IL LAVORO

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Re: IL LAVORO

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Emergenza Si sono rotte le reti di protezione sociale e chi perde il lavoro non si risolleva
I nuovi emarginati? Vengono dalla classe media

» MARCO MARONI

C’è la giovane madre sola
che ha trovato accoglienza,
nella stessa casa famiglia
della Caritas dove era
stata accolta sua madre. C’è
l’ex dirigente separato, disoccupato,
che dorme in
macchina e chiede la disponibilità
di uno spazio dignitoso
per non dover incontrare
i figli al centro commerciale.
E ci sono una quantità
crescente di giovani che non
studiano, non lavorano e non
frequentano alcun corso di
formazione, i cosiddetti
Neet (neologismo anglofono
che sta per Not in education,
employment or training) che
vanno a ingrossare le file dei
senza tetto quando la famiglia
di appartenenza si disgrega,
o arriva lo sfratto, o i
genitori esasperati e a loro
volta in difficoltà, lo buttano
fuori.
Sono le storie dei nuovi
poveri, quelli che alimentano
le statistiche che parlano
di 500 mila persone in più in
un anno che non riescono a
condurre un’esistenza
dignitosa
reggendosi
sulle proprie
gambe. È u n
quadro diverso
da quello del
passato. Quello
della povertà di
classe, quella
dignitosa descritta
dai film
neorealisti, o
quella dell’emar
ginazi one
come sanzione
a una vita sregolata, alcolismo,
piccola delinquenza,
ludopatia.
“SONO ESAURITE le reti sociali”,
dice Augusto D’ange -
lo, uno dei responsabili del
Servizio senza dimora della
comunità di Sant’ Egidio di
Roma, oltre che docente di
Storia contemporanea alla
Sapienza, “quindi, quando
un individuo si trova in difficoltà,
si trova
da solo e cade
nella condizione
di povertà. Il
filo conduttore
di gran parte
delle nuove situazioni
di disagio
economico è
l’isolamento sociale”.
In difficoltà ci
sono sempre più
individui che un
tempo se la sarebbero
cavata.
Adulti, sani, di 40 o 50 anni.
Per molti la storia all’origine
di quella condizione è la perdita
del lavoro, o uno sfratto,
una separazione, spesso eventi
connessi e conseguenti.
Paradossalmente, in questo
quadro, i pensionati al minimo
(che un tempo erano
coloro su cui si concentrava
l’attenzione) sono un problema
minore. Se si parla di povertà
assoluta, quella per cui
mancano i beni essenziali
per vivere, il grosso del nuovo
disagio non riguarda loro
né gli emarginati tipici, come
gli alcolisti e tossicodipendenti.
Gli anziani nel contesto
attuale sono una delle categorie
più protette. Dice
Walter Nanni, responsabile
de ll ’uffico studi della Caritas:
“C’è solo il4% delle persone
oltre i 65 anni in condizione
di povertà assoluta.
Oggi non c’è un fenomeno di
povertà univoco, tempo chi
non aveva un lavoro o era emarginato,
stava confinato
nei quartieri ghetto era immediatamente
indentificabile.
ORA NON È PIÙ COSÌ , noi le
definiamo povertà plurali”.
Sempre di più sono gli individui
che precipitano in un
colpo solo tutti i gradini sociali
dalla una condizione
borghese all’emarginazione.
“Sono triplicati gli italiani”,
spiega ancora D’angelo, “tra
chi si rivolge a noi, 10 anni fa
la proporzione tra italiani e
stranieri era di uno su 10, ora
sono tre su dieci. “Se devo
trovare un filo conduttore
dei nuovi fenomeni di povertà
è l’isolamento sociale”, dice
ancora, “Con la crisi economica
il tessuto si è sfarinato,
la famiglia non fa più da
argine. La crisi ha colpito i
redditi e anche i risparmi”.
Sia la comunità di Sant’Egidio,
sia la Caritas stanno
concentrando una parte crescente
dei loro sforzi nel
reinserimento dei disoccupati
nel mondo del lavoro:
formazione, riqualificazione
professionale, collocamento.
Sant’Egidio ha appena
aperto a Roma un servizio
“Emergenza lavoro”. Lo
stesso fa la Caritas, con il Progetto
inserimento lavorativo”.
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Da il Fatto quotidiano del 15/07/2016
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Re: IL LAVORO

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•ULTIMA ORA•
LAVORO, A GIUGNO DISOCCUPAZIONE A +0,1%. OCCUPATI IN AUMENTO
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Re: IL LAVORO

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L'estate del precariato acrobatico

Lavoratori pagati in buoni mensa. O in cambio di scontrini. O a due euro per ogni stanza d’albergo pulita. Oppure licenziati e poi ripresi a voucher. Cronache dal Paese della “flessibilità creativa”
DI BRAHIM MAARAD, MICHELE SASSO E FRANCESCA SIRONI - ILLUSTRAZIONI DI MAURIZIO CECCATO
03 agosto 2016


Si potrebbe chiamare “precariato acrobatico”. È l’ultima versione della flessibilità estrema in Italia, estate 2016. Quella delle forme più creative in cui ormai si declina il dumping nel mondo del lavoro: ore stipendiate in buoni pasto, ad esempio. O pagate solo attraverso il rimborso di scontrini. Oppure il cottimo a stanza d’albergo pulita (due euro l’una, in alcuni tre stelle della Riviera romagnola). Per non dire dell’estensione infinita dei voucher, nati per far emergere dal nero i lavori accessori e diventati invece un modo fisiologico per non dare più ai dipendenti alcun tipo di contratto, nemmeno quelli interinali. “L’Espresso” propone in queste pagine un viaggio nella realtà quotidiana del precariato acrobatico. Con un disclaimer, obbligatorio: quasi nessuno dei lavoratori che vivono così hanno accettato di esporsi con nome e cognome. Perché la flessibilità estrema porta con sé anche la ricattabilità. E il rischio di non avere - domani - nemmeno queste forme di occupazione.

AL POSTO DEI SOLDI

Pistoia, capitale della cultura 2017. Un’economia in ripresa, nonostante le difficoltà: industria manifatturiera su del 2,6 per cento nell’ultimo trimestre, saldo positivo tra aziende chiuse e nuove nate. Ma è in questa città benestante che Luana Del Bino, responsabile dell’ufficio vertenze della Cgil, ha ricevuto la prima denunci a di uno “stipendio” interamente dato in ticket restaurant, a un lavapiatti di un ristorante. All’inizio Del Bino non ci voleva credere: «Ogni anno affrontiamo tanti casi di rapporto di lavoro al nero, ma almeno in contanti. Questa modalità di pagamento non l’avevo mai sentita». Invece dopo la sua denuncia apparsa sul quotidiano “il Tirreno”, sono emerse altre segnalazioni simili, sempre in Toscana.

Si è ad esempio scoperto che una società di Viareggio ha proposto i carnet come salario per impieghi a tempo durante l’ultimo carnevale. E in provincia di Pisa quattro commesse part time si sono viste retribuire così gli straordinari. Poi è emerso un altro ristorante, questa volta sul lago di Como: un cuoco con contratto a tempo determinato per 40 ore a settimana, ne lavorava invece 50-60 di media. E anche per lui, questi straordinari venivano pagati ogni tanto con un blocchetto di ticket restaurant.

«È un fenomeno che stiamo scoprendo: imprenditori che cercano di convertire i soldi degli stipendi in “benefit”, così evitando di pagare contributi», dice Gualtiero Biondo, della Cisl lariana che ha ricevuto la denuncia. Biondo cita un caso che sta seguendo proprio in questi giorni: un’azienda metalmeccanica lombarda, con circa 150 dipendenti. L’amministrazione ha proposto loro di ridurre la retribuzione. Trasformando una parte di salario in “servizi” - visite dal dentista o giornate al nido per i figli, ad esempio - in cambio di una decurtazione dello stipendio. Insomma, al posto dei soldi dovuti per il lavoro.

