La Terza Guerra Mondiale

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camillobenso
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LA CALDA ESTATE DEL 2016
CRONACA DI GIORNI DI GUERRA



WAR GAMES



LA GUERRA SI
SPOSTA SUL TERRITORIO ITALIANO



Isis, nuovo appello di Al Adnani: “Colpite i miscredenti nelle loro terre, anche con con coltelli e auto”. Citata anche l’Italia


Mondo
Il messaggio in un video intitolato "Come On Rise" e prodotto da Al Thabaat Media Foundation, casa di produzione vicina alla galassia dello Stato Islamico. In basso nel frame appare un'immagine dello sceicco Abu Muhammad Al Adnani, considerato portavoce del Califfato
di F. Q. | 16 agosto 2016
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Prima i tre Paesi già colpiti: Francia, America, Belgio. Quindi quella che somiglia alla lista dei futuri obiettivi: l’Italia, la Russia, la Spagna, la Danimarca, l’Iran. L’Isis lancia un nuovo appello ai lupi solitari che vivono in Occidente perché entrino in azione e attacchino “i miscredenti”. Lo riferisce il Site, che dà notizia di un video intitolato “Come On Rise” e prodotto da Al Thabaat Media Foundation, casa di produzione vicina alla galassia dello Stato Islamico.

“Rinnoviamo il nostro appello ai fedeli in Europa e nell’Occidente miscredente a prendere di mira i crociati nelle loro stesse terre e dovunque si trovino”, si legge in un testo che appare all’inizio del filmato, della durata di 3,39 minuti. In basso nel frame appare un’immagine dello sceicco Abu Muhammad Al Adnani, considerato portavoce del Califfato e autore dei messaggi in cui quest’ultimo chiama i radicalizzati a compiere attacchi in Occidente. “Condanniamo ogni musulmano che abbia la possibilità di versare una singola goccia di sangue crociato – si legge ancora – e che non lo faccia con un ordigno esplosivo, un proiettile, un coltello, un’auto, una pietra o anche uno stivale o un pugno”.

“La guerra si è intensificata ma noi resistiamo. Voi – è l’appello – fate il vostro dovere e contribuite alla salvezza dello Stato islamico: colpite i miscredenti” in America e in Europa “e fate stragi nei mercati e nelle stazioni ferroviarie”, recita una voce in lingua inglese, mentre tra le immagini di attentatori che scorrono vi sono quelle del killer di Nizza, Mohamed Lahouaiej Bouhlel, e di quello di Orlando, Omar Mateen.
camillobenso
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Tra Erdoğan e Putin non sarà alleanza
9/08/2016
La rassegna geopolitica quotidiana.
a cura di Federico Petroni

Erdoğan-Putin: il ritorno
L’incontro a San Pietroburgo fra i presidenti di Turchia e Russia sancisce la distensione tra le due sponde del Mar Nero dopo la crisi innescata il 24 novembre scorso dall’abbattimento di un jet russo da parte dell’Aeronautica turca.
La crisi aveva profondamente colpito l’economia di Ankara, che si era vista cancellare l’iniziativa del gasdotto Turkish Stream (ora in via di riesumazione), sanzionare l’export e le aziende operanti in Russia, ridurre il flusso di turisti russi e aumentare gli ostacoli all’ottenimento del visto per i propri cittadini. Ora i due paesi promettono di cooperare nella Difesa e creare un fondo d’investimento comune.
Nonostante il riavvicinamento – iniziato, è bene ricordarlo, per iniziativa di Erdoğan – fosse partito prima del fallito golpe del 15 luglio, l’attenzione mediatica di cui da allora gode la Turchia conduce all’errore di ricondurre ogni manovra del “sultano” alle conseguenze del mancato colpo di Stato. In quest’ottica, un galvanizzato Erdoğan si starebbe allontanando da Stati Uniti e Ue, da cui si sente tradito (nel caso dei primi) e abbandonato (nel caso della seconda), per rivolgersi ai loro avversari, russi in primis.
Una tale ricostruzione pecca però di occidentalismo. Benché il fallito golpe stia dotando il leader turco del capitale politico necessario a plasmare a sua immagine e somiglianza il paese, la mossa “russa” di Erdoğan ha radici temporali e geopolitiche più profonde.
In questi mesi, la geopolitica turca ruota come un satellite attorno a un solo astro: impedire ai curdi di creare un proprio “stan” nel Nord della Siria. Di qualunque nazionalità essi siano, dal momento che Ankara percepisce le Ypg siriane come un’estensione del Pkk turco.
Riconciliandosi con la Russia, la Turchia spera di convincerla a non usufruire più dei servigi delle milizie curde come surrogato della fanteria di terra. Rispondono sempre a questo obiettivo anche le aperture sul futuro del dittatore di Damasco, Bashar al-Asad, sebbene Erdoğan faccia sapere di non cedere su una permanenza ad libitum. Tant’è vero che i due presidenti hanno preferito rimandare le discussioni sulla Siria a un altro vertice.
Quella che offre Putin è dunque una sponda, non un’alleanza. Non basta un’esigenza tattica a fare un’intesa strategica. Troppi restano i dossier su cui Russia e Turchia – pur non scontrandosi – restano in competizione. Dalla costruzione di sfere d’influenza nei Balcani al Mar Nero sempre più militarizzato. Fino a tutti i ventri molli dell’ex impero russo, rosario di conflitti in cui Ankara e Mosca occupano quasi sempre versanti opposti: Caucaso, Crimea, persino la minuscola Gagauzia moldava.
Benché traballanti (vedi il sostegno di Washington al nemico giurato di Erdoğan, Gülen), Ankara non può tagliare i ponti con gli Stati Uniti. Per una media potenza ancora in cerca di se stessa (e di una strategia), non sarebbe saggio rompere con un attore – per quanto inaffidabile possa essere – intenzionato a estricarsi dal Medio Oriente e a incoraggiare le iniziative autonome delle potenze locali.
Senza dimenticare che la Turchia beneficia largamente dell’appartenenza alla Nato, ombrello di sicurezza indispensabile per un paese dalle Forze armate da decenni non testate in battaglia e in fase di ristrutturazione dopo il golpe naufragato. Soprattutto, in una fase di aperto confronto tra Russia e Alleanza atlantica, Ankara può sia rivendicare la propria centralità in un contenimento marittimo sia offrirsi a Mosca quale mediatrice. Un classico e proverbiale piede in due staffe.
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WAR GAMES



