo l’interruzione della rete idrica, “l’acqua dei pozzi e delle cisterne non è nemmeno lontanamente sufficiente per rispondere alle esigenze della popolazione”. El Hillo e Kennedy aggiungono che nelle ultime settimane vi sono stati “innumerevoli civili uccisi e feriti” nei bombardamenti da entrambe le parti, mentre “continuano gli attacchi su ospedali e cliniche”.
“Le Nazioni Unite – sottolineano ancora i due rappresentanti – sono pronte ad assistere la popolazione civile di Aleppo, una città ora unita nella sofferenza. I civili, compresi i malati e i feriti, devono essere raggiunti con operazioni per le vie più rapide attraverso le linee e attraverso la frontiera dalla Turchia. Devono essere assistiti senza discriminazioni e ovunque si trovino. Tutte le parti devono garantire la sicurezza, la salvezza e la dignità di tutti i civili”.
Perché, avvertono le Nazioni Unite, “quando la popolazione viene privata intenzionalmente di cibo e di altri beni fondamentali per la sopravvivenza, l’assedio rappresenta un crimine di guerra”. Intanto le macabre stime ufficiali sui morti devono essere continuamente aggiornate. Le ultime parlano di oltre 290mila persone che hanno perso la vita nel conflitto siriano esploso nel marzo del 2011.
Mentre ad Aleppo la guerra non dà tregua, a Ginevra esperti militari russi e americani stanno discutendo la possibilità di venire incontro alla richiesta dell’Onu per introdurre un regime di cessate il fuoco di 48 ore per consentire di aiutare i civili. Lo fa sapere il rappresentante della Russia presso le Nazioni Unite a Ginevra, Alexiei Borodavkin. L’altro tema sul tavolo, dice ancora Borodavkin, inoltre, è la “lotta congiunta contro il terrorismo”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/08 ... e/2964289/
CRONACA DI GIORNI DI GUERRA
Siria, l’Onu chiede una tregua umanitaria: “Due milioni di civili senza acqua e luce”
Mondo
Le Nazioni Unite chiedono un cessate il fuoco di 48 ore alle forze governative e alle forze ribelli in modo da poter aiutare la popolazione. A Ginevra esperti militari russi e americani stanno discutendo la possibilità dello stop
di F. Q. | 9 agosto 2016
COMMENTI (3)
Ormai i cadaveri vengono seppelliti accanto a dove si coltivano i cetrioli: i giardini pubblici sono adibiti per metà a campo santi e per l’altra metà a orti (leggi). Ma adesso ad Aleppo, assediata da oltre un mese dalle forze fedeli ad Assad, la guerra priva sia della luce che dell’acqua una popolazione stremata da cinque anni di massacri. Oltre due milioni di civili, infatti, nelle aree sia sotto il controllo delle formazioni ribelli sia sotto quello dei governativi, sono senza elettricità e senza accesso alla rete idrica a causa di bombardamenti che hanno colpito gli impianti di distribuzione negli ultimi giorni. A dirlo è l’Onu, che chiede una tregua umanitaria di 48 ore affinché siano riparati gli impianti e ricostituite le scorte di cibo e medicinali per la popolazione.
In un comunicato Yacoub el Hillo, coordinatore residente dell’Onu per gli affari umanitari in Siria, e Kevin Kennedy, coordinatore umanitario regionale per la crisi siriana, sottolineano che, dopo l’interruzione della rete idrica, “l’acqua dei pozzi e delle cisterne non è nemmeno lontanamente sufficiente per rispondere alle esigenze della popolazione”. El Hillo e Kennedy aggiungono che nelle ultime settimane vi sono stati “innumerevoli civili uccisi e feriti” nei bombardamenti da entrambe le parti, mentre “continuano gli attacchi su ospedali e cliniche”.
“Le Nazioni Unite – sottolineano ancora i due rappresentanti – sono pronte ad assistere la popolazione civile di Aleppo, una città ora unita nella sofferenza. I civili, compresi i malati e i feriti, devono essere raggiunti con operazioni per le vie più rapide attraverso le linee e attraverso la frontiera dalla Turchia. Devono essere assistiti senza discriminazioni e ovunque si trovino. Tutte le parti devono garantire la sicurezza, la salvezza e la dignità di tutti i civili”.
Perché, avvertono le Nazioni Unite, “quando la popolazione viene privata intenzionalmente di cibo e di altri beni fondamentali per la sopravvivenza, l’assedio rappresenta un crimine di guerra”. Intanto le macabre stime ufficiali sui morti devono essere continuamente aggiornate. Le ultime parlano di oltre 290mila persone che hanno perso la vita nel conflitto siriano esploso nel marzo del 2011.
Mentre ad Aleppo la guerra non dà tregua, a Ginevra esperti militari russi e americani stanno discutendo la possibilità di venire incontro alla richiesta dell’Onu per introdurre un regime di cessate il fuoco di 48 ore per consentire di aiutare i civili. Lo fa sapere il rappresentante della Russia presso le Nazioni Unite a Ginevra, Alexiei Borodavkin. L’altro tema sul tavolo, dice ancora Borodavkin, inoltre, è la “lotta congiunta contro il terrorismo”.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
LA CALDA ESTATE DEL 2016
CRONACA DI GIORNI DI GUERRA
LIBRE news
Carpeoro: massoneria e terrorismo, attenti al 10 agosto
Scritto il 08/8/16 • nella Categoria: segnalazioni
Dalla massoneria al terrorismo: per capire davvero cos’è accaduto in seno al massimo vertice mondiale nel corso degli ultimi decenni, con il “golpe” dell’élite finanziaria neo-feudale, fino al ricorso – ormai sistematico – alla strategia della tensione su scala internazionale, con le guerre asimmetriche e gli attentati stragistici, ufficialmente ricondotti a sigle come l’Isis.
Eventi catastrofici e molto sanguinosi, tra i cui risvolti gli osservatori di formazione massonica possono facilmente riconoscere delle “firme” inequivocabili, ricavandole dai nomi dei luoghi, le date, i numeri collegati, i riferimenti simbolici e i richiami diretti a fatti storici collegabili.
E’ un linguaggio di segni cifrati quello che permette di intuire che, dietro a molto terrorismo di oggi, operano “menti raffinatissime”, di formazione esoterica, che dispongono di interi settori dei servizi segreti, a valle dei quali agisce una docile manovalanza, inconsapevole e manipolata, oggi per lo più di matrice islamista-radicale.
E’ la testi attorno alla quale si sviluppa il prossimo libro dell’avvocato Gianfranco Carpeoro, che avverte: proprio grazie alla profonda conoscenza del “modus operandi” altamente simbolico dei veri mandanti delle stragi, nel mirino potrebbero esserci Roma o Palermo, già il prossimo 10 agosto.
«I terreni ipotizzabili di una azione neoterroristica, anche sotto il profilo simbolico proprio della “sovragestione”, oggi sono due: Roma, ovviamente, e la Sicilia, Palermo per esempio», scrive Carpeoro il 6 agosto sulla sua pagina Facebook.
