Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la SX?
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- Iscritto il: 24/02/2012, 18:16
Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
Vorrei soffermarmi su quanto segue :
Accade però che molti cittadini elettori non abbiano voglia di esercitare quel loro diritto e se ne astengono. Fisiologicamente il 20 per cento degli elettori non esercita il suo diritto, ma in molti Paesi la quota degli astenuti è cresciuta, ormai si aggira intorno al 30 e in certo casi al 40 per cento con punte estreme che arrivano addirittura al 50 per cento. In questi casi la sovranità è in mano ad un popolo ampiamente falcidiato, composto a sua volta da due categorie assai diverse tra loro: una consapevole dei suoi diritti e degli interessi generali che lo Stato democratico deve rappresentare; l'altra di persone che perseguono l'interesse proprio e dei loro capi locali e qui emergono anche fenomeni di corruzione che inquinano i risultati elettorali.
da http://www.ilcorsaro.info/nel-palazzo-3 ... torio.html
Democrazia partecipata e pratiche di governo del territorio
Una cosa è certa: in Italia la democrazia rappresentativa non funziona più. E questa, si potrebbe dire, non è certo una novità. Il punto è che lo scollamento tra rappresentanti e rappresentati aumenta esponenzialmente e molti indicatori sono lì a provarlo. C'è stata, forse, un'epoca nella quale la democrazia rappresentativa riusciva efficacemente a interpretare i bisogni della società e a farsene carico. Questo succedeva grazie anche a un articolato sistema di corpi intermedi che metteva in connessione l'individuo con il suo rappresentante istituzionale.
Oggi la rete capillare di partecipazione e intermediazione politica che esisteva un tempo non c’è più. La partecipazione politica si è ridotta a un fatto effimero, si organizza per le competizioni elettorali e poi scompare. È in atto, da anni ormai, una netta virata del sistema politico italiano verso il modello del caucus americano, ovvero grandi macchine di organizzazione del consenso che si mettono in moto per le elezioni e funzionano come grandi “imprese” del voto: orientano le proprie scelte politiche sui sondaggi, puntano tutto sulla comunicazione, sul branding e sul marketing, intercettano l'interesse e il consenso dell'elettore utilizzando le più moderne tecniche commerciali. In altre parole, vendono prodotti. La politica, in questo modo, smette di essere lo spazio del confronto tra diverse idee di società e modelli di sviluppo, per diventare un supermercato dove la proposta politico-commerciale è il risultato di precisi calcoli di convenienza nella raccolta del consenso. Questo fenomeno si accompagna a quello della personalizzazione della politica: si punta tutto su leader mediatici, su comunicatori in grado di vendere meglio il prodotto. Spariscono del tutto i corpi intermedi.
In questo contesto, i cittadini non hanno più occasioni né strumenti per incidere sulle scelte politiche, per avanzare le proprie istanze, per esercitare i propri diritti democratici. La partecipazione politica, in sostanza, si riduce al voto. Poi non c'è quasi nulla, non ci sono vere occasioni di partecipazione, non ci sono strumenti per esercitare la sovranità. La politica rappresentativa, insomma, è in crisi. La democrazia basata sulla delega è in crisi. A dimostrarlo sono sia l'altissimo dato dell'astensionismo galoppante, sia il voto a forze politiche che promettono di puntare tutto sulle nuove frontiere della democrazia diretta, sui referendum on line e su altre forme di condivisione tra eletti ed elettori. È un segnale, i cittadini sentono il bisogno di riappropriarsi del potere di scegliere e premiano chi si adopera in questa direzione. Per la verità, la democrazia diretta portata avanti a suon di referendum on line, al di là delle apparenze, comporta in sé un rischio drammatico: quello di determinare l'agire politico sulla base di continui e oscillanti sondaggi di opinione senza, di fatto, adoperarsi per costruire dei modelli di società. Insomma, la deriva della democrazia diretta potrebbe essere proprio quella dei caucus americani.
Non è detto, tuttavia, che questo stato di crisi della democrazia sia necessariamente un male. I momenti di crisi possono essere anche delle grandi opportunità per produrre cambiamenti, sono i momenti ideali per innovare. A patto, chiaramente, di saper cogliere gli elementi determinanti della crisi e saper cambiare la rotta scegliendo nuove strade. In questo contesto, la frontiera che potrebbe salvarci è quella della democrazia partecipativa, pensata come un sistema articolato di assemblee, raccolta di proposte, istanze e votazioni che metta i cittadini nelle condizioni non solo di scegliere, decidere e riappropriarsi di pezzi di sovranità ma anche di crescere insieme come democrazia, di approfondire, di confrontarsi. E tutto questo, chiaramente, non può avvenire attraverso un sondaggio on line, se non con molti limiti. Le tecniche della democrazia partecipativa dovrebbero diventare innanzitutto un patrimonio di ciò che resta dei corpi intermedi, dovrebbero rappresentare il grimaldello che restituisce senso e sostanza ai corpi intermedi. Dovrebbero, in altre parole, caratterizzare un rilancio di partiti, sindacati e associazioni di categoria, diventati troppo spesso spazi autoreferenziali, privi di democrazia sostanziale. E poi, chiaramente, la democrazia partecipativa va sperimentata a livello territoriale, nella vita delle comunità locali.
Quanto realizzato a Troia, comune di settemila abitanti in provincia di Foggia, è stato uno degli esperimenti più classici della democrazia partecipativa: il bilancio partecipativo. Un progetto ambizioso, durato ben 18 mesi, grazie al quale i cittadini hanno potuto decidere direttamente come utilizzare una parte del bilancio comunale, ovvero 100 mila euro, attraverso un articolato sistema di assemblee, raccolta di proposte e votazioni. Troia è stata la prima città pugliese a praticare il bilancio partecipativo, e forse l’unica in Italia a farlo non su spinta di un’amministrazione, ma su proposta di una vasta schiera di associazioni, movimenti e partiti. L’idea è partita infatti da un gruppo di organizzazioni e liberi cittadini, convinti che la politica non possa ridursi soltanto a un evento elettorale, ma debba essere responsabilità quotidiana non solo di ogni amministratore pubblico, ma anche di ogni elettrice ed elettore. Questo gruppo di persone ha provato a trasmettere un messaggio: una democrazia matura non può limitarsi ad interpellare i cittadini soltanto nel momento del voto, una volta ogni cinque anni, ma deve invece farlo costantemente per conoscere i problemi, le priorità, le idee e le proposte per una città migliore.
Tutto è cominciato nel novembre del 2011, con un appello che invitava l'amministrazione comunale a praticare il bilancio partecipativo seguendo l'esempio di altri enti in tutta Italia. L’appello ha raccolto l'adesione di 16 realtà tra partiti, movimenti e associazioni, ovvero più del 90 per cento di ciò che si muove sul piano politico e culturale sul territorio. L'amministrazione comunale, in una prima fase, pur guardando all'iniziativa con incertezza e diffidenza, non ha sbattuto la porta in faccia ai promotori, ma ha preso tempo, chiedendo di presentare un progetto articolato, con una definizione delle fasi, dei tempi e dei ruoli. Hanno così avuto inizio cinque lunghi mesi di incontri tra i vari soggetti promotori. Cinque mesi difficili, forse i più difficili, perché bisognava definire insieme le regole di questa esperienza di bilancio partecipativo: non esistono infatti formule standard, ma ogni comune adotta regole e strumenti diversi. Cinque mesi di studio su esperienze analoghe e di confronto serrato, settimana dopo settimana, con riunioni itineranti per coinvolgere anche fisicamente tutti gli spazi dei soggetti promotori e fare in modo che tutti si sentissero a pieno titolo coinvolti. Alla fine, si è scelto di praticare il “modello Colorno”, un comune della provincia di Parma che fa parte dell'Associazione dei Comuni virtuosi[1] e che pratica da tempo il bilancio partecipativo. Era l'esperienza più difficile da praticare, ma si è deciso di adottarla e declinarla a livello locale perché era anche quella che somigliava di più alla realtà di Troia. Questo modello prevede la realizzazione di assemblee di quartiere e poi di assemblee cittadine alle quali possono partecipare tutti i cittadini che vogliano avanzare idee e proposte. A differenza di questo modello, nell’esperienza di Capannori, in provincia di Lucca, per esempio, alla discussione partecipa solo un gruppo “rappresentativo” di 80 residenti (uomini, donne, anziani, migranti) su 40mila abitanti.
Il progetto troiano è stato articolato in sei fasi distinte. La prima (giugno-settembre 2012) è stata la fase informativa nel corso della quale i cittadini sono stati messi al corrente del progetto attraverso tutti gli strumenti possibili: dalle assemblee in piazza, ai gazebo, dai bollettini comunali a manifesti e flyer. La fase due, invece, è stata quella propositiva, ovvero quella delle assemblee e della raccolta delle proposte: è partita nel settembre del 2012, con due cicli di incontri, prima nei quattro quartieri e poi in assemblee cittadine. Nelle assemblee si è provato a sperimentare sin da subito le pratiche partecipative: piccoli gruppi di lavoro elaboravano proposte e idee progettuali, le condividevano in plenaria, le proposte venivano poi ridiscusse ed accorpate con quelle simili, fino ad arrivare ad una sintesi. Ogni assemblea aveva un facilitatore, con l’obiettivo di far rispettare le poche regole condivise a inizio discussione (per esempio, la durata degli interventi, che non dovevano superare i tre minuti) e un rapporteur con il compito di fare la sintesi condivisa delle proposte su grandi tabelloni e poi scrivere il report dell’assemblea, che, di fatto, era già preparato in diretta, in modo che nessuno potesse “interpretare” gli esiti della discussione.
Le idee progettuali dei cittadini sono state raccolte in tre categorie: opere pubbliche; servizi al cittadino, progetti. Non ci si è peraltro limitati a raccogliere le proposte durante le assemblee cittadine: dopo aver tenuto sette assemblee, sono stati distribuiti 14 box di raccolta delle proposte nei bar, nelle tabaccherie, nelle lavanderie, presso gli uffici comunali, e così via. Chiunque non avesse potuto partecipare alle assemblee, recuperata l'apposita scheda di raccolta proposte (pre-stampata e distribuita in tutte le case attraverso il bollettino comunale), poteva depositare la propria proposta all’interno dei box. In ultimo è stato attivato anche un sistema di raccolta proposte on line attraverso un modulo dedicato sul blog del bilancio partecipativo[2], per fornire uno strumento in più a chi non aveva potuto usufruire di nessuna delle due occasioni precedenti. Insieme alle proposte, tutte rigorosamente anonime, sono state raccolte anche le domande aperte che i cittadini desideravano rivolgere all'amministrazione comunale, con l’assicurazione che il sindaco e la giunta avrebbero risposto a tutte, cosa effettivamente accaduta dopo qualche mese attraverso il bollettino comunale e attraverso un momento di confronto pubblico.