SALARIO PER SCONTRINI

Roma, Biblioteca nazionale. Si incontrano all’ingresso, mentre danno informazioni o tesserini agli studenti. Li vedi all’ufficio prestiti, a distribuire i libri richiesti. O ancora, li puoi incrociare nei magazzini. Sono anche loro a tenere in piedi una delle principali strutture culturali pubbliche del Paese: quattro milioni e mezzo di volumi, per capirci. Il punto è che lo fanno, formalmente, da volontari. E da cinque anni. “Volontari a rimborso”, per la precisione: per essere pagati, devono raccogliere scontrini. Spese di benzina, ricariche telefoniche, panini al bar, conti per massimo trenta euro al supermarket.
VEDI ANCHE:
Un archivio
Beni culturali, volontari in archivio
Fra rimborsi e convenzioni dirette

La direzione generale archeologia cerca un'associazione per ordinare il proprio «patrimonio documentale». Ma non sarebbe meglio chiamare tecnici preparati? «Sì, e lo faremo», promette il nuovo dirigente

Raccolgono scontrini e li portano ogni mese per ottenere un “rimborso” di massimo 400 euro a testa, ad eccezione di due “senior”, che stanno più ore, e possono quindi arrivare a 600. Niente contratti, né contributi, solo fogli da firmare per l’ingresso e l’uscita, stando ai turni in cui rientrano anche loro. Non vogliono parlare con nome e cognome, perché si sentono facilmente sostituibili, spiegano, dai ragazzi del servizio civile: il loro ultimo incubo. Quindi si tengono stretti questo posto. Sono in 25 in tutto, su circa 200 dipendenti della biblioteca. Prima erano impiegati attraverso una cooperativa, con contratto regolare.

Poi l’azienda è stata sostituita da un’associazione di volontariato. Ma loro sono rimasti lì. Stesso impiego di prima, nuova casacca e nuova modalità di pagamento. Adesso dicono che per l’estate il rimborso rischia perfino di diminuire: l’anno scorso infatti nei mesi più caldi hanno ricevuto 100 euro in meno. Era il “contributo all’aria condizionata”, il privilegio di stare al fresco al lavoro. La speranza è che quest’anno i loro datori siano più umani e accettino gli scontrini fino alla cifra intera. «Quando abbiamo chiesto conto della situazione all’ufficio del personale ci hanno detto che non essendo i volontari parte dell’organico, non ne sono responsabili», dice Norberto Benemeglio del sindacato atipici della Cgil: «Insomma sono dei fantasmi, non esistono».

INTERINALI RETROCESSI

Massa, ipermercato Carrefour aperto 7 giorni su 7. Sara - nome di fantasia - quando arriva indossa una gonna blu al ginocchio e ha le unghie laccate. «Avere le mani curate e vestiti neri o blu è richiesto», spiega. Lei fa la cassiera e rappresenta l’ultima deriva dell’uso ordinario di forme straordinarie di pagamento: i voucher . Dal 16 luglio alla Carrefour di Massa i cassieri sono divisi in tre: interni, interinali e voucheristi. I primi sono i “privilegiati”, a tempo indeterminato; i secondi sono precari ma con una prospettiva di salario lunga qualche mese; i terzi sono assunti a ora, senza ferie, malattia, maternità, liquidazione, niente; e licenziabili non dall’oggi al domani ma proprio dal mattino al pomeriggio.

Questi ultimi non sono dei nuovi assunti, peraltro, ma dei retrocessi: prima erano interinali. Finito l’ultimo contratto, sono passati a voucher. Sara mostra l’ultima busta paga della Manpower, l’agenzia attraverso la quale veniva di solito collocata nel supermercato: in una settimana di giugno, ad esempio, ha lavorato 18 ore. Stipendio: 199 euro netti, più Tfr, contributi, malattia e infortuni. Per lavorare le stesse ore, in voucher, ne prenderà 135: cioè 64 in meno. Il 2 giugno scorso era festa e Sara è stata pagata un po’ di più: otto ore, 125 euro. Se alla prossima festa della repubblica sarà ancora lì, ne prenderà 60.
VEDI ANCHE:
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Un miliardo di stipendi coi voucher: i buoni lavoro sono diventati più mini job per tutti

Dall’edilizia al turismo, dal commercio ai convegni. Doveva essere solo un modo per far emergere il nero: invece è diventata una forma di impiego diffusa in tutti i settori

Sara naturalmente non è l’unica. Altri lavoratori dell’ipermercato stanno passando dall’interinale al voucher . «Ci hanno convocato ai
primi di luglio, in una ventina, tutti interinali», racconta la cassiera: «Ci hanno spiegato che eravamo a scadenza e ci hanno offerto quindi di allungare la nostra permanenza grazie ai buoni. Abbiamo accettato in pochi. Per alcuni non conviene nemmeno dire sì, dovendo arrivare da lontano con la macchina. Io per ora provo».

Già: Sara era “a scadenza” perché vicina al limite dei 200 contratti attivati attraverso l’agenzia sullo stesso luogo di lavoro Essendo “richiesta” spesso di giorno in giorno (e ogni richiesta vale un contratto), ha fatto presto ad accumularne 200. E quando non è di turno al Carrefour? «Faccio i mestieri a casa di alcune signore della zona», risponde. E anche lì è pagata a voucher, che in fondo sono stati inventati proprio per questo? Macché: «In nero. I voucher non li avevo mai sentiti nominare prima che me ne parlassero al Carrefour».

INCUBO IN ALBERGO

Se i mestieri casalinghi sono in nero, quelli nei grandi alberghi non luccicano. Almeno non sempre. Perché l’altra frontiera del precariato estivo sta proprio lì: in stanza. Nei grandi alberghi della riviera romagnola, vista mare. Donne delle pulizie pagate per ogni camera rifatta. Due euro a stanza. Stagionali che hanno contratti di trenta ore la settimana, ma che di ore ne fanno più di dodici al giorno. In alcuni casi anche sedici. Senza turno di riposo. E a fine mese prendono 1.200 euro, di cui metà - appunto - in nero.

Le testimonianze sono così tante che risulta difficile non pensare ormai a una prassi consolidata. Di episodi da raccontare ne ha diversi Minodora Puni, 46enne rumena, che dal 2012 ha rifatto centinaia di stanze negli hotel tra Rimini e Riccione. «La prima volta che ho cominciato a lavorare in Italia sono stata assunta tramite un’agenzia internazionale direttamente in Romania. Circa 700 euro al mese, quindici ore al giorno per trenta giorni. Mi avrebbero dovuta pagare in valuta rumena». Usa il condizionale perché non ha ricevuto nemmeno quei 700 euro. Lasciata l’agenzia, ha lavorato per una cooperativa (italiana).

Non è andata meglio, nonostante avesse prestato servizio in un albergo a quattro stelle a Marina centro, il cuore turistico di Rimini. «Mi è stato affidato un piano, diciassette camere in tutto. Dovevo rifarne tre all’ora per avere i sei euro e cinquanta. Assunta con un contratto a chiamata, da marzo a novembre. Sette ore al giorno per un totale massimo di ottocento al mese. Per riuscire a fare in tempo spesso tornavo a casa con il panino che mi ero portata dietro per il pranzo».
VEDI ANCHE:
vaucher1-jpg
Operai, postini, professori, camerieri: i nuovi schiavi lavorano a voucher

Eliminati i co.co.co., oggi il precariato passa attraverso i “buoni” a sette euro e mezzo l’ora. Che ormai dilagano, creando una nuova classe sociale. Le storie di chi sbarca il lunario in questo modo
Eppure quelle camere che puliva per due ore arrivavano a costare trecento euro a notte. Ha pensato quindi di lasciare e affidarsi alla gestione familiare di un piccolo albergo, trenta camere in tutto. Un altro inferno: «Lavoravo mediamente dodici ore al giorno, facevo sia le camere sia la cucina. Ed eravamo costretti a mangiare gli avanzi dei clienti perché per il personale non hanno mai cucinato nulla». Conclude Minodora: «Tutti lavorano praticamente in queste condizioni, chi rifiuta sta a casa. Non sono casi eccezionali, è la normalità. Si accetta perché non si ha scelta».

