Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la SX?
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
il manifesto 10.9.16
Il dibattito sulla «morte della politica»
La politica muore nel recinto nazionale
di Marco Valbruzzi
Ho seguito con molto interesse, ma anche con altrettanto scetticismo, il dibattito sulla «morte della politica» ospitato dal manifesto. Confesso subito che la stessa espressione o «slogan» – come lo chiama Alberto Burgio – della «morte della politica» non mi convince affatto. Per almeno due ragioni.
La prima è che la politica non muore; al massimo, si indebolisce, si affievolisce, entra in un apparente letargo e finisce per essere temporaneamente confusa con l’amministrazione dell’esistente. Ma la politica rimane comunque al suo posto, seppure in forme meno visibili e appariscenti.
La seconda ragione è che mai come in questo momento, se allarghiamo i nostri orizzonti al di fuori della piccola Italia, la politica – quella «grande» a cui faceva riferimento Gramsci – torna a mostrarci la sua vera natura, che per molto tempo avevamo cercato di addomesticare. Nel corso degli ultimi anni, assistiamo quasi quotidianamente ad eventi eminentemente politici: Stati che reclamano la loro sovranità, militari che inscenano (maldestri) colpi di Stato, intere popolazioni costrette a fuggire dai loro territori per motivi etnici o religiosi, nazioni che intendono difendere i loro confini nazionali con chilometri di filo spinato o con muri faraonici. L’elenco può essere allungato a piacimento, ma credo sia più che sufficiente a mostrare che la «notte della politica» (se così era) è finita e siamo all’alba di un grande risveglio.
Finora, il dibattito dedicato alla «morte della politica» si è concentrato quasi esclusivamente – direi ossessivamente (ad eccezione degli interventi di Stefano Fassina e Yanis Varoufakis) – sul contesto italiano e sulle cause «domestiche» della crisi.
La mia impressione, invece, è che per capire lo stato attuale della politica (e della sinistra) serva una prospettiva esterna, internazionale. Mi spiego meglio. A mio avviso, quando oggi si discute di crisi della politica credo che, implicitamente o no, si faccia riferimento all’idea di uno «spazio politico», quello che gli inglesi chiamano polity per distinguerlo tanto dalla politics (il «gioco del potere») quanto dalla policy (l’ambito delle politiche pubbliche).
E mi pare evidente, al di là delle nostalgie nazionalistiche dello stesso Fassina, che lo spazio politico che oggi si trova maggiormente sotto stress è quello dello Stato-nazione, che non ha più la forza, gli strumenti, le capacità per fare fronte alle pressioni delle grandi multinazionali, alle dinamiche dei mercati finanziari internazionali, ai processi migratori di scala continentale, ai disastri climatici o ambientali che superano i confini dei singoli Stati.
In questo senso, la crisi della politica su cui ruota l’intero dibattito è, in realtà, una crisi dello spazio politico nazionale, il quale, da solo, non è più all’altezza delle sfide innescate da economie sempre più integrate a livello internazionale.
È qui, su questo snodo, che la crisi della politica si riflette dentro la crisi della sinistra, non solo italiana.
E su questo ha pienamente ragione Burgio nel sottolineare che l’attuale crisi della sinistra è «una crisi organica, non episodica», e cioè molto più strutturale che congiunturale. Del resto, come potremmo spiegarci l’uscita – per così dire – a destra (con crescita dei partiti populisti, nazionalisti e xenofobi) dopo la più grave crisi economica che il mondo occidentale abbia sperimentato almeno negli ultimi due secoli? Una crisi – si badi bene – prodotta da un neo-liberismo senza freni, totalmente «sregolato», che ha drammaticamente fatto tornare a crescere le diseguaglianze sociali ed economiche dopo una lunga fase di riduzione.
In teoria, tra il fallimento della ricetta neo-liberale e l’esplosione delle (nuove) diseguaglianze esistevano praterie per la crescita delle forze di sinistra. E invece stanno regredendo un po’ dappertutto perché incapaci di, o impossibilitate a, offrire risposte adeguate alla crisi economica nella quale siamo ancora tutti intrappolati. Qui sta l’elemento strutturale dell’attuale debolezza della sinistra, legata a doppio filo con la crisi della dimensione politica nazionale.
Se questa diagnosi è corretta, mi pare chiaro che (soprattutto) i partiti di sinistra debbano incominciare seriamente a interrogarsi su quale sia il nuovo spazio politico idoneo alle sfide che ci troviamo di fronte. Per le forze politiche di destra o conservatrici, che hanno da sempre fatto leva su uno «Stato minimo», la debolezza della politica è un aspetto secondario, marginale. Ci penseranno altri fattori – gli animal spirits, i singoli individui, i gruppi di interesse ecc. – a fare i loro conti con l’economia e con i mercati. Ma per la sinistra la politica – intesa come spazio politico all’interno del quale poter governare e regolare anche i fenomeni economici – è fondamentale: simul stabunt, simul cadent, o stanno assieme o non staranno per nulla.
Se c’è uno spazio politico all’interno del quale la sinistra può ritrovare la sua ragion d’essere è sicuramente quello europeo. È lì che la politica può incidere sui grandi nodi strutturali del nostro tempo (disoccupazione, immigrazione, mobilità sociale, sfide ambientali e climatiche, terrorismo ecc.) e offrire proposte e visioni alternative ai cittadini.
Certo, non è questa Europa la soluzione, ma sicuramente è dentro l’Europa che va cercata. Per questo trovo sterili le proposte di Fassina, per il quale la risposta ad un «astratto e impolitico europeismo» sarebbe il semplice ritorno alle prerogative dello Stato-nazione, cercando di rimettere il dentifricio della globalizzazione dentro il tubetto nazionale: impossibile.
Ugualmente velleitarie, ma almeno indirizzate verso il giusto bersaglio, mi paiono le soluzioni «movimentiste» di Varoufakis, secondo cui la nuova Europa potrà nascere soltanto da forme diffuse di disobbedienza sociale e territoriale. Se però sono queste le uniche soluzioni sul tavolo, ho l’impressione che la «notte della sinistra» sarà ancora molto lunga
Il dibattito sulla «morte della politica»
La politica muore nel recinto nazionale
di Marco Valbruzzi
Ho seguito con molto interesse, ma anche con altrettanto scetticismo, il dibattito sulla «morte della politica» ospitato dal manifesto. Confesso subito che la stessa espressione o «slogan» – come lo chiama Alberto Burgio – della «morte della politica» non mi convince affatto. Per almeno due ragioni.
La prima è che la politica non muore; al massimo, si indebolisce, si affievolisce, entra in un apparente letargo e finisce per essere temporaneamente confusa con l’amministrazione dell’esistente. Ma la politica rimane comunque al suo posto, seppure in forme meno visibili e appariscenti.
La seconda ragione è che mai come in questo momento, se allarghiamo i nostri orizzonti al di fuori della piccola Italia, la politica – quella «grande» a cui faceva riferimento Gramsci – torna a mostrarci la sua vera natura, che per molto tempo avevamo cercato di addomesticare. Nel corso degli ultimi anni, assistiamo quasi quotidianamente ad eventi eminentemente politici: Stati che reclamano la loro sovranità, militari che inscenano (maldestri) colpi di Stato, intere popolazioni costrette a fuggire dai loro territori per motivi etnici o religiosi, nazioni che intendono difendere i loro confini nazionali con chilometri di filo spinato o con muri faraonici. L’elenco può essere allungato a piacimento, ma credo sia più che sufficiente a mostrare che la «notte della politica» (se così era) è finita e siamo all’alba di un grande risveglio.
Finora, il dibattito dedicato alla «morte della politica» si è concentrato quasi esclusivamente – direi ossessivamente (ad eccezione degli interventi di Stefano Fassina e Yanis Varoufakis) – sul contesto italiano e sulle cause «domestiche» della crisi.
La mia impressione, invece, è che per capire lo stato attuale della politica (e della sinistra) serva una prospettiva esterna, internazionale. Mi spiego meglio. A mio avviso, quando oggi si discute di crisi della politica credo che, implicitamente o no, si faccia riferimento all’idea di uno «spazio politico», quello che gli inglesi chiamano polity per distinguerlo tanto dalla politics (il «gioco del potere») quanto dalla policy (l’ambito delle politiche pubbliche).
E mi pare evidente, al di là delle nostalgie nazionalistiche dello stesso Fassina, che lo spazio politico che oggi si trova maggiormente sotto stress è quello dello Stato-nazione, che non ha più la forza, gli strumenti, le capacità per fare fronte alle pressioni delle grandi multinazionali, alle dinamiche dei mercati finanziari internazionali, ai processi migratori di scala continentale, ai disastri climatici o ambientali che superano i confini dei singoli Stati.
In questo senso, la crisi della politica su cui ruota l’intero dibattito è, in realtà, una crisi dello spazio politico nazionale, il quale, da solo, non è più all’altezza delle sfide innescate da economie sempre più integrate a livello internazionale.
È qui, su questo snodo, che la crisi della politica si riflette dentro la crisi della sinistra, non solo italiana.
E su questo ha pienamente ragione Burgio nel sottolineare che l’attuale crisi della sinistra è «una crisi organica, non episodica», e cioè molto più strutturale che congiunturale. Del resto, come potremmo spiegarci l’uscita – per così dire – a destra (con crescita dei partiti populisti, nazionalisti e xenofobi) dopo la più grave crisi economica che il mondo occidentale abbia sperimentato almeno negli ultimi due secoli? Una crisi – si badi bene – prodotta da un neo-liberismo senza freni, totalmente «sregolato», che ha drammaticamente fatto tornare a crescere le diseguaglianze sociali ed economiche dopo una lunga fase di riduzione.
In teoria, tra il fallimento della ricetta neo-liberale e l’esplosione delle (nuove) diseguaglianze esistevano praterie per la crescita delle forze di sinistra. E invece stanno regredendo un po’ dappertutto perché incapaci di, o impossibilitate a, offrire risposte adeguate alla crisi economica nella quale siamo ancora tutti intrappolati. Qui sta l’elemento strutturale dell’attuale debolezza della sinistra, legata a doppio filo con la crisi della dimensione politica nazionale.
Se questa diagnosi è corretta, mi pare chiaro che (soprattutto) i partiti di sinistra debbano incominciare seriamente a interrogarsi su quale sia il nuovo spazio politico idoneo alle sfide che ci troviamo di fronte. Per le forze politiche di destra o conservatrici, che hanno da sempre fatto leva su uno «Stato minimo», la debolezza della politica è un aspetto secondario, marginale. Ci penseranno altri fattori – gli animal spirits, i singoli individui, i gruppi di interesse ecc. – a fare i loro conti con l’economia e con i mercati. Ma per la sinistra la politica – intesa come spazio politico all’interno del quale poter governare e regolare anche i fenomeni economici – è fondamentale: simul stabunt, simul cadent, o stanno assieme o non staranno per nulla.
Se c’è uno spazio politico all’interno del quale la sinistra può ritrovare la sua ragion d’essere è sicuramente quello europeo. È lì che la politica può incidere sui grandi nodi strutturali del nostro tempo (disoccupazione, immigrazione, mobilità sociale, sfide ambientali e climatiche, terrorismo ecc.) e offrire proposte e visioni alternative ai cittadini.