LA GUERRA SI SPOSTA SUL TERRITORIO ITALIANO


ALLA FINESTRA







18 AGO 2016 10:52
E LA PROFEZIA DEL COPASIR DIVENNE REALTA': ARRESTATO IN TUNISIA UN TERRORISTA PRONTO A SALPARE VERSO LE NOSTRE COSTE. IERI L’APPELLO DELLO STATO ISLAMICO A COLPIRE “OVUNQUE NEGLI USA E IN EUROPA” CON RIFERIMENTO DIRETTO ALL’ITALIA. E LA LIBIA E’ UN COLABRODO


Da “Ansa.it”


Cresce l'allarme terrorismo in Italia. Dopo l'appello diffuso ieri dall'Isis a colpire ovunque negli Usa e in Europa - con un primo riferimento diretto all'Italia - oggi è arrivata la notizia del fermo di un "terrorista" tunisino pronto a salpare verso le coste italiane.


La conferma, dopo le prime indiscrezioni dei media, è arrivata nel pomeriggio dal ministero dell'Interno tunisino: tra i sei sul punto di partire clandestinamente dalle isole Kerkennah (a 120 km da Lampedusa) verso l'Italia, c'era anche un tunisino ricercato per terrorismo, classificato come "pericoloso" ed in possesso di documenti falsi.

Il ministero non ha diffuso il nome, ma nel comunicato ha certificato che l'uomo apparteneva ad una "organizzazione terroristica".

Come gli altri cinque suoi compagni di un viaggio che non è mai avvenuto solo grazie all'intervento della Guardia nazionale marittima di Sfax, il terrorista è stato posto agli arresti in attesa di essere ascoltato dal giudice.

La notizia materializza i timori evocati dalle polizie di tutti i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, ovvero che tra i barconi di disperati migranti possano infiltrarsi elementi jihadisti o criminali.


Un rischio che il ministro dell'Interno, Angelino Alfano, non ha mai escluso e anzi è stato recentemente rilanciato dal presidente del Copasir Giacomo Stucchi, che ha ammonito che con Sirte libera dall'Isis "lo scenario è completamente cambiato e cresce oggettivamente il rischio che dei miliziani possano fuggire in Europa anche via mare".

La maggior parte delle partenze illegali verso l'Italia avviene infatti ormai dal territorio libico dove, considerata la situazione in cui versa il Paese, pochissimi o inesistenti sono i controlli. Per quanto riguarda invece la Tunisia le operazioni di controllo delle frontiere avvengono periodicamente, anche in virtù dell'accordo bilaterale tra Italia e Tunisia sul contrasto all'immigrazione clandestina dell'aprile 2011 che finora ha dato buoni risultati.


Dopo il boom di 22.000 immigrati clandestini arrivati in Italia dalla Tunisia del 2011, si è passati ai 605 del 2014, con una tendenza alla ripresa delle partenze negli ultimi due anni, che va di pari passo con il peggiorare della crisi economica che attanaglia il Paese.

Ora i rischi dell'immigrazione clandestina sono sotto gli occhi di tutti e anche l'Unione europea ha ammesso che il fenomeno non è immune da pericoli.