In tutto, alla fine della fase propositiva sono pervenute circa 600 proposte, sugli argomenti più svariati: dal verde pubblico alla viabilità, dalle politiche sociali alla cultura, dalla mobilità sostenibile alle politiche per il lavoro. A quel punto è iniziata la terza fase: quella della verifica di fattibilità. Le proposte sono state sottoposte agli uffici comunali, che hanno innanzi tutto provveduto a una selezione delle proposte ammissibili e hanno scartato, invece, quelle che non riguardavano atti o servizi di competenza comunale, e quelle che prevedevano una spesa superiore ai 100 mila euro. Per ognuna delle proposte scartate, gli uffici comunali avevano il compito di motivare l’esclusione, illustrando il sistema delle competenze e i costi. Si è trattato, quindi, anche di una grande operazione di educazione civica. Al termine di questa prima selezione si è giunti a definire una lista di circa 200 proposte. Dopo un ulteriore accorpamento delle idee tra loro simili, sono rimaste 58 proposte giudicate “fattibili”. Si è cercato di produrre proposte accorpate dal valore complessivo di circa 100 mila euro, in modo da rendere più semplice la fase del voto. Ciascun cittadino, così, avrebbe potuto votare una sola proposta da 100 mila euro che raccoglieva, spesso, più proposte dello stesso tipo. Per esempio, molti cittadini hanno proposto la risistemazione di marciapiedi, ma ciascun cittadino l’ha proposto per una strada diversa, e alla fine si è prodotta una proposta unica di “risistemazione marciapiedi” che ne raccoglieva diverse. Le 58 proposte così accorpate sono andate a costituire, alla fine di questa fase, un’unica scheda elettorale da sottoporre al voto dei cittadini.
Terminata la fase della verifica di fattibilità, ha avuto inizio la quarta fase, quella della campagna elettorale e del voto. Il 18 maggio 2013, con un’iniziativa pubblica di presentazione delle proposte e della scheda elettorale, si è aperta ufficialmente la campagna elettorale. Molti cittadini a quel punto hanno iniziato a promuovere la propria proposta, o si sono mobilitati per quella che ritenevano più valida. Si è votato dall’1 al 30 giugno, in modo da avere il risultato in tempo per l’approvazione del bilancio di previsione – scadenza poi slittata al 30 settembre e, successivamente, al 30 novembre. Le procedure elettorali sono state gestite dall'ufficio elettorale del Comune di Troia, con qualche novità: rispetto alle elezioni politiche e amministrative, il voto è stato aperto anche a tutti i sedicenni e agli immigrati residenti. Si poteva votare ogni giorno presso il municipio, mentre nei fine settimana sono stati allestiti seggi itineranti, con gazebo in giro per la città. Alla fine hanno votato circa mille persone, ovvero, considerando la media degli elettori in occasione delle scadenze elettorali, un elettore su quattro: molto più delle migliori aspettative dei promotori e molto più della media dei votanti delle altre esperienze di bilancio partecipativo.
Dal conteggio sono risultate, per la precisione, 995 schede votate di cui 983 voti validi. Dall’anagrafe dei votanti risulta che, dei 995 cittadini che hanno votato, 498 sono uomini e 497 sono donne: una quasi perfetta parità di genere. Al termine dello spoglio ha vinto, con 173 voti, la proposta n. 4: “creazione parchi per bambini in zona La Fiorita e in piazza Giovanni Paolo II”. Ha prevalso, dunque, l’idea di creare dei luoghi di verde pubblico e socialità nella zona di recente costruzione nel quartiere S. Secondino. Seconda proposta maggiormente suffragata è stata la n. 57 – “rete Wi-Fi gratuita per tutto il paese e in tutti i locali comunali” – con 137 voti, risultato che testimonia positivamente quanto i giovani abbiano partecipato in gran numero alle consultazioni. A seguire, con 116 voti, la proposta n. 5, “creazione Casa dell’Acqua e del Latte con distributori automatici alla spina”. Interessante notare come anche la proposta n. 22 sui “finanziamenti per il sostegno al lavoro giovanile (es. bandi per imprenditoria giovanile)” abbia totalizzato 80 voti, segno che il tema del lavoro giovanile è considerato centrale tra le problematiche cittadine. Le ultime due fasi, ancora in corso, sono quelle dell’inserimento della proposta vincente nel bilancio comunale – l’ufficio tecnico già in settembre ha avuto mandato dalla giunta di predisporre il progetto esecutivo – e dell’analisi e della verifica del percorso fatto, che coinciderà, di fatto, con l’avvio del bilancio partecipativo 2014.
Il bilancio partecipativo è stato insomma una grande occasione per ri-dare sovranità direttamente ai cittadini, affidando loro il potere di decidere. L’iniziativa ha avuto una doppia valenza: da un lato, fare in modo che le idee e le proposte concrete dei cittadini potessero diventare realtà; dall’altro, è servita a riportare tutti alla consapevolezza che il governo della cosa pubblica appartiene a ciascun cittadino. È stato un processo innovativo e sperimentale che ha consentito ai cittadini di Troia di confrontarsi sui problemi del paese, sugli interventi da realizzare e su tante altre “buone pratiche” da introdurre nella vita democratica della comunità.
Il limite vero della democrazia partecipativa è organizzativo. Fare un bilancio partecipativo per scegliere insieme come utilizzare una parte del bilancio di un ente è cosa estremamente complessa e richiede tempo, pazienza, sforzi organizzativi notevoli. Si tratta peraltro di un esperimento che si può fare a livello di comunità, in comuni piccoli e grandi (lo ha fatto anche Porto Alegre, in Brasile, che ha un milione e mezzo di abitanti), ma non è fattibile a livello nazionale – non con le stesse modalità di un bilancio partecipativo comunale. Si possono, tuttavia, adottare (o inventare) altri strumenti per consentire ai cittadini, o a determinati segmenti della società, di partecipare con le proprie idee e con le proprie proposte alla definizione delle scelte politiche (consulte, convention tematiche con l’uso di tecniche partecipative, consultazioni on line, forum di progettazione partecipata, etc.). Si possono applicare gli strumenti della democrazia partecipativa all’interno dei meccanismi decisionali di alcune comunità politiche: partiti, sindacati, associazioni, etc. Il cammino fatto finora, comunque, insegna che il livello della comunità cittadina è quello nel quale si può mettere in pratica un cambiamento vero e sostanziale nell’approccio alla questione della democrazia e della partecipazione. È una strada stretta, tortuosa e sicuramente insufficiente, ma è un punto di partenza, un punto di ripartenza. Il tempo della delega, del resto, è finito: oggi è il tempo della partecipazione e delle scelte condivise.
[1] www.comunivirtuosi.org.
[2] bilanciopartecipativotroja.blogspot.it.
Accade però che molti cittadini elettori non abbiano voglia di esercitare quel loro diritto e se ne astengono. Fisiologicamente il 20 per cento degli elettori non esercita il suo diritto, ma in molti Paesi la quota degli astenuti è cresciuta, ormai si aggira intorno al 30 e in certo casi al 40 per cento con punte estreme che arrivano addirittura al 50 per cento. In questi casi la sovranità è in mano ad un popolo ampiamente falcidiato, composto a sua volta da due categorie assai diverse tra loro: una consapevole dei suoi diritti e degli interessi generali che lo Stato democratico deve rappresentare; l'altra di persone che perseguono l'interesse proprio e dei loro capi locali e qui emergono anche fenomeni di corruzione che inquinano i risultati elettorali.
da http://www.ilcorsaro.info/nel-palazzo-3 ... torio.html
Democrazia partecipata e pratiche di governo del territorio
Una cosa è certa: in Italia la democrazia rappresentativa non funziona più. E questa, si potrebbe dire, non è certo una novità. Il punto è che lo scollamento tra rappresentanti e rappresentati aumenta esponenzialmente e molti indicatori sono lì a provarlo. C'è stata, forse, un'epoca nella quale la democrazia rappresentativa riusciva efficacemente a interpretare i bisogni della società e a farsene carico. Questo succedeva grazie anche a un articolato sistema di corpi intermedi che metteva in connessione l'individuo con il suo rappresentante istituzionale.
Oggi la rete capillare di partecipazione e intermediazione politica che esisteva un tempo non c’è più. La partecipazione politica si è ridotta a un fatto effimero, si organizza per le competizioni elettorali e poi scompare. È in atto, da anni ormai, una netta virata del sistema politico italiano verso il modello del caucus americano, ovvero grandi macchine di organizzazione del consenso che si mettono in moto per le elezioni e funzionano come grandi “imprese” del voto: orientano le proprie scelte politiche sui sondaggi, puntano tutto sulla comunicazione, sul branding e sul marketing, intercettano l'interesse e il consenso dell'elettore utilizzando le più moderne tecniche commerciali. In altre parole, vendono prodotti. La politica, in questo modo, smette di essere lo spazio del confronto tra diverse idee di società e modelli di sviluppo, per diventare un supermercato dove la proposta politico-commerciale è il risultato di precisi calcoli di convenienza nella raccolta del consenso. Questo fenomeno si accompagna a quello della personalizzazione della politica: si punta tutto su leader mediatici, su comunicatori in grado di vendere meglio il prodotto. Spariscono del tutto i corpi intermedi.
In questo contesto, i cittadini non hanno più occasioni né strumenti per incidere sulle scelte politiche, per avanzare le proprie istanze, per esercitare i propri diritti democratici. La partecipazione politica, in sostanza, si riduce al voto. Poi non c'è quasi nulla, non ci sono vere occasioni di partecipazione, non ci sono strumenti per esercitare la sovranità. La politica rappresentativa, insomma, è in crisi. La democrazia basata sulla delega è in crisi. A dimostrarlo sono sia l'altissimo dato dell'astensionismo galoppante, sia il voto a forze politiche che promettono di puntare tutto sulle nuove frontiere della democrazia diretta, sui referendum on line e su altre forme di condivisione tra eletti ed elettori. È un segnale, i cittadini sentono il bisogno di riappropriarsi del potere di scegliere e premiano chi si adopera in questa direzione. Per la verità, la democrazia diretta portata avanti a suon di referendum on line, al di là delle apparenze, comporta in sé un rischio drammatico: quello di determinare l'agire politico sulla base di continui e oscillanti sondaggi di opinione senza, di fatto, adoperarsi per costruire dei modelli di società. Insomma, la deriva della democrazia diretta potrebbe essere proprio quella dei caucus americani.
Non è detto, tuttavia, che questo stato di crisi della democrazia sia necessariamente un male. I momenti di crisi possono essere anche delle grandi opportunità per produrre cambiamenti, sono i momenti ideali per innovare. A patto, chiaramente, di saper cogliere gli elementi determinanti della crisi e saper cambiare la rotta scegliendo nuove strade. In questo contesto, la frontiera che potrebbe salvarci è quella della democrazia partecipativa, pensata come un sistema articolato di assemblee, raccolta di proposte, istanze e votazioni che metta i cittadini nelle condizioni non solo di scegliere, decidere e riappropriarsi di pezzi di sovranità ma anche di crescere insieme come democrazia, di approfondire, di confrontarsi. E tutto questo, chiaramente, non può avvenire attraverso un sondaggio on line, se non con molti limiti. Le tecniche della democrazia partecipativa dovrebbero diventare innanzitutto un patrimonio di ciò che resta dei corpi intermedi, dovrebbero rappresentare il grimaldello che restituisce senso e sostanza ai corpi intermedi. Dovrebbero, in altre parole, caratterizzare un rilancio di partiti, sindacati e associazioni di categoria, diventati troppo spesso spazi autoreferenziali, privi di democrazia sostanziale. E poi, chiaramente, la democrazia partecipativa va sperimentata a livello territoriale, nella vita delle comunità locali.
