La Terza Guerra Mondiale
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Re: La Terza Guerra Mondiale
MONDO
Guerra in Iraq: Mosul sarà ripresa, ma più di un milione di civili cercheranno rifugio
Mondo
di Loretta Napoleoni | 23 ottobre 2016
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Più informazioni su: Guerra in Iraq, Isis, Islam, Migranti, Mosul, Nazioni Unite, Profughi
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Loretta Napoleoni
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Da settimane si prepara l’attacco per riconquistare Mosul e da settimane le Nazioni Unite mettono in guardia contro il disastro umanitario che questo produrrà. Più di un milione di civili fuggiranno in cerca di un rifugio. Secondo le Nazioni Unite circa 700mila persone avranno bisogno di aiuti e assistenza immediati: abitazioni, cibo, acqua, per sopravvivere una volta lasciata la città. Questi esseri umani non hanno scelta: rimanere significa rischiare di morire sotto i bombardamenti e, per la popolazione sunnita, rischiare di essere “punita” dalle milizie sciite. E’ successo a Ramadi, a Falluja, a Tikrit, in tutte le città riconquistate dalla coalizione, la quale non è un esercito regolare, ma un’accozzaglia di gruppi armati e milizie settarie, che certamente non conosce né rispetta la convenzione di Ginevra.
In Europa e negli Stati Uniti pochi sanno che le milizie sciite Hashid Shaabi, conosciute anche come Forze di mobilitazione popolare, hanno partecipato alla cattura di Ramadi e Tikrit e che hanno commesso crimini di guerra contro la popolazione una volta cacciati gli jihadisti dell’Isis. Chi pensa che solo il Califfato sia composto da fanatici religiosi, che si esaltano al pensiero di ripetere le grandi battaglie del passato, sbaglia di grosso. Anche gli ‘alleati’ del presidente Obama fuori Mosul sono altrettanto fanatici. Il leader della milizia pro-iraniana Ahl al-Haq, Qais al-Khazali, ha dichiarato che la battaglia di Mosul sarà la vendetta sciita per l’uccisione di Hussein, non Saddam Hussein, si badi bene, ma Hussein ibn Ali, uno dei ‘martiri’ islamici ucciso nella battaglia di Karbala nell’anno 680, battaglia che fu la pietra miliare della lotta fratricida tra Sunni e Scia.
Anche se combattuta con le armi più moderne e con l’ausilio dei droni, la battaglia di Mosul, come quelle che l’hanno preceduta all’interno del territorio definito dall’Isis “Califfato”, nell’immaginario collettivo di chi vi partecipa appartiene al passato, agli albori del primo Califfato. Ecco perché è l’ennesima prova che l’Iraq democratico non esiste, che questa nazione è in mano a forze settarie che alla prima occasione fanno scorrere sangue iracheno. Ed ecco perché la popolazione sunnita di Mosul scapperà, come ha fatto quella di Ramadi, di Tikrit, di Falluja. Ma facciamo attenzione, non scappano dalle atrocità commesse dallo Stato islamico, scappano da quelle che commetteranno le milizie ed i signori della guerra sciiti.
Un destino atroce quello di questi profughi, che la fuga non cambierà. Il viaggio verso l’Europa – poiché è lì che tutti i moderni sfollati vogliono andare – è costoso, lungo e pericolosissimo. I poveri non se lo possono permettere e finiscono nei campi profughi in Iraq. Al momento circa 4 milioni di iracheni vivono in questi campi in condizioni tremende, la maggior parte sono sunniti che con la distruzione delle proprie città hanno perso tutto, quel poco che avevano.
I benestanti vendono oro e gioielli e pagano i contrabbandieri per portarli fuori. Ma la rotta più breve, quella turca è chiusa. Erdogan ha esteso all’Iraq – con il quale la Turchia divide un confine di 350 chilometri – la cosidetta “zona di sicurezza”, circa 900 chilometri quadrati. Creato quest’estate con l’operazione militare “scudo dell’Eufrate“, questo corridoio dovrebbe arrivare a 5.000 chilometri quadrati e correre lungo tutto il confine iracheno. Naturalmente la zona di sicurezza è controllata dalle milizie turche ed ha lo scopo di bloccare il flusso dei rifugiati ed impedire ai curdi di conquistare la lunga striscia di territorio che separa la Siria e l’Iraq dalla Turchia e che va dal Mediterraneo fino al Kurdistan iracheno. In Siria, questa strategia ha già funzionato, le milizie curde sono state costrette a spostarsi a sud ed a est del confine ed il flusso dei rifugiati si è spostato verso sud.
La rotta principale di chi scappa da Aleppo oggi è verso sud, attraverso la Giordania, l’Egitto fino alla Libia da dove ci si imbarca per l’isola di Lampedusa. E’ questa la rotta che gli abitanti di Mosul dovranno scegliere per arrivare in Europa. Il costo è alto perché la strada è lunga ed i rischi sono elevati. I profughi di Mosul arriveranno a pagare anche 10mila dollari, a seconda di come viaggeranno, se in aereo fino ad una delle città costiere della Libia o via terra, nascosti nei camion. Soldi che i contrabbandieri e trafficanti intascheranno.