ONLUS CON LA GABELLA


L’estate pesa anche su Alessandro. Durante l’anno scolastico è un docente precario di 30 anni. Da giugno si trasforma in animatore di un centro estivo. Qui migliaia di minorenni vengono seguiti dalle 8 del mattino alle 6 del pomeriggio, un sostituto del tempo pieno della scuola per chi non può seguire i propri figli. Fino a dieci anni fa la gestione passava attraverso i bandi comunali. Non c’era però una formula univoca: alcuni facevano pagare alle famiglie oppure il municipio copriva la maggior parte del costo.

Fino all’arrivo della spending review: quando quasi tutti gli enti locali hanno virato verso l’affido diretto dei centri estivi. Così Alessandro adesso ha per datori di lavoro delle onlus, società sportive o parrocchie, che incassano contributi pubblici ma pagano i propri collaboratori poco, incassando la gabella. E in nero: «Prendo 700 euro al mese», racconta Alessandro: «Totalmente in nero, anche se lavoriamo fino a dieci ore al giorno con la responsabilità di decine bambini, che spesso accompagniamo anche in piscina o in gita».

FATTORINI NO-STOP

Mario ha cinquant’anni, è italiano e macina decine di chilometri: fino a sessanta a notte, da una parte all’altra di Roma. «Mi è capitato di non avere abbastanza soldi e andare in giro lo stesso senza assicurazione», confessa. Mario è uno di quelle migliaia di spedizionieri-lampo richiesti dal boom di startup nel settore della ristorazione. Pizza, sushi, panini e cocktail a domicilio.

L’innovazione è nel servizio: basta un clic per completare la richiesta. Ma sul lavoro i rischi di chi attraversa la città per portare i piatti sono rimasti gli stessi. Mario prende le pizze e le porta all’indirizzo segnato. A cottimo: più viaggia, più incassa. Il suo incubo sono le buche. E dopo le tre di notte c’è da tenere a bada il sonno. Perché di giorno Mario ha un altro lavoro - sempre in nero, sempre saltuario, sempre a cottimo. Quando è fortunato e riesce a fare il bis, incassa 80 euro. Per un giorno intero, no-stop.

LA BEFFA DEL CAPITALE UMANO

Z. C. era anche lui uno stacanovista del volante. Ma impegnato in viaggi più lunghi. Troppo lunghi. Autista originario della Bulgaria per una grossa società di trasporti e logistica con depositi dall’Abruzzo alla Lombardia, consegnava materie prime per gelaterie, pizzerie e ristoranti. Con carico e scarico compreso nel viaggio, la parte più faticosa. Un giorno, mentre è impegnato in una consegna, si accascia in cabina. Infarto fulminante. A soli 45 anni muore.

La famiglia si rivolge a un legale e viene ricostruito il suo mestiere da incubo: per il primo anno di lavoro vengono registrate 865 ore di straordinario “ufficiale” in busta paga. E poi per gli anni successivi si oscilla da un minimo di 255 ore ad un picco di 868, il che significa 72 giornate di extra-lavoro all’anno. In soli otto anni di super-lavoro si arriva a quota 4.148 ore. Mentre l’Inps fissa a 48 l

http://espresso.repubblica.it/inchieste ... =HEF_RULLO
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LAVORO & PRECARI

Vertenza Ericsson, questa sconosciuta. Ma il governo è miope

di Viviana Correddu | 3 agosto 2016
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Viviana Correddu
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I fatti: il 16 maggio scorso, la multinazionale svedese Ericsson Telecomunicazioni indica, sul piano industriale, la necessità di adeguamento degli organici. 385 esuberi sul territorio nazionale, cifre che purtroppo si aggiungono a quelle degli anni precedenti per un totale di 13 procedure di licenziamento collettivo dal 2007 ad oggi. I siti maggiormente interessati sono quelli di Roma, Genova, Napoli, Milano e Pisa, ma la lotta più dura sembra essere quella genovese (nove scioperi a fronte di un solo sciopero romano). Ma andiamo oltre.

Il problema non è “solo” occupazionale. I lavoratori lo stanno ripetendo da mesi fino allo sfinimento, eppure in pochi sembrano interessati ad ascoltarli.


Ho parlato con un lavoratore in questi giorni. Progettista di software, appassionato del lavoro per il quale ha studiato e continua a studiare affinché il suo livello di competenze sia sempre in corsa. “Il concetto che sembra non passare è che se uno come me sta fermo anche solo sei mesi o un anno è fuori dai giochi – spiega – È come se dal punto di vista delle competenze ne perdessi dieci”.

A lui preme far sapere che sta lottando con dignità per continuare a fare il suo lavoro, ma non solo: “Perché se la gente non sa cosa fa nella pratica un colosso come Ericsson e cosa potenzialmente è in grado di sviluppare nel nostro Paese, non può rendersi conto di quanto possa incidere sulla competitività nazionale il fatto di continuare a perdere risorse umane nel settore strategico delle telecomunicazioni”.

E vuole assolutamente trovare un modo semplice per spiegarlo: “Hai presente i binari dei treni, la rete ferroviaria, con tutti i mezzi di smaltimento automatico, controllo automatico, ecc? Ecco, immagina che la gestione dei binari, sia l’azione sotterranea che Ericsson fa nell’ambito delle telecomunicazioni. E che se Ericsson è colei che gestisce i binari, la segnalazione, il ritmo degli scambi e delle coincidenze, Telecom, Vodafone e gli altri sono quelli che utilizzano Ericsson per dare servizi”.

Ericsson permette ai gestori di metterci il treno sotto il sedere per poter andare dove vogliamo, o, meglio ancora, permette ai dati, di viaggiare su quel treno in lungo e in largo a una velocità inconcepibile per chi non è del settore.

“Se un sito strategico come quello di Genova dovesse chiudere, di certo non si interromperebbero tutte le telecomunicazioni del mondo! Ma quelle telecomunicazioni potrebbero viaggiare su infrastrutture create in altri paesi”.

Siamo al punto nodale. Ecco perché non è “solo” una questione di occupazione, e non è “soltanto” una questione locale o provinciale, ma nazionale: “Il problema è che, in questa situazione, l’Italia non rischia di perdere soltanto Ericsson ma anche e soprattutto le competenze di un settore strategico”.

Nel frattempo… il 28 luglio è scaduta la prima fase utile di accordo tra le parti per scongiurare i licenziamenti, e mentre il governo latita, Ericsson investe in Spagna per la gestione della fibra ottica.

Nel frattempo… il 6 luglio il governo prende parte sorridente all’evento Ericsson “Giovani innovazione crescita” mostrandosi disponibile nei confronti di una multinazionale che nell’ultimo decennio ha proposto licenziamenti collettivi per circa 2000 unità, e che sta per trasferire all’estero l’importante area della ricerca e sviluppo.

Nel frattempo… il 29 luglio, Stefano Quaranta (parlamentare genovese di Sel) chiede chiarimenti al governo in merito alla vertenza e ai finanziamenti pubblici erogati negli anni a Ericsson; Ivan Scalfarotto, sottosegretario di Stato per lo sviluppo economico, risponderà all’interpellanza come fosse un notaio annoiato, e ciò che viene accertata è che per i finanziamenti pubblici a Ericsson, non erano previsti vincoli a tutela dell’occupazione.

Nel frattempo… ai lavoratori restano ancora 30 giorni scarsi per capire se scatteranno le lettere di licenziamento, e proprio oggi a Roma è previsto un incontro tra le parti, convocate dal ministero del Lavoro e purtroppo non da quello dello Sviluppo economico. Ciò che al momento è certo, è che il governo è miope, e che di tutta questa storia si sa troppo poco. Tutto troppo circoscritto agli organi di informazione locali delle aree interessate.