«E la data del 10 agosto, magari proprio collocata nella città di Palemo e forse già a partire da questo sinistro 2016, ma anche in seguito, potrebbe rivelarsi caratterizzata dal segno sanguinoso di Ecate», cioè della “dea della magia” nella tradizione religiosa greco-romana, ritenuta capace di viaggiare liberamente tra il mondo degli uomini, quello degli dei e il regno dei morti.
Massone e profondo conoscitore dei sistemi simbologici, autore di romanzi come “Il volo del Pellicano” (Melchisedek) che ripercorre la ricerca mistico-simbologica dei Rosacroce, con la loro misteriosa “conoscenza parallela” e sempre velata (da Dante a Giorgione, da Cartesio a Newton) per tenerla al riparo degli abusi del potere, Carpeoro è uno degli alti esponenti della massoneria italiana – già gran maestro, 33esimo grado del rito scozzese – che di recente hanno intrapreso “esternazioni” a catena, per squarciare il velo su molti aspetti, ben poco edificanti, del milieu libero-muratorio degradatosi in struttura di potere.
«Per la quinta volta – ha annunciato un paio di anni fa, nel corso di un incontro pubblico – ho rifiutato un incarico di consulenza propostomi dai servizi segreti italiani».
Un altro autorevole osservatore privilegiato, Fausto Carotenuto, ha operato per decenni in qualità di analista strategico dell’intelligence, e oggi – attraverso il network “Coscienze in Rete” – fornisce un prezioso contributo nel chiarire il ruolo attuale di molti servizi, in funzione della “piramide di potere” di stampo mondialista.
Un’opera pienamente consonante con quella di un altro esponente della massoneria, Gioele Magaldi, autore del saggio “Massoni” (Chiarelettere), che ha apertamente denunciato l’esistenza di una galassia di 36 Ur-Lodges, cioè superlogge internazionali, pronte a fare uso di svariati sistemi di intelligence, come si evincerebbe dal “fatale” successo di tutte le operazioni terroristiche recentemente attuate sul suolo europeo, grazie alle “strane” inefficienze degli apparati di sicurezza.
A questo quadro si aggiungerà ora il saggio di Carpeoro, “Dalla massoneria al terrorismo”, in uscita il prossimo ottobre per “rEvoluzioni Edizioni”, del gruppo Uno Editori, lo stesso di Mauro Biglino.
«Oltre a qualche inedita chiarificazione storica e concettuale sulla Libera Muratoria – anticipa l’autore – spiegherò come alcune logge massoniche sono divenute deviate e come, con i servizi segreti, vogliono controllare il mondo».
Carpeoro aggiungerà «qualche spiegazione sulla P2, ma anche sulla P1», e quindi «i collegamenti tra massoneria autocratica e terrorismo».
In altre parole, aggiunge: «spiegherò cosa sia la “sovragestione”».
L’editore stesso conferma che, in 220 pagine, il libro offrirà «uno sguardo dall’interno nel mondo della massoneria, così pieno attualmente di contraddizioni».
Dalla antica sacralizzazione del lavoro (la ritualizzazione del costruire) alla nascita della dei riti massonici, ovvero «quello che pochi sanno della dottrina massonica, fin dalle sue radici mitiche e filosofiche».
Poi i veleni, cioè «l’incesto col potere, fin dalle ambiguità dei Neoilluminati, invano combattuto da George Washington».
Il libro ripercorre «l’incubo del Nwo», il nuovo ordine mondiale, nonché «la definitiva mutazione genetica del sogno e delle utopie dei Rosa+Croce».
Ed eccoci precipitati nel fosco scenario recente, con il primo piano «il fenomeno della massoneria reazionaria, che trasforma le logge in focolai di eversione per inaugurare una storia di sangue e di distruzione», di cui Carpeoro individua con precisione «la radice massonica e le firme occulte del terrorismo islamico».
Spesso, in Italia, la parola massoneria richiama alla mente la loggia P2.
Ma quella, sostiene l’autore, era solo uno «specchietto per le allodole», affidato alla «marionetta Gelli», senza che nessuno si sia mai chiesto: se c’è stata una P2, esiste dunque una P1 mai venuta allo scoperto?
Si suppone di sì, ovviamente: nei mesi scorsi, lo stesso Carpeoro ne ha fatto esplicito riferimento, nel corso di trasmissioni web-radio come “Border Nights”, facendo nomi come quello di Eugenio Cefis, già patron dell’Eni dopo l’attentato di Bascapè costato la vita a Enrico Mattei.
Esiste dunque una struttura-ombra deputata alla “sovragestione” degli eventi, pilotando servizi e tagliagole per allestire il “terrore permanente” destinato, in ultima analisi, a radere al suolo i diritti democratici?
L’allarme è serio, dichiara Gioele Magaldi, sostenendo che la strage di Nizza contenga una minaccia esplicita rivolta all’Italia.
Carpeoro restringe il campo a Roma o Palermo, e anticipa la data del 10 agosto.
Forse già di quest’anno.
CRONACA DI GIORNI DI GUERRA
LIBRE news
Carpeoro: massoneria e terrorismo, attenti al 10 agosto
Scritto il 08/8/16 • nella Categoria: segnalazioni
Dalla massoneria al terrorismo: per capire davvero cos’è accaduto in seno al massimo vertice mondiale nel corso degli ultimi decenni, con il “golpe” dell’élite finanziaria neo-feudale, fino al ricorso – ormai sistematico – alla strategia della tensione su scala internazionale, con le guerre asimmetriche e gli attentati stragistici, ufficialmente ricondotti a sigle come l’Isis.
Eventi catastrofici e molto sanguinosi, tra i cui risvolti gli osservatori di formazione massonica possono facilmente riconoscere delle “firme” inequivocabili, ricavandole dai nomi dei luoghi, le date, i numeri collegati, i riferimenti simbolici e i richiami diretti a fatti storici collegabili.
E’ un linguaggio di segni cifrati quello che permette di intuire che, dietro a molto terrorismo di oggi, operano “menti raffinatissime”, di formazione esoterica, che dispongono di interi settori dei servizi segreti, a valle dei quali agisce una docile manovalanza, inconsapevole e manipolata, oggi per lo più di matrice islamista-radicale.
E’ la testi attorno alla quale si sviluppa il prossimo libro dell’avvocato Gianfranco Carpeoro, che avverte: proprio grazie alla profonda conoscenza del “modus operandi” altamente simbolico dei veri mandanti delle stragi, nel mirino potrebbero esserci Roma o Palermo, già il prossimo 10 agosto.
«I terreni ipotizzabili di una azione neoterroristica, anche sotto il profilo simbolico proprio della “sovragestione”, oggi sono due: Roma, ovviamente, e la Sicilia, Palermo per esempio», scrive Carpeoro il 6 agosto sulla sua pagina Facebook.
«E la data del 10 agosto, magari proprio collocata nella città di Palemo e forse già a partire da questo sinistro 2016, ma anche in seguito, potrebbe rivelarsi caratterizzata dal segno sanguinoso di Ecate», cioè della “dea della magia” nella tradizione religiosa greco-romana, ritenuta capace di viaggiare liberamente tra il mondo degli uomini, quello degli dei e il regno dei morti.