Ma neppure i fortunati che riusciranno ad approdare vivi a Lampedusa, avranno vita facile. Finiti nel grande calderone dei migranti, verranno trattati come numeri, o peggio, come mercanzia che i governi europei danno in gestione a organizzazioni private, a scopo di lucro. Nel 2015, ad esempio, la Norvegia, un paese di 5 milioni di abitanti, ha accolto 31.500 rifugiati, più del doppio di quelli arrivati l’anno precedente. I migranti provenivano prevalentemente dalla Siria, dall’Afghanistan, dall’Iraq e dall’Eritrea. Le strutture statali per l’immigrazione non riuscivano a gestire un simile afflusso e quindi il governo si è rivolto ad aziende private. Circa il 90 per cento dei profughi della Norvegia è gestito da società private. Per i proprietari di queste organizzazioni l’arrivo dei rifugiati è l’equivalente della Corsa all’Oro, infatti per alloggiarli e nutrirli il governo paga tra i 31 e i 75 dollari al giorno.
La conquista di Mosul sarà una vittoria di breve durata: aprirà un nuovo capitolo di lotte intestine e fratricide in Iraq, alle quali parteciperanno gli sponsor internazionali, tra cui Iran e Turchia; costringerà più di un milione di persone a fuggire, creando un altro disastro umanitario che l’Europa dovrà gestire; arricchirà i contrabbandieri di uomini e l’industria europea dell’accoglienza dei profughi, questi ultimi guadagni verranno realizzati a spese del contribuente europeo.
Ancora una volta i mercanti di uomini capitalizzeranno sugli errori di un’Occidente che ha perso completamente la bussola.
Guerra in Iraq: Mosul sarà ripresa, ma più di un milione di civili cercheranno rifugio
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Da settimane si prepara l’attacco per riconquistare Mosul e da settimane le Nazioni Unite mettono in guardia contro il disastro umanitario che questo produrrà. Più di un milione di civili fuggiranno in cerca di un rifugio. Secondo le Nazioni Unite circa 700mila persone avranno bisogno di aiuti e assistenza immediati: abitazioni, cibo, acqua, per sopravvivere una volta lasciata la città. Questi esseri umani non hanno scelta: rimanere significa rischiare di morire sotto i bombardamenti e, per la popolazione sunnita, rischiare di essere “punita” dalle milizie sciite. E’ successo a Ramadi, a Falluja, a Tikrit, in tutte le città riconquistate dalla coalizione, la quale non è un esercito regolare, ma un’accozzaglia di gruppi armati e milizie settarie, che certamente non conosce né rispetta la convenzione di Ginevra.
In Europa e negli Stati Uniti pochi sanno che le milizie sciite Hashid Shaabi, conosciute anche come Forze di mobilitazione popolare, hanno partecipato alla cattura di Ramadi e Tikrit e che hanno commesso crimini di guerra contro la popolazione una volta cacciati gli jihadisti dell’Isis. Chi pensa che solo il Califfato sia composto da fanatici religiosi, che si esaltano al pensiero di ripetere le grandi battaglie del passato, sbaglia di grosso. Anche gli ‘alleati’ del presidente Obama fuori Mosul sono altrettanto fanatici. Il leader della milizia pro-iraniana Ahl al-Haq, Qais al-Khazali, ha dichiarato che la battaglia di Mosul sarà la vendetta sciita per l’uccisione di Hussein, non Saddam Hussein, si badi bene, ma Hussein ibn Ali, uno dei ‘martiri’ islamici ucciso nella battaglia di Karbala nell’anno 680, battaglia che fu la pietra miliare della lotta fratricida tra Sunni e Scia.
Anche se combattuta con le armi più moderne e con l’ausilio dei droni, la battaglia di Mosul, come quelle che l’hanno preceduta all’interno del territorio definito dall’Isis “Califfato”, nell’immaginario collettivo di chi vi partecipa appartiene al passato, agli albori del primo Califfato. Ecco perché è l’ennesima prova che l’Iraq democratico non esiste, che questa nazione è in mano a forze settarie che alla prima occasione fanno scorrere sangue iracheno. Ed ecco perché la popolazione sunnita di Mosul scapperà, come ha fatto quella di Ramadi, di Tikrit, di Falluja. Ma facciamo attenzione, non scappano dalle atrocità commesse dallo Stato islamico, scappano da quelle che commetteranno le milizie ed i signori della guerra sciiti.
Un destino atroce quello di questi profughi, che la fuga non cambierà. Il viaggio verso l’Europa – poiché è lì che tutti i moderni sfollati vogliono andare – è costoso, lungo e pericolosissimo. I poveri non se lo possono permettere e finiscono nei campi profughi in Iraq. Al momento circa 4 milioni di iracheni vivono in questi campi in condizioni tremende, la maggior parte sono sunniti che con la distruzione delle proprie città hanno perso tutto, quel poco che avevano.