È una denuncia la mia, ma anche un appello, perché non può esserci ancora un silenzio così assordante sulla vertenza Ericsson e sul comportamento dell’ennesima multinazionale che prima attinge alle risorse del territorio per poi avviare un processo evidente di delocalizzazione, senza pagare dazio.

di Viviana Correddu | 3 agosto 2016
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Re: IL LAVORO

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JOBS ACT
I furbetti del sussidio di disoccupazione
Dopo mesi di ritardo, il governo vuol far decollare la riforma dei sussidi. Che saranno tolti a chi non accetta un posto. Ma non sarà facile. Perché il sistema attuale fa la fortuna di chi usa i soliti trucchetti
DI STEFANO VERGINE
12 agosto 2016



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I furbetti del sussidio di disoccupazione
Cosa deve fare un cittadino tedesco per ricevere il sussidio di disoccupazione? Innanzitutto iscriversi alla Bundesagentur für Arbeit, l’agenzia federale per il lavoro. Poi presentarsi ai colloqui, frequentare i corsi che gli vengono proposti e accettare eventuali offerte di lavoro. Se per qualche motivo non fa una di queste cose, il sussidio gli viene ridotto e infine cancellato. Come funziona in Italia? Semplice: il disoccupato deve solo iscriversi a quella che un tempo si chiamava lista di collocamento. Per intascare il sussidio, che oggi vale anche per i lavoratori precari grazie alla riforma dell’ex ministro Elsa Fornero, non è necessario presentarsi agli incontri, frequentare corsi, mandare in giro il curriculum né accettare eventuali offerte di impiego.

La Germania è uno dei Paesi europei più simili all’Italia in termini economici. Forte industria manifatturiera, esportazioni predominanti, differenze regionali marcate. Il confronto, però, potrebbe essere allargato a quasi tutte le nazioni del Vecchio Continente, perché l’Italia è una delle pochissime a non vincolare di fatto la concessione del sussidio all’attivismo del disoccupato. Di fatto, dicevamo, visto che in teoria il vincolo c’è. Lo prevedeva la Legge Fornero e lo stabilisce a condizioni attenuate anche il Jobs Act. Solo che, nella pratica, quasi tutti se ne infischiano. Il risultato è che in Germania il disoccupato non può usare due trucchi molto amati nel Belpaese. Uno è quello di prendere il sussidio e andare a lavorare all’estero, con il vantaggio di incassare una paga doppia. L’altro prevede di intascarsi l’assegno e faticare in nero, anche qui raddoppiando l’incasso. I tecnici traducono così l’abisso: Roma finora ha puntato sulle politiche passive, Berlino e tante altre nazioni hanno invece investito sulle quelle attive.
Disoccupazione, i dati in Europa

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Premessa. Se l’economia arranca, nessuno stratagemma può risollevare in modo determinante l’occupazione. Nonostante la recessione, tuttavia, qualcosa per migliorare la situazione si può fare. Lo dimostrano i casi dei nostri vicini. E lo impongono alcuni numeri. Il tasso di disoccupazione generale in Italia è all’11,6 per cento: si tratta di circa 3 milioni di cittadini, di cui oltre la metà senza impiego da oltre un anno. La percentuale dei disoccupati non comprende però tutte le persone senza lavoro. Non sono conteggiati, per esempio, coloro che per motivi vari non si iscrivono alle liste di collocamento. Il numerino da guardare è dunque quello degli occupati. E di questo non possiamo proprio andare fieri: è il 56,3 per cento della popolazione in età da lavoro, uno dei livelli più bassi d’Europa.

Creare occupazione è sempre stato il cruccio principale di Matteo Renzi. Non a caso una delle prime norme approvate è stata quella del Jobs Act, che ha reso meno vincolanti le nuove assunzioni (licenziamento senza giusta causa per i primi tre anni) concedendo incentivi economici alle imprese che aumentano il numero di dipendenti. La riforma, però, doveva essere molto più estesa rispetto a quella che conosciamo oggi. Dei vari punti elencati da Renzi sul suo sito personale l’8 gennaio del 2014, due mesi prima di diventare premier, al momento ne mancano soprattutto due. Uno riguarda l’elezione dei rappresentanti sindacali nei consigli d’amministrazione delle grandi imprese. L’altro è in corso d’opera. Si tratta dell’Anpal, acronimo di Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro: l’equivalente nostrano della tedesca Bundesagentur für Arbeit. Insomma, la struttura con cui il governo vorrebbe dare un taglio netto all’assistenzialismo di Stato.

Alcuni credono infatti che buona parte della disoccupazione italiana, oltre che dalla crisi, dipenda proprio dall’aver scelto di puntare sui sussidi a pioggia, senza chiedere nulla in cambio ai beneficiari. Lo sostengono ad esempio Romano Benini e Maurizio Sorcioni, due esperti della materia, nel libro appena pubblicato “Il fattore umano - Perché è il lavoro che fa l’economia e non il contrario” (Donzelli Editore). E lo suggerisce il grafico a pagina 50, che mette in relazione posti di lavoro vacanti e tasso di disoccupazione. A rigor di logica, se aumentano i disoccupati diminuiscono in modo inversamente proporzionale i posti di lavoro disponibili. Invece negli ultimi dieci anni in Italia non è andata sempre così. Motivo? Evidentemente non riusciamo a formare persone che abbiano le competenze richieste dal mercato.

Eppure, di soldi per aiutare i disoccupati finora ne sono stati spesi parecchi. Secondo gli ultimi dati di Eurostat, l’agenzia statistica dell’Unione europea, l’Italia investe nelle politiche del lavoro l’1,7 per cento del prodotto interno lordo. Più della Germania, che ha un mercato del lavoro in piena salute. Ma la stragrande maggioranza dei fondi ci serve per pagare sussidi di inattività, che sono ovviamente schizzati verso l’alto durante la crisi, mentre solo una minima fetta viene usata per reinserire i disoccupati nel mercato. Traduzione numerica: nel 2014, ultimo anno per cui sono disponibili i confronti internazionali, abbiamo speso 5,5 miliardi in politiche attive e 24 miliardi tra sussidi e aiuti per i prepensionamenti.


Esempio tedesco

Va detto, per essere precisi, che non tutti i senza lavoro sono uguali. Ci sono ad esempio gli stagionali del turismo, dell’agricoltura o gli insegnanti precari: qualche milione di persone che ogni anno resta a casa per un periodo predefinito, una manciata di mesi al massimo, riscuotendo l’assegno dall’Inps. Per loro, che una professione ce l’hanno anche se magari non riconosciuta come vorrebbero, la riqualificazione non avrebbe senso, visto che tornano puntualmente a sgobbare sui banchi di scuola o sulle spiagge. Casi specifici a parte, però, il problema è che gli investimenti italiani nelle politiche attive sono bassissimi rispetto ai nostri vicini europei. E sono addirittura diminuiti durante la crisi: dal 2007 al 2011 la spesa per aiutare i disoccupati a ritrovare un lavoro è calata del 15,2 per cento, mentre Paesi come Francia, Germania e Regno Unito la incrementavano.

Ora il governo Renzi dice di essere intenzionato a invertire la rotta. Il sistema delle politiche attive, per quello che prevede la parte del Jobs Act rimasta finora inattuata, si basa su due principi che potrebbero presto diventare realtà. Il primo è la condizionalità. Significa che il disoccupato deve presentarsi ai colloqui con gli impiegati del centro per l’impiego, frequentare corsi di formazione e accettare lavori coerenti con il proprio profilo professionale. Altrimenti, il sussidio gli viene ridotto gradualmente fino alla cancellazione. Il secondo principio è quello della remunerazione a risultato: riguarda le strutture che già oggi offrono, o dovrebbero offrire, un aiuto ai disoccupati. Si tratta dei centri per l’impiego (pubblici) e delle agenzie per il lavoro (private). L’Anpal prevede di metterle in competizione fra loro, premiando con i fondi pubblici europei solo quelle che riusciranno davvero a rimettere sul mercato i disoccupati. Insomma, concorrenza e meritocrazia.