Massone e profondo conoscitore dei sistemi simbologici, autore di romanzi come “Il volo del Pellicano” (Melchisedek) che ripercorre la ricerca mistico-simbologica dei Rosacroce, con la loro misteriosa “conoscenza parallela” e sempre velata (da Dante a Giorgione, da Cartesio a Newton) per tenerla al riparo degli abusi del potere, Carpeoro è uno degli alti esponenti della massoneria italiana – già gran maestro, 33esimo grado del rito scozzese – che di recente hanno intrapreso “esternazioni” a catena, per squarciare il velo su molti aspetti, ben poco edificanti, del milieu libero-muratorio degradatosi in struttura di potere.
«Per la quinta volta – ha annunciato un paio di anni fa, nel corso di un incontro pubblico – ho rifiutato un incarico di consulenza propostomi dai servizi segreti italiani».
Un altro autorevole osservatore privilegiato, Fausto Carotenuto, ha operato per decenni in qualità di analista strategico dell’intelligence, e oggi – attraverso il network “Coscienze in Rete” – fornisce un prezioso contributo nel chiarire il ruolo attuale di molti servizi, in funzione della “piramide di potere” di stampo mondialista.
Un’opera pienamente consonante con quella di un altro esponente della massoneria, Gioele Magaldi, autore del saggio “Massoni” (Chiarelettere), che ha apertamente denunciato l’esistenza di una galassia di 36 Ur-Lodges, cioè superlogge internazionali, pronte a fare uso di svariati sistemi di intelligence, come si evincerebbe dal “fatale” successo di tutte le operazioni terroristiche recentemente attuate sul suolo europeo, grazie alle “strane” inefficienze degli apparati di sicurezza.
A questo quadro si aggiungerà ora il saggio di Carpeoro, “Dalla massoneria al terrorismo”, in uscita il prossimo ottobre per “rEvoluzioni Edizioni”, del gruppo Uno Editori, lo stesso di Mauro Biglino.
«Oltre a qualche inedita chiarificazione storica e concettuale sulla Libera Muratoria – anticipa l’autore – spiegherò come alcune logge massoniche sono divenute deviate e come, con i servizi segreti, vogliono controllare il mondo».
Carpeoro aggiungerà «qualche spiegazione sulla P2, ma anche sulla P1», e quindi «i collegamenti tra massoneria autocratica e terrorismo».
In altre parole, aggiunge: «spiegherò cosa sia la “sovragestione”».
L’editore stesso conferma che, in 220 pagine, il libro offrirà «uno sguardo dall’interno nel mondo della massoneria, così pieno attualmente di contraddizioni».
Dalla antica sacralizzazione del lavoro (la ritualizzazione del costruire) alla nascita della dei riti massonici, ovvero «quello che pochi sanno della dottrina massonica, fin dalle sue radici mitiche e filosofiche».
Poi i veleni, cioè «l’incesto col potere, fin dalle ambiguità dei Neoilluminati, invano combattuto da George Washington».
Il libro ripercorre «l’incubo del Nwo», il nuovo ordine mondiale, nonché «la definitiva mutazione genetica del sogno e delle utopie dei Rosa+Croce».
Ed eccoci precipitati nel fosco scenario recente, con il primo piano «il fenomeno della massoneria reazionaria, che trasforma le logge in focolai di eversione per inaugurare una storia di sangue e di distruzione», di cui Carpeoro individua con precisione «la radice massonica e le firme occulte del terrorismo islamico».
Spesso, in Italia, la parola massoneria richiama alla mente la loggia P2.
Ma quella, sostiene l’autore, era solo uno «specchietto per le allodole», affidato alla «marionetta Gelli», senza che nessuno si sia mai chiesto: se c’è stata una P2, esiste dunque una P1 mai venuta allo scoperto?
Si suppone di sì, ovviamente: nei mesi scorsi, lo stesso Carpeoro ne ha fatto esplicito riferimento, nel corso di trasmissioni web-radio come “Border Nights”, facendo nomi come quello di Eugenio Cefis, già patron dell’Eni dopo l’attentato di Bascapè costato la vita a Enrico Mattei.
Esiste dunque una struttura-ombra deputata alla “sovragestione” degli eventi, pilotando servizi e tagliagole per allestire il “terrore permanente” destinato, in ultima analisi, a radere al suolo i diritti democratici?
L’allarme è serio, dichiara Gioele Magaldi, sostenendo che la strage di Nizza contenga una minaccia esplicita rivolta all’Italia.
Carpeoro restringe il campo a Roma o Palermo, e anticipa la data del 10 agosto.
Forse già di quest’anno.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
LA CALDA ESTATE DEL 2016
CRONACA DI GIORNI DI GUERRA
LIBRE news
Italia in guerra in Libia? Ora aspettiamoci i nostri Bataclan
Scritto il 09/8/16 • nella Categoria: segnalazioni
Aspettiamoci pure il nostro Bataclan: arriverà presto, grazie all’appoggio dell’Italia ai bombardamenti americani sulla Libia.
Lo sostiene Massimo Fini, che accusa gli Stati Uniti: «Prima costituiscono in Libia un governo fantoccio, quello di Al-Sarraj, che fino a poco tempo fa era così ben visto dalla popolazione libica che era costretto a starsene, con i suoi ministri, su un barcone imboscato nel porto di Tripoli.
Adesso che questo governo ha ottenuto l’appoggio della fazione di Misurata, ma non quello del governo antagonista di Tobruk e tantomeno delle altre mille milizie che agiscono in Libia, gli Stati Uniti gli han fatto chiedere il loro soccorso.
Qualcosa che somiglia molto alla richiesta di ‘aiuto’ dei paesi fratelli quando l’Urss invadeva l’Ungheria e la Cecoslovacchia che erano insorte contro i governi filosovietici».
Secondo gli americani, i loro raid su Sirte e altrove saranno “di precisione”.
«Speriamo che non abbiano gli stessi effetti dei ‘missili chirurgici’ e delle ‘bombe intelligenti’ usati nella prima Guerra del Golfo del 1990», replica Fini, ricordando che in quella guerra, secondo dati ufficiali del Pentagono, morirono 167.000 civili, tutti arabi, fra cui 48.000 donne e 32.195 bambini.
Naturalmente, Al-Sarraj s’è affrettato ad assicurare che il suo governo respinge qualsiasi intervento straniero senza la sua autorizzazione.
«Il fantoccio di Tripoli – scrive Fini sul “Fatto Quotidiano”, in un articolo ripreso da “Come Don Chisciotte” – sa benissimo che una guerra aperta e dichiarata alla Libia compatterebbe tutti i libici di qualsiasi fazione», grazie all’orgoglio nazionale.
«E questo andrebbe a tutto vantaggio dell’Isis, che è il gruppo più forte, meglio armato, più determinato, che in breve tempo ingloberebbe anche le altre milizie».
Ma ciò che dice al-Sarraj «è una barzelletta a cui è difficile credere, sia perché ciò che nega è già avvenuto, sia perché è alle dirette dipendenze del governo americano a cui è legata la sua sopravvivenza».
Sicché, «gli Usa faranno quello che vorranno», e inoltre «sul terreno sono già presenti truppe speciali americane, inglesi e francesi».
Dopo aver raso al suolo il regime di Gheddafi – contro gli interessi dell’Italia – trasformando la Libia in un inferno terroristico, adesso la ri-bombardano, continua Fini.