Quanto realizzato a Troia, comune di settemila abitanti in provincia di Foggia, è stato uno degli esperimenti più classici della democrazia partecipativa: il bilancio partecipativo. Un progetto ambizioso, durato ben 18 mesi, grazie al quale i cittadini hanno potuto decidere direttamente come utilizzare una parte del bilancio comunale, ovvero 100 mila euro, attraverso un articolato sistema di assemblee, raccolta di proposte e votazioni. Troia è stata la prima città pugliese a praticare il bilancio partecipativo, e forse l’unica in Italia a farlo non su spinta di un’amministrazione, ma su proposta di una vasta schiera di associazioni, movimenti e partiti. L’idea è partita infatti da un gruppo di organizzazioni e liberi cittadini, convinti che la politica non possa ridursi soltanto a un evento elettorale, ma debba essere responsabilità quotidiana non solo di ogni amministratore pubblico, ma anche di ogni elettrice ed elettore. Questo gruppo di persone ha provato a trasmettere un messaggio: una democrazia matura non può limitarsi ad interpellare i cittadini soltanto nel momento del voto, una volta ogni cinque anni, ma deve invece farlo costantemente per conoscere i problemi, le priorità, le idee e le proposte per una città migliore.
Tutto è cominciato nel novembre del 2011, con un appello che invitava l'amministrazione comunale a praticare il bilancio partecipativo seguendo l'esempio di altri enti in tutta Italia. L’appello ha raccolto l'adesione di 16 realtà tra partiti, movimenti e associazioni, ovvero più del 90 per cento di ciò che si muove sul piano politico e culturale sul territorio. L'amministrazione comunale, in una prima fase, pur guardando all'iniziativa con incertezza e diffidenza, non ha sbattuto la porta in faccia ai promotori, ma ha preso tempo, chiedendo di presentare un progetto articolato, con una definizione delle fasi, dei tempi e dei ruoli. Hanno così avuto inizio cinque lunghi mesi di incontri tra i vari soggetti promotori. Cinque mesi difficili, forse i più difficili, perché bisognava definire insieme le regole di questa esperienza di bilancio partecipativo: non esistono infatti formule standard, ma ogni comune adotta regole e strumenti diversi. Cinque mesi di studio su esperienze analoghe e di confronto serrato, settimana dopo settimana, con riunioni itineranti per coinvolgere anche fisicamente tutti gli spazi dei soggetti promotori e fare in modo che tutti si sentissero a pieno titolo coinvolti. Alla fine, si è scelto di praticare il “modello Colorno”, un comune della provincia di Parma che fa parte dell'Associazione dei Comuni virtuosi[1] e che pratica da tempo il bilancio partecipativo. Era l'esperienza più difficile da praticare, ma si è deciso di adottarla e declinarla a livello locale perché era anche quella che somigliava di più alla realtà di Troia. Questo modello prevede la realizzazione di assemblee di quartiere e poi di assemblee cittadine alle quali possono partecipare tutti i cittadini che vogliano avanzare idee e proposte. A differenza di questo modello, nell’esperienza di Capannori, in provincia di Lucca, per esempio, alla discussione partecipa solo un gruppo “rappresentativo” di 80 residenti (uomini, donne, anziani, migranti) su 40mila abitanti.
Il progetto troiano è stato articolato in sei fasi distinte. La prima (giugno-settembre 2012) è stata la fase informativa nel corso della quale i cittadini sono stati messi al corrente del progetto attraverso tutti gli strumenti possibili: dalle assemblee in piazza, ai gazebo, dai bollettini comunali a manifesti e flyer. La fase due, invece, è stata quella propositiva, ovvero quella delle assemblee e della raccolta delle proposte: è partita nel settembre del 2012, con due cicli di incontri, prima nei quattro quartieri e poi in assemblee cittadine. Nelle assemblee si è provato a sperimentare sin da subito le pratiche partecipative: piccoli gruppi di lavoro elaboravano proposte e idee progettuali, le condividevano in plenaria, le proposte venivano poi ridiscusse ed accorpate con quelle simili, fino ad arrivare ad una sintesi. Ogni assemblea aveva un facilitatore, con l’obiettivo di far rispettare le poche regole condivise a inizio discussione (per esempio, la durata degli interventi, che non dovevano superare i tre minuti) e un rapporteur con il compito di fare la sintesi condivisa delle proposte su grandi tabelloni e poi scrivere il report dell’assemblea, che, di fatto, era già preparato in diretta, in modo che nessuno potesse “interpretare” gli esiti della discussione.
Le idee progettuali dei cittadini sono state raccolte in tre categorie: opere pubbliche; servizi al cittadino, progetti. Non ci si è peraltro limitati a raccogliere le proposte durante le assemblee cittadine: dopo aver tenuto sette assemblee, sono stati distribuiti 14 box di raccolta delle proposte nei bar, nelle tabaccherie, nelle lavanderie, presso gli uffici comunali, e così via. Chiunque non avesse potuto partecipare alle assemblee, recuperata l'apposita scheda di raccolta proposte (pre-stampata e distribuita in tutte le case attraverso il bollettino comunale), poteva depositare la propria proposta all’interno dei box. In ultimo è stato attivato anche un sistema di raccolta proposte on line attraverso un modulo dedicato sul blog del bilancio partecipativo[2], per fornire uno strumento in più a chi non aveva potuto usufruire di nessuna delle due occasioni precedenti. Insieme alle proposte, tutte rigorosamente anonime, sono state raccolte anche le domande aperte che i cittadini desideravano rivolgere all'amministrazione comunale, con l’assicurazione che il sindaco e la giunta avrebbero risposto a tutte, cosa effettivamente accaduta dopo qualche mese attraverso il bollettino comunale e attraverso un momento di confronto pubblico.
In tutto, alla fine della fase propositiva sono pervenute circa 600 proposte, sugli argomenti più svariati: dal verde pubblico alla viabilità, dalle politiche sociali alla cultura, dalla mobilità sostenibile alle politiche per il lavoro. A quel punto è iniziata la terza fase: quella della verifica di fattibilità. Le proposte sono state sottoposte agli uffici comunali, che hanno innanzi tutto provveduto a una selezione delle proposte ammissibili e hanno scartato, invece, quelle che non riguardavano atti o servizi di competenza comunale, e quelle che prevedevano una spesa superiore ai 100 mila euro. Per ognuna delle proposte scartate, gli uffici comunali avevano il compito di motivare l’esclusione, illustrando il sistema delle competenze e i costi. Si è trattato, quindi, anche di una grande operazione di educazione civica. Al termine di questa prima selezione si è giunti a definire una lista di circa 200 proposte. Dopo un ulteriore accorpamento delle idee tra loro simili, sono rimaste 58 proposte giudicate “fattibili”. Si è cercato di produrre proposte accorpate dal valore complessivo di circa 100 mila euro, in modo da rendere più semplice la fase del voto. Ciascun cittadino, così, avrebbe potuto votare una sola proposta da 100 mila euro che raccoglieva, spesso, più proposte dello stesso tipo. Per esempio, molti cittadini hanno proposto la risistemazione di marciapiedi, ma ciascun cittadino l’ha proposto per una strada diversa, e alla fine si è prodotta una proposta unica di “risistemazione marciapiedi” che ne raccoglieva diverse. Le 58 proposte così accorpate sono andate a costituire, alla fine di questa fase, un’unica scheda elettorale da sottoporre al voto dei cittadini.
Terminata la fase della verifica di fattibilità, ha avuto inizio la quarta fase, quella della campagna elettorale e del voto. Il 18 maggio 2013, con un’iniziativa pubblica di presentazione delle proposte e della scheda elettorale, si è aperta ufficialmente la campagna elettorale. Molti cittadini a quel punto hanno iniziato a promuovere la propria proposta, o si sono mobilitati per quella che ritenevano più valida. Si è votato dall’1 al 30 giugno, in modo da avere il risultato in tempo per l’approvazione del bilancio di previsione – scadenza poi slittata al 30 settembre e, successivamente, al 30 novembre. Le procedure elettorali sono state gestite dall'ufficio elettorale del Comune di Troia, con qualche novità: rispetto alle elezioni politiche e amministrative, il voto è stato aperto anche a tutti i sedicenni e agli immigrati residenti. Si poteva votare ogni giorno presso il municipio, mentre nei fine settimana sono stati allestiti seggi itineranti, con gazebo in giro per la città. Alla fine hanno votato circa mille persone, ovvero, considerando la media degli elettori in occasione delle scadenze elettorali, un elettore su quattro: molto più delle migliori aspettative dei promotori e molto più della media dei votanti delle altre esperienze di bilancio partecipativo.
Dal conteggio sono risultate, per la precisione, 995 schede votate di cui 983 voti validi. Dall’anagrafe dei votanti risulta che, dei 995 cittadini che hanno votato, 498 sono uomini e 497 sono donne: una quasi perfetta parità di genere. Al termine dello spoglio ha vinto, con 173 voti, la proposta n. 4: “creazione parchi per bambini in zona La Fiorita e in piazza Giovanni Paolo II”. Ha prevalso, dunque, l’idea di creare dei luoghi di verde pubblico e socialità nella zona di recente costruzione nel quartiere S. Secondino. Seconda proposta maggiormente suffragata è stata la n. 57 – “rete Wi-Fi gratuita per tutto il paese e in tutti i locali comunali” – con 137 voti, risultato che testimonia positivamente quanto i giovani abbiano partecipato in gran numero alle consultazioni. A seguire, con 116 voti, la proposta n. 5, “creazione Casa dell’Acqua e del Latte con distributori automatici alla spina”. Interessante notare come anche la proposta n. 22 sui “finanziamenti per il sostegno al lavoro giovanile (es. bandi per imprenditoria giovanile)” abbia totalizzato 80 voti, segno che il tema del lavoro giovanile è considerato centrale tra le problematiche cittadine. Le ultime due fasi, ancora in corso, sono quelle dell’inserimento della proposta vincente nel bilancio comunale – l’ufficio tecnico già in settembre ha avuto mandato dalla giunta di predisporre il progetto esecutivo – e dell’analisi e della verifica del percorso fatto, che coinciderà, di fatto, con l’avvio del bilancio partecipativo 2014.
Il bilancio partecipativo è stato insomma una grande occasione per ri-dare sovranità direttamente ai cittadini, affidando loro il potere di decidere. L’iniziativa ha avuto una doppia valenza: da un lato, fare in modo che le idee e le proposte concrete dei cittadini potessero diventare realtà; dall’altro, è servita a riportare tutti alla consapevolezza che il governo della cosa pubblica appartiene a ciascun cittadino. È stato un processo innovativo e sperimentale che ha consentito ai cittadini di Troia di confrontarsi sui problemi del paese, sugli interventi da realizzare e su tante altre “buone pratiche” da introdurre nella vita democratica della comunità.
Il limite vero della democrazia partecipativa è organizzativo. Fare un bilancio partecipativo per scegliere insieme come utilizzare una parte del bilancio di un ente è cosa estremamente complessa e richiede tempo, pazienza, sforzi organizzativi notevoli. Si tratta peraltro di un esperimento che si può fare a livello di comunità, in comuni piccoli e grandi (lo ha fatto anche Porto Alegre, in Brasile, che ha un milione e mezzo di abitanti), ma non è fattibile a livello nazionale – non con le stesse modalità di un bilancio partecipativo comunale. Si possono, tuttavia, adottare (o inventare) altri strumenti per consentire ai cittadini, o a determinati segmenti della società, di partecipare con le proprie idee e con le proprie proposte alla definizione delle scelte politiche (consulte, convention tematiche con l’uso di tecniche partecipative, consultazioni on line, forum di progettazione partecipata, etc.). Si possono applicare gli strumenti della democrazia partecipativa all’interno dei meccanismi decisionali di alcune comunità politiche: partiti, sindacati, associazioni, etc. Il cammino fatto finora, comunque, insegna che il livello della comunità cittadina è quello nel quale si può mettere in pratica un cambiamento vero e sostanziale nell’approccio alla questione della democrazia e della partecipazione. È una strada stretta, tortuosa e sicuramente insufficiente, ma è un punto di partenza, un punto di ripartenza. Il tempo della delega, del resto, è finito: oggi è il tempo della partecipazione e delle scelte condivise.