Già oggi, in realtà, in Italia c’è chi segue questi principi. Solo che nessuno li mette in pratica entrambi contemporaneamente. La Provincia autonoma di Trento è l’unica a vincolare l’erogazione del sussidio all’attivismo del disoccupato, la cosiddetta condizionalità (vedi articolo a pagina 47). Alcune Regioni hanno invece creato dei sistemi basati sul principio della remunerazione a risultato, in cui circa l’80 per cento dei fondi comunitari viene incassato solo quando il disoccupato trova lavoro. «Lo ha fatto per prima la Lombardia e da qualche tempo anche il Lazio», spiega Stefano Zanaboni, titolare di We, una piccola società privata del settore. Zanaboni opera solo nel Lazio e dice che delle 160 persone prese in carico dalla sua agenzia da inizio anno è riuscito a rimetterne al lavoro 39, di cui la maggioranza con contratti a tempo indeterminato.

Uno di loro è Paolo Nappi, 58 anni, romano, che fino al 2014 aggiustava fotocopiatrici per una filiale della Canon. «Appena ho perso il lavoro», racconta, «ho iniziato a cercarne un altro: stavo ogni giorno 5-6 ore a inviare domande ma per un anno e mezzo niente da fare. Poi, a gennaio del 2016, ho iniziato il percorso con l’agenzia We. Mi hanno aiutato a migliorare il curriculum, dato consigli per fare bella figura ai colloqui, hanno chiamato le aziende a cui mi proponevo spiegando quali agevolazioni fiscali avrebbero avuto prendendomi». A inizio estate Nappi è stato assunto a tempo indeterminato, sempre con la mansione di tecnico delle fotocopiatrici. «Con l’agenzia non ho speso un euro e ho ricevuto un importante aiuto per tornare sul mercato», assicura. Un successo anche per la We, che si è garantita il contributo pubblico. Cifra variabile a seconda del tipo di candidato, ma che in genere va da un minimo di 800 euro per i casi più facili a un massimo di 4.000 euro per i più complicati. «Il problema è che ogni Regione decide se, come e quando dare questi soldi. Per questo in tante zone non operiamo, mentre ci siamo concentrati soprattutto nelle aree dove le cose funzionano meglio», dice Fabio Costantini, responsabile delle politiche attive per Ranstad, la multinazionale olandese nota soprattutto per le agenzie interinali.


Il presidente c’è, gli addetti no

Il fatto che ogni Regione faccia di testa sua ha un motivo preciso. Il titolo V della Costituzione attualmente prevede infatti che la legislazione sulle politiche attive sia di competenza, oltre che dello Stato, anche delle Regioni. E così ci sono quelle che applicano il principio della remunerazione a risultato e quelle che si rifiutano. Colpisce poi il fatto che nessuno, a parte la provincia di Trento, vincoli il pagamento del sussidio all’attivazione del disoccupato. Già, perché in teoria dovrebbe essere così dappertutto: se il dipendente del centro per l’impiego si accorge che il disoccupato non si dà da fare, dovrebbe revocargli il sussidio. Invece non succede. Il motivo lo spiega ancora Benini, che dirige il master in Management delle politiche per il lavoro alla Link University di Roma e lavora come consulente per diverse Regioni: «L’impiegato del centro per l’impiego non si prende la responsabilità di togliere il sussidio a un suo concittadino, magari a uno che conosce da una vita. Anche perché, non esistendo ancora un sistema informatico che gli consenta di avere sott’occhio tutte le offerte di lavoro disponibili, lo stesso impiegato non è in grado di far bene il suo mestiere, cioè di trovare una nuova occupazione all’utente. Se a questo aggiungiamo il fatto che in Italia abbiamo un operatore ogni 220 disoccupati, mentre in Europa la media è di 1 su 90, ci rendiamo facilmente conto del perché le politiche attive finora non sono decollate».
VEDI ANCHE:
Maurizio Del Conte
Se Crotone non parla con Lamezia

Colloquio con Maurizio Del Conte, presidente dell'Agenzia Nazionale per le politiche attive del lavoro. Che dovrà uniformare un sistema di centri per l’impiego frammentato, dove uno sportello non è in grado di comunicare con quello della provincia confinante

Riuscirà dunque l’Anpal a risolvere tutti questi problemi? L’Agenzia guidata da Maurizio Del Conte ufficialmente è attiva dallo scorso 22 giugno. Ufficialmente, visto che in realtà è ancora tutto fermo. Il primo consiglio d’amministrazione si è riunito a metà luglio, ma i dipendenti che dovranno lavorarci devono ancora essere individuati. «Speriamo che, dopo quasi un anno di attesa, l’Anpal parta davvero», è l’auspicio di Rosario Rasizza, amministratore delegato di Openjobmetis, uno dei gruppi privati che punta ad aumentare il proprio ruolo nel business dei disoccupati. In attesa che si sbrogli la matassa burocratica, resta però un punto interrogativo. Come può esistere un unico modello delle politiche attive del lavoro se ogni Regione può fare a modo suo? La riforma costituzionale porterebbe sotto il controllo unico dello Stato le politiche attive. Ma c’è l’incognita del referendum. Anche per questo la rivoluzione promessa dal Jobs Act rischia di rimanere incompiuta. Staccando ancor di più l’Italia dal resto d’Europa.

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Re: IL LAVORO

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ESTATE 2016
Flixbus: molti passeggeri. Zero autisti
La società che offre trasporto low cost fra le città del paese è solo un portale. Non un operatore. E i dipendenti, come i bus, non sono suoi, ma di 49 partner italiani. Mentre dal 16 agosto i 115 conducenti della concorrente Megabus, appena acquisita, sono stati lasciati a casa. Ecco com'è il successo. Visto dal posto di guida
DI FRANCESCA SIRONI
19 agosto 2016


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Napoli – Siena: da 19 euro in su. Roma - Verona lo stesso.

Milano - Parigi, che è una novità, parte da soli 9 euro a tratta.

Il successo di “Flixbus” invade i caselli d'Italia.

Sulle strade d'agosto centinaia di autobus verdi scorrazzano elefantiaci e felici migliaia di «clienti soddisfatti nel 97 per cento dei casi», come dice la pubblicità: studenti e famiglie, turisti ed emigrati, ogni giorno gaiamente trasportati per decine di ore grazie al boom del trasporto low cost sull'asfalto.


Ma gli stessi giorni di sole sono stati molto meno felici per chi quei bus li avrebbe voluti guidare.

Dal 16 agosto infatti hanno smesso di lavorare i 115 autisti di Megabus, società che già un anno fa portava festanti milanesi a Bari e viceversa per solo un euro o poco più.

Dopo un anno di viaggi a prezzi stracciati, la compagnia ha chiuso le tre sedi italiane e ceduto le sue attività alla concorrente.

Lasciando a casa tutti i suoi giovani autisti, assunti con contratto nazionale e promesse di crescita.
Flixbus infatti si è presa lo spazio me non le persone.

Anche perché Flixbus qui di autisti proprio non ne ha.


La new economy dei torpedoni verde smeraldo ha adottato infatti in Italia una strategia a impatto zero.

A impatto zero, o quasi, per la casa madre.

Ovvero: su Flixbus i clienti prenotano, pagano i biglietti, è Flixbus a fare pubblicità e brillare con i propri loghi sulle carrozzerie.

Ma gli autobus, concretamente, non sono mai loro.

Sono di «49 “partner” commerciali», come spiegano dalla società, ovvero 49 piccole e medie aziende di noleggio e trasporto che lavorano per conto della start up. Sono questi “partner” a comprare i mezzi.

A pagare la benzina.

E soprattutto a stipendiare gli autisti.

«Abbiamo iniziato a metà maggio.

Ho pensato: è meglio averli come partner che come concorrenti, visto che molte loro tratte si sovrappongono alle nostre.

E loro sono, bisogna ammetterlo, delle potenze del marketing», racconta ad esempio Michele Caputo, amministratore delegato della “Caputo Bus”, che per conto di “Flixi” trasporta villeggianti fra Roma e Napoli oppure Salerno e Potenza.

«Come numero di passeggeri non ci possiamo lamentare», dice, già più titubante invece sul ritorno economico, almeno per ora, perché i prezzi dei biglietti li decide la capofila e «il rischio di impresa oggettivamente è stato più nostro, ad oggi: ho comprato quattro mezzi nuovi di zecca per dare il servizio».