«Non c’è niente da fare, passano gli anni e i decenni ma noi non riusciamo a liberarci della pelosa tutela dell’‘amico amerikano’».
Nel 1999, ricorda il giornalista, partecipammo all’aggressione alla Serbia (gli aerei americani partivano da Aviano), guerra anche questa a cui l’Onu s’era dichiarata contraria.
E anche con la Serbia noi italiani avevamo solidi rapporti di amicizia che risalivano addirittura ai primi del ‘900, quando a Belgrado si pubblicava un quotidiano intitolato “Piemonte”: «I serbi infatti vedevano nell’Italia che si era da poco unita un esempio per conquistare la propria indipendenza sotto le forme di una monarchia costituzionale».
Non era obbligatorio aderire alla guerra anti-serba, aggiunge Fini, «tant’è che la piccola Grecia, che fa parte anch’essa della Nato, si rifiutò di parteciparvi».
Adesso è il turno della Libia, secondo round.
E noi «saremo costretti a fornire la nostra base di Sigonella dove sono presenti una dozzina di droni e di caccia americani. Bel colpo».
Finora il governo Renzi, seguendo la linea di Angela Merkel, si era tenuto prudentemente ai margini del caos mediorientale, «e per questo l’Isis non aveva colpito né noi né i tedeschi (gli attentati terroristici in Germania sono stati fatti da psicopatici, sulle cui azioni poi l’Isis ha messo il cappello)».
Adesso, invece, «dovremo attenderci anche in Italia attacchi dell’Isis che più viene colpita in Medio Oriente e più, logicamente, porta la guerra in Europa.
Vedremo come reagiranno le mamme italiane quando avremo anche noi i nostri Bataclan».
CRONACA DI GIORNI DI GUERRA
LIBRE news
Italia in guerra in Libia? Ora aspettiamoci i nostri Bataclan
Scritto il 09/8/16 • nella Categoria: segnalazioni
Aspettiamoci pure il nostro Bataclan: arriverà presto, grazie all’appoggio dell’Italia ai bombardamenti americani sulla Libia.
Lo sostiene Massimo Fini, che accusa gli Stati Uniti: «Prima costituiscono in Libia un governo fantoccio, quello di Al-Sarraj, che fino a poco tempo fa era così ben visto dalla popolazione libica che era costretto a starsene, con i suoi ministri, su un barcone imboscato nel porto di Tripoli.
Adesso che questo governo ha ottenuto l’appoggio della fazione di Misurata, ma non quello del governo antagonista di Tobruk e tantomeno delle altre mille milizie che agiscono in Libia, gli Stati Uniti gli han fatto chiedere il loro soccorso.
Qualcosa che somiglia molto alla richiesta di ‘aiuto’ dei paesi fratelli quando l’Urss invadeva l’Ungheria e la Cecoslovacchia che erano insorte contro i governi filosovietici».
Secondo gli americani, i loro raid su Sirte e altrove saranno “di precisione”.
«Speriamo che non abbiano gli stessi effetti dei ‘missili chirurgici’ e delle ‘bombe intelligenti’ usati nella prima Guerra del Golfo del 1990», replica Fini, ricordando che in quella guerra, secondo dati ufficiali del Pentagono, morirono 167.000 civili, tutti arabi, fra cui 48.000 donne e 32.195 bambini.
Naturalmente, Al-Sarraj s’è affrettato ad assicurare che il suo governo respinge qualsiasi intervento straniero senza la sua autorizzazione.
«Il fantoccio di Tripoli – scrive Fini sul “Fatto Quotidiano”, in un articolo ripreso da “Come Don Chisciotte” – sa benissimo che una guerra aperta e dichiarata alla Libia compatterebbe tutti i libici di qualsiasi fazione», grazie all’orgoglio nazionale.
«E questo andrebbe a tutto vantaggio dell’Isis, che è il gruppo più forte, meglio armato, più determinato, che in breve tempo ingloberebbe anche le altre milizie».
Ma ciò che dice al-Sarraj «è una barzelletta a cui è difficile credere, sia perché ciò che nega è già avvenuto, sia perché è alle dirette dipendenze del governo americano a cui è legata la sua sopravvivenza».
Sicché, «gli Usa faranno quello che vorranno», e inoltre «sul terreno sono già presenti truppe speciali americane, inglesi e francesi».
Dopo aver raso al suolo il regime di Gheddafi – contro gli interessi dell’Italia – trasformando la Libia in un inferno terroristico, adesso la ri-bombardano, continua Fini.
«Non c’è niente da fare, passano gli anni e i decenni ma noi non riusciamo a liberarci della pelosa tutela dell’‘amico amerikano’».
Nel 1999, ricorda il giornalista, partecipammo all’aggressione alla Serbia (gli aerei americani partivano da Aviano), guerra anche questa a cui l’Onu s’era dichiarata contraria.
E anche con la Serbia noi italiani avevamo solidi rapporti di amicizia che risalivano addirittura ai primi del ‘900, quando a Belgrado si pubblicava un quotidiano intitolato “Piemonte”: «I serbi infatti vedevano nell’Italia che si era da poco unita un esempio per conquistare la propria indipendenza sotto le forme di una monarchia costituzionale».
Non era obbligatorio aderire alla guerra anti-serba, aggiunge Fini, «tant’è che la piccola Grecia, che fa parte anch’essa della Nato, si rifiutò di parteciparvi».
Adesso è il turno della Libia, secondo round.
E noi «saremo costretti a fornire la nostra base di Sigonella dove sono presenti una dozzina di droni e di caccia americani. Bel colpo».
Finora il governo Renzi, seguendo la linea di Angela Merkel, si era tenuto prudentemente ai margini del caos mediorientale, «e per questo l’Isis non aveva colpito né noi né i tedeschi (gli attentati terroristici in Germania sono stati fatti da psicopatici, sulle cui azioni poi l’Isis ha messo il cappello)».
Adesso, invece, «dovremo attenderci anche in Italia attacchi dell’Isis che più viene colpita in Medio Oriente e più, logicamente, porta la guerra in Europa.
Vedremo come reagiranno le mamme italiane quando avremo anche noi i nostri Bataclan».
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Re: La Terza Guerra Mondiale
LA CALDA ESTATE DEL 2016
CRONACA DI GIORNI DI GUERRA
Libia, l'Italia è già in guerra (ma Renzi non vuole dirlo)
A Sirte offensiva contro l'Isis. Sul campo forze speciali Usa e inglesi. Presenti anche i soldati italiani. Ma Renzi non lo dice
Sergio Rame - Mer, 10/08/2016 - 12:42
commenta
Le forze speciali statunitensi hanno iniziato a sostenere direttamente i libici che combattono contro lo Stato islamico in Libia.
Citando funzionari americani in condizioni di anonimato, il Washington Post rivela la presenza di un centro operativo congiunto nella periferia di Sirte. I soldati americani, però, non sono gli unici a operare boots on the ground. "La nostra Libia ha bisogno dell'aiuto internazionale nella battaglia contro l'Isis - ha chiesto oggi il premier libico Fayez al Serraj, dalle colonne del Corriere della Sera - l'Italia è tradizionalmente il nostro Paese amico, potete fare tanto". E, senza informare il parlamento, il premier Matteo Renzi avrebbe già iniziato a fare qualcosa. Il nostro esercito starebbe, infatti, già combattento al fianco dei soldati di Misurata.