I benestanti vendono oro e gioielli e pagano i contrabbandieri per portarli fuori. Ma la rotta più breve, quella turca è chiusa. Erdogan ha esteso all’Iraq – con il quale la Turchia divide un confine di 350 chilometri – la cosidetta “zona di sicurezza”, circa 900 chilometri quadrati. Creato quest’estate con l’operazione militare “scudo dell’Eufrate“, questo corridoio dovrebbe arrivare a 5.000 chilometri quadrati e correre lungo tutto il confine iracheno. Naturalmente la zona di sicurezza è controllata dalle milizie turche ed ha lo scopo di bloccare il flusso dei rifugiati ed impedire ai curdi di conquistare la lunga striscia di territorio che separa la Siria e l’Iraq dalla Turchia e che va dal Mediterraneo fino al Kurdistan iracheno. In Siria, questa strategia ha già funzionato, le milizie curde sono state costrette a spostarsi a sud ed a est del confine ed il flusso dei rifugiati si è spostato verso sud.
La rotta principale di chi scappa da Aleppo oggi è verso sud, attraverso la Giordania, l’Egitto fino alla Libia da dove ci si imbarca per l’isola di Lampedusa. E’ questa la rotta che gli abitanti di Mosul dovranno scegliere per arrivare in Europa. Il costo è alto perché la strada è lunga ed i rischi sono elevati. I profughi di Mosul arriveranno a pagare anche 10mila dollari, a seconda di come viaggeranno, se in aereo fino ad una delle città costiere della Libia o via terra, nascosti nei camion. Soldi che i contrabbandieri e trafficanti intascheranno.
Ma neppure i fortunati che riusciranno ad approdare vivi a Lampedusa, avranno vita facile. Finiti nel grande calderone dei migranti, verranno trattati come numeri, o peggio, come mercanzia che i governi europei danno in gestione a organizzazioni private, a scopo di lucro. Nel 2015, ad esempio, la Norvegia, un paese di 5 milioni di abitanti, ha accolto 31.500 rifugiati, più del doppio di quelli arrivati l’anno precedente. I migranti provenivano prevalentemente dalla Siria, dall’Afghanistan, dall’Iraq e dall’Eritrea. Le strutture statali per l’immigrazione non riuscivano a gestire un simile afflusso e quindi il governo si è rivolto ad aziende private. Circa il 90 per cento dei profughi della Norvegia è gestito da società private. Per i proprietari di queste organizzazioni l’arrivo dei rifugiati è l’equivalente della Corsa all’Oro, infatti per alloggiarli e nutrirli il governo paga tra i 31 e i 75 dollari al giorno.
La conquista di Mosul sarà una vittoria di breve durata: aprirà un nuovo capitolo di lotte intestine e fratricide in Iraq, alle quali parteciperanno gli sponsor internazionali, tra cui Iran e Turchia; costringerà più di un milione di persone a fuggire, creando un altro disastro umanitario che l’Europa dovrà gestire; arricchirà i contrabbandieri di uomini e l’industria europea dell’accoglienza dei profughi, questi ultimi guadagni verranno realizzati a spese del contribuente europeo.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
LIBRE news
Navi e missili, e se questa guerra ora ci esplode addosso?
Scritto il 24/10/16 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
Giochi di guerra, sempre più pericolosi, a cui il mondo sembra assistere in modo apatico e distratto. Alla vigilia delle elezioni presidenziali, Washington non fa che alzare la posta, contro Mosca, da quando Putin ha osato opporsi alla demolizione della Siria dopo aver assistito a quella della Libia. La situazione sembra stia rapidamente precipitando, in uno scenario in cui i media russi parlano apertamente del rischio di una guerra nucleare, la Casa Bianca minaccia di colpire la Russia anche con un attacco cibernetico e il Cremlino spedisce nel Mediterraneo la più potente flotta da guerra mai uscita in missione dai tempi dell’Urss. E un grande giornalista come Robert Fisk sospetta che l’improvvisa liberazione di Mosul decisa dagli americani “serva” a trasferire in Siria i miliziani jihadisti: «L’esercito siriano, Hezbollah e gli alleati iraniani si stanno preparando a una a massiccia invasione di migliaia di “Isis fighters” che saranno cacciati dall’Iraq dopo la caduta di Mosul», scrive Fisk sull’“Independent”. «Il sospetto