Certo, non è questa Europa la soluzione, ma sicuramente è dentro l’Europa che va cercata. Per questo trovo sterili le proposte di Fassina, per il quale la risposta ad un «astratto e impolitico europeismo» sarebbe il semplice ritorno alle prerogative dello Stato-nazione, cercando di rimettere il dentifricio della globalizzazione dentro il tubetto nazionale: impossibile.
Ugualmente velleitarie, ma almeno indirizzate verso il giusto bersaglio, mi paiono le soluzioni «movimentiste» di Varoufakis, secondo cui la nuova Europa potrà nascere soltanto da forme diffuse di disobbedienza sociale e territoriale. Se però sono queste le uniche soluzioni sul tavolo, ho l’impressione che la «notte della sinistra» sarà ancora molto lunga
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
il manifesto 10.9.16
Il dibattito sulla «morte della politica»
La politica muore nel recinto nazionale
di Marco Valbruzzi
Ho seguito con molto interesse, ma anche con altrettanto scetticismo, il dibattito sulla «morte della politica» ospitato dal manifesto. Confesso subito che la stessa espressione o «slogan» – come lo chiama Alberto Burgio – della «morte della politica» non mi convince affatto. Per almeno due ragioni.
La prima è che la politica non muore; al massimo, si indebolisce, si affievolisce, entra in un apparente letargo e finisce per essere temporaneamente confusa con l’amministrazione dell’esistente. Ma la politica rimane comunque al suo posto, seppure in forme meno visibili e appariscenti.
La seconda ragione è che mai come in questo momento, se allarghiamo i nostri orizzonti al di fuori della piccola Italia, la politica – quella «grande» a cui faceva riferimento Gramsci – torna a mostrarci la sua vera natura, che per molto tempo avevamo cercato di addomesticare. Nel corso degli ultimi anni, assistiamo quasi quotidianamente ad eventi eminentemente politici: Stati che reclamano la loro sovranità, militari che inscenano (maldestri) colpi di Stato, intere popolazioni costrette a fuggire dai loro territori per motivi etnici o religiosi, nazioni che intendono difendere i loro confini nazionali con chilometri di filo spinato o con muri faraonici. L’elenco può essere allungato a piacimento, ma credo sia più che sufficiente a mostrare che la «notte della politica» (se così era) è finita e siamo all’alba di un grande risveglio.
Finora, il dibattito dedicato alla «morte della politica» si è concentrato quasi esclusivamente – direi ossessivamente (ad eccezione degli interventi di Stefano Fassina e Yanis Varoufakis) – sul contesto italiano e sulle cause «domestiche» della crisi.
La mia impressione, invece, è che per capire lo stato attuale della politica (e della sinistra) serva una prospettiva esterna, internazionale. Mi spiego meglio. A mio avviso, quando oggi si discute di crisi della politica credo che, implicitamente o no, si faccia riferimento all’idea di uno «spazio politico», quello che gli inglesi chiamano polity per distinguerlo tanto dalla politics (il «gioco del potere») quanto dalla policy (l’ambito delle politiche pubbliche).
E mi pare evidente, al di là delle nostalgie nazionalistiche dello stesso Fassina, che lo spazio politico che oggi si trova maggiormente sotto stress è quello dello Stato-nazione, che non ha più la forza, gli strumenti, le capacità per fare fronte alle pressioni delle grandi multinazionali, alle dinamiche dei mercati finanziari internazionali, ai processi migratori di scala continentale, ai disastri climatici o ambientali che superano i confini dei singoli Stati.
In questo senso, la crisi della politica su cui ruota l’intero dibattito è, in realtà, una crisi dello spazio politico nazionale, il quale, da solo, non è più all’altezza delle sfide innescate da economie sempre più integrate a livello internazionale.
È qui, su questo snodo, che la crisi della politica si riflette dentro la crisi della sinistra, non solo italiana.
E su questo ha pienamente ragione Burgio nel sottolineare che l’attuale crisi della sinistra è «una crisi organica, non episodica», e cioè molto più strutturale che congiunturale. Del resto, come potremmo spiegarci l’uscita – per così dire – a destra (con crescita dei partiti populisti, nazionalisti e xenofobi) dopo la più grave crisi economica che il mondo occidentale abbia sperimentato almeno negli ultimi due secoli? Una crisi – si badi bene – prodotta da un neo-liberismo senza freni, totalmente «sregolato», che ha drammaticamente fatto tornare a crescere le diseguaglianze sociali ed economiche dopo una lunga fase di riduzione.
In teoria, tra il fallimento della ricetta neo-liberale e l’esplosione delle (nuove) diseguaglianze esistevano praterie per la crescita delle forze di sinistra. E invece stanno regredendo un po’ dappertutto perché incapaci di, o impossibilitate a, offrire risposte adeguate alla crisi economica nella quale siamo ancora tutti intrappolati. Qui sta l’elemento strutturale dell’attuale debolezza della sinistra, legata a doppio filo con la crisi della dimensione politica nazionale.
Se questa diagnosi è corretta, mi pare chiaro che (soprattutto) i partiti di sinistra debbano incominciare seriamente a interrogarsi su quale sia il nuovo spazio politico idoneo alle sfide che ci troviamo di fronte. Per le forze politiche di destra o conservatrici, che hanno da sempre fatto leva su uno «Stato minimo», la debolezza della politica è un aspetto secondario, marginale. Ci penseranno altri fattori – gli animal spirits, i singoli individui, i gruppi di interesse ecc. – a fare i loro conti con l’economia e con i mercati. Ma per la sinistra la politica – intesa come spazio politico all’interno del quale poter governare e regolare anche i fenomeni economici – è fondamentale: simul stabunt, simul cadent, o stanno assieme o non staranno per nulla.
Se c’è uno spazio politico all’interno del quale la sinistra può ritrovare la sua ragion d’essere è sicuramente quello europeo. È lì che la politica può incidere sui grandi nodi strutturali del nostro tempo (disoccupazione, immigrazione, mobilità sociale, sfide ambientali e climatiche, terrorismo ecc.) e offrire proposte e visioni alternative ai cittadini.
Certo, non è questa Europa la soluzione, ma sicuramente è dentro l’Europa che va cercata. Per questo trovo sterili le proposte di Fassina, per il quale la risposta ad un «astratto e impolitico europeismo» sarebbe il semplice ritorno alle prerogative dello Stato-nazione, cercando di rimettere il dentifricio della globalizzazione dentro il tubetto nazionale: impossibile.
Ugualmente velleitarie, ma almeno indirizzate verso il giusto bersaglio, mi paiono le soluzioni «movimentiste» di Varoufakis, secondo cui la nuova Europa potrà nascere soltanto da forme diffuse di disobbedienza sociale e territoriale. Se però sono queste le uniche soluzioni sul tavolo, ho l’impressione che la «notte della sinistra» sarà ancora molto lunga
Il dibattito sulla «morte della politica»
La politica muore nel recinto nazionale
di Marco Valbruzzi
Ho seguito con molto interesse, ma anche con altrettanto scetticismo, il dibattito sulla «morte della politica» ospitato dal manifesto. Confesso subito che la stessa espressione o «slogan» – come lo chiama Alberto Burgio – della «morte della politica» non mi convince affatto. Per almeno due ragioni.
La prima è che la politica non muore; al massimo, si indebolisce, si affievolisce, entra in un apparente letargo e finisce per essere temporaneamente confusa con l’amministrazione dell’esistente. Ma la politica rimane comunque al suo posto, seppure in forme meno visibili e appariscenti.
La seconda ragione è che mai come in questo momento, se allarghiamo i nostri orizzonti al di fuori della piccola Italia, la politica – quella «grande» a cui faceva riferimento Gramsci – torna a mostrarci la sua vera natura, che per molto tempo avevamo cercato di addomesticare. Nel corso degli ultimi anni, assistiamo quasi quotidianamente ad eventi eminentemente politici: Stati che reclamano la loro sovranità, militari che inscenano (maldestri) colpi di Stato, intere popolazioni costrette a fuggire dai loro territori per motivi etnici o religiosi, nazioni che intendono difendere i loro confini nazionali con chilometri di filo spinato o con muri faraonici. L’elenco può essere allungato a piacimento, ma credo sia più che sufficiente a mostrare che la «notte della politica» (se così era) è finita e siamo all’alba di un grande risveglio.
Finora, il dibattito dedicato alla «morte della politica» si è concentrato quasi esclusivamente – direi ossessivamente (ad eccezione degli interventi di Stefano Fassina e Yanis Varoufakis) – sul contesto italiano e sulle cause «domestiche» della crisi.
La mia impressione, invece, è che per capire lo stato attuale della politica (e della sinistra) serva una prospettiva esterna, internazionale. Mi spiego meglio. A mio avviso, quando oggi si discute di crisi della politica credo che, implicitamente o no, si faccia riferimento all’idea di uno «spazio politico», quello che gli inglesi chiamano polity per distinguerlo tanto dalla politics (il «gioco del potere») quanto dalla policy (l’ambito delle politiche pubbliche).
E mi pare evidente, al di là delle nostalgie nazionalistiche dello stesso Fassina, che lo spazio politico che oggi si trova maggiormente sotto stress è quello dello Stato-nazione, che non ha più la forza, gli strumenti, le capacità per fare fronte alle pressioni delle grandi multinazionali, alle dinamiche dei mercati finanziari internazionali, ai processi migratori di scala continentale, ai disastri climatici o ambientali che superano i confini dei singoli Stati.
In questo senso, la crisi della politica su cui ruota l’intero dibattito è, in realtà, una crisi dello spazio politico nazionale, il quale, da solo, non è più all’altezza delle sfide innescate da economie sempre più integrate a livello internazionale.
È qui, su questo snodo, che la crisi della politica si riflette dentro la crisi della sinistra, non solo italiana.
E su questo ha pienamente ragione Burgio nel sottolineare che l’attuale crisi della sinistra è «una crisi organica, non episodica», e cioè molto più strutturale che congiunturale. Del resto, come potremmo spiegarci l’uscita – per così dire – a destra (con crescita dei partiti populisti, nazionalisti e xenofobi) dopo la più grave crisi economica che il mondo occidentale abbia sperimentato almeno negli ultimi due secoli? Una crisi – si badi bene – prodotta da un neo-liberismo senza freni, totalmente «sregolato», che ha drammaticamente fatto tornare a crescere le diseguaglianze sociali ed economiche dopo una lunga fase di riduzione.
In teoria, tra il fallimento della ricetta neo-liberale e l’esplosione delle (nuove) diseguaglianze esistevano praterie per la crescita delle forze di sinistra. E invece stanno regredendo un po’ dappertutto perché incapaci di, o impossibilitate a, offrire risposte adeguate alla crisi economica nella quale siamo ancora tutti intrappolati. Qui sta l’elemento strutturale dell’attuale debolezza della sinistra, legata a doppio filo con la crisi della dimensione politica nazionale.
Se questa diagnosi è corretta, mi pare chiaro che (soprattutto) i partiti di sinistra debbano incominciare seriamente a interrogarsi su quale sia il nuovo spazio politico idoneo alle sfide che ci troviamo di fronte. Per le forze politiche di destra o conservatrici, che hanno da sempre fatto leva su uno «Stato minimo», la debolezza della politica è un aspetto secondario, marginale. Ci penseranno altri fattori – gli animal spirits, i singoli individui, i gruppi di interesse ecc. – a fare i loro conti con l’economia e con i mercati. Ma per la sinistra la politica – intesa come spazio politico all’interno del quale poter governare e regolare anche i fenomeni economici – è fondamentale: simul stabunt, simul cadent, o stanno assieme o non staranno per nulla.