La guerra per liberare la Libia dall'Isis
Dal primo agosto scorso il Pentagono ha annunciato di aver avviato una campagna aerea a Sirte in seguito ad una richiesta di aiuto da parte del governo libico di accordo nazionale. Secondo il Washington Post, le forze statunitensi stanno operando a fianco delle truppe britanniche, coordinando i raid aerei e fornendo servizi di intelligence ai partner. Il Pentagono non ha voluto commentare, ma ha già riconosciuto che piccoli gruppi di militari stanno aiutando a raccogliere informazioni in Libia. "Un piccolo numero di forze americane è andato in Libia per scambiare informazioni con le forze locali - si è limitata a dire la portavoce del Pentagono, Henrietta Levin - continueremo a farlo nell'ambito del rafforzamento contro lo Stato islamico e altre organizzazioni terroristiche". Sul campo, mentre i soldati di Misurata avanzano verso Sirte, ci sarebbero anche i soldati italiani. A raccontarlo a Repubblica sono i comandanti libici, ma il condizionale resta d'obbligo perché ufficialmente Renzi non ha mai detto nulla al parlamento. In teoria, l'Italia non sarebbe ancora entrata in guerra.
Il ruolo di Stati Uniti e Regno Unito
"Alle forze speciali italiane è stato dato ordine di sostenere sul campo i libici nello sminamento - si legge su Repubblica - i soldati italiani hanno portato a Misurata e Sirte gli equipaggiamenti per sminare, e stanno lavorando sul terreno con i libici". La notizia sarebbe stata confermata da un comandante che racconta come inglesi, americani e italiani "preferiscano lavorare in silenzio". Domenica scorsa, il settimanale britannico Sunday Times aveva rivelato la presenza di forze speciali Sas (Special Air Service) impegnate nei combattimenti a Sirte a fianco delle forze fedeli al governo di accordo nazionale, sostenuto dall'Onu, contro i jihadisti dello Stato islamico. I sudditi della regina starebbero peraltro cambiando le sorti del conflitto utilizzando un nuovo prototipo di arma noto come "il punitore". Si tratta di un lanciagranate statunitense XM25 dotato di telemetro laser che consente di sparare granate da 25 millimetri che esplodono a mezz'aria o in prossimità del bersaglio, fino a un chilometro di distanza. L'arma avrebbe dovuto essere commercializzata ufficialmente nel 2015, ma l'utilizzo su larga scala non è previsto prima del 2017. L'XM25 costa circa 50 mila dollari al pezzo e si dice che sia tre volte più efficace di un normale lanciagranate.
La presenza di soldati italiani
Che, invece, ci sia anche forze speciali italiane è una notizia che la Difesa e lo stesso Renzi non mai confermato. Secondo la ricostruzione di Repubblica, "gli uomini dell'Esercito sono stati schierati prima a Tripoli per creare un nucleo di sicurezza per gli agenti dell'Aise, i servizi segreti, durante le missioni più delicate. Poi le forze speciali sarebbero passate da Benina, la base aerea del generale Haftar nell'Est del paese. E infine sono arrivati a Misurata". Giusto oggi il premier libico Fayez al Serraj, in una intervista al Corriere della Sera, chiedeva all'Italia e a Renzi, che "sin dall'inizio ha sostenuto il nostro governo di unità nazionale", di fare di più per la Libia. "L'Isis è un'organizzazione pericolosissima - ha detto - utilizzerà qualsiasi mezzo per inviare i suoi militanti in Italia e in Europa. Non sarei sorpreso di scoprire che i suoi uomini si nascondono sui barconi in viaggio verso le vostre coste".
CRONACA DI GIORNI DI GUERRA
Libia, l'Italia è già in guerra (ma Renzi non vuole dirlo)
A Sirte offensiva contro l'Isis. Sul campo forze speciali Usa e inglesi. Presenti anche i soldati italiani. Ma Renzi non lo dice
Sergio Rame - Mer, 10/08/2016 - 12:42
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Le forze speciali statunitensi hanno iniziato a sostenere direttamente i libici che combattono contro lo Stato islamico in Libia.
Citando funzionari americani in condizioni di anonimato, il Washington Post rivela la presenza di un centro operativo congiunto nella periferia di Sirte. I soldati americani, però, non sono gli unici a operare boots on the ground. "La nostra Libia ha bisogno dell'aiuto internazionale nella battaglia contro l'Isis - ha chiesto oggi il premier libico Fayez al Serraj, dalle colonne del Corriere della Sera - l'Italia è tradizionalmente il nostro Paese amico, potete fare tanto". E, senza informare il parlamento, il premier Matteo Renzi avrebbe già iniziato a fare qualcosa. Il nostro esercito starebbe, infatti, già combattento al fianco dei soldati di Misurata.
La guerra per liberare la Libia dall'Isis
Dal primo agosto scorso il Pentagono ha annunciato di aver avviato una campagna aerea a Sirte in seguito ad una richiesta di aiuto da parte del governo libico di accordo nazionale. Secondo il Washington Post, le forze statunitensi stanno operando a fianco delle truppe britanniche, coordinando i raid aerei e fornendo servizi di intelligence ai partner. Il Pentagono non ha voluto commentare, ma ha già riconosciuto che piccoli gruppi di militari stanno aiutando a raccogliere informazioni in Libia. "Un piccolo numero di forze americane è andato in Libia per scambiare informazioni con le forze locali - si è limitata a dire la portavoce del Pentagono, Henrietta Levin - continueremo a farlo nell'ambito del rafforzamento contro lo Stato islamico e altre organizzazioni terroristiche". Sul campo, mentre i soldati di Misurata avanzano verso Sirte, ci sarebbero anche i soldati italiani. A raccontarlo a Repubblica sono i comandanti libici, ma il condizionale resta d'obbligo perché ufficialmente Renzi non ha mai detto nulla al parlamento. In teoria, l'Italia non sarebbe ancora entrata in guerra.
Il ruolo di Stati Uniti e Regno Unito
"Alle forze speciali italiane è stato dato ordine di sostenere sul campo i libici nello sminamento - si legge su Repubblica - i soldati italiani hanno portato a Misurata e Sirte gli equipaggiamenti per sminare, e stanno lavorando sul terreno con i libici". La notizia sarebbe stata confermata da un comandante che racconta come inglesi, americani e italiani "preferiscano lavorare in silenzio". Domenica scorsa, il settimanale britannico Sunday Times aveva rivelato la presenza di forze speciali Sas (Special Air Service) impegnate nei combattimenti a Sirte a fianco delle forze fedeli al governo di accordo nazionale, sostenuto dall'Onu, contro i jihadisti dello Stato islamico. I sudditi della regina starebbero peraltro cambiando le sorti del conflitto utilizzando un nuovo prototipo di arma noto come "il punitore". Si tratta di un lanciagranate statunitense XM25 dotato di telemetro laser che consente di sparare granate da 25 millimetri che esplodono a mezz'aria o in prossimità del bersaglio, fino a un chilometro di distanza. L'arma avrebbe dovuto essere commercializzata ufficialmente nel 2015, ma l'utilizzo su larga scala non è previsto prima del 2017. L'XM25 costa circa 50 mila dollari al pezzo e si dice che sia tre volte più efficace di un normale lanciagranate.