dell’esercito siriano è che il vero scopo, dietro la tanto strombettata “liberazione” della città irachena programmata dagli Usa, sia quello di sommergere la Siria con orde di combattenti Isis che devono abbandonare le loro capitale irachena per raggiungere la loro “mini-capitale” Raqqa all’interno della Siria stessa».E’ come se si stesse rapidamente scivolando verso il baratro: lo si capisce dalla successione degli eventi che affollano la stampa mainstream, e meglio ancora dal preciso monitoraggio offerto dal blog “Come Don Chisciotte”, che presenta lo stesso reportage di Fisk insieme a molti altri retroscena. Su “Zero Hedge”, Tyler Durden rivela che, secondo un diplomatico Nato, la Russia sta schierando nel Mediterraneo orientale la più grande forza navale dalla fine della guerra fredda, capitanata dalla portaerei Admiral Kuznetsov: oltre ai caccia Mig-29 e Sukhoi Su-33, secondo l’agenzia Tass l’ammiraglia imbarca midiciali elicotteri d’attacco come i Ka-52 Alligator, cioè la massima dotazione dell’armamento convenzionale russo, con il quale Putin proverà a chiudere la partita con l’Isis in Siria: «Vedremo un crescendo di attacchi aerei su Aleppo come parte di una strategia della Russia che vuol dichiarare vittoria», secondo la Nato. «Intensificare una campagna aerea su Aleppo orientale, dove sono intrappolate 275 mila persone, potrebbe ulteriormente peggiorare i legami tra Mosca e l’Occidente», secondo la fonte diplomatica. «Questo assalto dovrebbe essere sufficiente per consentire una strategia di uscita della Russia, se Mosca dovesse ritenere che Assad sia ormai abbastanza stabile per sopravvivere da solo».Proprio l’andamento della guerra in Siria, paese largamente riconquistato dalle forze governative dopo la discesa in campo di Mosca, sembra preoccupare i protettori occulti dell’Isis, cioè gli Stati Uniti, che hanno appoggiato sottobanco le milizie “islamiste” soprattutto attraverso l’Arabia Saudita, il Qatar e, fino a ieri, la Turchia. La Russia è sotto pressione, a partire dal golpe in Ucraina con la destabilizzazione dei confini e la rivolta del Donbass. Quello che Obama non perdona a Putin – da qui le sanzioni autolesionistiche che l’Ue è stata costretta ad adottare – è il fatto di aver osato reagire al colpo di Stato a Kiev riappropriandosi della Crimea, strategica per il controllo del Mar Nero. Una partita a scacchi: persa la Crimea, l’Occidente ha puntato tutto sull’Isis in Siria fino a minacciare la sopravvivenza di Assad. E il nuovo intervento difensivo russo, a sostegno di Damasco, è stato ancora una volta coronato dal successo. Nei piani del Cremlino, l’attacco finale su Aleppo dovrebbe disarticolare definitivamente le milizie dell’Isis, mandando all’aria i piani dei “signori della guerra” che, a partire dalla demolizione dell’Iraq, hanno continuamente gettato benzina sul fuoco in tutta la regione, sfruttando il conflitto tra sciiti e sunniti.Il pericolo cresce, quanto più si avvicina la possibile vittoria di Putin – inaccettabile, per Obama, specie alla vigilia delle elezioni, su cui incombe la “minaccia” di Trump, l’outsider che promette di porre fine alla “guerra permanente” in Medio Oriente. Così, “Nbc News” avverte che «la Cia si prepara a un possibile attacco cibernetico contro la Russia». Interrogato in proposito da Chuck Todd a “Meet the press”, il vicepresidente Joe Biden conferma: gli Usa colpiranno. «Ne abbiamo le capacità», ha detto. E l’attacco «avverrà nel momento che riteniamo opportuno e sotto le circostanze che giudichiamo garantire il maggiore impatto», come riferisce Michael Snyder su “The Economic Collapse”. In più, la “Reuters” afferma che Obama sta contemplando l’ipotesi di «un intervento militare americano diretto» contro obiettivi militari siriani, ben sapendo che i russi hanno già messo in chiaro che reagiranno coi loro missili a qualunque aggressione diretta contro le forze di Assad. Nelle televisioni moscovite, intanto, si ricomincia a parlare apertamente di rifugi antiatomici. E il Mediterrano si va riempiendo di navi da guerra, armate con testate di ogni tipo.
Navi e missili, e se questa guerra ora ci esplode addosso?