[1] www.comunivirtuosi.org.
[2] bilanciopartecipativotroja.blogspot.it.
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
PERCHE' QUESTA SINISTRA NON HA PIU' SPERANZE
Il comunista che difende gli stipendi della Casta
“Azzerare le indennità? È un’offesa alla povertà”
Il deputato di Sel Sannicandro è intervenuto in aula e ha detto “non siamo metalmeccanici” (video)
Ora si difende così: “14mila euro al mese? Dire che guadagniamo è inesatto. Siamo soltanto rimborsati”
sannicandro-990
Politica
Arcangelo Sannicandro, suo malgrado, è diventato famoso a 73 anni, dopo una vita nel Pci e in Rifondazione. Oggi, deputato, fa parlare di sé per le parole pronunciate a Montecitorio il 3 agosto. Alla proposta dei 5 Stelle di tagliare l’indennità dei parlamentari (da 5 mila a 3.200 euro netti), ha risposto così: “Non siamo lavoratori subordinati dell’ultima categoria dei metalmeccanici”. Intervistato dal Fatto, aggiunge: “Chiedere scusa? Mica li ho offesi. Ho fatto solo una domanda” di Tommaso Rodano
Casta, il deputato di Sel Sannicandro rilancia: “Mica guadagniamo, siamo rimborsati”
Intervenendo alla Camera ha detto: “Non siamo metalmeccanici”. Ora spiega che i 14mila euro al mese servono per pagare i dipendenti. E aggiunge: "L'indennità è giusta? Ne farei a meno, ma sarebbe un'offesa alla povertà..."
di Tommaso Rodano | 13 agosto 2016
| Commenti (329)
Arcangelo Sannicandro, suo malgrado, è diventato famoso a 73 anni, dopo una vita nel Pci e in Rifondazione. Oggi, deputato, fa parlare di sé per le parole pronunciate a Montecitorio il 3 agosto. Alla proposta dei 5 Stelle di tagliare l’indennità dei parlamentari (da 5 mila a 3.200 euro netti), ha risposto così: “Non siamo lavoratori subordinati dell’ultima categoria dei metalmeccanici. Da uno a dieci noi chi siamo?”. Al telefono, sfoggia marcato accento barese, voce alta e carattere fumantino. “Avete già scritto la vostra versione sul sito, è inutile”.
Non chiede scusa ai metalmeccanici?
Mica li ho offesi. Ho fatto una domanda: vogliamo trovare un criterio per stabilire l’indennità dei parlamentari? Da 1 a 10, che livello siamo?
Forse poteva evitare di citare “l’ultimo livello dei metalmeccanici“?
Lei è un giornalista? Benissimo. Avete un contratto collettivo: direttore, caporedattore, eccetera. Volendo parametrare l’indennità di carica nostra a quella dei giornalisti, quale livello dobbiamo considerare? Mi dica lei.
Ha posto un problema.
Tutto il Parlamento ha votato contro i 5 Stelle. L’unico che ha avuto il coraggio di cercare di motivare la questione è stato Sannicandro.
Insisto: perché lei, comunista, ha messo in mezzo gli operai?
Era un esempio. Un contratto collettivo qualsiasi. Come quello dei braccianti o dei professori. I metalmeccanici c’hanno dieci livelli o no?
Sì ma prendono un po’ meno dei politici.
Forse se parlavo dei giornalisti venivo capito meglio. Lei si sarebbe offeso?
No. I (pochi) giornalisti col contratto non si lamentano.
Il populismo è imperante. Che cacchio c’entrano i metalmeccanici? Sono l’avvocato che difende i braccianti africani a Foggia.
Un lavoro per cui è a processo per truffa all’Inps.
La categoria degli avvocati è stata denunciata da Mastrapasqua, che poi è andato in galera (ai domiciliari, ndr), dicendo che falsicavamo (sic) chissà cosa. Dieci persone sono state già assolte in appello perché il fatto non sus-si-ste.
Lei è stato assolto?
Ancora no, non riesco a farmi processare. È un processo politico.
Tra indennità (5mila euro), diaria (3.500) e rimborsi vari, prendete circa 14 mila euro al mese. È giusto?
Dire guadagnare non è esatto. Io c’ho 8 dipendenti a tempo indeterminato da 25 anni. Quando li mando in tribunale pago la benzina. Non guadagniamo: siamo rimborsati.
L’indennità è giusta?
Per quanto mi riguarda, potrebbe essere anche azzerata. Ma farei un’offesa alla povertà. L’indennità è stata inventata dalle sinistre per chi non ha un reddito sufficiente per fare politica a Roma.
È giusta o no?
Oh, santo cielo. Per me è assai. Assai. Va bene così?
di Tommaso Rodano | 13 agosto 2016
Il comunista che difende gli stipendi della Casta
“Azzerare le indennità? È un’offesa alla povertà”
Il deputato di Sel Sannicandro è intervenuto in aula e ha detto “non siamo metalmeccanici” (video)
Ora si difende così: “14mila euro al mese? Dire che guadagniamo è inesatto. Siamo soltanto rimborsati”
sannicandro-990
Politica
Arcangelo Sannicandro, suo malgrado, è diventato famoso a 73 anni, dopo una vita nel Pci e in Rifondazione. Oggi, deputato, fa parlare di sé per le parole pronunciate a Montecitorio il 3 agosto. Alla proposta dei 5 Stelle di tagliare l’indennità dei parlamentari (da 5 mila a 3.200 euro netti), ha risposto così: “Non siamo lavoratori subordinati dell’ultima categoria dei metalmeccanici”. Intervistato dal Fatto, aggiunge: “Chiedere scusa? Mica li ho offesi. Ho fatto solo una domanda” di Tommaso Rodano
Casta, il deputato di Sel Sannicandro rilancia: “Mica guadagniamo, siamo rimborsati”
Intervenendo alla Camera ha detto: “Non siamo metalmeccanici”. Ora spiega che i 14mila euro al mese servono per pagare i dipendenti. E aggiunge: "L'indennità è giusta? Ne farei a meno, ma sarebbe un'offesa alla povertà..."
di Tommaso Rodano | 13 agosto 2016
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Arcangelo Sannicandro, suo malgrado, è diventato famoso a 73 anni, dopo una vita nel Pci e in Rifondazione. Oggi, deputato, fa parlare di sé per le parole pronunciate a Montecitorio il 3 agosto. Alla proposta dei 5 Stelle di tagliare l’indennità dei parlamentari (da 5 mila a 3.200 euro netti), ha risposto così: “Non siamo lavoratori subordinati dell’ultima categoria dei metalmeccanici. Da uno a dieci noi chi siamo?”. Al telefono, sfoggia marcato accento barese, voce alta e carattere fumantino. “Avete già scritto la vostra versione sul sito, è inutile”.
Non chiede scusa ai metalmeccanici?
Mica li ho offesi. Ho fatto una domanda: vogliamo trovare un criterio per stabilire l’indennità dei parlamentari? Da 1 a 10, che livello siamo?
Forse poteva evitare di citare “l’ultimo livello dei metalmeccanici“?
Lei è un giornalista? Benissimo. Avete un contratto collettivo: direttore, caporedattore, eccetera. Volendo parametrare l’indennità di carica nostra a quella dei giornalisti, quale livello dobbiamo considerare? Mi dica lei.
Ha posto un problema.
Tutto il Parlamento ha votato contro i 5 Stelle. L’unico che ha avuto il coraggio di cercare di motivare la questione è stato Sannicandro.
Insisto: perché lei, comunista, ha messo in mezzo gli operai?
Era un esempio. Un contratto collettivo qualsiasi. Come quello dei braccianti o dei professori. I metalmeccanici c’hanno dieci livelli o no?
Sì ma prendono un po’ meno dei politici.
Forse se parlavo dei giornalisti venivo capito meglio. Lei si sarebbe offeso?
No. I (pochi) giornalisti col contratto non si lamentano.
Il populismo è imperante. Che cacchio c’entrano i metalmeccanici? Sono l’avvocato che difende i braccianti africani a Foggia.
Un lavoro per cui è a processo per truffa all’Inps.
La categoria degli avvocati è stata denunciata da Mastrapasqua, che poi è andato in galera (ai domiciliari, ndr), dicendo che falsicavamo (sic) chissà cosa. Dieci persone sono state già assolte in appello perché il fatto non sus-si-ste.
Lei è stato assolto?
Ancora no, non riesco a farmi processare. È un processo politico.
Tra indennità (5mila euro), diaria (3.500) e rimborsi vari, prendete circa 14 mila euro al mese. È giusto?
Dire guadagnare non è esatto. Io c’ho 8 dipendenti a tempo indeterminato da 25 anni. Quando li mando in tribunale pago la benzina. Non guadagniamo: siamo rimborsati.
L’indennità è giusta?
Per quanto mi riguarda, potrebbe essere anche azzerata. Ma farei un’offesa alla povertà. L’indennità è stata inventata dalle sinistre per chi non ha un reddito sufficiente per fare politica a Roma.
È giusta o no?
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di Tommaso Rodano | 13 agosto 2016
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
PERCHE' QUESTA SINISTRA NON HA PIU' SPERANZE
Il comunista che difende gli stipendi della Casta
“Azzerare le indennità? È un’offesa alla povertà”
Il deputato di Sel Sannicandro è intervenuto in aula e ha detto “non siamo metalmeccanici” (video)
Ora si difende così: “14mila euro al mese? Dire che guadagniamo è inesatto. Siamo soltanto rimborsati”
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Arcangelo Sannicandro, suo malgrado, è diventato famoso a 73 anni, dopo una vita nel Pci e in Rifondazione. Oggi, deputato, fa parlare di sé per le parole pronunciate a Montecitorio il 3 agosto. Alla proposta dei 5 Stelle di tagliare l’indennità dei parlamentari (da 5 mila a 3.200 euro netti), ha risposto così: “Non siamo lavoratori subordinati dell’ultima categoria dei metalmeccanici”. Intervistato dal Fatto, aggiunge: “Chiedere scusa? Mica li ho offesi. Ho fatto solo una domanda” di Tommaso Rodano
Casta, il deputato di Sel Sannicandro rilancia: “Mica guadagniamo, siamo rimborsati”
Intervenendo alla Camera ha detto: “Non siamo metalmeccanici”. Ora spiega che i 14mila euro al mese servono per pagare i dipendenti. E aggiunge: "L'indennità è giusta? Ne farei a meno, ma sarebbe un'offesa alla povertà..."
di Tommaso Rodano | 13 agosto 2016
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Arcangelo Sannicandro, suo malgrado, è diventato famoso a 73 anni, dopo una vita nel Pci e in Rifondazione. Oggi, deputato, fa parlare di sé per le parole pronunciate a Montecitorio il 3 agosto. Alla proposta dei 5 Stelle di tagliare l’indennità dei parlamentari (da 5 mila a 3.200 euro netti), ha risposto così: “Non siamo lavoratori subordinati dell’ultima categoria dei metalmeccanici. Da uno a dieci noi chi siamo?”. Al telefono, sfoggia marcato accento barese, voce alta e carattere fumantino. “Avete già scritto la vostra versione sul sito, è inutile”.
Non chiede scusa ai metalmeccanici?