"La Commissione Ue è conscia del potenziale rischio di infiltrazioni di terroristi tra i migranti che attraversano il Mediterraneo", ha fatto sapere Bruxelles
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Siria, l’Onu rinuncia ai convogli umanitari
‘Impossibile entrare ad Aleppo senza una tregua’

L’inviato speciale De Mistura: “Servono fatti, una pausa di almeno 48 ore per iniziare. Noi siamo pronti”
VIDEO – LA TRAGEDIA SIRIANA NELLE IMMAGINI DI OMRAN, FERITO DURANTE I BOMBARDAMENTI
aleppo-omran-pp
Mondo
L’inviato speciale dell’Onu per la Siria, Staffan de Mistura, ha annunciato di avere sospeso l’attività della sua task force umanitaria perché i continui combattimenti ostacolano gli aiuti ai civili. De Mistura è tornato a chiedere una tregua di almeno 48 ore, in particolare ad Aleppo. Dall’11 agosto la Russia aveva annunciato una tregua quotidiana di tre ore. Ma l’Onu ha ritenuto insufficiente la misura. “Nemmeno un convoglio ha potuto raggiungere la parte assediata della città”, ha detto De Mistura. “Quello di cui abbiamo bisogno oggi sono fatti. Chiediamo una pausa di almeno 48 ore per Aleppo, per cominciare. Noi siamo pronti, dov’è la pausa?”
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SOCIETÀ
Terrorismo, tensione e crisi permanente come strumenti di governo

Società
di Diego Fusaro | 18 agosto 2016
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A uno sguardo non condizionato dalla narrazione egemonica, il nesso che connette tra loro crisi e terrorismo risulta più robusto di quanto non possa apparire a prima vista. Si tratta, in entrambi i casi, di coerenti estrinsecazioni del paradigma del vivre dangereusement individuato da Foucault come cifra del sistema neoliberista. A contraddistinguere la crisi e il terrorismo sono le figure tra loro connesse della precarietà, dell’instabilità, dell’incertezza e del rischio. Il loro comun denominatore è la destabilizzazione, la messa in pericolo e il rovesciamento della normalità della situazione.

Più precisamente, il terrorismo figura come il versante politico dell’emergenzialità di cui la crisi è il côté economico. In entrambi i casi, la regolarità e la certezza, la sicurezza e l’ordine regolare sono sospesi e sostituiti da una condizione strutturalmente instabile e precaria, soggetta a eventuali rovesci imprevedibili e dagli effetti sconvolgenti. Ne scaturisce una condizione letteralmente inabitabile, centrata su una strategia della tensione globalizzata.


L’esistenza diventa pura sopravvivenza sempre a rischio. La progettualità dell’esserci come base di un’esistenza stabile e consolidata nella forma della piena occupazione del presente e della prospettiva futura è dissolta e sostituita dalla nuova figura dell’“esserci-ancora-appena” evocata da Anders in L’uomo è antiquato. La crisi è terrorismo economico e governamentale, proprio come il terrorismo si configura come una crisi della stabilità politica ed esistenziale. Ciascuno dei due poli si rovescia dialetticamente nell’altro: la crisi è terrorismo, e il terrorismo è crisi.

Entrambi, nella loro relazione biunivoca, si presentano come coerenti espressioni della “società del rischio” (U. Beck). In tutti e due i casi, la paura generalizzata legata all’insicurezza del futuro più prossimo si rivela un efficace strumento di governo: rende ancora più fragile e più instabile il servo precarizzato, giacché lo induce ad accettare, pur di sopravvivere, ciò che palesemente nuoce alla sua già svantaggiata condizione.

Anche da questa prospettiva emerge come la paura figuri sempre più come un metodo di governo, che rende docili e remissivi i sudditi e, dunque, più facili da disciplinare e da amministrare in forme che mettono in discussione gli stessi assetti democratici. In questa prospettiva, l’analogia tra la crisi come governamentalità terroristica e il terrorismo come crisi permanente risulta lampante. In termini generali, il paradigma governamentale della crisi come metodo di governo si ridispone in forma geopolitica mediante la figura concettuale del terrorismo.
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ANALISI
Is e guerre, quanto conta l'Italia
Dalla Siria alla Libia, fino ai rapporti con Cina e Usa. I tentennamenti davanti ai dittatori. 
E la sconfitta all’Onu. La pagella dell'Espresso alla politica estera italiana. 
Ai tempi di Matteo Renzi
DI GIGI RIVA
16 agosto 2016
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Matteo Renzi è equivicino, direbbe Giulio Andreotti, forse il politico a cui più il premier dal passato democristiano vorrebbe assomigliare almeno per le sottili strategie in politica estera. Vasto e ambizioso programma. Certo a differenza del divo Giulio si confronta con un mondo dove nuotare è oggettivamente meno facile. E più alto il pericolo di scottarsi tra guerre reali (e non fredde...) alle porte, l’incubo terrorismo, interessi nazionali diversificati e spesso difficili da difendere quando non tutto dipende da Roma ma bisogna passare sotto le forche caudine di Bruxelles. L’ex sindaco di Firenze aveva esordito con una postura un po’ guascona sulla scena internazionale, lontana dai metodi felpati di un Mario Monti o di un Enrico Letta, ma anche dall’irriverenza eversiva di un Silvio Berlusconi.