Scritto il 24/10/16 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
Giochi di guerra, sempre più pericolosi, a cui il mondo sembra assistere in modo apatico e distratto. Alla vigilia delle elezioni presidenziali, Washington non fa che alzare la posta, contro Mosca, da quando Putin ha osato opporsi alla demolizione della Siria dopo aver assistito a quella della Libia. La situazione sembra stia rapidamente precipitando, in uno scenario in cui i media russi parlano apertamente del rischio di una guerra nucleare, la Casa Bianca minaccia di colpire la Russia anche con un attacco cibernetico e il Cremlino spedisce nel Mediterraneo la più potente flotta da guerra mai uscita in missione dai tempi dell’Urss. E un grande giornalista come Robert Fisk sospetta che l’improvvisa liberazione di Mosul decisa dagli americani “serva” a trasferire in Siria i miliziani jihadisti: «L’esercito siriano, Hezbollah e gli alleati iraniani si stanno preparando a una a massiccia invasione di migliaia di “Isis fighters” che saranno cacciati dall’Iraq dopo la caduta di Mosul», scrive Fisk sull’“Independent”. «Il sospetto dell’esercito siriano è che il vero scopo, dietro la tanto strombettata “liberazione” della città irachena programmata dagli Usa, sia quello di sommergere la Siria con orde di combattenti Isis che devono abbandonare le loro capitale irachena per raggiungere la loro “mini-capitale” Raqqa all’interno della Siria stessa».E’ come se si stesse rapidamente scivolando verso il baratro: lo si capisce dalla successione degli eventi che affollano la stampa mainstream, e meglio ancora dal preciso monitoraggio offerto dal blog “Come Don Chisciotte”, che presenta lo stesso reportage di Fisk insieme a molti altri retroscena. Su “Zero Hedge”, Tyler Durden rivela che, secondo un diplomatico Nato, la Russia sta schierando nel Mediterraneo orientale la più grande forza navale dalla fine della guerra fredda, capitanata dalla portaerei Admiral Kuznetsov: oltre ai caccia Mig-29 e Sukhoi Su-33, secondo l’agenzia Tass l’ammiraglia imbarca midiciali elicotteri d’attacco come i Ka-52 Alligator, cioè la massima dotazione dell’armamento convenzionale russo, con il quale Putin proverà a chiudere la partita con l’Isis in Siria: «Vedremo un crescendo di attacchi aerei su Aleppo come parte di una strategia della Russia che vuol dichiarare vittoria», secondo la Nato. «Intensificare una campagna aerea su Aleppo orientale, dove sono intrappolate 275 mila persone, potrebbe ulteriormente peggiorare i legami tra Mosca e l’Occidente», secondo la fonte diplomatica. «Questo assalto dovrebbe essere sufficiente per consentire una strategia di uscita della Russia, se Mosca dovesse ritenere che Assad sia ormai abbastanza stabile per sopravvivere da solo».Proprio l’andamento della guerra in Siria, paese largamente riconquistato dalle forze governative dopo la discesa in campo di Mosca, sembra preoccupare i protettori occulti dell’Isis, cioè gli Stati Uniti, che hanno appoggiato sottobanco le milizie “islamiste” soprattutto attraverso l’Arabia Saudita, il Qatar e, fino a ieri, la Turchia. La Russia è sotto pressione, a partire dal golpe in Ucraina con la destabilizzazione dei confini e la rivolta del Donbass. Quello che Obama non perdona a Putin – da qui le sanzioni autolesionistiche che l’Ue è stata costretta ad adottare – è il fatto di aver osato reagire al colpo di Stato a Kiev riappropriandosi della Crimea, strategica per il controllo del Mar Nero. Una partita a scacchi: persa la Crimea, l’Occidente ha puntato tutto sull’Isis in Siria fino a minacciare la sopravvivenza di Assad. E il nuovo intervento difensivo russo, a sostegno di Damasco, è stato ancora una volta coronato dal successo. Nei piani del Cremlino, l’attacco finale su Aleppo dovrebbe disarticolare definitivamente le milizie dell’Isis, mandando all’aria i piani dei “signori della guerra” che, a partire dalla demolizione dell’Iraq, hanno continuamente gettato benzina sul fuoco in tutta la regione, sfruttando il conflitto tra sciiti e sunniti.Il pericolo cresce, quanto più si avvicina la possibile vittoria di Putin – inaccettabile, per Obama, specie alla vigilia delle elezioni, su cui incombe la “minaccia” di Trump, l’outsider che promette di porre fine alla “guerra permanente” in Medio Oriente. Così, “Nbc News” avverte che «la Cia si prepara a un possibile attacco cibernetico contro la Russia». Interrogato in proposito da Chuck Todd a “Meet the press”, il vicepresidente Joe Biden conferma: gli Usa colpiranno. «Ne abbiamo le capacità», ha detto. E l’attacco «avverrà nel momento che riteniamo opportuno e sotto le circostanze che giudichiamo garantire il maggiore impatto», come riferisce Michael Snyder su “The Economic Collapse”. In più, la “Reuters” afferma che Obama sta contemplando l’ipotesi di «un intervento militare americano diretto» contro obiettivi militari siriani, ben sapendo che i russi hanno già messo in chiaro che reagiranno coi loro missili a qualunque aggressione diretta contro le forze di Assad. Nelle televisioni moscovite, intanto, si ricomincia a parlare apertamente di rifugi antiatomici. E il Mediterrano si va riempiendo di navi da guerra, armate con testate di ogni tipo.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Fra Donald Trump e Hillary Clinton io non mi chiedo chi è il migliore dei due, ma chi è il meno peggio, il meno pericoloso.
Il livello culturale ed intellettivo del pianeta, in questa fase storica, si è abbassato brutalmente sotto il livello i guardia.
Lo conferma questa valutazione iniziale di Marcello Foa.
E' come dire: "Vogliamo morire fucilati oppure impiccati???"
Il problema è che nessuno di noi vuole morire.
Oppure, "Volete essere operati da un chirurgo macellaio o da uno cannibale???
Fino a poco tempo fa, si sarebbe risposto: "Da un chirurgo che sappia il suo mestiere".
Oggi invece, sull'orlo del baratro il modo di pensare è cambiato
Non si tratta di scegliere il meno peggio, ma di avere il coraggio civile di dire che i due candidati alla presidenza degli Stati Uniti non sono assolutamente idonei a guidare una nazione che determinerà i destini dell'umanità in questa fase.