Mica li ho offesi. Ho fatto una domanda: vogliamo trovare un criterio per stabilire l’indennità dei parlamentari? Da 1 a 10, che livello siamo?
Forse poteva evitare di citare “l’ultimo livello dei metalmeccanici“?
Lei è un giornalista? Benissimo. Avete un contratto collettivo: direttore, caporedattore, eccetera. Volendo parametrare l’indennità di carica nostra a quella dei giornalisti, quale livello dobbiamo considerare? Mi dica lei.
Ha posto un problema.
Tutto il Parlamento ha votato contro i 5 Stelle. L’unico che ha avuto il coraggio di cercare di motivare la questione è stato Sannicandro.
Insisto: perché lei, comunista, ha messo in mezzo gli operai?
Era un esempio. Un contratto collettivo qualsiasi. Come quello dei braccianti o dei professori. I metalmeccanici c’hanno dieci livelli o no?
Sì ma prendono un po’ meno dei politici.
Forse se parlavo dei giornalisti venivo capito meglio. Lei si sarebbe offeso?
No. I (pochi) giornalisti col contratto non si lamentano.
Il populismo è imperante. Che cacchio c’entrano i metalmeccanici? Sono l’avvocato che difende i braccianti africani a Foggia.
Un lavoro per cui è a processo per truffa all’Inps.
La categoria degli avvocati è stata denunciata da Mastrapasqua, che poi è andato in galera (ai domiciliari, ndr), dicendo che falsicavamo (sic) chissà cosa. Dieci persone sono state già assolte in appello perché il fatto non sus-si-ste.
Lei è stato assolto?
Ancora no, non riesco a farmi processare. È un processo politico.
Tra indennità (5mila euro), diaria (3.500) e rimborsi vari, prendete circa 14 mila euro al mese. È giusto?
Dire guadagnare non è esatto. Io c’ho 8 dipendenti a tempo indeterminato da 25 anni. Quando li mando in tribunale pago la benzina. Non guadagniamo: siamo rimborsati.
L’indennità è giusta?
Per quanto mi riguarda, potrebbe essere anche azzerata. Ma farei un’offesa alla povertà. L’indennità è stata inventata dalle sinistre per chi non ha un reddito sufficiente per fare politica a Roma.
È giusta o no?
Oh, santo cielo. Per me è assai. Assai. Va bene così?
di Tommaso Rodano | 13 agosto 2016
Il comunista che difende gli stipendi della Casta
“Azzerare le indennità? È un’offesa alla povertà”
Il deputato di Sel Sannicandro è intervenuto in aula e ha detto “non siamo metalmeccanici” (video)
Ora si difende così: “14mila euro al mese? Dire che guadagniamo è inesatto. Siamo soltanto rimborsati”
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Arcangelo Sannicandro, suo malgrado, è diventato famoso a 73 anni, dopo una vita nel Pci e in Rifondazione. Oggi, deputato, fa parlare di sé per le parole pronunciate a Montecitorio il 3 agosto. Alla proposta dei 5 Stelle di tagliare l’indennità dei parlamentari (da 5 mila a 3.200 euro netti), ha risposto così: “Non siamo lavoratori subordinati dell’ultima categoria dei metalmeccanici”. Intervistato dal Fatto, aggiunge: “Chiedere scusa? Mica li ho offesi. Ho fatto solo una domanda” di Tommaso Rodano
Casta, il deputato di Sel Sannicandro rilancia: “Mica guadagniamo, siamo rimborsati”
Intervenendo alla Camera ha detto: “Non siamo metalmeccanici”. Ora spiega che i 14mila euro al mese servono per pagare i dipendenti. E aggiunge: "L'indennità è giusta? Ne farei a meno, ma sarebbe un'offesa alla povertà..."
di Tommaso Rodano | 13 agosto 2016
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Arcangelo Sannicandro, suo malgrado, è diventato famoso a 73 anni, dopo una vita nel Pci e in Rifondazione. Oggi, deputato, fa parlare di sé per le parole pronunciate a Montecitorio il 3 agosto. Alla proposta dei 5 Stelle di tagliare l’indennità dei parlamentari (da 5 mila a 3.200 euro netti), ha risposto così: “Non siamo lavoratori subordinati dell’ultima categoria dei metalmeccanici. Da uno a dieci noi chi siamo?”. Al telefono, sfoggia marcato accento barese, voce alta e carattere fumantino. “Avete già scritto la vostra versione sul sito, è inutile”.
Non chiede scusa ai metalmeccanici?
Mica li ho offesi. Ho fatto una domanda: vogliamo trovare un criterio per stabilire l’indennità dei parlamentari? Da 1 a 10, che livello siamo?
Forse poteva evitare di citare “l’ultimo livello dei metalmeccanici“?
Lei è un giornalista? Benissimo. Avete un contratto collettivo: direttore, caporedattore, eccetera. Volendo parametrare l’indennità di carica nostra a quella dei giornalisti, quale livello dobbiamo considerare? Mi dica lei.
Ha posto un problema.
Tutto il Parlamento ha votato contro i 5 Stelle. L’unico che ha avuto il coraggio di cercare di motivare la questione è stato Sannicandro.
Insisto: perché lei, comunista, ha messo in mezzo gli operai?
Era un esempio. Un contratto collettivo qualsiasi. Come quello dei braccianti o dei professori. I metalmeccanici c’hanno dieci livelli o no?
Sì ma prendono un po’ meno dei politici.
Forse se parlavo dei giornalisti venivo capito meglio. Lei si sarebbe offeso?
No. I (pochi) giornalisti col contratto non si lamentano.
Il populismo è imperante. Che cacchio c’entrano i metalmeccanici? Sono l’avvocato che difende i braccianti africani a Foggia.
Un lavoro per cui è a processo per truffa all’Inps.
La categoria degli avvocati è stata denunciata da Mastrapasqua, che poi è andato in galera (ai domiciliari, ndr), dicendo che falsicavamo (sic) chissà cosa. Dieci persone sono state già assolte in appello perché il fatto non sus-si-ste.
Lei è stato assolto?
Ancora no, non riesco a farmi processare. È un processo politico.
Tra indennità (5mila euro), diaria (3.500) e rimborsi vari, prendete circa 14 mila euro al mese. È giusto?
Dire guadagnare non è esatto. Io c’ho 8 dipendenti a tempo indeterminato da 25 anni. Quando li mando in tribunale pago la benzina. Non guadagniamo: siamo rimborsati.
L’indennità è giusta?
Per quanto mi riguarda, potrebbe essere anche azzerata. Ma farei un’offesa alla povertà. L’indennità è stata inventata dalle sinistre per chi non ha un reddito sufficiente per fare politica a Roma.
È giusta o no?
Oh, santo cielo. Per me è assai. Assai. Va bene così?
di Tommaso Rodano | 13 agosto 2016
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
PER I COMMENTI DELLA VOX POPULI, VEDI
http://www.ilfattoquotidiano.it/premium ... imborsati/
DOPO L'ARTICOLO
http://www.ilfattoquotidiano.it/premium ... imborsati/
DOPO L'ARTICOLO
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
Casta, la lettera del metalmeccanico a Sannicandro: “Suo intervento ci ha offesi. Ecco perché operai non vi votano più”
Politica
"La sua frase in difesa degli stipendi dei deputati mi ha indignato e sconcertato molto, e come me ha indignato tantissimi lavoratori", scrive un lettore, rappresentante sindacale iscritto alla Fiom Cgil
di F. Q. | 14 agosto 2016
COMMENTI (166)
Pubblichiamo la lettera del lettore Marco Bazzoni, operaio metalmeccanico di Firenze, ad Arcangelo Sannicandro, il deputato di Sinistra Italiana che intervenendo alla Camera dei Deputati si era scagliato contro la proposta del Movimento 5 Stelle di ridurre l’indennità di carica dei parlamentari. “Non siamo lavoratori subordinati dell’ultima categoria dei metalmeccanici”, aveva detto a Montecitorio. E intervistato dal Fatto Quotidiano aveva confermato: “Non guadagniamo: siamo rimborsati”.
Egregio On. Sannicandro, chi le scrive è un operaio metalmeccanico e rappresentante sindacale (sono iscritto alla Fiom Cgil dall’Aprile 2001). Lavoro in fabbrica da quando avevo 20 anni, adesso ne ho 42. Dopo aver ascoltato la frase del suo intervento alla Camera “Non siamo lavoratori subordinati dell’ultima categoria dei metalmeccanici”, mi sono sentito in dovere di risponderle.
Lei pensa di non aver offeso nessuno con la sua frase, ma le posso assicurare invece, che mi ha indignato e sconcertato molto, e come me ha indignato tantissimi lavoratori metalmeccanici (e non solo loro).
Il paragone che ha fatto lo trovo completamente fuoriluogo, visto e considerato che la paga media di un lavoratore metalmeccanico e lontana anni luce dallo paga di un deputato. Molto spesso lo stipendio medio di un metalmeccanico non arriva neanche a 1.000 euro netti, quando va bene (per i lavoratori con un anzianità contributiva maggiore) sfiora i 1400-1500 euro netti al mese. Sul sito della Camera dei Deputati, è spiegato molto bene quanto è la paga di un deputato, che se ci sommiamo indennità parlamentare, diaria, rimborso delle spese (comprese anche le spese telefoniche), si arriva a circa 12 mila euro al mese. Senza contare il rimborso delle spese di trasporto e viaggio, se no si va anche oltre.
Mi pare che tra lo stipendio medio di un metalmeccanico e quello di un deputato ci sia una bella differenza, anzi c’è una lontananza anni luce tra il vostro e il nostro stipendio, ecco perché sono profondamente indignato per le sue parole.
Inoltre, non solo lei non si è scusato con i lavoratori metalmeccanici, ma è arrivato a dire che ” chi mi attacca fa demagogia”. Inoltre, in un’intervista al Fatto Quotidiano uscita il 13 Agosto, alla domanda del giornalista “Non chiede scusa ai metalmeccanici?”, Lei ha risposto: “Mica li ho offesi”. Infatti, “mica ci ha offeso, ci ha fatto solo un complimento”. Ma per favore On. Sannicandro, ma si rende conto della gravità della sua frase?
Quando si fanno queste gaffe, bisognerebbe quanto meno chiedere scusa, ma lei purtroppo non l’ha mai fatto, anzi ha perfino provato a dare delle spiegazioni sul perché di quella frase, che sinceramente non mi ha convinto per nulla. Una gaffe del genere non me la sarei mai aspettata da un partito come Sinistra Italiana, che Voglio ricordarle lei rappresenta! E poi vi chiedete ancora, come mai molti operai non Vi votano più!
VEDI COMMENTI DELLA VOX POPULI
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/08 ... u/2974826/
Politica
"La sua frase in difesa degli stipendi dei deputati mi ha indignato e sconcertato molto, e come me ha indignato tantissimi lavoratori", scrive un lettore, rappresentante sindacale iscritto alla Fiom Cgil
di F. Q. | 14 agosto 2016
COMMENTI (166)
Pubblichiamo la lettera del lettore Marco Bazzoni, operaio metalmeccanico di Firenze, ad Arcangelo Sannicandro, il deputato di Sinistra Italiana che intervenendo alla Camera dei Deputati si era scagliato contro la proposta del Movimento 5 Stelle di ridurre l’indennità di carica dei parlamentari. “Non siamo lavoratori subordinati dell’ultima categoria dei metalmeccanici”, aveva detto a Montecitorio. E intervistato dal Fatto Quotidiano aveva confermato: “Non guadagniamo: siamo rimborsati”.