Col tempo ha corretto i toni pur senza rinunciare a un protagonismo che per il Paese «è un bene» nel giudizio dell’ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, già rappresentante permanente dell’Italia presso l’Unione europea e oggi presidente dell’Istituto affari internazionali. Che la politica estera dipenda soprattutto da palazzo Chigi e la Farnesina sia stata esautorata su alcuni dossier è del resto una tendenza planetaria, in un’epoca di personalizzazione estrema della politica (i francesi la chiamano “pipolizzazione”).
La pagella globale al governo Renzi

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Si tratti di incitare gli azzurri alle Olimpiadi di Rio de Janeiro, anche con sms invadenti a ridosso delle gare, o di discutere con Angela Merkel di rigore e flessibilità in economia, Matteo c’è. Talvolta porta a casa il risultato, altre cade in vista del traguardo, altre ancora rinuncia con studiato calcolo alla competizione quando è troppo complicato schierarsi. Per un bilancio in chiaroscuro che contempla vittorie, sconfitte e pareggi, come capita nella vita di ogni agonista che non sia superman.Valutato su una scala che oltrepassa il confine di Chiasso, il giudizio su Renzi si scosta dalla percezione popolare in patria dove la sua stella è data in caduta e dove ha perso il tocco magico del mitologico 41 per cento per ancorarsi a un realismo un po’ più oggettivo perché non sconta i brontolii della pancia di un Paese costretto a tirare la cinghia da almeno nove lunghi anni. Nove, due in più delle carestie bibliche.

EUROPA

Pancia significa economia, ancora la priorità degli italiani assieme alla sicurezza. Dunque Bruxelles. Dove certo gli obbligazionisti delle banche in difficoltà o fallite avrebbero preteso la revisione totale del bail-in, gli aiuti di Stato e un rientro completo dei propri risparmi evaporati. Ma abbiamo ceduto una quota di sovranità, non abbiamo una moneta, il debito pubblico pesa come il macigno di Sisifo. Quando ci presentiamo ai vertici siamo ancora l’Italietta della crescita debole o assente, la maestra di Berlino arriva con la proverbiale bacchetta. Non aiutarono Renzi gli esordi spacconi che in Belgio ancora ricordano perché bisogna pur misurare i rapporti di forza come insegna la storia romana di Orazi e Curiazi. Da quando si è corretto, qualche apertura è arrivata, hanno cominciato a tornare familiari nell’Unone europea parole fuori moda come flessibilità, crescita e sviluppo. Ancora non è sufficiente, certo.

Ma è il segno che è cambiata l’aria, «l’agenda è stata modificata», per usare il linguaggio di un diplomatico di lungo corso nel Vecchio Continente. E, analisi che non piacerà ai vari Salvini, «la pietas dimostrata con il soccorso in mare dei profughi ci sta dando una larga dose di credibilità», nel giudizio di un ambasciatore esperto come Giuseppe Cassini. Una credibilità non ancora trasformata in moneta corrente se la disponibilità dei nostri partner a distribuire equamente gli arrivi dei migranti è un’intenzione rimasta sulla carta. La famosa “solidarietà europea” una lettera morta mentre l’invito esplicito ai Paesi del Sud che sono fronte suona come un beffardo: «Arrangiatevi». Sulla questione epocale delle migrazioni bibliche l’Europa si farà o morirà come è chiaro a tutti. In questo caso i nostri “valori” coincidono esattamente con l’interesse nazionale. E rivive il motto: italiani brava gente.

Siccome ogni evento rappresenta un’opportunità o un limite, la Brexit può essere per il premier motivo di rilancio. Lo sfiatato asse franco-tedesco aveva bisogno di una triangolazione con Londra per dirimere le controversie, ruolo che potrebbe occupare Roma, novella invitata ai balli che contano. Su questo, giudizio sospeso. Vedremo come e se saliremo sulla giostra fin dal summit Renzi-Merkel-Hollande annunciato nella simbolica Ventotene per il 22 agosto.