Le elite massonico-finanziarie che hanno interessi nella guerra gongolano con due personaggi decelebrati di questo genere.
LIBRE news
Foa: Hillary ci trascina in guerra con Putin. Renzi? Esegue
Scritto il 26/10/16 • nella Categoria: idee Condividi
Fra Donald Trump e Hillary Clinton io non mi chiedo chi è il migliore dei due, ma chi è il meno peggio, il meno pericoloso.
Paradossalmente, conoscendo bene Hillary e vedendo i disastri che ha fatto in Libia, nel mondo arabo e in Siria all’inizio della guerra, quando era segretario di Stato, e sapendo che Hillary Clinton in realtà è una “neocon”, ovvero una rappresentante degli orientamenti del neo-conservatorismo estremo che ha guidato la politica Usa dal 2011 a oggi coi risultati disastrosi che vediamo, ebbene io dico che tra i due è molto meno rischioso Trump, non foss’altro perché vuole una distensione con la Russia, mentre Hillary – come Obama – preme per un conflitto con la Russia.
E io rabbrividisco al solo pensiero di un conflitto tra Stati Uniti e Russia, in Europa, con il rischio che vengano usate le armi atomiche.
E’ veramente una follia, e per questo penso che Trump sarebbe meno pericoloso di Hillary.
I soldati italiani che saranno inviati al confine con la Russia? E’ gravissimo, ma purtroppo non è sorprendente.
Renzi, che fa le sue sparate pubbliche contro l’Unione Europea e qualche tempo fa, anche con un certo coraggio, si era schierato con posizioni favorevoli o simpatizzanti nei confronti della Russia, poi quando l’America ti dice (tramite la Nato) che bisogna mandare soldati in Lituania, Estonia, al confine con la Russia, non ha il coraggio di opporsi, perché alla fine chi comanda sono gli Stati Uniti – e nessun leader europeo, tranne poche eccezioni, ha il coraggio di dire no, di anteporre gli interessi nazionali.
Questo è un altro aspetto che non viene dibattuto, e invece è molto significativo: per me questa decisione è scandalosa, perché ci espone al rischio di una rappresaglia diretta da parte della Russia, rischio che non possiamo permetteci di correre, e soprattutto lancia un messaggio sbagliatissimo: l’Italia è amica della Russia e deve evitare queste forme di provocazione. Purtroppo, invece, l’evidenzia dimostra che, se Washington dice “bisogna che voi mandiate i soldati”, l’Italia poi china la testa e manda i soldati.
Dovremmo veramente chiederci se tutto questo è davvero nel nostro interesse.
La Russia non ha fatto nulla per provocare gli Stati Uniti.
Ma gli americani, nei loro disegni strategici, sono convinti che la Russia debba essere controllata.
Sono convinti che, controllando lo spazio eurasiatico, possano mantenere la leadership nel mondo e mettere in un angolo la Cina.
Putin non è un leader allineato.
Inizialmente lo era; ma poi, quando l’America ha iniziato a occuparsi dell’Ucraina, si è reso conto che non poteva fidarsi degli americani ed è cominciata questa schermaglia, inizialmente verbale, e poi sfociata nelle sanzioni.
Il vero obiettivo degli Stati Uniti è provocare l’uscita di scena di Putin: sostituirlo con un leader russo che sia in realtà molto amico degli Usa, come peraltro era Eltsin. E per far questo sono disposti a tutto: l’arma delle sanzioni, l’arma delle minacce.
Ma attenzione: i russi non sono un piccolo paese come l’Iraq, o un paese che può essere facilmente messo sotto pressione come qualunque piccolo paese occidentale.
La Russia resta una grande potenza, dotata di una certa intelligenza e di un servizio di intelligence raffinato.
E infatti le risposte che vediamo sono veramente fuori dagli schemi. Il problema è che questo disegno degli americani rischia di portare il mondo a una nuova guerra mondiale, a una guerra nucleare.
Il rischio, purtroppo, è molto concreto.
E io sono davvero preoccupato: se fino a oggi non ci siamo arrivati è perché la Russia è riuscita a mantenere i nervi molto saldi.
Ma, mi chiedo: c’è davvero bisogno di spingerci fino a questo punto? La risposta, ovviamente, potere immaginarla.
(Marcello Foa, dichiarazioni rilasciate alla trasmissione web-radio “Border Nights” del 18 ottobre 2016, condotta da Fabio Frabetti in collaborazione con Stefania Nicoletti – un lungo colloquio radiofonico, in cui Foa si è espresso in modo approfondito e circostanziato sulla scandalosa reticenza dei media mainstream soprattutto in relazione ai gravissimi abusi commessi da Hillary Clinton).
Il livello culturale ed intellettivo del pianeta, in questa fase storica, si è abbassato brutalmente sotto il livello i guardia.
Lo conferma questa valutazione iniziale di Marcello Foa.
E' come dire: "Vogliamo morire fucilati oppure impiccati???"
Il problema è che nessuno di noi vuole morire.