Egregio On. Sannicandro, chi le scrive è un operaio metalmeccanico e rappresentante sindacale (sono iscritto alla Fiom Cgil dall’Aprile 2001). Lavoro in fabbrica da quando avevo 20 anni, adesso ne ho 42. Dopo aver ascoltato la frase del suo intervento alla Camera “Non siamo lavoratori subordinati dell’ultima categoria dei metalmeccanici”, mi sono sentito in dovere di risponderle.
Lei pensa di non aver offeso nessuno con la sua frase, ma le posso assicurare invece, che mi ha indignato e sconcertato molto, e come me ha indignato tantissimi lavoratori metalmeccanici (e non solo loro).
Il paragone che ha fatto lo trovo completamente fuoriluogo, visto e considerato che la paga media di un lavoratore metalmeccanico e lontana anni luce dallo paga di un deputato. Molto spesso lo stipendio medio di un metalmeccanico non arriva neanche a 1.000 euro netti, quando va bene (per i lavoratori con un anzianità contributiva maggiore) sfiora i 1400-1500 euro netti al mese. Sul sito della Camera dei Deputati, è spiegato molto bene quanto è la paga di un deputato, che se ci sommiamo indennità parlamentare, diaria, rimborso delle spese (comprese anche le spese telefoniche), si arriva a circa 12 mila euro al mese. Senza contare il rimborso delle spese di trasporto e viaggio, se no si va anche oltre.
Mi pare che tra lo stipendio medio di un metalmeccanico e quello di un deputato ci sia una bella differenza, anzi c’è una lontananza anni luce tra il vostro e il nostro stipendio, ecco perché sono profondamente indignato per le sue parole.
Inoltre, non solo lei non si è scusato con i lavoratori metalmeccanici, ma è arrivato a dire che ” chi mi attacca fa demagogia”. Inoltre, in un’intervista al Fatto Quotidiano uscita il 13 Agosto, alla domanda del giornalista “Non chiede scusa ai metalmeccanici?”, Lei ha risposto: “Mica li ho offesi”. Infatti, “mica ci ha offeso, ci ha fatto solo un complimento”. Ma per favore On. Sannicandro, ma si rende conto della gravità della sua frase?
Quando si fanno queste gaffe, bisognerebbe quanto meno chiedere scusa, ma lei purtroppo non l’ha mai fatto, anzi ha perfino provato a dare delle spiegazioni sul perché di quella frase, che sinceramente non mi ha convinto per nulla. Una gaffe del genere non me la sarei mai aspettata da un partito come Sinistra Italiana, che Voglio ricordarle lei rappresenta! E poi vi chiedete ancora, come mai molti operai non Vi votano più!
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
il manifesto 3.9.16
La sinistra nella morsa del liberismo
Unione europea e euro. Priva di una cultura politica aggiornata alle contraddizioni del liberismo, la sinistra rimane ai margini della storia e diventa complice di una spirale distruttiva della Ue, oltre che della moneta unica
di Stefano Fassina
Una serie di interventi ospitati da il manifesto nel mese scorso (da Ciocca a Lunghini) è ruotata intorno a un punto efficacemente sintetizzato da Valentino Parlato (11 Agosto): «l’attuale crisi, a differenza di quella del ’29, non scuote la cultura: stagnazione dell’economia e stagnazione della cultura … Dobbiamo renderci conto, ed sotto i nostri occhi, che senza cultura la politica – come scrive Alberto Burgio – muore». È una valutazione valida per tutte le sinistre al di qua e al di là dell’Atlantico, dentro e fuori il perimetro della esangue famiglia socialista europea. È utile, in particolare, per noi, Sinistra Italiana, avviati inerzialmente verso un congresso rituale, senza ragioni fondative adeguate.
Eppure sono evidenti le discontinuità di fase. Le elezioni regionali in Francia, le presidenziali in Austria, le amministrative in Italia, i successi anti-establishment di Trump e Sanders e la virata a manca di Hillary Clinton negli Usa e, infine, la Brexit indicano l’insostenibilità economica, sociale e democratica del capitalismo liberista. Un fatto enorme. A guardar bene, la Brexit nel 2016 potrebbe rappresentare per il liberismo reale quello che il crollo del Muro di Berlino ha rappresentato nel 1989 per il socialismo reale.
Per noi, nell’euro-zona, l’insostenibilità del liberismo reale è un dato politico ancora più rilevante poiché abbiamo «costituzionalizzato» la versione più estrema del paradigma oramai alle corde: lo statuto della Bce da un lato e il fiscal compact dall’altro, nel quadro delle politiche di svalutazione del lavoro iniziate in Germania dalle «riforme Hartz», l’atto di gran lunga più anti-europeo compiuto nella Ue nel secondo dopo guerra.
Nonostante i caratteri di fondo dei trattati europei e dell’unione monetaria, nella sinistra storica europea, riformista o critica, e nei giovani movimenti genericamente anti-establishment, la discussione rimane prigioniera di un astratto e impolitico europeismo alternativo. La «stagnazione della cultura» a sinistra oggi è il principale ostacolo all’affermazione di movimenti, sindacati e partiti orientati a ricostruire soggettività sociale e politica del lavoro, condizione necessaria per rivitalizzare la democrazia, ridurre le diseguaglianze e riavviare l’economia all’insegna della riconversione ambientale.
Per aprire una discussione utile, in particolare per chi è in fase costituente, l’ultimo saggio di Joseph Stglitz, premio Nobel nell’economia e icona della sinistra, offre una preziosa opportunità. Il professore della Columbia University, difficile da scomunicare con l’accusa di moda di sovranismo o neo-nazionalismo, nel suo «The Euro. How a common currency threatens the future of Europe», ripropone un’analisi consolidata, da tempo espressa da tanti economisti eterodossi e mainstream, anche in Italia: l’ordine economico e sociale dell’euro è insostenibile poiché determina dinamiche divergenti tra i paesi partecipanti, genera stagnazione e nel migliore dei casi, grazie a una politica monetaria disperata, equilibri sempre più arretrati di sotto-occupazione.
In altri termini, l’assenza o la prolungata anemia dell’economia non è soltanto conseguenza di risposte sbagliate a incidenti esogeni. La «stagnazione secolare» è la fisiologia del sistema euro in quanto fondato sulla svalutazione del lavoro e sulla marginalizzazione delle classi medie. Il problema dell’euro-zona non è l’austerità, ma l’impianto dei trattati e la politica economica mercantilista praticata con largo consenso bipartisan dal paese leader. In sintesi, l’euro è stato un errore politico di portata storica.
In astratto, le soluzioni esistono per orientare in senso pro-labour la moneta unica. Nel testo di Stiglitz si ritrova una rubrica di «riforme strutturali». Il problema, chiaro al prof Stiglitz ma inavvertito dai nostri spinelliani senza se e senza ma, è l’assenza del consenso minimo richiesto nei contesti nazionali per approvare le correzioni necessarie. Purtroppo, il demos europeo non esiste. Il demos è nazionale per radici culturali, storiche e sociali. La democrazia o è nazionale o non è.
In tale quadro, data l’impraticabilità politica del Piano A, Stiglitz propone il «suo» Piano B: il superamento cooperativo dell’euro («amicable divorce») per arrivare a un euro del Nord e un euro del Sud o, scenario preferibile, all’uscita della Germania dalla moneta unica.
Alle medesime conclusioni di Stiglitz, sebbene con argomenti di superficie, era arrivata un’altra icona della sinistra critica italiana, Luciano Gallino, nel suo testamento politico, rimosso anche dai discepoli più intimi: «Come (e perchè) uscire dall’euro ma non dall’Unione europea».
Allora, che fare per salvare l’Unione europea dall’euro? Innanzitutto, una lettura fondata della fase, l’abbandono del miraggio degli Stati Uniti d’Europa e l’archiviazione della richiesta del Ministro del Tesoro dell’Euro-zona (a trattati vigenti, sarebbe ulteriormente regressivo sul piano democratico e recessivo sul versante economico). Quindi, l’avvio di una discussione ordinata, protetta dalla Bce, per un Piano B sulle linee raccomandate da Stiglitz. Immediatamente, l’innalzamento delle retribuzioni in Germania per consentire un significativo aumento degli investimenti pubblici nei paesi più in difficoltà dell’eurozona senza effetti dirompenti sulle loro bilance commerciali.
Invece, come fossimo negli anni ’90, il governo, supportato dall’establishment, ripropone ulteriori misure supply-side: tagli al welfare per ridurre le tasse sulle imprese e smantellamento del contratto nazionale di lavoro. Svalutazione del lavoro per ridurre il gap di competitività e puntare alla domanda interna di qualcun altro. Una ricetta seguita da tutti i Paesi euro. Quindi, inutile a migliorare la posizione relativa della singola economia ma efficacissima a deprimere la domanda interna dell’eurozona, a incancrenire la stagnazione e spingere le classi medie verso la chiusura nazionalista.
Priva di una cultura politica aggiornata alle contraddizioni del liberismo reale e della sua versione estrema incarnata dall’europeismo reale, la sinistra qui e oltre confine rimane al margine della storia e si fa involontariamente complice di una spirale distruttiva dell’Unione europea, oltre che della moneta unica. Il dibattito su il manifesto è una preziosa occasione per recuperare.
La sinistra nella morsa del liberismo
Unione europea e euro. Priva di una cultura politica aggiornata alle contraddizioni del liberismo, la sinistra rimane ai margini della storia e diventa complice di una spirale distruttiva della Ue, oltre che della moneta unica
di Stefano Fassina
Una serie di interventi ospitati da il manifesto nel mese scorso (da Ciocca a Lunghini) è ruotata intorno a un punto efficacemente sintetizzato da Valentino Parlato (11 Agosto): «l’attuale crisi, a differenza di quella del ’29, non scuote la cultura: stagnazione dell’economia e stagnazione della cultura … Dobbiamo renderci conto, ed sotto i nostri occhi, che senza cultura la politica – come scrive Alberto Burgio – muore». È una valutazione valida per tutte le sinistre al di qua e al di là dell’Atlantico, dentro e fuori il perimetro della esangue famiglia socialista europea. È utile, in particolare, per noi, Sinistra Italiana, avviati inerzialmente verso un congresso rituale, senza ragioni fondative adeguate.
Eppure sono evidenti le discontinuità di fase. Le elezioni regionali in Francia, le presidenziali in Austria, le amministrative in Italia, i successi anti-establishment di Trump e Sanders e la virata a manca di Hillary Clinton negli Usa e, infine, la Brexit indicano l’insostenibilità economica, sociale e democratica del capitalismo liberista. Un fatto enorme. A guardar bene, la Brexit nel 2016 potrebbe rappresentare per il liberismo reale quello che il crollo del Muro di Berlino ha rappresentato nel 1989 per il socialismo reale.
Per noi, nell’euro-zona, l’insostenibilità del liberismo reale è un dato politico ancora più rilevante poiché abbiamo «costituzionalizzato» la versione più estrema del paradigma oramai alle corde: lo statuto della Bce da un lato e il fiscal compact dall’altro, nel quadro delle politiche di svalutazione del lavoro iniziate in Germania dalle «riforme Hartz», l’atto di gran lunga più anti-europeo compiuto nella Ue nel secondo dopo guerra.