GUERRE

Matteo Renzi le rifugge, sono la ragione più immediata per perdere consenso. Chi può essere a favore della guerra? Però talvolta sono necessarie. Si tratta di valutare, caso per caso, se un intervento armato riduce o aumenta il danno. Cullati dall’illusione della pace perpetua, scegliamo d’istinto la fuga. Finché la guerra entra in casa. Presi per la collottola da obblighi di coalizione ci rifugiamo nei distinguo. Diamo le basi e concediamo il sorvolo dello spazio aereo, ma non bombardiamo. Diamo gli aerei ma solo per i rifornimenti. Niente soldati sul terreno ma istruttori per eserciti-taxi che facciano il lavoro in nostra vece. Oppure truppe speciali per missioni indicibili, però segrete eh. La chiamano ipocrisia necessaria. In puro stile, qui sì, andreottiano. Funziona per la Libia dove il retaggio coloniale da un lato e le esigenze dell’Eni dall’altro disegnano un sentiero stretto per la diplomazia. Acquisiamo benemerenze in Iraq coi carabinieri ad addestrare le forze di polizia e i militari a istruire i peshmerga curdi in vista dell’auspicato attacco su Mosul per sradicare lo Stato islamico. Siamo meno generosi in Siria, fucina di tanti profughi che poi si riversano sulle nostre coste. Spesso profughi acculturati, professionisti, gente della classe media che non a caso la Merkel si è presa in casa con calcolo contemporaneamente umanitario e utilitaristico. Il Mediterraneo largo è “mare nostrum” mai come ora. Non si capisce cosa restiamo a fare, tra gli ultimi, in Afghanistan, nella remota Herat sotto l’influenza sciita, dunque iraniana, se non per compiacere Barack Obama e rabbonirlo dopo i nostri “no” sulla Libia, in una missione ormai svuotata di qualunque significato pratico.

È ben evidente invece perché siamo, da dieci anni ormai, dai tempi di Massimo D’Alema alla Farnesina, in Libano, nel vero capolavoro della nostra politica estera, il conflitto con Israele raffreddato se non sedato. È vero che Hezbollah ha nel frattempo riempito i suoi arsenali sotto i nostri occhi, come non potrebbe, però non li usa. Più in generale, e da tempo, sono i soldati i nostri migliori ambasciatori, da tutti richiesti in ogni angolo del pianeta. Fino a registrare una carenza negli organici per via dei fisiologici ricambi. E qui Renzi si scontra con la coperta troppo corta delle casse esangui e delle esigenze di bilancio. Spendiamo per la Difesa, come sottolinea l’ex capo di Stato maggiore Vincenzo Camporini, lo 0,8 per cento del Pil, se si sommano gli investimenti del Ministero dello sviluppo economico valichiamo la fatidica quota dell’ 1 per cento quando la Nato chiederebbe agli Stati membri come minimo il doppio. E i troppi fronti aperti, anche interni, ci obbligherebbero a rivedere al rialzo il nostro sforzo in un mondo sempre più disordinato.


DITTATORI E SIMILI

Matteo Renzi dovrà rassegnarsi al fatto che gli sarà sempre rimproverato di essere stato il primo a correre al Cairo per legittimare il governo liberticida del generale Abd al-Fattah al Sisi. Di più. Di essere stato debole quando sono state evidenti le colpe del suo regime nell’omicidio del ricercatore universitario Giulio Regeni. Né possono servire da scusanti, in questo caso, gli affari dell’Eni davanti alle torture inflitte a un cittadino italiano, col sovraccarico delle beffe dovute alle bugie sulle indagini, ai depistaggi, alle prese in giro di colui che era stato catalogato sotto la voce “amico”. L’Egitto ha un interesse pari se non superiore al nostro nello sfruttamento del giacimento al largo delle sue coste e ha bisogno della nostra tecnologia. Trattare su un livello almeno paritario dovrebbe essere lo scopo di una nazione che ha l’obiettivo di farsi rispettare. Né può essere un alibi la constatazione che i militari al Cairo sono gli unici a poter garantire gli accordi di Camp David e dunque la (parziale) sicurezza di Israele. Lo Stato ebraico è l’altra spina nel fianco della nostra diplomazia. Siamo passati dal sostanziale filoarabismo dell’epoca andreottiana (sempre lui) a un’adesione acritica a tutte le esigenze di Israele, persino ora che quella democrazia mostra una preoccupante involuzione. La svolta fu voluta dal governo Berlusconi. Renzi non ha fatto nulla per correggere il tiro.

E, spostandosi di un braccio di mare. Se non si può definire tecnicamente una dittatura quella del turco Erdogan perché è stato regolarmente eletto, il suo controgolpe con derive che possono arrivare persino alla reintroduzione della pena di morte, avrebbe meritato una presa di posizione assai più netta contro il sultano e la sua politica neo-ottomana. Renzi ha alzato la voce solo quando Erdogan ha attaccato i giudici di Bologna “rei” di aver aperto un’inchiesta contro suo figlio: un po’ poco.