Se c’è uno spazio politico all’interno del quale la sinistra può ritrovare la sua ragion d’essere è sicuramente quello europeo. È lì che la politica può incidere sui grandi nodi strutturali del nostro tempo (disoccupazione, immigrazione, mobilità sociale, sfide ambientali e climatiche, terrorismo ecc.) e offrire proposte e visioni alternative ai cittadini.
Certo, non è questa Europa la soluzione, ma sicuramente è dentro l’Europa che va cercata. Per questo trovo sterili le proposte di Fassina, per il quale la risposta ad un «astratto e impolitico europeismo» sarebbe il semplice ritorno alle prerogative dello Stato-nazione, cercando di rimettere il dentifricio della globalizzazione dentro il tubetto nazionale: impossibile.
Ugualmente velleitarie, ma almeno indirizzate verso il giusto bersaglio, mi paiono le soluzioni «movimentiste» di Varoufakis, secondo cui la nuova Europa potrà nascere soltanto da forme diffuse di disobbedienza sociale e territoriale. Se però sono queste le uniche soluzioni sul tavolo, ho l’impressione che la «notte della sinistra» sarà ancora molto lunga
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
Lunedì scorso, in edicola, ho incontrato un vecchio amico che era rosso, rosso, rosso anche da piccolo, senza sapere il perché. In famiglia sentiva parlare sempre del Pci, ed è cresciuto così.
Ho chiesto all’amico giornalaio di non vendergli più l’Unità, perché è diventato un giornalaccio di centro destra, con Staino direttore ed Andrea Romano (che stava con Monti) come condirettore.
Il fatto poi che scriva quel giornalista sotto dieci bandiere, di cognome Rondolingua, è tutto un dire.
Uno che è stato di sinistra per tutta una vita non può accettare cada in mano a quegli sciamannati di renziani.
Come tutta risposta ho ricevuto un : “Ma tu non capisci niente”.
Il fatto mi preoccupa perché se uno che è arrivato alla soglia degli ottanta dicendo di essere di sinistra, e lo era e lo è ancora, non capisce che all’Unità è subentrato il centrodestra, molti sinistri rischiano di votare SI.
Non basta l’ambasciatore americano e questo:
ZONAEURO
#StopTTIP e #StopCETA, da domani mailbombing e tweet storm su Renzi
Zonaeuro
di Stop TTIP | 15 settembre 2016
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di Monica Di Sisto e Alberto Zoratti
Caro Matteo, stiamo scherzando? Mentre i colleghi francesi, belgi, austriaci e tedeschi del premier Renzi fanno a gara per esprimere critiche (magari anche di facciata) l’Italia sta lavorando intensamente insieme ai negoziatori americani per portare a casa il Ttip, il trattato di liberalizzazione commerciale tra Europa e Usa. La strategia italiana si chiama “step 1”, cioè “primo passo”: è la vecchia fissazione del ministro al Commercio Carlo Calenda per metterci d’accordo entro dicembre almeno sui tagli a dazi e tariffe e sulla cornice “para-istituzionale”, compresa la corte speciale a tutela degli investitori (o Ics) prima che il presidente Barack Obamalasci l’incarico a gennaio 2017.
Per questo le reti della società civile #StopTtip e #StopCetahanno rilanciato la mobilitazione d’autunno in tutta Europa. La campagna Stop Ttip Italia lancia un mailbombing e un tweet storm dalle 12 del 16 settembre sul premier Matteo Renzi oltre a diverse iniziative locali, tra cui un flashmob a Milano. Il 17 settembre in oltre 20 città tra Germania e Austria la Campagna europea Stop Ttip risponderà idealmente alle decisioni assunte per mettere definitivamente la parola fine sui negoziati Europa-Stati Uniti e per fermare l’approvazione del Ceta.
L’ex rappresentante Usa al commercio Michael Punke la scorsa settimana ha fatto un giro per l’Europa incontrando numerosi suoi contatti nei governi dei Paesi membri, sostenendo questa idea. La Commissione europea continua, però, ad opporsi alla soluzione “all’italiana” che prenderebbe atto del fatto che nessun accordo è possibile su appalti pubblici e indicazioni geografiche per spianare la strada, invece, al negoziato riservato sugli standard di produzione. Se la Gran Bretagna, inoltre, avesse il tempo di uscire dall’Unione prima che il Ttip fosse firmato, gli Usa perderebbero circa il 25%delle potenziali esportazioni in più che sarebbero generate dal trattato, ed ecco che da Washington c’è chi comincerebbe ad appoggiare il “Ttip light” con maggiore convinzione del passato.
Per spezzare il fronte delle la contrarietà prima che la Francia, come ha annunciato, proponga di fermare i negoziati sul Ttip al Consiglio informale dei ministri al Commercio dell’Ue che si terrà a Bratislava il 22 e 23 settembre, l’Italia ha fomentato la presentazione di una lettera congiunta di 12 Paesi dell’Unione alla Commissaria al Commercio Cecilia Malmstrom nella quale, in vista del Consiglio dei Capi di Stato previsto sempre a Bratislava il 16 settembre, Danimarca, Repubblica Ceca, Finlandia, Svezia,Regno Unito, Irlanda, Estonia, Lettonia, Lituania, Italia,Portogallo e Spagna ha scritto che il Ttip “è un’occasione per modellare le regole del commercio nel 21° secolo” e che quindi l’Ue “dovrebbe concentrarsi sulla ricerca di soluzioni” per le questioni rimaste in sospeso nei negoziati in corso. Resta il fatto, però, che 16 Paesi membri non hanno voluto sottoscrivere la lettera, e cioè che il 56,26% dei cittadini europei da loro rappresentati rifiuta questa scorciatoia.
Il “piano B” della Commissione prevede che, se il Ttip si blocca, si possa comunque contare sull’accordo analogo giù concluso con il Canada, il cosiddetto Ceta, per abbattere il 98% delle tariffe tra Europa e Canada, dove ha sede legale gran parte delle grandi imprese Usa che potrebbero, così, godere dei benefici commerciali e legali previsti dal Ttip anche se esso non venisse approvato, attraverso le loro consociate canadesi. Jean-Claude Juncker, presidente dell’Unione Europea, nel suo discorso sullo Stato dell’Unione ha affermato che il Ceta va chiuso così com’è e al più presto, perché l’Europa non perda la sua credibilità negoziale con tutti i potenziali partner europei.
Ma a Bruxelles il 20 settembre il Belgio scenderà in piazza dopo Germania e Austria per far sentire nel cuore delle istituzioni europee il no di sindacati, contadini, piccoli e medi produttori e di tutte le organizzazioni che si stanno opponendo ai trattati di liberalizzazione selvaggia promossa dall’Ue. E anche a Bratislava i ministri al commercio e la Commissaria Malmstrom troveranno un caldo e creativo benvenuto a questi loro progetti sempre meno popolari da Est a Ovest.
Sul sito http://stop-ttip-italia.net alla pagina sul 16 settembre è possibile scaricare la lettera indirizzata al Presidente del Consiglio Matteo Renzi e i tweet da inviare a cominciare dalle 12 del 16 settembre, in sostegno delle mobilitazioni internazionali contro il Ttip e contro il Ceta, e rimanere aggiornati su tutti i prossimi appuntamenti.
Ho chiesto all’amico giornalaio di non vendergli più l’Unità, perché è diventato un giornalaccio di centro destra, con Staino direttore ed Andrea Romano (che stava con Monti) come condirettore.
Il fatto poi che scriva quel giornalista sotto dieci bandiere, di cognome Rondolingua, è tutto un dire.
Uno che è stato di sinistra per tutta una vita non può accettare cada in mano a quegli sciamannati di renziani.
Come tutta risposta ho ricevuto un : “Ma tu non capisci niente”.
Il fatto mi preoccupa perché se uno che è arrivato alla soglia degli ottanta dicendo di essere di sinistra, e lo era e lo è ancora, non capisce che all’Unità è subentrato il centrodestra, molti sinistri rischiano di votare SI.
Non basta l’ambasciatore americano e questo:
ZONAEURO
#StopTTIP e #StopCETA, da domani mailbombing e tweet storm su Renzi
Zonaeuro
di Stop TTIP | 15 settembre 2016
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Caro Matteo, stiamo scherzando? Mentre i colleghi francesi, belgi, austriaci e tedeschi del premier Renzi fanno a gara per esprimere critiche (magari anche di facciata) l’Italia sta lavorando intensamente insieme ai negoziatori americani per portare a casa il Ttip, il trattato di liberalizzazione commerciale tra Europa e Usa. La strategia italiana si chiama “step 1”, cioè “primo passo”: è la vecchia fissazione del ministro al Commercio Carlo Calenda per metterci d’accordo entro dicembre almeno sui tagli a dazi e tariffe e sulla cornice “para-istituzionale”, compresa la corte speciale a tutela degli investitori (o Ics) prima che il presidente Barack Obamalasci l’incarico a gennaio 2017.
Per questo le reti della società civile #StopTtip e #StopCetahanno rilanciato la mobilitazione d’autunno in tutta Europa. La campagna Stop Ttip Italia lancia un mailbombing e un tweet storm dalle 12 del 16 settembre sul premier Matteo Renzi oltre a diverse iniziative locali, tra cui un flashmob a Milano. Il 17 settembre in oltre 20 città tra Germania e Austria la Campagna europea Stop Ttip risponderà idealmente alle decisioni assunte per mettere definitivamente la parola fine sui negoziati Europa-Stati Uniti e per fermare l’approvazione del Ceta.
L’ex rappresentante Usa al commercio Michael Punke la scorsa settimana ha fatto un giro per l’Europa incontrando numerosi suoi contatti nei governi dei Paesi membri, sostenendo questa idea. La Commissione europea continua, però, ad opporsi alla soluzione “all’italiana” che prenderebbe atto del fatto che nessun accordo è possibile su appalti pubblici e indicazioni geografiche per spianare la strada, invece, al negoziato riservato sugli standard di produzione. Se la Gran Bretagna, inoltre, avesse il tempo di uscire dall’Unione prima che il Ttip fosse firmato, gli Usa perderebbero circa il 25%delle potenziali esportazioni in più che sarebbero generate dal trattato, ed ecco che da Washington c’è chi comincerebbe ad appoggiare il “Ttip light” con maggiore convinzione del passato.
Per spezzare il fronte delle la contrarietà prima che la Francia, come ha annunciato, proponga di fermare i negoziati sul Ttip al Consiglio informale dei ministri al Commercio dell’Ue che si terrà a Bratislava il 22 e 23 settembre, l’Italia ha fomentato la presentazione di una lettera congiunta di 12 Paesi dell’Unione alla Commissaria al Commercio Cecilia Malmstrom nella quale, in vista del Consiglio dei Capi di Stato previsto sempre a Bratislava il 16 settembre, Danimarca, Repubblica Ceca, Finlandia, Svezia,Regno Unito, Irlanda, Estonia, Lettonia, Lituania, Italia,Portogallo e Spagna ha scritto che il Ttip “è un’occasione per modellare le regole del commercio nel 21° secolo” e che quindi l’Ue “dovrebbe concentrarsi sulla ricerca di soluzioni” per le questioni rimaste in sospeso nei negoziati in corso. Resta il fatto, però, che 16 Paesi membri non hanno voluto sottoscrivere la lettera, e cioè che il 56,26% dei cittadini europei da loro rappresentati rifiuta questa scorciatoia.