La presenza di soldati italiani
Che, invece, ci sia anche forze speciali italiane è una notizia che la Difesa e lo stesso Renzi non mai confermato. Secondo la ricostruzione di Repubblica, "gli uomini dell'Esercito sono stati schierati prima a Tripoli per creare un nucleo di sicurezza per gli agenti dell'Aise, i servizi segreti, durante le missioni più delicate. Poi le forze speciali sarebbero passate da Benina, la base aerea del generale Haftar nell'Est del paese. E infine sono arrivati a Misurata". Giusto oggi il premier libico Fayez al Serraj, in una intervista al Corriere della Sera, chiedeva all'Italia e a Renzi, che "sin dall'inizio ha sostenuto il nostro governo di unità nazionale", di fare di più per la Libia. "L'Isis è un'organizzazione pericolosissima - ha detto - utilizzerà qualsiasi mezzo per inviare i suoi militanti in Italia e in Europa. Non sarei sorpreso di scoprire che i suoi uomini si nascondono sui barconi in viaggio verso le vostre coste".
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Re: La Terza Guerra Mondiale
LA CALDA ESTATE DEL 2016
CRONACA DI GIORNI DI GUERRA
Forze speciali italiane in Libia: ecco il documento top secret
Le missioni delle forze speciali in Libia partono dalle basi italiane. Il documento del Copasir: "Saranno limitate nel tempo". Ma Renzi vuole secretarle
Sergio Rame - Mer, 10/08/2016 - 13:01
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L'Italia è in guerra.
Non a parole, ma nei fatti. Il governo Renzi avrebbe dislocato delle forze speciali per fermare l'avanzata dei tagliagole dello Stato islamico sia in Iraq sia in Libia. Alle indiscrezioni di Repubblica si aggiunge, a stretto giro, un documento del Comitato di controllo sui servizi segreti (Copasir), classificato top secret ma pubblicato dall'Huffington Post, che conferma la presenza dei nostri militari sui principali teatri di guerra.
Come si legge nel documento redatto dal Comando interforze per le Operazioni delle Forze Speciali (Cofs), le operazioni sono "effettuate in applicazione della normativa approvata lo scorso novembre dal parlamento, che consente al presidente del Consiglio di autorizzare missioni all'estero di militari dei nostri corpi d'elite ponendoli sotto la catena di comando dei servizi segreti con tutte le garanzie connesse". Come fa notare l'Huffington Post, "i commando del IX Reggimento 'Col Moschin' del Gruppo Operativo Incursori del Comsubin, del XVII Stormo Incursori dell'Aeronautica Militare e del Gruppo di Intervento Speciale dei Carabinieri (e le forze di supporto aereo e navale) non rispondono alla catena di comando della coalizione dei trenta e più paesi che appoggia il governo del premier Fayez al Sarraj, ma direttamente" al governo Renzi.
Dal documento del Copasir si evince, comunque, che le missioni, che "partono dalle basi italiane", saranno "limitate nel tempo". Sull'operazione, però, il governo sarebbe pronto ad alzare il livello di segretezza fino a metterci il sigillo del Segreto di Stato. Di informare il parlamento e gli italiani, Matteo Renzi non ha minimamente la voglia.
CRONACA DI GIORNI DI GUERRA
Forze speciali italiane in Libia: ecco il documento top secret
Le missioni delle forze speciali in Libia partono dalle basi italiane. Il documento del Copasir: "Saranno limitate nel tempo". Ma Renzi vuole secretarle
Sergio Rame - Mer, 10/08/2016 - 13:01
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L'Italia è in guerra.
Non a parole, ma nei fatti. Il governo Renzi avrebbe dislocato delle forze speciali per fermare l'avanzata dei tagliagole dello Stato islamico sia in Iraq sia in Libia. Alle indiscrezioni di Repubblica si aggiunge, a stretto giro, un documento del Comitato di controllo sui servizi segreti (Copasir), classificato top secret ma pubblicato dall'Huffington Post, che conferma la presenza dei nostri militari sui principali teatri di guerra.
Come si legge nel documento redatto dal Comando interforze per le Operazioni delle Forze Speciali (Cofs), le operazioni sono "effettuate in applicazione della normativa approvata lo scorso novembre dal parlamento, che consente al presidente del Consiglio di autorizzare missioni all'estero di militari dei nostri corpi d'elite ponendoli sotto la catena di comando dei servizi segreti con tutte le garanzie connesse". Come fa notare l'Huffington Post, "i commando del IX Reggimento 'Col Moschin' del Gruppo Operativo Incursori del Comsubin, del XVII Stormo Incursori dell'Aeronautica Militare e del Gruppo di Intervento Speciale dei Carabinieri (e le forze di supporto aereo e navale) non rispondono alla catena di comando della coalizione dei trenta e più paesi che appoggia il governo del premier Fayez al Sarraj, ma direttamente" al governo Renzi.
Dal documento del Copasir si evince, comunque, che le missioni, che "partono dalle basi italiane", saranno "limitate nel tempo". Sull'operazione, però, il governo sarebbe pronto ad alzare il livello di segretezza fino a metterci il sigillo del Segreto di Stato. Di informare il parlamento e gli italiani, Matteo Renzi non ha minimamente la voglia.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
LA CALDA ESTATE DEL 2016
CRONACA DI GIORNI DI GUERRA
PERCHE' MUSSOLONI NASCONDE LA REALTA' AGLI ITALIANI E AL PARLAMENTO. ?????????????
C'E' CHI SOSTIENE PERCHE' VUOLE EVITARE LA RIVOLTA DELLE MAMME ITALIANE IN PROSSIMITA' DEL REFENDUM.
E' COSI' ANCHE PER VOI.????????????
In guerra a nostra insaputa: italiani in missione in Libia
I militari sono da tempo sul territorio con funzioni di appoggio e intelligence. Il governo conferma solo ora
Gian Maria De Francesco - Gio, 11/08/2016 - 08:00
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Le forze speciali italiane stanno operando in Libia. L'impegno militare, che il governo di Matteo Renzi ha sempre smentito sebbene si sospettasse che i corpi scelti fossero in qualche modo coinvolti, è stato rivelato ieri da Repubblica e successivamente confermato da fonti di Palazzo Chigi.
Si tratterebbe di qualche decina di unità dei commando del IX Reggimento «Col Moschin», del Gruppo operativo Incursori del Comsubin della Marina, del 17° Stormo dell'Aeronautica Militare e dei Gis dei Carabinieri. La loro attività, iniziata a Tripoli e molto probabilmente proseguita a Misurata, ha una doppia finalità. In primo luogo, le forze speciali proteggono gli agenti dell'intelligence dell'Aise e, in secondo luogo, supportano a livello addestrativo e tecnico le truppe del governo libico internazionalmente riconosciuto e guidato da Fayez Serraj, soprattutto per le operazioni di sminamento. I militari italiani, invece, non sono stati impegnati nella battaglia per la riconquista di Sirte.