AFRICA SUBSAHARIANA

È un pallino dell’inquilino di Palazzo Chigi che ama citare il suo attivismo nell’area come un fiore all’occhiello della sua permanenza al potere. Peccato che a tanto sforzo non corrispondano altrettanti risultati. Fare politica estera con le casse vuote sarebbe un problema per chiunque. Se va dato atto a Renzi di aver aumentato i fondi per la Cooperazione allo sviluppo, siamo tuttavia assai lontani dalle cifre (vedi tabella a fianco) di quando potevamo esercitare un vero lobbysmo come all’epoca, anni Novanta, dell’ambasciatore Francesco Paolo Fulci che poteva sventare un tentativo di riforma del Consiglio di Sicurezza architettata ai nostri danni grazie ai voti dei Paesi del Terzo mondo che suonavano come un ringraziamento.


ONU

La sconfitta più cocente del premier resta comunque quella subita al Palazzo di Vetro. Un misto di improvvisazione e di mancata valutazione dei rapporti di forza. La richiesta di un seggio nel Consiglio di Sicurezza risaliva al 2009, a Berlusconi. Ed era piuttosto velleitaria visto che avevamo occupato quella poltrona nel 2007-2008. Ci siamo esposti quando già avevano avanzato la loro candidatura la Svezia e l’Olanda. Ancora Giuseppe Cassini tra il serio e il faceto: «Abbiamo sottovalutato la lobby gay svedese, forte a New York fin dai tempi in cui fu segretario generale Dag Hammarskjöld». Stoccolma ci ha largamente battuti e con Amsterdam abbiamo raggiunto un compromesso che ci salvasse (solo in parte) la faccia: un anno ciascuno. Quando eravamo convinti di avercela fatta. Potevamo, dovevamo, ritirarci. Per tutte le altre cancellerie era chiaro che sarebbe finita così. Non a Roma dove nessuno ha avuto il coraggio di spiegare a Renzi come stavano le cose. Ecco di cosa avrebbe (anche) bisogno il premier per costruirsi una figura da statista: di qualcuno attorno che non lo voglia solo compiacere. Ma gli dica la verità.
http://espresso.repubblica.it/attualita ... =HEF_RULLO
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SIAMO VERAMENTE IN BUONE MANI.


LIBRE news

Perché gli strateghi dell’orrore hanno tanta paura di Trump
Scritto il 19/8/16 • nella Categoria: idee Condividi


Basta guardare chi “spara” su Trump per convincersi che “The Donald” sia davvero l’unica alternativa possibile alla “guerra infinita”, inaugurata dall’élite Usa all’indomani dell’11 Settembre, casus belli della spaventosa strategia della tensione diffusa senza tregua, a livello internazionale, attraverso sigle che vanno da Al-Qaeda all’Isis, passando per le carneficine in Afghanistan, Iraq, Somalia, Yemen, Libia e Siria.

«Nessuno di noi voterà per Trump», hanno annunciato 50 ex funzionari repubblicani della sicurezza nazionale, schierati con la Clinton.

Tra questi l’ex direttore della Cia, Michael Hayden, l’ex presidente della Banca Mondiale, Robert Zoellick, e il famigerato John Negroponte, grande stratega del terrore in Centramerica, coi finanziamenti occulti ai Contras e l’occultamento degli abusi contro i diritti umani commessi da agenti addestrati dalla Cia in Honduras negli anni ‘80.

Per Hillary Clinton, una tifoseria da film dell’orrore.

«Non sappiamo perché Trump apprezzi Putin», ha detto Hillary.

L’annuncio della Clinton, secondo un analista americano come Stephen Lendman, «spiega molto del perché il partito della guerra degli Stati Uniti stia temendo Trump».

Il tycoon col parrucchino ha definito la Nato “obsoleta”?

Certo: infatti «può tentare di normalizzare i legami con la Russia».

Donald Trump «non è un pacifista, ma difficilmente inizierebbe la Terza Guerra Mondiale», scrive Lendman, in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”.

«Comparato alla Clinton, è la minore di due forze oscure.

Bisogna dargli merito di volere un riavvicinamento con la Russia e non lo scontro, a condizione che riesca ad andare fino in fondo se eletto presidente».

Il suo potenziale spostamento geopolitico, continua Lendman, ha avversari come l’ex direttore Cia, Michael Morell, che lo definisce «un agente inconsapevole della Federazione Russa», e quindi costituisce «una minaccia per la sicurezza nazionale».

Aggiunge Lendman: «I neoconservatori come Morell, la Clinton e molti altri che infestano Washington, credono che le iniziative di pace che guadagnano forza rappresentino la più grande minaccia geopolitica all’America – soprattutto se pongono fine agli annosi rapporti contraddittori con la Russia».

Per Morell e soci, “The Donald” non è qualificato per gestire la politica estera: «Sarebbe un presidente pericoloso e metterebbe a rischio la sicurezza e il benessere del nostro paese».