Oppure, "Volete essere operati da un chirurgo macellaio o da uno cannibale???
Fino a poco tempo fa, si sarebbe risposto: "Da un chirurgo che sappia il suo mestiere".
Oggi invece, sull'orlo del baratro il modo di pensare è cambiato
Non si tratta di scegliere il meno peggio, ma di avere il coraggio civile di dire che i due candidati alla presidenza degli Stati Uniti non sono assolutamente idonei a guidare una nazione che determinerà i destini dell'umanità in questa fase.
Le elite massonico-finanziarie che hanno interessi nella guerra gongolano con due personaggi decelebrati di questo genere.
LIBRE news
Foa: Hillary ci trascina in guerra con Putin. Renzi? Esegue
Scritto il 26/10/16 • nella Categoria: idee Condividi
Fra Donald Trump e Hillary Clinton io non mi chiedo chi è il migliore dei due, ma chi è il meno peggio, il meno pericoloso.
Paradossalmente, conoscendo bene Hillary e vedendo i disastri che ha fatto in Libia, nel mondo arabo e in Siria all’inizio della guerra, quando era segretario di Stato, e sapendo che Hillary Clinton in realtà è una “neocon”, ovvero una rappresentante degli orientamenti del neo-conservatorismo estremo che ha guidato la politica Usa dal 2011 a oggi coi risultati disastrosi che vediamo, ebbene io dico che tra i due è molto meno rischioso Trump, non foss’altro perché vuole una distensione con la Russia, mentre Hillary – come Obama – preme per un conflitto con la Russia.
E io rabbrividisco al solo pensiero di un conflitto tra Stati Uniti e Russia, in Europa, con il rischio che vengano usate le armi atomiche.
E’ veramente una follia, e per questo penso che Trump sarebbe meno pericoloso di Hillary.
I soldati italiani che saranno inviati al confine con la Russia? E’ gravissimo, ma purtroppo non è sorprendente.
Renzi, che fa le sue sparate pubbliche contro l’Unione Europea e qualche tempo fa, anche con un certo coraggio, si era schierato con posizioni favorevoli o simpatizzanti nei confronti della Russia, poi quando l’America ti dice (tramite la Nato) che bisogna mandare soldati in Lituania, Estonia, al confine con la Russia, non ha il coraggio di opporsi, perché alla fine chi comanda sono gli Stati Uniti – e nessun leader europeo, tranne poche eccezioni, ha il coraggio di dire no, di anteporre gli interessi nazionali.
Questo è un altro aspetto che non viene dibattuto, e invece è molto significativo: per me questa decisione è scandalosa, perché ci espone al rischio di una rappresaglia diretta da parte della Russia, rischio che non possiamo permetteci di correre, e soprattutto lancia un messaggio sbagliatissimo: l’Italia è amica della Russia e deve evitare queste forme di provocazione. Purtroppo, invece, l’evidenzia dimostra che, se Washington dice “bisogna che voi mandiate i soldati”, l’Italia poi china la testa e manda i soldati.
Dovremmo veramente chiederci se tutto questo è davvero nel nostro interesse.
La Russia non ha fatto nulla per provocare gli Stati Uniti.
Ma gli americani, nei loro disegni strategici, sono convinti che la Russia debba essere controllata.
Sono convinti che, controllando lo spazio eurasiatico, possano mantenere la leadership nel mondo e mettere in un angolo la Cina.
Putin non è un leader allineato.
Inizialmente lo era; ma poi, quando l’America ha iniziato a occuparsi dell’Ucraina, si è reso conto che non poteva fidarsi degli americani ed è cominciata questa schermaglia, inizialmente verbale, e poi sfociata nelle sanzioni.
Il vero obiettivo degli Stati Uniti è provocare l’uscita di scena di Putin: sostituirlo con un leader russo che sia in realtà molto amico degli Usa, come peraltro era Eltsin. E per far questo sono disposti a tutto: l’arma delle sanzioni, l’arma delle minacce.
Ma attenzione: i russi non sono un piccolo paese come l’Iraq, o un paese che può essere facilmente messo sotto pressione come qualunque piccolo paese occidentale.
La Russia resta una grande potenza, dotata di una certa intelligenza e di un servizio di intelligence raffinato.
E infatti le risposte che vediamo sono veramente fuori dagli schemi. Il problema è che questo disegno degli americani rischia di portare il mondo a una nuova guerra mondiale, a una guerra nucleare.
Il rischio, purtroppo, è molto concreto.
E io sono davvero preoccupato: se fino a oggi non ci siamo arrivati è perché la Russia è riuscita a mantenere i nervi molto saldi.
Ma, mi chiedo: c’è davvero bisogno di spingerci fino a questo punto? La risposta, ovviamente, potere immaginarla.
(Marcello Foa, dichiarazioni rilasciate alla trasmissione web-radio “Border Nights” del 18 ottobre 2016, condotta da Fabio Frabetti in collaborazione con Stefania Nicoletti – un lungo colloquio radiofonico, in cui Foa si è espresso in modo approfondito e circostanziato sulla scandalosa reticenza dei media mainstream soprattutto in relazione ai gravissimi abusi commessi da Hillary Clinton).