Per le tratte “verdi”, il signor Caputo ha assegnato sette dei suoi 40 autisti, tutti assunti da anni a tempo indeterminato («perché siano più tranquilli»).

Lorenzo Troiani, invece, patron della Autolinee Troiani, 100 mezzi, 225 dipendenti, volto concreto di Flixbus su quattro linee che attraversano città come Roma, Firenze, Bologna, Novara, ha delegato diciotto autisti.

«Tutti pagati con lo stipendio che avevano prima, un lordo mensile medio di 2.180 euro.

E abbiamo comprato otto autobus nuovi», racconta.

Anche Troiani si dice soddisfatto.

Ma come Caputo (altri che abbiamo provato a contattare preferiscono non parlarne) non offre dettagli sui guadagni reali a riguardo.

Altri operatori nel frattempo preparano barricate: «L'arrivo di Flixbus sta destabilizzando un mercato che non è in crescita.

Generando scompiglio.

Molti colleghi mi stanno chiedendo di uscire allo scoperto a settembre.

Così non può andare avanti».

Giuseppe Vinella, amministratore della “Sita Sud Srl” e attuale presidente dell'associazione nazionale autotrasporto viaggiatori, Anav, risponde concitato.

«Parlo da imprenditore, adesso, non da presidente: i miracoli non li può fare nessuno.

I prezzi stracciati hanno un costo.

Per gli autisti e gli agenti.

In questo caso, Flixbus non è che una software house.

Che ingaggia ex noleggiatori o medie e piccole imprese per trasportare passeggeri.

È un portale. Non un operatore». Per questo dice, avvieranno dei ricorsi.

Ma da “Flixi” rispondono che è tutto in regola: le autorizzazioni del ministero dei Trasporti sono state date alla capofila in associazione con le aziende.

E le richieste di sicurezza vengono fatte rispettare sempre.

Sul fronte del lavoro resta però scoperto il nodo d'agosto del licenziamento ormai definitivo per i 115 autisti della sussunta Megabus.

«Il 25 maggio abbiamo visto il ministro del lavoro Giuliano Poletti festeggiare l'arrivo di Flixbus con la promessa di 220 assunzioni», ricorda Antonio Piras, segretario generale del sindacato dei trasporti della Cisl, riferendosi all'annuncio del ministro del Jobs Act che brindava all'accordo con la compagnia per l'inserimento di giovani e neet, inviato a tutte le agenzie di stampa nazionali: «Un mese dopo sono stati mandati a casa i dipendenti della concorrente, cancellata dal mercato...».

«Poletti disse “il virtuale incontra il reale”.

Ma dopo un anno in regola sono finiti in mobilità per sei mesi gli oltre cento autisti della Megabus.

È questo il reale?», rincara Domenico D'Ercole della Cgil: «Almeno Flixbus ha aperto sul suo portale una pagina dedicata per convincere i “partner” ad assumere alcuni di loro».

Il massimo.

Per i licenziati d'estate.

Mentra la compagnia festeggia un ferragosto di grandi numeri fra i propri passeggeri low cost.
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Re: IL LAVORO

Messaggio da camillobenso »

31 AGO 2016 12:05
IL "JOBS ACT" FUNZIONA, MA AL CONTRARIO! ISTAT: "63MILA OCCUPATI IN MENO A LUGLIO, È IL PRIMO CALO DA QUATTRO MESI"

- LA DISOCCUPAZIONE GIOVANILE SCHIZZA AL 39,2%

- AUMENTANO I POSTI DI LAVORO PER GLI OVER 50




Da Huffingtonpost

A luglio gli occupati tornano a calare dello 0,3% rispetto al mese di giugno (-63 mila), interrompendo la tendenza positiva registrata nei quattro mesi precedenti.

Lo rileva l'Istat sottolineando che, rispetto allo stesso mese del 2015, ci sono 266 mila occupati in più (+1,2%). Il calo su base mensile è attribuibile sia agli uomini sia in misura maggiore alle donne e riguarda gli autonomi (-68 mila), mentre restano sostanzialmente invariati i dipendenti.
sarta al lavoro
SARTA AL LAVORO

Il tasso di disoccupazione scende all'11,4% a luglio, in calo di 0,1 punti percentuali su giugno: torna così al livello di maggio. I disoccupati (2,9 milioni) diminuiscono dell'1,3% rispetto a giugno (-39 mila). Il calo interessa sia gli uomini (-1,4%) sia le donne (-1,2%) e tutte le classi di età eccetto i 15-24enni (+23 mila) e i 25-34enni (+38 mila). A questa riduzione contribuisce anche l'aumento degli inattivi (+53 mila).


Sul fronte dei giovani, il tasso di disoccupazione dei 15-24enni, cioè la quota di giovani disoccupati sul totale di quelli attivi, è pari al 39,2%, in aumento di due punti percentuali rispetto al mese precedente. Dal calcolo del tasso di disoccupazione sono esclusi i giovani inattivi, cioè coloro che non sono occupati e non cercano lavoro, nella maggior parte dei casi perché impegnati negli studi.

Buone notizie per quanto riguarda l'occupazione degli over 50: nella stima preliminare relativa al mese di luglio, l'Istituto nazionale di statistica certifica un aumento di 402mila occupati in un anno. L'aumento potrebbe essere legato al ritardo dell'età pensionabile.
camillobenso
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Re: IL LAVORO

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PINOCCHIO E IL LAVORO.




1 SET 2016 15:37
SCUSATE CI SIAMO SBAGLIATI!

- L’OCCUPAZIONE E PREZZI IN DISCESA, RETRIBUZIONI AL PALO, ECONOMIA IN FRENATA

- IL GOVERNO CAMBIA ROTTA: CANCELLATI GLI SCONTI FISCALI PER LE ASSUNZIONI, TORNA IL LAVORO "A COTTIMO": PIU' FATICHI, PIU' GUADAGNI




1) SCUSATE CI SIAMO SBAGLIATI !

VALENTINA CONTE e ROBERTO MANIA per “la Repubblica”

La decontribuzione non funziona più. Lo sconto per chi assume, ridotto ormai al 40% e limitato a due anni, è giunto al capolinea. I nuovi dati dell’Istat lo confermano.
Gli occupati a tempo indeterminato crescono dello 0,3% da maggio a luglio (su febbraio-aprile), quelli a termine dieci volte tanto (+3,1%). I lavoratori autonomi scendono (-68 mila in un mese). Le imprese che dovevano stabilizzare i precari lo hanno già fatto, sfruttando il bonus. E tutta l’operazione sgravi-assunzioni peserà sulle casse pubbliche per circa 17 miliardi nell’arco di sette anni complessivi, considerando quelli che i tecnici chiamano i trascinamenti.


Fine bonus
Le aziende ora sono alla finestra, in attesa di capire dove tira il vento dell’economia. Preferendo nel frattempo contratti a breve o a brevissimo (vedi il boom inarrestabile dei voucher). Ecco perché il governo è ormai pronto a fermare gli incentivi. Un cambio di strategia. «Che senso ha dare altro metadone di fronte agli ultimi dati sull’occupazione? », è la domanda ricorrente tra Palazzo Chigi e ministero dell’Economia. Si pensava di proseguire nel décalage (sconti di anno in anno ridotti), ma la realtà si sta imponendo. E chiama un ripensamento.


Così il governo punta su un’altra carta: quella della produttività, ferma da oltre un ventennio, la grande malattia del nostro sistema. Strategia in due tempi. Prima, nella prossima legge di bilancio, agendo sulla leva fiscale, ampliando la detassazione sui premi aziendali di risultato. Poi forzando sulla riforma della contrattazione, se sindacati e Confindustria non chiudono la trattativa. Un intervento previsto al massimo per gennaio, terminata in Parlamento la sessione di bilancio. Senza però toccare né il contratto nazionale né quello territoriale. Ma operando solo a livello aziendale, laddove le risorse pubbliche sarebbero quasi un miliardo l’anno.