Secondo i 50 firmatari dell’ultra-destra, autori del manifesto anti-Trump, l’avversario della Clinton «indebolirebbe l’autorità morale degli Stati Uniti come leader del mondo libero», anche perché «ha poca comprensione degli interessi nazionali dell’America, le sue complesse sfide diplomatiche, le sue indispensabili alleanze e dei valori democratici su cui deve basarsi la politica estera degli Stati Uniti».

Peggio ancora: «Si complimenta insistentemente con i nostri avversari e minaccia i nostri alleati ed amici».

Ergo: «Se arrivasse allo Studio Ovale sarebbe il presidente più sconsiderato della storia americana».

Tutto questo, perché crede che la Nato sia “obsoleta” e perchè favorisce la normalizzazione delle relazioni con la Russia.

«La massima priorità dell’umanità è di evitare un’altra guerra globale», osserva Lendman.

Guerra che, se scoppiasse, «probabilmente sarebbe con armi nucleari e minaccierebbe la sopravvivenza del genere umano».

Non è un’ipotesi remotissima: «Le probabilità per l’impensabile sono fin troppo alte per rischiare sotto Hillary, se dovesse succedere ad Obama.

Fin dagli anni ‘90 i suoi pessimi primati dimostrano quanto sia una guerrafondaia pazza scatenata, estremamente ostile alla Russia, alla Cina e a tutti gli altri Stati sovrani indipendenti».

La conosciamo, Hillary Clinton: «La sua strategia geopolitica preferita è la guerra.

È favorevole all’uso di armi nucleari e alle aggressioni della Nato, guidata dagli Stati Uniti, “per preservare il nostro stile di vita”».


E Trump? Ha risposto ai firmatari della lettera dicendo che sono «quelli a cui il popolo americano dovrebbe chiedere le risposte sul perché il mondo sia un disastro».

Li ringraziamo per essersi fatti avanti, aggiunge Trump, così almeno «chiunque, nel paese, sa a chi dare la colpa di rendere il mondo un posto così pericoloso».

Non sono «nient’altro che le élite fallite di Washington che cercano di aggrapparsi al proprio potere».

Ha ragione, scrive Lendman: «Molti di loro sono responsabili delle guerre di aggressione pre-e-post 11 Settembre – estremisti anti-pace che dovremmo denunciare tutti».

La Clinton? «E’ la scelta dell’establishment come presidente.

Probabilmente succederà ad Obama con mezzi leciti o illeciti».

Se invece vincesse Trump, a sorpresa, «probabilmente non si discosterà molto dalle tradizionali politiche interne ed estere degli Stati Uniti».

Inutile illudersi: «I candidati dicono qualsiasi cosa per farsi eleggere».

Ma poi, «una volta in carica, continuano i loro affari sporchi come al solito».

Eppure, conclude Lendman, «un’inconcepibile guerra globale è molto più probabile sotto la Clinton che sotto di lui».

Ecco perché «è fondamentale contrastare la sua candidatura alla più alta carica della nazione o a qualsiasi altra carica pubblica».
camillobenso
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Turchia, alta tensione tra governo e Stati Uniti
‘Gli Usa spostano le armi nucleari in basi rumene’

Il sito EurActiv: “Venti testate nucleari dalla base Nato di Incirlik a quella più sicura di Deveselu”
INTANTO MERKEL AVVERTE LA RUSSIA: “NON RISPETTA GLI ACCORDI DI MINSK, LE SANZIONI UE RESTINO”
turchia carri armati 990
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L’alta tensione tra Usa e Turchia dopo il fallito golpe del 15 luglio ha indotto Washington a trasferire le venti testate nucleari custodite nella base Nato di Incirlik a quella più sicura di Deveselu, in Romania. A scriverlo è stato il sito d’informazione europeo EurActiv, citando due diverse fonti indipendenti. La decisione sarebbe stata presa, appunto, dopo il deterioramento dei rapporti tra i due Paesi, con il presidente Recep Tayyp Erdogan che accusa l’ex imam Fethullah Gulen, in autoesilio in Pennsylvania, di essere stato la mente del colpo di Stato chiedendone l’estradizione
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LA GUERRA SI SPOSTA SUL TERRITORIO ITALIANO





Terrore islam, in Lombardia il record di intercettazioni
Con l'allarme estremismo sono ormai qui oltre metà dei telefoni e degli ambienti messi sotto controllo


Luca Fazzo - Ven, 19/08/2016 - 08:57
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Terzo posto per Milano nella classifica generale delle città più intercettate, secondo posto alla Lombardia nella classifica per regioni.