Il “piano B” della Commissione prevede che, se il Ttip si blocca, si possa comunque contare sull’accordo analogo giù concluso con il Canada, il cosiddetto Ceta, per abbattere il 98% delle tariffe tra Europa e Canada, dove ha sede legale gran parte delle grandi imprese Usa che potrebbero, così, godere dei benefici commerciali e legali previsti dal Ttip anche se esso non venisse approvato, attraverso le loro consociate canadesi. Jean-Claude Juncker, presidente dell’Unione Europea, nel suo discorso sullo Stato dell’Unione ha affermato che il Ceta va chiuso così com’è e al più presto, perché l’Europa non perda la sua credibilità negoziale con tutti i potenziali partner europei.
Ma a Bruxelles il 20 settembre il Belgio scenderà in piazza dopo Germania e Austria per far sentire nel cuore delle istituzioni europee il no di sindacati, contadini, piccoli e medi produttori e di tutte le organizzazioni che si stanno opponendo ai trattati di liberalizzazione selvaggia promossa dall’Ue. E anche a Bratislava i ministri al commercio e la Commissaria Malmstrom troveranno un caldo e creativo benvenuto a questi loro progetti sempre meno popolari da Est a Ovest.
Sul sito http://stop-ttip-italia.net alla pagina sul 16 settembre è possibile scaricare la lettera indirizzata al Presidente del Consiglio Matteo Renzi e i tweet da inviare a cominciare dalle 12 del 16 settembre, in sostegno delle mobilitazioni internazionali contro il Ttip e contro il Ceta, e rimanere aggiornati su tutti i prossimi appuntamenti.
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
Stamani, in Piazza Lamarmora era prevista una manifestazione del No, con la presenza di Lidia Menapace.
Ma ieri aveva comunicato, di ritorno dalla manifestazione di Napoli, la sua indisposizione fisica a partecipare alla manifestazione prevista stamani.
E te credo. A 92 anni gira il Paese come una pallina del flipper.
Stamani era presente un amico che ha organizzato la manifestazione.
Mi ha comunicato che a gennaio partono con Sinistra italiana e già come a maggio, mi ha invitato a prendere la tessera.
UN DIALOGO DIFFICILE CON LA SINISTRA. SONO SEMPRE UN PASSO DIETRO IL CARRO.
NON HO POTUTO FARE A MENO DI NOTIFICARGLI CHE IL PRIMO GRANDE IMPEGNO DELLA STAGIONE, E’ IL REFERENDUM CHE NON DEVE ASSOLUTAMENTE PERSO PER CHI CREDE ANCORA NEI VALORI DELLA RESISTENZA ED INTENDE DIFENDERE LA COSTITUZIONE DA CHI, A COMINCIARE DAL TENTATIVO DI COLPO DI STATO DEL GENERALE DEI CARABINIERI, DE LORENZO, VOLEVA RIPORTARE INDIETRO LE LANCETTE DELLA STORIA.
CON LA MORTE DI CIAMPI SI E’ RICORDATO L’ULTIMO TENTATIVO DI COLPO DI STATO DEL ’90.
POI, DA ALLORA HANNO CAMBIATO TATTICA.
SE NE E’ INCARICATO LICIO GELLI, CON IL SUO PROGRAMMA DI “RINNOVAMENTO DEMOCRATICO”.
PORTATO AVANTI PER UN VENTENNIO DA BERLUSCONI. DOVE SI PROVVEDUTO ALLA DEMOLIZIONE DELLA REPUBBLICA.
ADESSO HANNO SCELTO PINOCCHIO MUSSOLONI PER DARE LA SPALLATA FINALE.
CON ILPROSSIMO REFERENDUM, SI RIPETE LA SOLITA STORIA. LA LEGGE ACERBO DEL 1924, CHE HA SPIANATO LA STRADA A MUSSOLINI.
MA VISTO CHE ANCHE CHI HA FATTO IL PARTIGIANO, SI E’ DIMENTICATO COME E’ STATO AUTENTICATO IL DUCE, NECESSITA VIGILARE O QUALCOSA DI PIU’.
ADESSO SIAMO IN PROCINTO DI COMMETTERE LO STESSO ERRORE.
VOTARE LA LEGGE ACERBO 2.0, CHE VIENE PRESENTATA SOTTO IL FALSO NOME DI REFERENDUM COSTITUZIONALE.
ED IO NON VEDO NESSUNO DI SINISTRA BATTERSI CONTRO LA LEGGE ACERBO 2.0.
NESSUNO CHE SI ALZI DIRE CHE PINOCCHIO MUSSOLONI E’ UN IMROGLIONE AL SOLDO DELL’ELITE MASSONICO-FINANZIARIA CHE GOVERNA TUTTO L’OCCIDENTE.
ECCETTO D’ALEMA CHE NON SO A CHE TITOLO LO FACCIA.
COME PENSANO DI AFFERMARSI QUELLI DI SINISTRA ITALIANA SE MALAUGURATAMENTE DOVESSE VINCERE IL SI?
PENSANO CHE PINOCCHIO MUSSOLONI GLI PERMETTERA’ DI AFFERMARSI????
ILLUSI. E’ ADESSO CHE BISOGNA MANDARE A CASA PINOCCHIO MUSSOLONI.
IL DISEGNO MASSONICO-FINANZIARIO SUBIREBBE UN ARRESTO, E DOVREBBERO CERCARSI UN ALTRO VENDITORE DI PENTOLE USATE DISPOSTO A TUTTO.
LI’, SINISTRA ITALIANA AVREBBE LA POSSIBILITA’ DI AFFRANCARSI. SE NE HA LE CAPACITA’.
Ma ieri aveva comunicato, di ritorno dalla manifestazione di Napoli, la sua indisposizione fisica a partecipare alla manifestazione prevista stamani.
E te credo. A 92 anni gira il Paese come una pallina del flipper.
Stamani era presente un amico che ha organizzato la manifestazione.
Mi ha comunicato che a gennaio partono con Sinistra italiana e già come a maggio, mi ha invitato a prendere la tessera.
UN DIALOGO DIFFICILE CON LA SINISTRA. SONO SEMPRE UN PASSO DIETRO IL CARRO.
NON HO POTUTO FARE A MENO DI NOTIFICARGLI CHE IL PRIMO GRANDE IMPEGNO DELLA STAGIONE, E’ IL REFERENDUM CHE NON DEVE ASSOLUTAMENTE PERSO PER CHI CREDE ANCORA NEI VALORI DELLA RESISTENZA ED INTENDE DIFENDERE LA COSTITUZIONE DA CHI, A COMINCIARE DAL TENTATIVO DI COLPO DI STATO DEL GENERALE DEI CARABINIERI, DE LORENZO, VOLEVA RIPORTARE INDIETRO LE LANCETTE DELLA STORIA.
CON LA MORTE DI CIAMPI SI E’ RICORDATO L’ULTIMO TENTATIVO DI COLPO DI STATO DEL ’90.
POI, DA ALLORA HANNO CAMBIATO TATTICA.
SE NE E’ INCARICATO LICIO GELLI, CON IL SUO PROGRAMMA DI “RINNOVAMENTO DEMOCRATICO”.
PORTATO AVANTI PER UN VENTENNIO DA BERLUSCONI. DOVE SI PROVVEDUTO ALLA DEMOLIZIONE DELLA REPUBBLICA.
ADESSO HANNO SCELTO PINOCCHIO MUSSOLONI PER DARE LA SPALLATA FINALE.
CON ILPROSSIMO REFERENDUM, SI RIPETE LA SOLITA STORIA. LA LEGGE ACERBO DEL 1924, CHE HA SPIANATO LA STRADA A MUSSOLINI.
MA VISTO CHE ANCHE CHI HA FATTO IL PARTIGIANO, SI E’ DIMENTICATO COME E’ STATO AUTENTICATO IL DUCE, NECESSITA VIGILARE O QUALCOSA DI PIU’.
ADESSO SIAMO IN PROCINTO DI COMMETTERE LO STESSO ERRORE.
VOTARE LA LEGGE ACERBO 2.0, CHE VIENE PRESENTATA SOTTO IL FALSO NOME DI REFERENDUM COSTITUZIONALE.
ED IO NON VEDO NESSUNO DI SINISTRA BATTERSI CONTRO LA LEGGE ACERBO 2.0.
NESSUNO CHE SI ALZI DIRE CHE PINOCCHIO MUSSOLONI E’ UN IMROGLIONE AL SOLDO DELL’ELITE MASSONICO-FINANZIARIA CHE GOVERNA TUTTO L’OCCIDENTE.
ECCETTO D’ALEMA CHE NON SO A CHE TITOLO LO FACCIA.
COME PENSANO DI AFFERMARSI QUELLI DI SINISTRA ITALIANA SE MALAUGURATAMENTE DOVESSE VINCERE IL SI?
PENSANO CHE PINOCCHIO MUSSOLONI GLI PERMETTERA’ DI AFFERMARSI????
ILLUSI. E’ ADESSO CHE BISOGNA MANDARE A CASA PINOCCHIO MUSSOLONI.
IL DISEGNO MASSONICO-FINANZIARIO SUBIREBBE UN ARRESTO, E DOVREBBERO CERCARSI UN ALTRO VENDITORE DI PENTOLE USATE DISPOSTO A TUTTO.
LI’, SINISTRA ITALIANA AVREBBE LA POSSIBILITA’ DI AFFRANCARSI. SE NE HA LE CAPACITA’.
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
...I CADAVERI SOTTO LE MACERIE DI QUELLA CHE FU UNA VOLTA LA SINISTRA ITALIANA.............
E DIRE CHE UN TEMPO AVEVA PRESO IN BRACCIO ENRICO BERLINGUER.
GLI ITALIANI SONO FATTI COSI'. VOLTAGABBANA, E VENDUTI CHE SALGONO SEMPRE SUL CARRO DEL VINCITORE.
Ha dichiarato Roberto Benigni:
E un merito all’esito ha detto: “Se vince il No sarà peggio della Brexit. Possiamo stare sereni se vince il Sì. Bisogna pensare al bene degli italiani”.
E DIRE CHE UN TEMPO AVEVA PRESO IN BRACCIO ENRICO BERLINGUER.
GLI ITALIANI SONO FATTI COSI'. VOLTAGABBANA, E VENDUTI CHE SALGONO SEMPRE SUL CARRO DEL VINCITORE.
Ha dichiarato Roberto Benigni:
E un merito all’esito ha detto: “Se vince il No sarà peggio della Brexit. Possiamo stare sereni se vince il Sì. Bisogna pensare al bene degli italiani”.