Premi produttività
Priva di bonus e pure del taglio strutturale del costo del lavoro — promesso per il 2018 e al momento anche questo accantonato o meglio considerato non anticipabile — la politica economica del governo dunque sterza sul buco nero degli investimenti, tracollati di un quarto nella grande crisi. E nello stesso tempo decide di dare un segnale al ceto medio, diverso dagli 80 euro.


A Palazzo Chigi non girano cifre che ne certifichino il successo, ma lo sgravio sul premio di produttività reintrodotto quest’anno viene considerato una leva potente. E la decisione di rafforzarlo nel triennio 2017-19 — portando da 2.500 a 3.500 euro la soglia di reddito tassato al 10% e da 50 a 70 mila i redditi coinvolti, dunque anche una parte dei dirigenti — viene considerata una scelta tutta politica.

A un costo extra (da sommare al mezzo miliardo stanziato sin qui) accettabile: 137 milioni il primo anno, 309 nel secondo, 301 nel terzo. Ha funzionato, ne è convinto l’esecutivo, fino a produrre effetti anche sulle relazioni industriali a tutti i livelli, compreso il decentrato. Doppiamente utile.

Nuovo contratto

La contrattazione è materia delle parti sociali, ma fino a un certo punto. Perché c’è un miliardo di euro circa di denaro pubblico che serve a incentivare gli accordi aziendali. Dunque — è il ragionamento del governo — o le parti disegnano un nuovo modello contrattuale coerente con questa impostazione oppure sarà l’esecutivo a intervenire.


Certo, l’accordo di luglio tra sindacati e Confindustria per rendere detassabili i premi di produttività, fissati nelle piccole imprese senza un negoziato, va esattamente in questa direzione. L’obiettivo è quindi depotenziare nei fatti il contratto nazionale spostando i benefici sul contratto in azienda. Il vantaggio sarà sia per le imprese che per i lavoratori: le prime pagheranno meno tasse, i secondi avranno più soldi in busta paga.

Ma il governo non esclude di agire anche su altri due capitoli: rendere possibile la derogabilità del contratto nazionale (come già prevede la legge Sacconi del 2011), sperimentare forme di partecipazione dei lavoratori alla governance dell’impresa.

Sgravi per il Sud

Lo shock da stop al metadone del Jobs act non sarà comunque privo di scialuppe di salvataggio. Specie nelle aree di crisi. Il governo pensa a soluzioni ponte per i 30 mila lavoratori che rischiamo di restare senza ammortizzatori sociali: un mix tra politiche passive (sussidi) e attive (ricollocazione).

Ma anche a un piano tampone per il Sud, confermando lì solo gli sgravi legati alle assunzioni per le categorie deboli (giovani, donne, disabili) e finanziati con i fondi europei. Una soluzione molto cara ai sindacati (soprattutto Cisl e Uil) e pure a Confindustria. Ci sono 8,5 miliardi nei Poc, i piani operativi complementari: una sorta di tesoretto locale che custodisce i risparmi del cofinanziamento di Campania, Sicilia, Calabria, Puglia e Basilicata. Si può poi attingere anche al Fondo sviluppo e coesione (lì giacciono 40 miliardi, compresi gli interventi antisismici e per infrastrutture).

Il modello può essere il Patto per il Sud firmato dal premier Matteo Renzi e il governatore Vincenzo De Luca, laddove la Campania ha deciso già per quest’anno di coprire il 60% che manca agli sgravi contributivi (e arrivare così al 100%) con il suo Por, ovvero fondi europei.


2) MENO POSTI DI LAVORO. IL PREMIER: “ABBIAMO MIGLIORATO LA SITUAZIONE”

BARBARA ARDU’ per “la Repubblica”


Un’Italia ferma, in attesa, con le famiglie timorose di spendere e le imprese indecise sul da farsi. È questa la fotografia economica che scatta l’Istat alla ripresa di settembre. Fermo il livello generale dei prezzi, che per i primi sette mesi del 2016 si arresta sullo zero, anche se a luglio l’indice che misura la discesa, è andato un po’ meglio. Anche il mercato del lavoro, a parte alcuni aggiustamenti, rimane sostanzialmente immutato nella composizione.

I
Va bene per i dipendenti over 50, un po’ meno per le donne, va male, anzi malissimo per i giovani: ben due punti percentuali persi sul mese precedente. C’è un primo stop alla crescita degli occupati a luglio ( — 63mila), che dopo quattro mesi di segno positivo preoccupa. Salgono gli inattivi, quelli che hanno dato forfait e il lavoro non lo cercano più (+53 mila). Calano partite Iva e collaboratori. Di contro la disoccupazione va giù all’11,4%, dall’11,6% di giugno.

Fermi, certifica l’Istat, anche gli stipendi. L’indice che misura le retribuzioni orarie è lo stesso del mese precedente e sull’anno segna un più 0,6% (e non c’è da sorprendersi visto che oltre il 68% dei dipendenti aspetta, da mesi, il rinnovo contrattuale). Le retribuzioni ferme non sono una buona notizia. Spingono l’allarme deflazione, cioè il calo continuativo del livello generale dei prezzi, che nel caso italiano si accompagna alla discesa della domanda: spendono in pochi.


Ma se non aumentano i salari il livello generale dei prezzi ne risente, perché il salario è pur sempre un costo di produzione. Se è fermo, anche i costi aziendali sono fermi e così i prezzi. Un allarme che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco, aveva già lanciato a maggio.

Ma sono i dati sulla disoccupazione a scatenare la polemica politica, con le opposizioni che attaccano e il premier Matteo Renzi il quale difende l’operato del governo con trenta tabelle che celebrano i 30 mesi del suo governo, paragonando l’”oggi” a “ieri”.

E il capitolo occupazione è ampio: gli occupati, passati da 22,180 milioni a 22,765 milioni. La disoccupazione che dal 13,1% è scesa all’11,4%. Anche il confronto sul dato della disoccupazione dei giovani è significativo: era 43,6%, è calata al 39,2%.


Le slides di Renzi raccontano tutti gli interventi in ambito economico: crescita del Pil dell’1%, introduzione del bonus di 80 euro al mese, riduzione del canone Rai a 100 euro. Su tutte le pagine uno slogan: “Numeri non chiacchiere”.

Lapidario Renato Brunetta, presidente dei deputati di Forza Italia. «Trenta slide colorate per dire niente...un confronto non meglio definito fra ‘ieri’ e ‘oggi’ ». La tendenza a un miglioramento sul mercato del lavoro però sembra rimanere positiva. «La crescita occupazionale dall’inizio dell’anno c’è — ha detto Cesare Damiano, presidente della Commissione lavoro alla Camera — anche se è la qualità del lavoro a diminuire».
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Re: IL LAVORO

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PINOCCHIO E IL LAVORO.




1 SET 2016 15:37
SCUSATE CI SIAMO SBAGLIATI!

- L’OCCUPAZIONE E PREZZI IN DISCESA, RETRIBUZIONI AL PALO, ECONOMIA IN FRENATA

- IL GOVERNO CAMBIA ROTTA: CANCELLATI GLI SCONTI FISCALI PER LE ASSUNZIONI, TORNA IL LAVORO "A COTTIMO": PIU' FATICHI, PIU' GUADAGNI




1) SCUSATE CI SIAMO SBAGLIATI !

VALENTINA CONTE e ROBERTO MANIA per “la Repubblica”

La decontribuzione non funziona più. Lo sconto per chi assume, ridotto ormai al 40% e limitato a due anni, è giunto al capolinea. I nuovi dati dell’Istat lo confermano.
Gli occupati a tempo indeterminato crescono dello 0,3% da maggio a luglio (su febbraio-aprile), quelli a termine dieci volte tanto (+3,1%). I lavoratori autonomi scendono (-68 mila in un mese). Le imprese che dovevano stabilizzare i precari lo hanno già fatto, sfruttando il bonus. E tutta l’operazione sgravi-assunzioni peserà sulle casse pubbliche per circa 17 miliardi nell’arco di sette anni complessivi, considerando quelli che i tecnici chiamano i trascinamenti.