Ma c'è un settore dove la lettura dell'ultimo rapporto Demoskopica sulle intercettazioni giudiziarie in Italia rivela meglio di qualunque altra analisi quanto sia grave la situazione nella nostra regione: è il dato sulle intercettazioni disposte nell'ambito delle inchieste per terrorismo internazionale, ovvero sulla penetrazione del l'estremismo jihadista nelle comunità islamiche.

Il rapporto, infatti, rivela che tra il 2009 e il 2014 la Lombardia ha assorbito da sola oltre la metà delle intercettazioni telefoniche e ambientali disposte nelle indagini antiterrorismo. Sono stati ben 1.004 i «bersagli» individuati dalle procure di Milano e Brescia e finiti sotto controllo. Non significa che nel mirino siano finiti mille terroristi o presunti tali, perché tecnicamente con il termine di «bersaglio» si indica ogni singolo dispositivo telefonico o telematico da ascoltare: e poiché spesso i sospettati utilizzano più di un cellulare o computer, il totale va diviso almeno per due. Ma rimane un numero molto alto. E d'altronde la statistica arriva all'indomani delle notizie provenienti dalla Libia che confermano come Milano e la Lombardia siano al primo posto nella strategia di penetrazione da parte dell'Isis nel nostro Paese.

Il dato è indubbiamente allarmante, ma può essere letto anche in chiave positiva: perché conferma che l'attenzione degli uffici giudiziari è alta e che, insieme ai militanti o fiancheggiatori della jihad che vengono periodicamente arrestati, esiste un numero assai più vasto di soggetti che sono sotto inchiesta e che vengono monitorati. Oltretutto ai dati compresi nella statistica di Demoskopica, basati sulle tabelle fornite dal ministero della Giustizia, andrebbero aggiunte anche le intercettazioni preventive compiute dai servizi segreti che hanno necessità di essere autorizzate dalla procura generale e non possono essere utilizzate nei processi, di cui non esiste un resoconto statistico, ma che vanno anch'esse ad allargare il campo dei soggetti a rischio di deriva integralista tenuti d'occhio dagli apparati dello Stato.

Ogni anno che passa, racconta la statistica, cresce (fino a raddoppiare in un quadriennio) il numero dei sospetti di terrorismo operanti in Lombardia: contro i quali la intercettazione di telefonate e di comunicazioni via computer è molto spesso il principale (se non l'unico) strumento di indagine: perché si tratta quasi sempre di cellule piccole o addirittura individuali che non si incontrano mai fisicamente e che mantengono i contatti tra di loro e con i confratelli che operano nelle zone di guerra unicamente via Skype o Whatsapp. È questa la nuova frontiera delle indagini antiterrorismo, resa ostica dall'evoluzione tecnologica e dall'affinamento delle tattiche anti-intrusione messe in atto dai militanti estremisti. E se il costo del Grande Orecchio continua a essere rilevante (nei quattro anni sotto esame lo Stato ha speso complessivamente per intercettazioni 1,358 miliardi di euro) almeno in questo settore si tratta sicuramente di soldi ben spesi.
camillobenso
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08 gen 2015 - Anche gli italiani Antonio Martino e Marcello Pera sono organici alla Hathor Pentalpha, mentre a Silvio Berlusconi, pur formalmente proposto ...


Erdogan chi crede di fare fesso?????


Turchia, attentato ad un matrimonio: almeno 50 morti. Erdogan: “E’ stato l’Isis

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L'attacco è avvenuto durante un ricevimento nuziale nella città di Gaziantep, vicino al confine con la Siria. Si tratta del quarto attentato nel Paese negli ultimi 20 giorni. Il vice premier Mehmet Simsek: "Opera di un attentatore suicida". Il presidente turco: "Non c'è differenza con il tentato golpe del 15 luglio e le azioni del Pkk"
di F. Q. | 21 agosto 2016
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Più informazioni su: Attentato, Erdogan, Turchia
E’ salito a 50 il numero dei morti dell’attentato suicida in Turchia che ha provocato anche il ferimento di oltre 70 feriti. L’attacco è avvenuto sabato sera durante un ricevimento di matrimonio nella città turca di Gaziantep, vicino al confine con la Siria, e, secondo quanto afferma il presidente turco Erdogan e scrive su Twitter Samil Tayyar, deputato del partito al governo Akp, si tratterebbe di un “attacco legato all’Isis“. E’ il quarto attentato in Turchia negli ultimi 20 giorni.

Anche il vice premier, Mehmet Simsek, parlando all’emittente Ntv sostiene che si sia trattato di un attentato suicida. Fonti della sicurezza riferiscono che il kamikaze si è fatto esplodere nel momento in cui gli invitati sono scesi in strada per continuare i festeggiamenti. “Condanniamo questo attacco terroristico crudele – si legge in una nota diffusa dal governo provinciale di Gaziantep – e chiediamo la misericordia di Dio per coloro che hanno perso la vita e un rapido recupero per i feriti”.
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