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
Sel si scioglie, l’annuncio del coordinatore Fratoianni: “Entro i primi di febbraio congresso fondativo di Sinistra Italiana”
L'annuncio durante la trasmissione "Un giorno da pecora" su Rai Radio1. E su Vendola: "Non è sparito per niente, è a Roma e sta facendo un’esperienza meravigliosa della sua vita"
di F. Q. | 25 ottobre 2016
Sinistra ecologia e libertà si scioglierà definitivamente entro l’anno. A dare l’annuncio è stato il deputato e coordinatore nazionale di Sel Nicola Fratoianni in un’intervista al programma “Un giorno da pecora” su Rai Radio1. “Entro i primi di febbraio”, ha spiegato nell’intervento andato in onda il 24 ottobre, “ci sarà il congresso fondativo di Sinistra Italiana, dove convoglieremo”. Sul presidente del partito Nichi Vendola ha detto: “Non è sparito per niente, è a Roma e sta facendo un’esperienza meravigliosa della sua vita”, facendo riferimento all’adozione del figlio Tobia.
Già a febbraio scorso durante il congresso di Sinistra Italiana era stata anticipato l’appuntamento di fine anno (a questo punto slittato a febbraio) che ufficializzerà nascita e leadership. In quell’occasione Vendola, che aveva fondato Sel nel 2009, aveva detto con un videomessaggio: “E’ tempo di innovare, di ripartire, di restituire alla parola sinistra un senso”.
Ma Civati e Ferrero che faranno ?
L'annuncio durante la trasmissione "Un giorno da pecora" su Rai Radio1. E su Vendola: "Non è sparito per niente, è a Roma e sta facendo un’esperienza meravigliosa della sua vita"
di F. Q. | 25 ottobre 2016
Sinistra ecologia e libertà si scioglierà definitivamente entro l’anno. A dare l’annuncio è stato il deputato e coordinatore nazionale di Sel Nicola Fratoianni in un’intervista al programma “Un giorno da pecora” su Rai Radio1. “Entro i primi di febbraio”, ha spiegato nell’intervento andato in onda il 24 ottobre, “ci sarà il congresso fondativo di Sinistra Italiana, dove convoglieremo”. Sul presidente del partito Nichi Vendola ha detto: “Non è sparito per niente, è a Roma e sta facendo un’esperienza meravigliosa della sua vita”, facendo riferimento all’adozione del figlio Tobia.
Già a febbraio scorso durante il congresso di Sinistra Italiana era stata anticipato l’appuntamento di fine anno (a questo punto slittato a febbraio) che ufficializzerà nascita e leadership. In quell’occasione Vendola, che aveva fondato Sel nel 2009, aveva detto con un videomessaggio: “E’ tempo di innovare, di ripartire, di restituire alla parola sinistra un senso”.
Ma Civati e Ferrero che faranno ?
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
Corriere 27.10.16
La crisi della sinistra mette a rischio la democrazia
di Aldo Schiavone
C’era una volta la sinistra italiana.
Ora, sono rimaste solo le sue lacerazioni e i suoi contrasti.
Ma dove più le idee, i progetti, le interpretazioni nutrite di analisi e di previsione?
La campagna per il referendum si sta rivelando per entrambi gli schieramenti (nonostante le molte ragioni del Sì) la rivelazione spietata di una condizione penosa: con i rancori e le divisioni invece del pensiero.
Certo, si potrebbe dire che quando rifletteva la sinistra non vinceva: e vi sarebbe persino qualcosa di tragicamente vero nella battuta; e però, chi ha stabilito che per governare bisogna smettere di pensare?
Fuori d’Italia, tuttavia, le cose non vanno meglio.
Dov’è la socialdemocrazia tedesca, che in un momento cruciale per il suo Paese — di nuovo, dopo settant’anni, proiettato sulla scena del mondo — sembra ridotta al silenzio, e non ha una proposta, un’alternativa, una critica?
E cosa ne è dei socialisti francesi, che balbettano senza uno straccio di riflessione su cosa stia diventando la Francia?
Per non dire (sorvolando sugli spagnoli e gli inglesi) dei democratici americani, alle prese, anche se non solo per colpa loro, con la peggiore campagna elettorale che si ricordi, in cui non viene sollevato un tema, o indicato un orizzonte, né politico né sociale, davvero all’altezza di una leadership globale — altro che presidenza del pianeta!
La verità è che siamo di fronte a un problema che coinvolge le sinistre dell’intero Occidente: alle prese con una crisi di identità e un deficit di pensiero che sono probabilmente i più gravi di tutta la loro storia, dalla Rivoluzione francese in poi.
Ma denunciare questo vuoto ormai non basta più.
Bisogna scoprirne la causa, e cercare di porvi rimedio.
Non è in questione solo il destino di una parte politica (che potrebbe anche non stare a cuore).
Senza una sinistra degna di questo nome, o di qualcosa che ne prenda il posto, è l’intera democrazia dell’Occidente, se non addirittura l’idea stessa di politica, a ritrovarsi in pericolo: come infatti dovunque sta puntualmente avvenendo.
La causa, innanzitutto.
Il pensiero democratico moderno — sia nella versione liberal americana, sia in quella europea, di impronta socialista — è rimasto fondamentalmente una cultura legata al mondo industriale; al mondo, cioè, che lo aveva prodotto.
Presupponeva un tessuto sociale centrato sulla grande industria manifatturiera e sul lavoro intellettuale che ne era premessa e conseguenza — classe operaia e professioni «borghesi» o di middle class .
Quando quell’universo si è polverizzato nell’impatto con la rivoluzione tecnologica, alla fine del ventesimo secolo, la tradizione democratica e socialista non è stata capace di analizzare la profondità sconvolgente della trasformazione, né tantomeno di adeguarvisi.
È rimasta aggrappata ai molti relitti del vecchio mondo, ed è diventata, suo malgrado, obbiettivamente conservatrice: vorrebbe parlare del futuro, ma non fa che evocare i fantasmi del suo passato; non sa più rivolgersi ai popoli, ma riproduce solo élite.
I rimedi.
Non c’è speranza senza ricostruire in modo radicale le categorie fondamentali del pensiero democratico-socialista (questo vale anche per l’America), a cominciare dalla coppia fatale che regge tutto il resto: il lavoro e l’eguaglianza.
La modernità si è formata intorno alla forza di socializzazione e di eguagliamento del lavoro di massa produttore di merci, e del suo contraltare intellettuale.
Il lavoro come straordinario motore di emancipazione e di legame sociale.
Quel lavoro, oggi, è in via di estinzione, almeno in Occidente: le sue nuove forme sono completamente diverse, e attraverso di esse spesso non passa più alcuna strada verso l’eguaglianza e l’emancipazione, ma solo frantumazione e competitività.
Come rispondiamo?
E di quanta — e soprattutto di quale — eguaglianza ha bisogno una democrazia, perché continui a funzionare? Siamo perduti, se non rispondiamo.
La crisi della sinistra mette a rischio la democrazia
di Aldo Schiavone
C’era una volta la sinistra italiana.
Ora, sono rimaste solo le sue lacerazioni e i suoi contrasti.
Ma dove più le idee, i progetti, le interpretazioni nutrite di analisi e di previsione?
La campagna per il referendum si sta rivelando per entrambi gli schieramenti (nonostante le molte ragioni del Sì) la rivelazione spietata di una condizione penosa: con i rancori e le divisioni invece del pensiero.
Certo, si potrebbe dire che quando rifletteva la sinistra non vinceva: e vi sarebbe persino qualcosa di tragicamente vero nella battuta; e però, chi ha stabilito che per governare bisogna smettere di pensare?
Fuori d’Italia, tuttavia, le cose non vanno meglio.
Dov’è la socialdemocrazia tedesca, che in un momento cruciale per il suo Paese — di nuovo, dopo settant’anni, proiettato sulla scena del mondo — sembra ridotta al silenzio, e non ha una proposta, un’alternativa, una critica?
E cosa ne è dei socialisti francesi, che balbettano senza uno straccio di riflessione su cosa stia diventando la Francia?
Per non dire (sorvolando sugli spagnoli e gli inglesi) dei democratici americani, alle prese, anche se non solo per colpa loro, con la peggiore campagna elettorale che si ricordi, in cui non viene sollevato un tema, o indicato un orizzonte, né politico né sociale, davvero all’altezza di una leadership globale — altro che presidenza del pianeta!
La verità è che siamo di fronte a un problema che coinvolge le sinistre dell’intero Occidente: alle prese con una crisi di identità e un deficit di pensiero che sono probabilmente i più gravi di tutta la loro storia, dalla Rivoluzione francese in poi.
Ma denunciare questo vuoto ormai non basta più.
Bisogna scoprirne la causa, e cercare di porvi rimedio.
Non è in questione solo il destino di una parte politica (che potrebbe anche non stare a cuore).
Senza una sinistra degna di questo nome, o di qualcosa che ne prenda il posto, è l’intera democrazia dell’Occidente, se non addirittura l’idea stessa di politica, a ritrovarsi in pericolo: come infatti dovunque sta puntualmente avvenendo.
La causa, innanzitutto.
Il pensiero democratico moderno — sia nella versione liberal americana, sia in quella europea, di impronta socialista — è rimasto fondamentalmente una cultura legata al mondo industriale; al mondo, cioè, che lo aveva prodotto.
Presupponeva un tessuto sociale centrato sulla grande industria manifatturiera e sul lavoro intellettuale che ne era premessa e conseguenza — classe operaia e professioni «borghesi» o di middle class .
Quando quell’universo si è polverizzato nell’impatto con la rivoluzione tecnologica, alla fine del ventesimo secolo, la tradizione democratica e socialista non è stata capace di analizzare la profondità sconvolgente della trasformazione, né tantomeno di adeguarvisi.
È rimasta aggrappata ai molti relitti del vecchio mondo, ed è diventata, suo malgrado, obbiettivamente conservatrice: vorrebbe parlare del futuro, ma non fa che evocare i fantasmi del suo passato; non sa più rivolgersi ai popoli, ma riproduce solo élite.
I rimedi.
Non c’è speranza senza ricostruire in modo radicale le categorie fondamentali del pensiero democratico-socialista (questo vale anche per l’America), a cominciare dalla coppia fatale che regge tutto il resto: il lavoro e l’eguaglianza.
La modernità si è formata intorno alla forza di socializzazione e di eguagliamento del lavoro di massa produttore di merci, e del suo contraltare intellettuale.
Il lavoro come straordinario motore di emancipazione e di legame sociale.
Quel lavoro, oggi, è in via di estinzione, almeno in Occidente: le sue nuove forme sono completamente diverse, e attraverso di esse spesso non passa più alcuna strada verso l’eguaglianza e l’emancipazione, ma solo frantumazione e competitività.
Come rispondiamo?
E di quanta — e soprattutto di quale — eguaglianza ha bisogno una democrazia, perché continui a funzionare? Siamo perduti, se non rispondiamo.
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
Repubblica 30.10.16
La sfida dei socialisti
di Piero Ignazi
LA CRISI che i partiti socialisti attraversano in tutta Europa, raccontata venerdì su Repubblica, è passeggera o segnala la fine di un ciclo storico? Non dovremmo stupirci se questa seconda ipotesi si avverasse. In fondo anche i partiti cristiano-democratici, un tempo dominanti nel cuore dell’Europa, si sono ora ridotti a poca cosa. Solo in Germania, grazie ad una virata in senso conservatore operata già alla fine degli anni Settanta, resiste ancora un partito di antiche radici confessionali, la Cdu di Angela Merkel. Questo partito ha mantenuto, e persino accresciuto in alcune fasi, il suo peso perché ha diluito il connotato religioso ormai incapace di convogliare consensi di massa ma, allo stesso tempo, non ha abbandonato i suoi referenti sociali privilegiati, agricoltori, lavoratori autonomi e piccola borghesia. Se un fattore identitario, come quello religioso, scoloriva, in compenso rimanevano saldi i riferimenti sociali, e i loro interessi venivano difesi senza esitazioni.