Fine bonus
Le aziende ora sono alla finestra, in attesa di capire dove tira il vento dell’economia. Preferendo nel frattempo contratti a breve o a brevissimo (vedi il boom inarrestabile dei voucher). Ecco perché il governo è ormai pronto a fermare gli incentivi. Un cambio di strategia. «Che senso ha dare altro metadone di fronte agli ultimi dati sull’occupazione? », è la domanda ricorrente tra Palazzo Chigi e ministero dell’Economia. Si pensava di proseguire nel décalage (sconti di anno in anno ridotti), ma la realtà si sta imponendo. E chiama un ripensamento.


Così il governo punta su un’altra carta: quella della produttività, ferma da oltre un ventennio, la grande malattia del nostro sistema. Strategia in due tempi. Prima, nella prossima legge di bilancio, agendo sulla leva fiscale, ampliando la detassazione sui premi aziendali di risultato. Poi forzando sulla riforma della contrattazione, se sindacati e Confindustria non chiudono la trattativa. Un intervento previsto al massimo per gennaio, terminata in Parlamento la sessione di bilancio. Senza però toccare né il contratto nazionale né quello territoriale. Ma operando solo a livello aziendale, laddove le risorse pubbliche sarebbero quasi un miliardo l’anno.

Premi produttività
Priva di bonus e pure del taglio strutturale del costo del lavoro — promesso per il 2018 e al momento anche questo accantonato o meglio considerato non anticipabile — la politica economica del governo dunque sterza sul buco nero degli investimenti, tracollati di un quarto nella grande crisi. E nello stesso tempo decide di dare un segnale al ceto medio, diverso dagli 80 euro.


A Palazzo Chigi non girano cifre che ne certifichino il successo, ma lo sgravio sul premio di produttività reintrodotto quest’anno viene considerato una leva potente. E la decisione di rafforzarlo nel triennio 2017-19 — portando da 2.500 a 3.500 euro la soglia di reddito tassato al 10% e da 50 a 70 mila i redditi coinvolti, dunque anche una parte dei dirigenti — viene considerata una scelta tutta politica.

A un costo extra (da sommare al mezzo miliardo stanziato sin qui) accettabile: 137 milioni il primo anno, 309 nel secondo, 301 nel terzo. Ha funzionato, ne è convinto l’esecutivo, fino a produrre effetti anche sulle relazioni industriali a tutti i livelli, compreso il decentrato. Doppiamente utile.

Nuovo contratto

La contrattazione è materia delle parti sociali, ma fino a un certo punto. Perché c’è un miliardo di euro circa di denaro pubblico che serve a incentivare gli accordi aziendali. Dunque — è il ragionamento del governo — o le parti disegnano un nuovo modello contrattuale coerente con questa impostazione oppure sarà l’esecutivo a intervenire.


Certo, l’accordo di luglio tra sindacati e Confindustria per rendere detassabili i premi di produttività, fissati nelle piccole imprese senza un negoziato, va esattamente in questa direzione. L’obiettivo è quindi depotenziare nei fatti il contratto nazionale spostando i benefici sul contratto in azienda. Il vantaggio sarà sia per le imprese che per i lavoratori: le prime pagheranno meno tasse, i secondi avranno più soldi in busta paga.

Ma il governo non esclude di agire anche su altri due capitoli: rendere possibile la derogabilità del contratto nazionale (come già prevede la legge Sacconi del 2011), sperimentare forme di partecipazione dei lavoratori alla governance dell’impresa.

Sgravi per il Sud

Lo shock da stop al metadone del Jobs act non sarà comunque privo di scialuppe di salvataggio. Specie nelle aree di crisi. Il governo pensa a soluzioni ponte per i 30 mila lavoratori che rischiamo di restare senza ammortizzatori sociali: un mix tra politiche passive (sussidi) e attive (ricollocazione).

Ma anche a un piano tampone per il Sud, confermando lì solo gli sgravi legati alle assunzioni per le categorie deboli (giovani, donne, disabili) e finanziati con i fondi europei. Una soluzione molto cara ai sindacati (soprattutto Cisl e Uil) e pure a Confindustria. Ci sono 8,5 miliardi nei Poc, i piani operativi complementari: una sorta di tesoretto locale che custodisce i risparmi del cofinanziamento di Campania, Sicilia, Calabria, Puglia e Basilicata. Si può poi attingere anche al Fondo sviluppo e coesione (lì giacciono 40 miliardi, compresi gli interventi antisismici e per infrastrutture).

Il modello può essere il Patto per il Sud firmato dal premier Matteo Renzi e il governatore Vincenzo De Luca, laddove la Campania ha deciso già per quest’anno di coprire il 60% che manca agli sgravi contributivi (e arrivare così al 100%) con il suo Por, ovvero fondi europei.


2) MENO POSTI DI LAVORO. IL PREMIER: “ABBIAMO MIGLIORATO LA SITUAZIONE”

BARBARA ARDU’ per “la Repubblica”


Un’Italia ferma, in attesa, con le famiglie timorose di spendere e le imprese indecise sul da farsi. È questa la fotografia economica che scatta l’Istat alla ripresa di settembre. Fermo il livello generale dei prezzi, che per i primi sette mesi del 2016 si arresta sullo zero, anche se a luglio l’indice che misura la discesa, è andato un po’ meglio. Anche il mercato del lavoro, a parte alcuni aggiustamenti, rimane sostanzialmente immutato nella composizione.

I
Va bene per i dipendenti over 50, un po’ meno per le donne, va male, anzi malissimo per i giovani: ben due punti percentuali persi sul mese precedente. C’è un primo stop alla crescita degli occupati a luglio ( — 63mila), che dopo quattro mesi di segno positivo preoccupa. Salgono gli inattivi, quelli che hanno dato forfait e il lavoro non lo cercano più (+53 mila). Calano partite Iva e collaboratori. Di contro la disoccupazione va giù all’11,4%, dall’11,6% di giugno.

Fermi, certifica l’Istat, anche gli stipendi. L’indice che misura le retribuzioni orarie è lo stesso del mese precedente e sull’anno segna un più 0,6% (e non c’è da sorprendersi visto che oltre il 68% dei dipendenti aspetta, da mesi, il rinnovo contrattuale). Le retribuzioni ferme non sono una buona notizia. Spingono l’allarme deflazione, cioè il calo continuativo del livello generale dei prezzi, che nel caso italiano si accompagna alla discesa della domanda: spendono in pochi.


Ma se non aumentano i salari il livello generale dei prezzi ne risente, perché il salario è pur sempre un costo di produzione. Se è fermo, anche i costi aziendali sono fermi e così i prezzi. Un allarme che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco, aveva già lanciato a maggio.

Ma sono i dati sulla disoccupazione a scatenare la polemica politica, con le opposizioni che attaccano e il premier Matteo Renzi il quale difende l’operato del governo con trenta tabelle che celebrano i 30 mesi del suo governo, paragonando l’”oggi” a “ieri”.

E il capitolo occupazione è ampio: gli occupati, passati da 22,180 milioni a 22,765 milioni. La disoccupazione che dal 13,1% è scesa all’11,4%. Anche il confronto sul dato della disoccupazione dei giovani è significativo: era 43,6%, è calata al 39,2%.


Le slides di Renzi raccontano tutti gli interventi in ambito economico: crescita del Pil dell’1%, introduzione del bonus di 80 euro al mese, riduzione del canone Rai a 100 euro. Su tutte le pagine uno slogan: “Numeri non chiacchiere”.

Lapidario Renato Brunetta, presidente dei deputati di Forza Italia. «Trenta slide colorate per dire niente...un confronto non meglio definito fra ‘ieri’ e ‘oggi’ ». La tendenza a un miglioramento sul mercato del lavoro però sembra rimanere positiva. «La crescita occupazionale dall’inizio dell’anno c’è — ha detto Cesare Damiano, presidente della Commissione lavoro alla Camera — anche se è la qualità del lavoro a diminuire».
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