Nonostante i caratteri di fondo dei trattati europei e dell’unione monetaria, nella sinistra storica europea, riformista o critica, e nei giovani movimenti genericamente anti-establishment, la discussione rimane prigioniera di un astratto e impolitico europeismo alternativo. La «stagnazione della cultura» a sinistra oggi è il principale ostacolo all’affermazione di movimenti, sindacati e partiti orientati a ricostruire soggettività sociale e politica del lavoro, condizione necessaria per rivitalizzare la democrazia, ridurre le diseguaglianze e riavviare l’economia all’insegna della riconversione ambientale.
Per aprire una discussione utile, in particolare per chi è in fase costituente, l’ultimo saggio di Joseph Stglitz, premio Nobel nell’economia e icona della sinistra, offre una preziosa opportunità. Il professore della Columbia University, difficile da scomunicare con l’accusa di moda di sovranismo o neo-nazionalismo, nel suo «The Euro. How a common currency threatens the future of Europe», ripropone un’analisi consolidata, da tempo espressa da tanti economisti eterodossi e mainstream, anche in Italia: l’ordine economico e sociale dell’euro è insostenibile poiché determina dinamiche divergenti tra i paesi partecipanti, genera stagnazione e nel migliore dei casi, grazie a una politica monetaria disperata, equilibri sempre più arretrati di sotto-occupazione.
In altri termini, l’assenza o la prolungata anemia dell’economia non è soltanto conseguenza di risposte sbagliate a incidenti esogeni. La «stagnazione secolare» è la fisiologia del sistema euro in quanto fondato sulla svalutazione del lavoro e sulla marginalizzazione delle classi medie. Il problema dell’euro-zona non è l’austerità, ma l’impianto dei trattati e la politica economica mercantilista praticata con largo consenso bipartisan dal paese leader. In sintesi, l’euro è stato un errore politico di portata storica.
In astratto, le soluzioni esistono per orientare in senso pro-labour la moneta unica. Nel testo di Stiglitz si ritrova una rubrica di «riforme strutturali». Il problema, chiaro al prof Stiglitz ma inavvertito dai nostri spinelliani senza se e senza ma, è l’assenza del consenso minimo richiesto nei contesti nazionali per approvare le correzioni necessarie. Purtroppo, il demos europeo non esiste. Il demos è nazionale per radici culturali, storiche e sociali. La democrazia o è nazionale o non è.
In tale quadro, data l’impraticabilità politica del Piano A, Stiglitz propone il «suo» Piano B: il superamento cooperativo dell’euro («amicable divorce») per arrivare a un euro del Nord e un euro del Sud o, scenario preferibile, all’uscita della Germania dalla moneta unica.
Alle medesime conclusioni di Stiglitz, sebbene con argomenti di superficie, era arrivata un’altra icona della sinistra critica italiana, Luciano Gallino, nel suo testamento politico, rimosso anche dai discepoli più intimi: «Come (e perchè) uscire dall’euro ma non dall’Unione europea».
Allora, che fare per salvare l’Unione europea dall’euro? Innanzitutto, una lettura fondata della fase, l’abbandono del miraggio degli Stati Uniti d’Europa e l’archiviazione della richiesta del Ministro del Tesoro dell’Euro-zona (a trattati vigenti, sarebbe ulteriormente regressivo sul piano democratico e recessivo sul versante economico). Quindi, l’avvio di una discussione ordinata, protetta dalla Bce, per un Piano B sulle linee raccomandate da Stiglitz. Immediatamente, l’innalzamento delle retribuzioni in Germania per consentire un significativo aumento degli investimenti pubblici nei paesi più in difficoltà dell’eurozona senza effetti dirompenti sulle loro bilance commerciali.
Invece, come fossimo negli anni ’90, il governo, supportato dall’establishment, ripropone ulteriori misure supply-side: tagli al welfare per ridurre le tasse sulle imprese e smantellamento del contratto nazionale di lavoro. Svalutazione del lavoro per ridurre il gap di competitività e puntare alla domanda interna di qualcun altro. Una ricetta seguita da tutti i Paesi euro. Quindi, inutile a migliorare la posizione relativa della singola economia ma efficacissima a deprimere la domanda interna dell’eurozona, a incancrenire la stagnazione e spingere le classi medie verso la chiusura nazionalista.
Priva di una cultura politica aggiornata alle contraddizioni del liberismo reale e della sua versione estrema incarnata dall’europeismo reale, la sinistra qui e oltre confine rimane al margine della storia e si fa involontariamente complice di una spirale distruttiva dell’Unione europea, oltre che della moneta unica. Il dibattito su il manifesto è una preziosa occasione per recuperare.
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
Su La Stampa di oggi si può leggere la dichiarazione di Fassino, che sostiene che D'Alema ha torto e che è di sinistra votare SI.
E così si capisce perché la sinistra è sparita in Italia.
Si considerano di sinistra quando sono di destra liberista.
Va detta in milanese: Ne ciapun pù de ratt.
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
Su La Stampa di oggi si può leggere la dichiarazione di Fassino, che sostiene che D'Alema ha torto e che è di sinistra votare SI.
E così si capisce perché la sinistra è sparita in Italia.
Si considerano di sinistra quando sono di destra liberista.
Va detta in milanese: Ne ciapum pù de ratt.
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
il manifesto 7.9.16
La sinistra sotto le macerie e la libertà del futuro
Morte della politica. Solo scampoli di vecchi rancori e slogan ripetuti. Ma non è morta la politica. Anzi, bisogna fare l’operazione opposta a Fukuyama: spostare lo sguardo su ciò che può cominciare
di Bia Sarasini
Tutto è politico, anche il terremoto, come è visibile ora, dopo i giorni di silenzio e di lutto dovuti al dolore e alla tragedia. Sono politiche le scelte, le prospettive, i progetti realizzati e quelli mai iniziati, le speranze e perfino la corruzione. Per questo mi lascia perplessa parlare di morte della politica. Mentre certamente è stata consumata una fine, la fine di una forma politica che a lungo abbiamo chiamato sinistra, e che comprende un insieme variegato di organizzazioni, sigle, pratiche, anche movimenti, oltre che un linguaggio e una visione del mondo. Una fine non riconosciuta, continuamente rinviata e posticipata, e per questo sì, trasformata in una cristallizzazione di parole, di pratiche che non dicono più nulla, neanche a chi le perpetua con ostinazione. Peggio di una morte, per essere chiara, perché ci si è incaponiti a non nominarla, non vederla, e senza riconoscimento non si può elaborare il lutto, tutto si è trascina con sempre minore slancio, con nulli o quasi effetti visibili. Rimangono il rancore, le infinite accuse reciproche, la ripetizione di riti e comportamenti vuoti, parodie del potere che non c’è.
La novità è che ora, forse perché non c’è più nulla da smuovere, non ci sono più obiezioni e resistenze. Il rischio caso mai è il contrario. Confondere questa fine con la fine di tutto, della politica tout court. In un certo senso l’operazione opposta a quelle di Francis Fukuyama, quando nel 1992 proclamava la fine della Storia a fronte della caduta del muro di Berlino e della conseguente vittoria del capitalismo. Perché ha senso contemplare una fine, se si sposta lo sguardo su ciò che può cominciare. Altrimenti si tratta di una resa senza condizioni. E si lascia il campo a chi della cecità, e della confusione che ne è derivata, ha tratto il massimo profitto. In tutti sensi possibili. Economico e politico.
Un aspetto della complessità è che il fantasma della sinistra continua ad esistere, nello scenario politico italiano. Viene identificato con il Pd che pure, fin dalla sua nascita, da quando fu detto che lavoratori e imprenditori ne erano referenti allo stesso titolo, ha abbandonato la ragion d’essere di un partito di sinistra, anche moderato. La difesa della parte più debole della società, la lotta contro le ingiustizie. L’insieme del corpo politico di quel partito, e della società, in prima linea il sistema dei media, hanno assecondato il rovesciamento del campo del riformismo, bandiera nobile di una delle forme della sinistra. Altro che difesa dei deboli.
L’efficienza, la redditività assunte come valori unici hanno aperto la strada a politiche a sostegno delle esigenze di multinazionali e banche. Le riforme sono diventate ciò che favorisce il potere, l’establishment. L’inquinamento del linguaggio è una malattia grave: parole, idee, cose non dicono più ciò che dicevano. È in questa battaglia che la sinistra alternativa/radicale è stata spazzata via, una vicenda che andrebbe ripensata con attenzione e che non è solo il risultato di un’operazione mediatica. Nel contesto di un cambiamento di segno che ha investito le socialdemocrazie europee. Senza dimenticare i segni di inversione, basti pensare alle tensioni del Labour Party, con Corbyn corpo estraneo all’establishment blairiano, o alle scelte di rottura dei partiti socialisti rispetto alle grandi alleanze in Portogallo e Spagna, quest’ultima una partita tuttora aperta. In Italia Renzi ha radicalizzato la fisionomia del Pd, con una significativa torsione verso il centro, unita a una tensione al potere personale. Molto in sintonia con i progetti dell’establishment internazionale, come è evidente nell’intreccio tra Italicum e la de-forma costituzionale.
Qui si colloca la fine della sinistra. Quella popolare, di massa, quella alternativa, che pur divise anche ferocemente, hanno una lunga storia comune di scambi vitali che hanno segnato la società, hanno portato i risultati che hanno cambiato la vita dei lavoratori, delle donne, dei più poveri. Quei risultati che ora sono attaccati uno ad uno. A cominciare dalle condizioni di vita dei più giovani. La domanda è questa. Perché le sofferenze sociali, sempre più estese e insostenibili, non trovano una voce adeguata? Perché gli 11 milioni di italiani che hanno deciso di rinunciare a curarsi, di fronte a un sistema sanitario sempre più costoso, non sono al centro delle nostre battaglie? Perché il Jobs Act, che pure è stato ampiamente criticato, è passato nel sostanziale silenzio sociale?
Una prima risposta, dolorosa, ritengo sia in quella fine non consumata, che ha reso teatrali e sempre più vuote le proteste. Non conflitto reale, ma messa in scena del conflitto. E forse per quel punto di cui ha scritto Enzo Scandurra su questo giornale: che si è finito per assomigliare, nei comportamenti e nei pensieri, a quel potere a cui ci si opponeva. Non bastano l’invocazione della legalità, la lotta anti-casta, le idee che guidano il Movimento 5stelle, a dare una visione del mondo. Movimento che occupa lo spazio dell’opposizione, e che viene votato da chi ancora va a votare, perché ha una forza ritenuta comunque utile.
Con onestà va detto che una visione non è a portata di mano. E non ci sono ricette taumaturgiche. Non c’è un re che possa imporre la mano e guarire il popolo malato. Due punti mi sembrano chiari. Occorre comprendere, conoscere, interpretare lo stato delle cose. Quello attuale, in tutte le sue dinamiche. Cioè occorre studiare, riflettere, pensare. Lo so, sembra assurdo quando ciò che urge è l’azione. Ma su cosa agire, e come? Al di là delle denunce, delle polemiche ci siamo chiesti, per esempio, perché il corpo delle donne si trova al centro dello scontro politico internazionale?
Quale rovesciamento, del progressismo e dei femminismi, è in corso? A quale lavoro, quale rendimento, sono chiamati i corpi, le relazioni affettive, compresi piaceri e depressioni? Insomma, sappiamo a quale disegno sociale ci si oppone? Abbiamo gli attrezzi giusti? L’altro punto è praticare il realismo e la generosità delle battaglie. Uno dei modi per ostinarsi a non riconoscere la fine, e quindi occultare la decomposizione in corso, è rinchiudersi nei propri ambiti. Movimenti, associazioni, gruppi. Donne, uomini, generi diversi. Un passo necessario è uscire da sé, guardarsi intorno. E scegliere insieme. Penso al referendum costituzionale. La vittoria del No non risolve i problemi specifici, è ovvio. Ma permetterà di affrontare con forza, e quadro istituzionale non compromesso, ogni battaglia.