I partiti socialisti hanno seguito una traiettoria diversa. Anch’essi hanno annacquato gli ideali fondativi sostituendo la trasformazione radicale dei rapporti di produzione con la promozione del Welfare State. E fin qui tutto è andato liscio. Poi hanno fatto un passo nel campo del nemico accettando in pieno le logiche del mercato. Grazie a questa mossa coraggiosa sono riusciti a convogliare consensi di settori della borghesia prima restii ad appoggiare i partiti della “sinistra di classe”. Infine, terzo passaggio cruciale che spiega il loro successo negli ultimi decenni del secolo scorso, hanno anche sposato in toto i diritti individuali, assumendo quella nuova agenda “post-materialista” che privilegia la qualità della vita più che il benessere materiale.
I partiti socialisti pensavano così di avere rintuzzato sia l’offensiva del neo-conservatorismo, sia la sfida dei movimenti verdi ed ecologisti. La capacità di muoversi promuovendo politiche pro-market e politiche libertarie portava sulle sponde dei socialisti le componenti più istruite, benestanti e liberal della società. Il periodo d’oro della socialdemocrazia europea si realizza proprio quando queste nuove acquisizioni convivono sotto lo stesso manto con la tradizionale classe operaia. Solo che questo equilibrismo non è durato molto.
Ad un certo punto i socialisti hanno cominciato a perdere il consenso delle classi sottoprivilegiate in genere. Questo perché avevano diluito troppo la loro identità e, allo stesso tempo, non avevano più difeso con vigore quegli interessi. Il distacco delle componenti operaie è stato rapido, massiccio e traumatico. In pochi anni milioni di voti sono transitati dalla sinistra alla destra estrema. Si sono sentiti abbandonati ed esclusi. Ancor peggio: si sono sentiti traditi perché i loro vecchi partiti si occupavano di “compiacere i mercati” smantellando pezzi di welfare e limando conquiste sociali. E per questo hanno scelto l’alternativa più radicale che offre loro un surrogato di identità sotto specie di comunità nazionale e, priva di ogni freno, offre mari e monti. Bastava aver assistito al dibattito tra l’ex ministro dell’Economia francese Emmanuel Macron e il pur attrezzato numero due del Front National francese Florian Philippot per capire come i populisti di Marine Le Pen raccontino favole irrealistiche quanto seducenti per chi ha perso speranza.
Oggi tutti i partiti di sinistra, Pd compreso, si confrontano con questa sfida epocale. Forse subiranno un ridimensionamento irreversibile, forse riusciranno a riconquistare il loro antico elettorato. Una via possibile passa dal riportare al centro della politica il tema della giustizia e dell’equità sociale, cercando così di riannodare i fili con quei settori della società che si sentono alla deriva, traditi dai loro storici difensori. Altrimenti sarà difficile evitare che costoro vadano ad ingrossare le file del risentimento e i consensi dei populisti di destra.
La sfida dei socialisti
di Piero Ignazi
LA CRISI che i partiti socialisti attraversano in tutta Europa, raccontata venerdì su Repubblica, è passeggera o segnala la fine di un ciclo storico? Non dovremmo stupirci se questa seconda ipotesi si avverasse. In fondo anche i partiti cristiano-democratici, un tempo dominanti nel cuore dell’Europa, si sono ora ridotti a poca cosa. Solo in Germania, grazie ad una virata in senso conservatore operata già alla fine degli anni Settanta, resiste ancora un partito di antiche radici confessionali, la Cdu di Angela Merkel. Questo partito ha mantenuto, e persino accresciuto in alcune fasi, il suo peso perché ha diluito il connotato religioso ormai incapace di convogliare consensi di massa ma, allo stesso tempo, non ha abbandonato i suoi referenti sociali privilegiati, agricoltori, lavoratori autonomi e piccola borghesia. Se un fattore identitario, come quello religioso, scoloriva, in compenso rimanevano saldi i riferimenti sociali, e i loro interessi venivano difesi senza esitazioni.
I partiti socialisti hanno seguito una traiettoria diversa. Anch’essi hanno annacquato gli ideali fondativi sostituendo la trasformazione radicale dei rapporti di produzione con la promozione del Welfare State. E fin qui tutto è andato liscio. Poi hanno fatto un passo nel campo del nemico accettando in pieno le logiche del mercato. Grazie a questa mossa coraggiosa sono riusciti a convogliare consensi di settori della borghesia prima restii ad appoggiare i partiti della “sinistra di classe”. Infine, terzo passaggio cruciale che spiega il loro successo negli ultimi decenni del secolo scorso, hanno anche sposato in toto i diritti individuali, assumendo quella nuova agenda “post-materialista” che privilegia la qualità della vita più che il benessere materiale.
I partiti socialisti pensavano così di avere rintuzzato sia l’offensiva del neo-conservatorismo, sia la sfida dei movimenti verdi ed ecologisti. La capacità di muoversi promuovendo politiche pro-market e politiche libertarie portava sulle sponde dei socialisti le componenti più istruite, benestanti e liberal della società. Il periodo d’oro della socialdemocrazia europea si realizza proprio quando queste nuove acquisizioni convivono sotto lo stesso manto con la tradizionale classe operaia. Solo che questo equilibrismo non è durato molto.
Ad un certo punto i socialisti hanno cominciato a perdere il consenso delle classi sottoprivilegiate in genere. Questo perché avevano diluito troppo la loro identità e, allo stesso tempo, non avevano più difeso con vigore quegli interessi. Il distacco delle componenti operaie è stato rapido, massiccio e traumatico. In pochi anni milioni di voti sono transitati dalla sinistra alla destra estrema. Si sono sentiti abbandonati ed esclusi. Ancor peggio: si sono sentiti traditi perché i loro vecchi partiti si occupavano di “compiacere i mercati” smantellando pezzi di welfare e limando conquiste sociali. E per questo hanno scelto l’alternativa più radicale che offre loro un surrogato di identità sotto specie di comunità nazionale e, priva di ogni freno, offre mari e monti. Bastava aver assistito al dibattito tra l’ex ministro dell’Economia francese Emmanuel Macron e il pur attrezzato numero due del Front National francese Florian Philippot per capire come i populisti di Marine Le Pen raccontino favole irrealistiche quanto seducenti per chi ha perso speranza.
Oggi tutti i partiti di sinistra, Pd compreso, si confrontano con questa sfida epocale. Forse subiranno un ridimensionamento irreversibile, forse riusciranno a riconquistare il loro antico elettorato. Una via possibile passa dal riportare al centro della politica il tema della giustizia e dell’equità sociale, cercando così di riannodare i fili con quei settori della società che si sentono alla deriva, traditi dai loro storici difensori. Altrimenti sarà difficile evitare che costoro vadano ad ingrossare le file del risentimento e i consensi dei populisti di destra.
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
|IL FATTO QUOTIDIANO |Lunedì 31 Ottobre 2016
La prossima Cosa rossa
SINISTRA, DOVE VAI? Il partito di Vendola si scioglie, a febbraio ci sarà il congresso fondativo della nuova lista di Fratoianni e Fassina. Il referendum può mescolare le carte dentro e fuori il Pd
Sinistra e libertà si scioglie, Sinistra italiana è pronta al battesimo (con parecchi mesi di ritardo dall’annuncio e una brutta sconfitta alle amministrative in mezzo), Giuliano Pisapia e Massimo Zedda sono dubbiosi e vorrebbero riaprire il dialogo col Pd, Pippo Civati attende e osserva, D’Alema e i dalemiani forse si aggregano (se Renzi vince il referendum). Insomma, a sinistra del Partito democratico c’è molto fermento e almeno altrettanta confusione. Dove va e che forma assume la “cosa rossa”? L’abbiamo chiesto a due possibili protagonisti.