Né, tuttavia, avrebbero potuto: sarebbe, infatti, necessario il voto del Parlamento per dare l'ok a missioni di peacekeeping a fianco della coalizione internazionale che opera su mandato di due risoluzioni Onu e che vede coinvolti in prima linea Stati Uniti e Gran Bretagna con il sostegno francese. I reparti d'élite delle forze armate, invece, agiscono sulla base della nuova normativa contenuta nella legge di rifinanziamento delle missioni internazionali di fine 2015. Il testo consente alla Presidenza del Consiglio di autorizzare missioni all'estero per fronteggiare «situazioni di crisi o di emergenza che coinvolgano aspetti di sicurezza nazionale», nonché per la protezione di cittadini italiani all'estero. La stessa fonte della notizia sarebbe, infatti, l'informativa dell'intelligence recapitata la settimana scorsa al Copasir, unico organismo parlamentare tenuto a essere sommariamente informato. L'intervento libico può essere catalogabile sotto tutti e due i profili legislativi: dai porti libici partono i barconi dei migranti tra i quali potrebbero nascondersi elementi jihadisti e in Libia sono inoltre presenti molti nostri connazionali, dipendenti di gruppi del settore petrolifero e delle costruzioni.
Nella scorsa primavera, però, l'esecutivo ai rumor oppose un fermo diniego persino in Aula. Con la stessa veemenza di qualche mese fa ieri l'opposizione ha protestato per l'accentramento di potere decisionale voluto dal premier (primo responsabile dei Servizi) e per essere stata tenuta all'oscuro delle operazioni. «Premesso che è giusto combattere contro i fondamentalisti, il governo italiano ha sin qui smentito ogni impegno dei nostri militari sul territorio libico nelle varie audizioni parlamentari», ha commentato il vicepresidente del Senato, Maurizio Gasparri (Fi) sottolineando come i ministri degli Esteri e della Difesa, Gentiloni e Pinotti, avessero garantito il contrario al Parlamento («Oltre a Renzi ci sono altri esponenti bugiardi di questo esecutivo?»). «Il governo ha nascosto la verità al Paese», hanno contestato i componenti M5S delle commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato aggiungendo che il decreto missioni limita l'utilizzo delle forze speciali esclusivamente alle «operazioni di intelligence». «Non accetteremo che il coinvolgimento in un teatro di guerra passi senza un voto formale del Parlamento», ha chiosato Arturo Scotto (Si).
«Le vere polemiche bisognerebbe farle se l'Italia rimanesse con le mani in mano», ha replicato il presidente della commissione Esteri del Senato, Pier Ferdinando Casini rilevando come aiutare i libici sia «il minimo che possiamo fare poiché combattono il Daesh anche in nome e per conto nostro, come gli americani impegnati su Sirte». E giustificando così la scarsa trasparenza.
CRONACA DI GIORNI DI GUERRA
PERCHE' MUSSOLONI NASCONDE LA REALTA' AGLI ITALIANI E AL PARLAMENTO. ?????????????
C'E' CHI SOSTIENE PERCHE' VUOLE EVITARE LA RIVOLTA DELLE MAMME ITALIANE IN PROSSIMITA' DEL REFENDUM.
E' COSI' ANCHE PER VOI.????????????
In guerra a nostra insaputa: italiani in missione in Libia
I militari sono da tempo sul territorio con funzioni di appoggio e intelligence. Il governo conferma solo ora
Gian Maria De Francesco - Gio, 11/08/2016 - 08:00
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Le forze speciali italiane stanno operando in Libia. L'impegno militare, che il governo di Matteo Renzi ha sempre smentito sebbene si sospettasse che i corpi scelti fossero in qualche modo coinvolti, è stato rivelato ieri da Repubblica e successivamente confermato da fonti di Palazzo Chigi.
Si tratterebbe di qualche decina di unità dei commando del IX Reggimento «Col Moschin», del Gruppo operativo Incursori del Comsubin della Marina, del 17° Stormo dell'Aeronautica Militare e dei Gis dei Carabinieri. La loro attività, iniziata a Tripoli e molto probabilmente proseguita a Misurata, ha una doppia finalità. In primo luogo, le forze speciali proteggono gli agenti dell'intelligence dell'Aise e, in secondo luogo, supportano a livello addestrativo e tecnico le truppe del governo libico internazionalmente riconosciuto e guidato da Fayez Serraj, soprattutto per le operazioni di sminamento. I militari italiani, invece, non sono stati impegnati nella battaglia per la riconquista di Sirte.
Né, tuttavia, avrebbero potuto: sarebbe, infatti, necessario il voto del Parlamento per dare l'ok a missioni di peacekeeping a fianco della coalizione internazionale che opera su mandato di due risoluzioni Onu e che vede coinvolti in prima linea Stati Uniti e Gran Bretagna con il sostegno francese. I reparti d'élite delle forze armate, invece, agiscono sulla base della nuova normativa contenuta nella legge di rifinanziamento delle missioni internazionali di fine 2015. Il testo consente alla Presidenza del Consiglio di autorizzare missioni all'estero per fronteggiare «situazioni di crisi o di emergenza che coinvolgano aspetti di sicurezza nazionale», nonché per la protezione di cittadini italiani all'estero. La stessa fonte della notizia sarebbe, infatti, l'informativa dell'intelligence recapitata la settimana scorsa al Copasir, unico organismo parlamentare tenuto a essere sommariamente informato. L'intervento libico può essere catalogabile sotto tutti e due i profili legislativi: dai porti libici partono i barconi dei migranti tra i quali potrebbero nascondersi elementi jihadisti e in Libia sono inoltre presenti molti nostri connazionali, dipendenti di gruppi del settore petrolifero e delle costruzioni.
Nella scorsa primavera, però, l'esecutivo ai rumor oppose un fermo diniego persino in Aula. Con la stessa veemenza di qualche mese fa ieri l'opposizione ha protestato per l'accentramento di potere decisionale voluto dal premier (primo responsabile dei Servizi) e per essere stata tenuta all'oscuro delle operazioni. «Premesso che è giusto combattere contro i fondamentalisti, il governo italiano ha sin qui smentito ogni impegno dei nostri militari sul territorio libico nelle varie audizioni parlamentari», ha commentato il vicepresidente del Senato, Maurizio Gasparri (Fi) sottolineando come i ministri degli Esteri e della Difesa, Gentiloni e Pinotti, avessero garantito il contrario al Parlamento («Oltre a Renzi ci sono altri esponenti bugiardi di questo esecutivo?»). «Il governo ha nascosto la verità al Paese», hanno contestato i componenti M5S delle commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato aggiungendo che il decreto missioni limita l'utilizzo delle forze speciali esclusivamente alle «operazioni di intelligence». «Non accetteremo che il coinvolgimento in un teatro di guerra passi senza un voto formale del Parlamento», ha chiosato Arturo Scotto (Si).
«Le vere polemiche bisognerebbe farle se l'Italia rimanesse con le mani in mano», ha replicato il presidente della commissione Esteri del Senato, Pier Ferdinando Casini rilevando come aiutare i libici sia «il minimo che possiamo fare poiché combattono il Daesh anche in nome e per conto nostro, come gli americani impegnati su Sirte». E giustificando così la scarsa trasparenza.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
LA CALDA ESTATE DEL 2016
CRONACA DI GIORNI DI GUERRA
LIBERO QUOUTIDIANO E IL GORNALE, SONO SPECIALIZZATI NEL RICERCARE NOTIZIE CHE PRODUCONO ODIO.