La sinistra sotto le macerie e la libertà del futuro
Morte della politica. Solo scampoli di vecchi rancori e slogan ripetuti. Ma non è morta la politica. Anzi, bisogna fare l’operazione opposta a Fukuyama: spostare lo sguardo su ciò che può cominciare
di Bia Sarasini
Tutto è politico, anche il terremoto, come è visibile ora, dopo i giorni di silenzio e di lutto dovuti al dolore e alla tragedia. Sono politiche le scelte, le prospettive, i progetti realizzati e quelli mai iniziati, le speranze e perfino la corruzione. Per questo mi lascia perplessa parlare di morte della politica. Mentre certamente è stata consumata una fine, la fine di una forma politica che a lungo abbiamo chiamato sinistra, e che comprende un insieme variegato di organizzazioni, sigle, pratiche, anche movimenti, oltre che un linguaggio e una visione del mondo. Una fine non riconosciuta, continuamente rinviata e posticipata, e per questo sì, trasformata in una cristallizzazione di parole, di pratiche che non dicono più nulla, neanche a chi le perpetua con ostinazione. Peggio di una morte, per essere chiara, perché ci si è incaponiti a non nominarla, non vederla, e senza riconoscimento non si può elaborare il lutto, tutto si è trascina con sempre minore slancio, con nulli o quasi effetti visibili. Rimangono il rancore, le infinite accuse reciproche, la ripetizione di riti e comportamenti vuoti, parodie del potere che non c’è.
La novità è che ora, forse perché non c’è più nulla da smuovere, non ci sono più obiezioni e resistenze. Il rischio caso mai è il contrario. Confondere questa fine con la fine di tutto, della politica tout court. In un certo senso l’operazione opposta a quelle di Francis Fukuyama, quando nel 1992 proclamava la fine della Storia a fronte della caduta del muro di Berlino e della conseguente vittoria del capitalismo. Perché ha senso contemplare una fine, se si sposta lo sguardo su ciò che può cominciare. Altrimenti si tratta di una resa senza condizioni. E si lascia il campo a chi della cecità, e della confusione che ne è derivata, ha tratto il massimo profitto. In tutti sensi possibili. Economico e politico.
Un aspetto della complessità è che il fantasma della sinistra continua ad esistere, nello scenario politico italiano. Viene identificato con il Pd che pure, fin dalla sua nascita, da quando fu detto che lavoratori e imprenditori ne erano referenti allo stesso titolo, ha abbandonato la ragion d’essere di un partito di sinistra, anche moderato. La difesa della parte più debole della società, la lotta contro le ingiustizie. L’insieme del corpo politico di quel partito, e della società, in prima linea il sistema dei media, hanno assecondato il rovesciamento del campo del riformismo, bandiera nobile di una delle forme della sinistra. Altro che difesa dei deboli.
L’efficienza, la redditività assunte come valori unici hanno aperto la strada a politiche a sostegno delle esigenze di multinazionali e banche. Le riforme sono diventate ciò che favorisce il potere, l’establishment. L’inquinamento del linguaggio è una malattia grave: parole, idee, cose non dicono più ciò che dicevano. È in questa battaglia che la sinistra alternativa/radicale è stata spazzata via, una vicenda che andrebbe ripensata con attenzione e che non è solo il risultato di un’operazione mediatica. Nel contesto di un cambiamento di segno che ha investito le socialdemocrazie europee. Senza dimenticare i segni di inversione, basti pensare alle tensioni del Labour Party, con Corbyn corpo estraneo all’establishment blairiano, o alle scelte di rottura dei partiti socialisti rispetto alle grandi alleanze in Portogallo e Spagna, quest’ultima una partita tuttora aperta. In Italia Renzi ha radicalizzato la fisionomia del Pd, con una significativa torsione verso il centro, unita a una tensione al potere personale. Molto in sintonia con i progetti dell’establishment internazionale, come è evidente nell’intreccio tra Italicum e la de-forma costituzionale.
Qui si colloca la fine della sinistra. Quella popolare, di massa, quella alternativa, che pur divise anche ferocemente, hanno una lunga storia comune di scambi vitali che hanno segnato la società, hanno portato i risultati che hanno cambiato la vita dei lavoratori, delle donne, dei più poveri. Quei risultati che ora sono attaccati uno ad uno. A cominciare dalle condizioni di vita dei più giovani. La domanda è questa. Perché le sofferenze sociali, sempre più estese e insostenibili, non trovano una voce adeguata? Perché gli 11 milioni di italiani che hanno deciso di rinunciare a curarsi, di fronte a un sistema sanitario sempre più costoso, non sono al centro delle nostre battaglie? Perché il Jobs Act, che pure è stato ampiamente criticato, è passato nel sostanziale silenzio sociale?
Una prima risposta, dolorosa, ritengo sia in quella fine non consumata, che ha reso teatrali e sempre più vuote le proteste. Non conflitto reale, ma messa in scena del conflitto. E forse per quel punto di cui ha scritto Enzo Scandurra su questo giornale: che si è finito per assomigliare, nei comportamenti e nei pensieri, a quel potere a cui ci si opponeva. Non bastano l’invocazione della legalità, la lotta anti-casta, le idee che guidano il Movimento 5stelle, a dare una visione del mondo. Movimento che occupa lo spazio dell’opposizione, e che viene votato da chi ancora va a votare, perché ha una forza ritenuta comunque utile.
Con onestà va detto che una visione non è a portata di mano. E non ci sono ricette taumaturgiche. Non c’è un re che possa imporre la mano e guarire il popolo malato. Due punti mi sembrano chiari. Occorre comprendere, conoscere, interpretare lo stato delle cose. Quello attuale, in tutte le sue dinamiche. Cioè occorre studiare, riflettere, pensare. Lo so, sembra assurdo quando ciò che urge è l’azione. Ma su cosa agire, e come? Al di là delle denunce, delle polemiche ci siamo chiesti, per esempio, perché il corpo delle donne si trova al centro dello scontro politico internazionale?
Quale rovesciamento, del progressismo e dei femminismi, è in corso? A quale lavoro, quale rendimento, sono chiamati i corpi, le relazioni affettive, compresi piaceri e depressioni? Insomma, sappiamo a quale disegno sociale ci si oppone? Abbiamo gli attrezzi giusti? L’altro punto è praticare il realismo e la generosità delle battaglie. Uno dei modi per ostinarsi a non riconoscere la fine, e quindi occultare la decomposizione in corso, è rinchiudersi nei propri ambiti. Movimenti, associazioni, gruppi. Donne, uomini, generi diversi. Un passo necessario è uscire da sé, guardarsi intorno. E scegliere insieme. Penso al referendum costituzionale. La vittoria del No non risolve i problemi specifici, è ovvio. Ma permetterà di affrontare con forza, e quadro istituzionale non compromesso, ogni battaglia.
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
PERCHE' LA SINISTRA ITALIANA E' FALLITA.
CON UNA DIRIGENTE COME LA FINOCCHIARO, LA SINISTRA NON POTEVA NON FALLIRE.
9 settembre 2016 | di David Marceddu
Referendum, Finocchiaro vs Zagrebelsky: ‘Voto Sì, serve maggiore stabilità’. ‘Ma la riforma non la garantisce’
Il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky e l’ex ministro della Giustizia Anna Finocchiaro(Pd) hanno discusso di riforma costituzionale davanti a centinaia di persone aFestareggio, la manifestazione organizzata dal Partito democratico di Reggio Emilia. Nello stesso palco, appena due ore prima, il premier Matteo Renzi aveva tenuto il suo comizio. “Il nuovo articolo 70 della Costituzione – ha spiegato la senatrice Pd e presidente della commissione Affari costituzionali del Senato – è prolisso, non ci piace come è scritto, ma almeno è sufficientemente analitico ed eviterà i conflitti di competenza”. “Non è vero”, ha ribadito più volte Zagrebelsky. Il costituzionalista ha ‘interrogato’ Finocchiaro su un passaggio proprio dell’articolo 70, per evidenziare come quella nuova norma è tutta fatta di rinvii. Finocchiaro ha ribadito la sua idea sulla bontà della riforma e ha invitato a votare Sìal referendum: “Voto Sì perché è tempo di dare maggiore stabilità al nostro sistema istituzionale. Ma non sarà un sistema privo di contrappesi, né consegnerà nelle mani del presidente del Consiglio e della sua maggioranza un potere illimitato”. “Dei 63 governi che si sono avvicendati nei 70 anni della Repubblica solo due sono caduti a causa di una mancata maggioranza in Senato che invece c’era alla Camera. Gli altri – replica Zagrebelsky – sono caduti per problemi interni alla maggioranza, cioè per il trasformismo parlamentare. E il trasformismo non lo elimini con una riforma costituzionale”. Poi il giurista ha aggiunto: “Non sarà che queste decisioni in materia istituzionale sono fortemente condizionate dall’esito dei sondaggi? I sondaggi un giorno vanno in un modo, il giorno dopo in un altro. La Costituzione si fa sui principi, sui tempi lunghi”
http://tv.ilfattoquotidiano.it/2016/09/ ... ce/558753/
CON UNA DIRIGENTE COME LA FINOCCHIARO, LA SINISTRA NON POTEVA NON FALLIRE.
9 settembre 2016 | di David Marceddu
Referendum, Finocchiaro vs Zagrebelsky: ‘Voto Sì, serve maggiore stabilità’. ‘Ma la riforma non la garantisce’
Il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky e l’ex ministro della Giustizia Anna Finocchiaro(Pd) hanno discusso di riforma costituzionale davanti a centinaia di persone aFestareggio, la manifestazione organizzata dal Partito democratico di Reggio Emilia. Nello stesso palco, appena due ore prima, il premier Matteo Renzi aveva tenuto il suo comizio. “Il nuovo articolo 70 della Costituzione – ha spiegato la senatrice Pd e presidente della commissione Affari costituzionali del Senato – è prolisso, non ci piace come è scritto, ma almeno è sufficientemente analitico ed eviterà i conflitti di competenza”. “Non è vero”, ha ribadito più volte Zagrebelsky. Il costituzionalista ha ‘interrogato’ Finocchiaro su un passaggio proprio dell’articolo 70, per evidenziare come quella nuova norma è tutta fatta di rinvii. Finocchiaro ha ribadito la sua idea sulla bontà della riforma e ha invitato a votare Sìal referendum: “Voto Sì perché è tempo di dare maggiore stabilità al nostro sistema istituzionale. Ma non sarà un sistema privo di contrappesi, né consegnerà nelle mani del presidente del Consiglio e della sua maggioranza un potere illimitato”. “Dei 63 governi che si sono avvicendati nei 70 anni della Repubblica solo due sono caduti a causa di una mancata maggioranza in Senato che invece c’era alla Camera. Gli altri – replica Zagrebelsky – sono caduti per problemi interni alla maggioranza, cioè per il trasformismo parlamentare. E il trasformismo non lo elimini con una riforma costituzionale”. Poi il giurista ha aggiunto: “Non sarà che queste decisioni in materia istituzionale sono fortemente condizionate dall’esito dei sondaggi? I sondaggi un giorno vanno in un modo, il giorno dopo in un altro. La Costituzione si fa sui principi, sui tempi lunghi”
http://tv.ilfattoquotidiano.it/2016/09/ ... ce/558753/
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