GIORGIO AIRAUDO
“Serve qualcosa di nuovo, D’Alema non è Sanders”
A febbraio nasce Sinistra italiana? Era ora. Siamo in ritardo di parecchi mesi”. Dopo una vita nella Fiom, nel 2013 Giorgio Airaudo è stato eletto alla Camera nelle liste di Sel, che ora è pronta a sciogliersi. Quest’anno è stato il candidato sindaco della sinistra a Torino, con un risultato (il 3,7%) al di sotto delle aspettative. Ha messo la faccia su un progetto nato in modo lento e poco chiaro. “Ora, ben venga il congresso e ben vengaSi. Manon sial’ennesima, piccola patria della sinistra italiana. Non abbiamo bisogno di chiuderci ancora, madi unire eallargare. Soprattutto ai movimenti e alle aggregazioni sociali”. Perdonilo scetticismo,ma èalmeno dai tempi di Occhetto e del Pds che si dice di aprire i partiti di sinistra alla società civile. Lasinistra politicasiricorda dellasinistra sociale –associazioni, sindacati, studenti –solo nei tre mesi che precedono il voto, quando si fanno le liste elettorali. Glielo dice un ex sindacalista che ha fatto il “candidato specchietto”(ride). Ma anche i movimenti si sono accontentati di fare pressione sui governi per le proprie battaglie particolari. È ora di superare sia l’a utoreferenzialità dei politici di sinistra che l’aristocrazia di alcune esperienze sociali. Cosa ci sarà alla sinistra del Pd dopo il referendum? Una lista che tiene insieme anche Civati ed eventuali transfughi della minoranza dem? Se vincesse Renzi, D’Alema e i dalemiani potrebbero uscire dal Pd . La scissione sarebbe un fatto importante. Ma una sinistra con D’Alema, nel 2018, sarebbe ancora credibile? Nel campo dei dalemiani non vedo un Jeremy Corbyn o un Bernie Sanders. È difficile dimenticare il profilo politico di D’Alema; la guerra in Kosovo, la fiducia al governo Monti. Se usciranno dal Pd, bisognerà coinvolgere i dalemiani, ma non ci sarà più spazio per le ambiguità sugli F-35, solo per fare un esempio. A proposito di credibilità: perché a sinistra è così difficile trovare un outsider, un leader giovane? Le cito ancora Sanders. Non è un outsider e non è giovane. Eppure, i millennials americani si sono riconosciuti in un vecchio socialista. Sottolineo: socialista. Bisogna uscire dall’idea della rottamazione, che è un virus renziano. Non basta essere giovani e non aver mai fatto politica: i leader si scelgono sul campo e sulla base di una linea politica chiara e condivisa. Ha in mente un nome? Sì, ma non glielo dirò mai. Quale sarà il rapporto di Sinistra italiana con il Pd? Un rapporto d’alternativa, per forza di cose. Il Pd non èpiù di sinistra da un pezzo. Èil partitodel pareggiodi bilancio in Costituzione edel Jobs Act; rappresenta banche e imprese, l’e s t ablishment. È sulle posizioni dei partiti conservatori europei. Mi dica i primi tre temi su cui rilanciare la sinistra italiana. Primo: spiegare agli italiani come si esce dalla trappola del debito pubblico e riaprire una discussione sull’E u r opa. Secondo: la salute. Gli italiani che non si curano più sono sempre di più, ma gli ospedali sonol’ultima rete sociale. Terzo: il lavoro. Non si crea rendendo i lavoratori più poveri e ricattabili. © RIPRODUZIONE RISERVATA
GIUSEPPE CIVATI
“Non è Possibile aspettare in eterno Cuperlo e Bersani”
Penso che a sinistra, tanto per cominciare, bisognerebbe fare un po’di chiarezza”. Nel 2015 Pippo Civati è stato il primo a lasciare il Pd renziano per formare un suo movimento, Possibile. Oggi pretende coerenza dai potenziali compagni di percorso. “Sinistra italiana trovi una sua posizione: vedo che alcuni di loro fanno campagna per il Sì al referendum, oper ilSo, oper ilForse. Come Zedda o Pisapia, che è andato a Bologna da Virginio Merola (Pd) dicendo di voler rifare l’Ulivo. Boh”. Civati nonè interessatoal congresso di Fratoianni e compagni? È unprocesso che riguarda Sinistra italiana. Noi lo seguiamo, ovviamente, per capire se c’è la volontà di creare una forza alternativa che metta insieme le varie comunità della sinistra. Era l’idea originaria di Possibile, ma il nostro appello fu ignorato, perché come al solito ognuno voleva tenersi il suo simbolo. È pura fantasia, dopo il referendum, la nascita di un partito di sinistra che vada da Fassina a Civati fino a D’Alema (come ha scritto Affari Italiani)? Oggi è un’ipotesi senza alcun fondamento. Domani non so: dentro al Pd ci sono un sacco di posizioni critiche: Marino, Emiliano, D’Alema; Cuperlo e Bersani sono sempre più sfumati e non si capisce bene cosa vogliano fare... Intanto consiglierei a tutti di spendersi per il No al referendum. Oltre le battute sui giornali e in tv, potrebbero fare un po’di campagna referendaria, per il bene della Suprema Ditta che è la Repubblica italiana. Dovessero uscire dal Pd, noi ci siamo: ci trovano già fuori... Una nuova forza di sinistra che rapporto dovrebbe avere col Pd? Semplice:oggicon ilPdèimpossibile qualsiasi rapporto. È un partito di centro che guarda a destra. Renzi ha dimostrato di non essere maturo, credibile, sincero,serio.Tutto quellocheaveva promesso agli elettori è stato smentito dai fatti. Intanto però qualche esponente di Sel promuove iniziative col Pd a Bologna, dove peraltro avevamo un candidato insieme. Non pare molto ottimista... Guardi, io penso che tutti questi mondi della sinistra italiana debbano imparare a lavorare insieme, costruire soluzioni e aprirsi alla società. Bisognerà strutturare un programma di governo credibile. Non estremista, ma convalori repubblicani e di sinistra. Iniziamo a costruire una fisionomia comune in Parlamento, con proposte concrete. Se aspettiamo il congresso di Sinistra italiana, l’uscita della minoranza dal Pd, il Sì-No-Forse al referendum, non ne usciamo più. Però bisogna avere le idee chiare. In Sinistra italiana c’è chi scrive saggi sull’uscita dall’euro (Alfredo D’Attorre, ndr) e chi vuole tornare con il Pd: trovino una quadra. Le sue prime tre proposte per rilanciare la sinistra italiana? La prima è sistemare il fisco con una riforma in senso progressivo. Gli 80 euro sono stati un pasticcio, hanno creato solo disuguaglianza. Si può anche pensare di reintrodurre l’imposta sulla casa ma solo per chi –come me – può permettersi di pagarla. La seconda è investire sullo sviluppo. Puntare in modo molto più selettivo e coraggioso su innovazione tecnologica e ambientale. Questo governo non l’ha fatto. La terza: restituire dignità agli strumenti costituzionali. Ne aggiungo una quarta: certe boiate come i voucher vanno abolite domattina. Sono uno strumento non di precarietà, ma di schiavitù.
TO. RO. © RIPRODUZIONE RISERVATA
La prossima Cosa rossa
SINISTRA, DOVE VAI? Il partito di Vendola si scioglie, a febbraio ci sarà il congresso fondativo della nuova lista di Fratoianni e Fassina. Il referendum può mescolare le carte dentro e fuori il Pd
Sinistra e libertà si scioglie, Sinistra italiana è pronta al battesimo (con parecchi mesi di ritardo dall’annuncio e una brutta sconfitta alle amministrative in mezzo), Giuliano Pisapia e Massimo Zedda sono dubbiosi e vorrebbero riaprire il dialogo col Pd, Pippo Civati attende e osserva, D’Alema e i dalemiani forse si aggregano (se Renzi vince il referendum). Insomma, a sinistra del Partito democratico c’è molto fermento e almeno altrettanta confusione. Dove va e che forma assume la “cosa rossa”? L’abbiamo chiesto a due possibili protagonisti.
GIORGIO AIRAUDO
“Serve qualcosa di nuovo, D’Alema non è Sanders”
A febbraio nasce Sinistra italiana? Era ora. Siamo in ritardo di parecchi mesi”. Dopo una vita nella Fiom, nel 2013 Giorgio Airaudo è stato eletto alla Camera nelle liste di Sel, che ora è pronta a sciogliersi. Quest’anno è stato il candidato sindaco della sinistra a Torino, con un risultato (il 3,7%) al di sotto delle aspettative. Ha messo la faccia su un progetto nato in modo lento e poco chiaro. “Ora, ben venga il congresso e ben vengaSi. Manon sial’ennesima, piccola patria della sinistra italiana. Non abbiamo bisogno di chiuderci ancora, madi unire eallargare. Soprattutto ai movimenti e alle aggregazioni sociali”. Perdonilo scetticismo,ma èalmeno dai tempi di Occhetto e del Pds che si dice di aprire i partiti di sinistra alla società civile. Lasinistra politicasiricorda dellasinistra sociale –associazioni, sindacati, studenti –solo nei tre mesi che precedono il voto, quando si fanno le liste elettorali. Glielo dice un ex sindacalista che ha fatto il “candidato specchietto”(ride). Ma anche i movimenti si sono accontentati di fare pressione sui governi per le proprie battaglie particolari. È ora di superare sia l’a utoreferenzialità dei politici di sinistra che l’aristocrazia di alcune esperienze sociali. Cosa ci sarà alla sinistra del Pd dopo il referendum? Una lista che tiene insieme anche Civati ed eventuali transfughi della minoranza dem? Se vincesse Renzi, D’Alema e i dalemiani potrebbero uscire dal Pd . La scissione sarebbe un fatto importante. Ma una sinistra con D’Alema, nel 2018, sarebbe ancora credibile? Nel campo dei dalemiani non vedo un Jeremy Corbyn o un Bernie Sanders. È difficile dimenticare il profilo politico di D’Alema; la guerra in Kosovo, la fiducia al governo Monti. Se usciranno dal Pd, bisognerà coinvolgere i dalemiani, ma non ci sarà più spazio per le ambiguità sugli F-35, solo per fare un esempio. A proposito di credibilità: perché a sinistra è così difficile trovare un outsider, un leader giovane? Le cito ancora Sanders. Non è un outsider e non è giovane. Eppure, i millennials americani si sono riconosciuti in un vecchio socialista. Sottolineo: socialista. Bisogna uscire dall’idea della rottamazione, che è un virus renziano. Non basta essere giovani e non aver mai fatto politica: i leader si scelgono sul campo e sulla base di una linea politica chiara e condivisa. Ha in mente un nome? Sì, ma non glielo dirò mai. Quale sarà il rapporto di Sinistra italiana con il Pd? Un rapporto d’alternativa, per forza di cose. Il Pd non èpiù di sinistra da un pezzo. Èil partitodel pareggiodi bilancio in Costituzione edel Jobs Act; rappresenta banche e imprese, l’e s t ablishment. È sulle posizioni dei partiti conservatori europei. Mi dica i primi tre temi su cui rilanciare la sinistra italiana. Primo: spiegare agli italiani come si esce dalla trappola del debito pubblico e riaprire una discussione sull’E u r opa. Secondo: la salute. Gli italiani che non si curano più sono sempre di più, ma gli ospedali sonol’ultima rete sociale. Terzo: il lavoro. Non si crea rendendo i lavoratori più poveri e ricattabili. © RIPRODUZIONE RISERVATA
GIUSEPPE CIVATI
“Non è Possibile aspettare in eterno Cuperlo e Bersani”
Penso che a sinistra, tanto per cominciare, bisognerebbe fare un po’di chiarezza”. Nel 2015 Pippo Civati è stato il primo a lasciare il Pd renziano per formare un suo movimento, Possibile. Oggi pretende coerenza dai potenziali compagni di percorso. “Sinistra italiana trovi una sua posizione: vedo che alcuni di loro fanno campagna per il Sì al referendum, oper ilSo, oper ilForse. Come Zedda o Pisapia, che è andato a Bologna da Virginio Merola (Pd) dicendo di voler rifare l’Ulivo. Boh”. Civati nonè interessatoal congresso di Fratoianni e compagni? È unprocesso che riguarda Sinistra italiana. Noi lo seguiamo, ovviamente, per capire se c’è la volontà di creare una forza alternativa che metta insieme le varie comunità della sinistra. Era l’idea originaria di Possibile, ma il nostro appello fu ignorato, perché come al solito ognuno voleva tenersi il suo simbolo. È pura fantasia, dopo il referendum, la nascita di un partito di sinistra che vada da Fassina a Civati fino a D’Alema (come ha scritto Affari Italiani)? Oggi è un’ipotesi senza alcun fondamento. Domani non so: dentro al Pd ci sono un sacco di posizioni critiche: Marino, Emiliano, D’Alema; Cuperlo e Bersani sono sempre più sfumati e non si capisce bene cosa vogliano fare... Intanto consiglierei a tutti di spendersi per il No al referendum. Oltre le battute sui giornali e in tv, potrebbero fare un po’di campagna referendaria, per il bene della Suprema Ditta che è la Repubblica italiana. Dovessero uscire dal Pd, noi ci siamo: ci trovano già fuori... Una nuova forza di sinistra che rapporto dovrebbe avere col Pd? Semplice:oggicon ilPdèimpossibile qualsiasi rapporto. È un partito di centro che guarda a destra. Renzi ha dimostrato di non essere maturo, credibile, sincero,serio.Tutto quellocheaveva promesso agli elettori è stato smentito dai fatti. Intanto però qualche esponente di Sel promuove iniziative col Pd a Bologna, dove peraltro avevamo un candidato insieme. Non pare molto ottimista... Guardi, io penso che tutti questi mondi della sinistra italiana debbano imparare a lavorare insieme, costruire soluzioni e aprirsi alla società. Bisognerà strutturare un programma di governo credibile. Non estremista, ma convalori repubblicani e di sinistra. Iniziamo a costruire una fisionomia comune in Parlamento, con proposte concrete. Se aspettiamo il congresso di Sinistra italiana, l’uscita della minoranza dal Pd, il Sì-No-Forse al referendum, non ne usciamo più. Però bisogna avere le idee chiare. In Sinistra italiana c’è chi scrive saggi sull’uscita dall’euro (Alfredo D’Attorre, ndr) e chi vuole tornare con il Pd: trovino una quadra. Le sue prime tre proposte per rilanciare la sinistra italiana? La prima è sistemare il fisco con una riforma in senso progressivo. Gli 80 euro sono stati un pasticcio, hanno creato solo disuguaglianza. Si può anche pensare di reintrodurre l’imposta sulla casa ma solo per chi –come me – può permettersi di pagarla. La seconda è investire sullo sviluppo. Puntare in modo molto più selettivo e coraggioso su innovazione tecnologica e ambientale. Questo governo non l’ha fatto. La terza: restituire dignità agli strumenti costituzionali. Ne aggiungo una quarta: certe boiate come i voucher vanno abolite domattina. Sono uno strumento non di precarietà, ma di schiavitù.