11 AGO 2016 10:42
UN 14ENNE DI ORIGINI MAROCCHINE HA APPICCATO IL FUOCO ALL’ALTARE IN UNA CHIESA IN PROVINCIA DI CUNEO
- I CITTADINI: “COSA SAREBBE SUCCESSO IN UN PAESE MUSULMANO, SE UN RAGAZZINO CRISTIANO AVESSE PROVATO A DARE FUOCO AD UNA MOSCHEA?”
Alessia Pedrielli per “Libero quotidiano”
Quattordici anni, di origini marocchine, con comportamenti devianti. Entra in chiesa, prende due candele, si avvicina alle scatole dei ceri votivi e, con metodo, appicca il fuoco ad ognuna. Poi scappa. Dentro ci sono venti persone. Le fiamme divampano sui candelabri e sulle balaustre in legno. Tutti fuggono gridando.
È successo sabato scorso a Savigliano, in provincia di Cuneo. La chiesa finita arrostita è quella di San Filippo Neri: è rimasta inagibile per qualche giorno e i danni sono gravi. Le cronache locali hanno riportato il fatto, senza dare troppo peso e, soprattutto, senza mai specificare le origini del ragazzo. Che invece era stato identificato già poche ore dopo il fattaccio, grazie alle telecamere di sorveglianza attive all' interno della cappella.
A notare qualcosa di strano quella mattina era stata, per prima, una parrocchiana raccolta in preghiera. Intorno alle undici la donna aveva visto un ragazzino entrare e armeggiare a lungo con alcune candele accese nei pressi dei candelabri di legno, posti ai lati del portone d' entrata: i primi ad essere andati a fuoco. Proprio sotto i candelabri, a quanto pare, il giovane ha trovato le scatole di ceri e passandoci sopra la fiamma già accesa, le ha utilizzate come materiale da combustione.
E il piano è riuscito. Il legno ha preso fuoco, i presenti spaventatissimi sono fuggiti all'esterno e solo l'arrivo di una pattuglia con gli estintori, ha evitato il divampare del rogo. Il ragazzo è stato fermato nel pomeriggio: avrebbe detto di non averlo fatto apposta e di essere scappato per lo spavento. Ma le immagini registrate raccontano altro e il 14enne è stato segnalato al Tribunale dei minori di Torino.
È figlio di una italiana e di un marocchino, che da casa, a quanto risulta, se ne è andato da un po'. È già conosciuto in paese e un anno fa avrebbe dato bella prova di sé allagando i bagni della scuola che frequentava. «Non lo abbiamo mai visto prima in chiesa, ma sappiamo che viene da una situazione triste, da una famiglia complicata», racconta il parroco di San Filippo, don Raina raggiunto al telefono, «è un ragazzo che va aiutato» per «evitare che prosegua per la cattiva strada», perché «questa volta è andata bene, nessuno si è fatto male, ma quando sarà più grande che cosa potrebbe fare?».
A chiederselo sono anche gli abitanti di Savigliano che non hanno preso bene la notizia della loro chiesa data alle fiamme da un giovane «marocchino» e ancor peggio il fatto che i media locali, in tempi come questi, abbiano omesso le sue origini «per non irritare gli antirazzisti», scrivono sulla pagina Fb del piccolo Comune.
«Vorrei vedere se in un paese musulmano un ragazzino cristiano avesse provato a dare fuoco ad una moschea...», sottolinea qualcuno. «Ma senza andare troppo lontano, immagina se un marmocchio padano avesse fatto la stessa cosa in una moschea Italiana», scrive un altro, «il ragazzo problematico» sarebbe diventato uno «xenofobo, razzista che agiva per ritorsione». riproduzione riservata Per domare le fiamme i vigili urbani hanno svuotato due estintori.
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Quattordici anni, di origini marocchine, con comportamenti devianti. Entra in chiesa, prende due candele, si avvicina alle scatole dei ceri votivi e, con metodo, appicca il fuoco ad ognuna. Poi scappa. Dentro ci sono venti persone. Le fiamme divampano sui candelabri e sulle balaustre in legno. Tutti fuggono gridando.
È successo sabato scorso a Savigliano, in provincia di Cuneo. La chiesa finita arrostita è quella di San Filippo Neri: è rimasta inagibile per qualche giorno e i danni sono gravi. Le cronache locali hanno riportato il fatto, senza dare troppo peso e, soprattutto, senza mai specificare le origini del ragazzo. Che invece era stato identificato già poche ore dopo il fattaccio, grazie alle telecamere di sorveglianza attive all' interno della cappella.
A notare qualcosa di strano quella mattina era stata, per prima, una parrocchiana raccolta in preghiera. Intorno alle undici la donna aveva visto un ragazzino entrare e armeggiare a lungo con alcune candele accese nei pressi dei candelabri di legno, posti ai lati del portone d' entrata: i primi ad essere andati a fuoco. Proprio sotto i candelabri, a quanto pare, il giovane ha trovato le scatole di ceri e passandoci sopra la fiamma già accesa, le ha utilizzate come materiale da combustione.
E il piano è riuscito. Il legno ha preso fuoco, i presenti spaventatissimi sono fuggiti all'esterno e solo l'arrivo di una pattuglia con gli estintori, ha evitato il divampare del rogo. Il ragazzo è stato fermato nel pomeriggio: avrebbe detto di non averlo fatto apposta e di essere scappato per lo spavento. Ma le immagini registrate raccontano altro e il 14enne è stato segnalato al Tribunale dei minori di Torino.
È figlio di una italiana e di un marocchino, che da casa, a quanto risulta, se ne è andato da un po'. È già conosciuto in paese e un anno fa avrebbe dato bella prova di sé allagando i bagni della scuola che frequentava. «Non lo abbiamo mai visto prima in chiesa, ma sappiamo che viene da una situazione triste, da una famiglia complicata», racconta il parroco di San Filippo, don Raina raggiunto al telefono, «è un ragazzo che va aiutato» per «evitare che prosegua per la cattiva strada», perché «questa volta è andata bene, nessuno si è fatto male, ma quando sarà più grande che cosa potrebbe fare?».
A chiederselo sono anche gli abitanti di Savigliano che non hanno preso bene la notizia della loro chiesa data alle fiamme da un giovane «marocchino» e ancor peggio il fatto che i media locali, in tempi come questi, abbiano omesso le sue origini «per non irritare gli antirazzisti», scrivono sulla pagina Fb del piccolo Comune.
«Vorrei vedere se in un paese musulmano un ragazzino cristiano avesse provato a dare fuoco ad una moschea...», sottolinea qualcuno. «Ma senza andare troppo lontano, immagina se un marmocchio padano avesse fatto la stessa cosa in una moschea Italiana», scrive un altro, «il ragazzo problematico» sarebbe diventato uno «xenofobo, razzista che agiva per ritorsione». riproduzione riservata Per domare le fiamme i vigili urbani hanno svuotato due estintori.
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