TO. RO. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
LIBRE news
Noi, i Buoni: da Berlinguer a Renzi, tra santità e salvezza
Scritto il 05/11/16 • nella Categoria: idee Condividi
Quando Occhetto annunciò, nella sorpresa generale, che aveva deciso di cambiar nome al partito, il politologo Aldo Giannuli, allora esponente dell’estrema sinistra, esternò le sue perplessità «a un amico militante più che ortodosso del Pci e che, con uguale ortodossia aderiva alla nuova linea». L’amico, ricorda Giannuli, proruppe in un “Ma tu allora non sei anti-Pci, tu sei anti-Noi!”. E ricordò una battuta di “Cuore”, l’allora supplemento satirico dell’“Unità”, nella quale Montanelli diceva in un telegramma: “Confermato il suffisso anti, per il seguito aspettiamo il nuovo nome del partito”. «Dunque – dice oggi Giannuli – c’era un “noi” che prescindeva dall’identità comunista e che le era sottostante», un “noi” che «poteva chiamarsi in qualsiasi altro modo ma che restava uguale a se stesso». Il Pci era in pieno mutamento ideologico, dalla connotazione “comunista” sempre meno certa; «Ma, che quell’identità fosse diventata una sorta di giacca intercambiabile con tanta indifferenza, era cosa tale da sorprendere anche chi, come me, aveva sempre dubitato dell’identità comunista del Pci». Eppure, proprio da lì si può leggere la parabola che porta fino al Pd renziano, sostenuta in modo fideistico dai discepoli del “noi”, la strana chiesa.La cosa era sconcertante, continua Giannuli ripensando allo “strappo” di Occhetto, perché il Pci era il partito con la più radicata ed esibita identità ideologica, unico con scuole di partito, diffusissime riviste ideologiche e frequentissime liturgie celebrative del comunismo sovietico: almeno sino al 1981 era regolarmente celebrata la ricorrenza rivoluzionaria del 7 novembre. Com’era possibile che tutto questo si dissolvesse come un gelato a ferragosto? «Ben presto si capì che, con la sua tradizionale disciplina, il popolo comunista avrebbe ratificato a larga maggioranza la svolta. Questo era possibile solo ad una condizione: che sotto la “pelle” comunista ci fosse un’altra identità, quella sì, davvero radicata». Anche se ci fu la scissione di Rifondazione Comunista (e quella, silenziosa, di centinaia di migliaia di iscritti che non rinnovarono la tessera senza però aderire a nessun’altra formazione politica), nel complesso la maggioranza degli iscritti seguì disciplinatamente il gruppo dirigente. In nome di cosa? «Mi posi il problema di capire a quale “noi” si stava rivolgendo Occhetto – continua Giannuli – quando esortò tutti gli iscritti a non temere la svolta perché “sarebbero rimasti gli stessi di sempre”».Certo, il Pci aveva assorbito settori delle più diverse culture politiche (socialisti riformisti e massimalisti, cattolici, liberali, azionisti, persino anarchici o sinistra fascista) amalgamando tutto in una base ideologica genericamente “socialista”, ma non si trattava di quello: a essere determinante «non era l’irrompere di culture politiche altre che, per anni, avevano covato sotto la cenere comunista», perché, se così fosse stato, «avremmo assistito ad una esplosione, una diaspora». Invece, «si trattava di un flusso ordinatissimo: le sezioni cambiavano la targa all’ingresso con la massima naturalezza, gli iscritti si adattavano rapidamente al nuovo linguaggio e ai nuovi simboli», e la routine – le feste, il tesseramento – riprendeva come se nulla fosse. Il cambio di nome era solo «un astutissimo espediente tattico per superare la conventio ad excludendum e andare finalmente al governo», pensò qualcuno. «Ma la maggioranza capì perfettamente che non si trattava solo di questo e fu ben lieta di togliersi di dosso quel nome troppo pesante da portare». Quello che reggeva tutto, sottolinea Giannuli, «era quel “noi” che cercavo di identificare».Cos’era, in realtà, quell’ostentata allusione a un’identità collettiva? «Ben presto capii che era il frutto del racconto che il partito aveva fatto della sua storia: il “popolo comunista” era l’unica vera sinistra possibile, la parte migliore del paese, quella immune da scandali e corruzione e caricata di una “missione storica”, quella di “salvare l’Italia”», scrive oggi Giannuli. «L’identità comunista era stata funzionale a questo disegno ma, almeno dal 1956 (se non dal 1944) non corrispondeva ad un particolare indirizzo ideologico». Lo dimostra il fatto che, a un certo punto, scomparve dallo statuto il riferimento al marxismo: «Insomma, non era affatto indispensabile essere comunisti per aderire al Pci». D’altra parte, prosegue il politologo, «la leggenda del “comunismo italiano” diverso da tutti gli altri (in parte vera ma in parte no) venne ripetuta all’infinito, sino a cancellare tanto la radice comunista quanto anche solo quella socialista, lasciando solo il senso di appartenenza ad un soggetto che si sentiva chiamato a “salvare l’Italia” perché diverso e migliore di tutti gli altri italiani (la “diversità comunista” di Berlinguer, ricordate?), anche se la perdita della cultura di origine faceva sì che non si sapesse più da cosa si dovesse salvare il paese e come». Voilà: «La nuova identità era nuda ideologicamente, nutrita solo da una autocelebrazione ormai priva di senso. Era la “chiesa”, che è santa anche quando ha perso memoria delle sue origini e del messaggio evangelico da cui era sorta».
Noi, i Buoni: da Berlinguer a Renzi, tra santità e salvezza
Scritto il 05/11/16 • nella Categoria: idee Condividi
Quando Occhetto annunciò, nella sorpresa generale, che aveva deciso di cambiar nome al partito, il politologo Aldo Giannuli, allora esponente dell’estrema sinistra, esternò le sue perplessità «a un amico militante più che ortodosso del Pci e che, con uguale ortodossia aderiva alla nuova linea». L’amico, ricorda Giannuli, proruppe in un “Ma tu allora non sei anti-Pci, tu sei anti-Noi!”. E ricordò una battuta di “Cuore”, l’allora supplemento satirico dell’“Unità”, nella quale Montanelli diceva in un telegramma: “Confermato il suffisso anti, per il seguito aspettiamo il nuovo nome del partito”. «Dunque – dice oggi Giannuli – c’era un “noi” che prescindeva dall’identità comunista e che le era sottostante», un “noi” che «poteva chiamarsi in qualsiasi altro modo ma che restava uguale a se stesso». Il Pci era in pieno mutamento ideologico, dalla connotazione “comunista” sempre meno certa; «Ma, che quell’identità fosse diventata una sorta di giacca intercambiabile con tanta indifferenza, era cosa tale da sorprendere anche chi, come me, aveva sempre dubitato dell’identità comunista del Pci». Eppure, proprio da lì si può leggere la parabola che porta fino al Pd renziano, sostenuta in modo fideistico dai discepoli del “noi”, la strana chiesa.La cosa era sconcertante, continua Giannuli ripensando allo “strappo” di Occhetto, perché il Pci era il partito con la più radicata ed esibita identità ideologica, unico con scuole di partito, diffusissime riviste ideologiche e frequentissime liturgie celebrative del comunismo sovietico: almeno sino al 1981 era regolarmente celebrata la ricorrenza rivoluzionaria del 7 novembre. Com’era possibile che tutto questo si dissolvesse come un gelato a ferragosto? «Ben presto si capì che, con la sua tradizionale disciplina, il popolo comunista avrebbe ratificato a larga maggioranza la svolta. Questo era possibile solo ad una condizione: che sotto la “pelle” comunista ci fosse un’altra identità, quella sì, davvero radicata». Anche se ci fu la scissione di Rifondazione Comunista (e quella, silenziosa, di centinaia di migliaia di iscritti che non rinnovarono la tessera senza però aderire a nessun’altra formazione politica), nel complesso la maggioranza degli iscritti seguì disciplinatamente il gruppo dirigente. In nome di cosa? «Mi posi il problema di capire a quale “noi” si stava rivolgendo Occhetto – continua Giannuli – quando esortò tutti gli iscritti a non temere la svolta perché “sarebbero rimasti gli stessi di sempre”».Certo, il Pci aveva assorbito settori delle più diverse culture politiche (socialisti riformisti e massimalisti, cattolici, liberali, azionisti, persino anarchici o sinistra fascista) amalgamando tutto in una base ideologica genericamente “socialista”, ma non si trattava di quello: a essere determinante «non era l’irrompere di culture politiche altre che, per anni, avevano covato sotto la cenere comunista», perché, se così fosse stato, «avremmo assistito ad una esplosione, una diaspora». Invece, «si trattava di un flusso ordinatissimo: le sezioni cambiavano la targa all’ingresso con la massima naturalezza, gli iscritti si adattavano rapidamente al nuovo linguaggio e ai nuovi simboli», e la routine – le feste, il tesseramento – riprendeva come se nulla fosse. Il cambio di nome era solo «un astutissimo espediente tattico per superare la conventio ad excludendum e andare finalmente al governo», pensò qualcuno. «Ma la maggioranza capì perfettamente che non si trattava solo di questo e fu ben lieta di togliersi di dosso quel nome troppo pesante da portare». Quello che reggeva tutto, sottolinea Giannuli, «era quel “noi” che cercavo di identificare».Cos’era, in realtà, quell’ostentata allusione a un’identità collettiva? «Ben presto capii che era il frutto del racconto che il partito aveva fatto della sua storia: il “popolo comunista” era l’unica vera sinistra possibile, la parte migliore del paese, quella immune da scandali e corruzione e caricata di una “missione storica”, quella di “salvare l’Italia”», scrive oggi Giannuli. «L’identità comunista era stata funzionale a questo disegno ma, almeno dal 1956 (se non dal 1944) non corrispondeva ad un particolare indirizzo ideologico». Lo dimostra il fatto che, a un certo punto, scomparve dallo statuto il riferimento al marxismo: «Insomma, non era affatto indispensabile essere comunisti per aderire al Pci». D’altra parte, prosegue il politologo, «la leggenda del “comunismo italiano” diverso da tutti gli altri (in parte vera ma in parte no) venne ripetuta all’infinito, sino a cancellare tanto la radice comunista quanto anche solo quella socialista, lasciando solo il senso di appartenenza ad un soggetto che si sentiva chiamato a “salvare l’Italia” perché diverso e migliore di tutti gli altri italiani (la “diversità comunista” di Berlinguer, ricordate?), anche se la perdita della cultura di origine faceva sì che non si sapesse più da cosa si dovesse salvare il paese e come». Voilà: «La nuova identità era nuda ideologicamente, nutrita solo da una autocelebrazione ormai priva di senso. Era la “chiesa”, che è santa anche quando ha perso memoria delle sue origini e del messaggio evangelico da cui era sorta».
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