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Re: La Terza Guerra Mondiale
La Spagna non rifornirà la Kuznetsov?
OTT 26, 2016 41 COMMENTI ULTIME NOTIZIE FRANCO IACCH
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“Ogni nazione ha il sacrosanto diritto di rifornire le navi che attraccano nei propri porti, ma la Spagna non dovrebbe garantire assistenza e supporto al gruppo da battaglia russo”.
LEGGI ANCHE: La Russia si espande a Oriente
La Spagna è nell’occhio del ciclone per l’assistenza che si appresta a fornire al gruppo da battaglia della portaerei Admiral Kuznetsov. Tra poche ore, dopo aver attraversato lo stretto di Gibilterra, la flottiglia russa composta da otto unità, raggiungerà il porto di Ceuta, enclave spagnola in Nord Africa, per fare rifornimento di viveri e carburante. Soltanto le navi logistiche e la petroliera (circa 3.750 tonnellate di combustibile) a supporto del gruppo da battaglia dovrebbero attraccare nel porto di Ceuta. Dopo la sosta, la flottiglia russa riprendere la navigazione fino a raggiungerà la sua posizione d’attacco nel Mediterraneo orientale. I raid dovrebbero iniziare entro la prima settimana di novembre.
“Madrid deve ripensare alle sue prossime azioni – ha affermato Jens Stoltenberg, Segretario Generale della Nato – quel gruppo da battaglia potrebbe essere utilizzato per intensificare i raid aerei sulla città assediata di Aleppo dove sono intrappolate 275.000 persone”.
“È compito delle nazioni che si trovano lungo la rotta per il Mediterraneo orientale garantire o meno viveri e carburante al gruppo da battaglia della Kuznetsov, ma la Nato è preoccupata per il potenziale impiego di tali vettori. Credo che tutti gli alleati siano consapevoli che le unità russe saranno utilizzate per condurre attacchi aerei sulla Siria”.
La questione del porto di Ceuta è particolare. Tecnicamente non rientra nei trattati della Nato. La Spagna rifornisce regolarmente le navi da guerra russe nel porto franco del Nord Africa fin dal 2010, anno in cui è stato aperto al supporto logistico per le navi delle altre nazioni. Sarebbero circa cinquanta le unità russe tra sottomarini, fregate, cacciatorpediniere, navi da assalto anfibio ed ausiliarie che dal 2010 hanno fatto sosta a Ceuta.
Il porto di Ceuta
Dopo la fine della Guerra fredda, Mosca perse l’accesso a molte delle basi straniere e strutture portuali su cui le forze armate russe facevano affidamento per la proiezione globale. L’accesso al porto spagnolo di Ceuta è vitale per mantenere la presenza navale russa nel Mediterraneo occidentale e nel nord-est dell’Atlantico. Da rilevare il rapporto che lega i due Paesi. Basti pensare, ad esempio, il ruolo delle società spagnole politicamente ben collegate presenti in Russia come Talgo, Iberdrola e Repsol. La questione di Ceuta, quindi, andrebbe letta in chiave tecnica, economica e con evidenti connotazioni politiche.
Un Paese membro della Nato, Organizzazione che ufficialmente considera la Russa come una minaccia che sta affrontando in diversi contesti come nei Paesi baltici, dovrebbe rifornire le navi russe?
I russi, accusati di bombardamenti indiscriminati su Aleppo ed in Siria, dovrebbero ricevere assistenza militare da un Paese, la Spagna, che proprio la scorsa settimana ha riconosciuto i crimini di guerra di Mosca firmando la dichiarazione dell’UE? La Spagna, dovrebbe garantire assistenza ad un paese, la Russia, ancora oggetto di sanzioni?
LEGGI ANCHE: La Russia è tornata una superpotenza
Secondo la Russia, la sosta delle unità navali, autorizzate caso per caso dal Ministero degli Esteri spagnolo, non violano il regime di sanzioni UE ed avvengono nel rispetto della normativa internazionale e nazionale. Il governo spagnolo rispetta scrupolosamente le sanzioni dell’Unione europea, ma cerca di mantenere le migliori relazioni possibili con la Russia. L’ultima dimostrazione è l’invito di Mosca, esteso a Madrid, per partecipare al gruppo internazionale di mediazione nella guerra siriana. Per Mosca, la sosta di Ceuta è semplice routine, da considerare come una formale questione commerciale. Non è insolito per le navi della marina russa rifornirsi in altri paesi della NATO, come Grecia ed Italia.
OTT 26, 2016 41 COMMENTI ULTIME NOTIZIE FRANCO IACCH
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“Ogni nazione ha il sacrosanto diritto di rifornire le navi che attraccano nei propri porti, ma la Spagna non dovrebbe garantire assistenza e supporto al gruppo da battaglia russo”.
LEGGI ANCHE: La Russia si espande a Oriente
La Spagna è nell’occhio del ciclone per l’assistenza che si appresta a fornire al gruppo da battaglia della portaerei Admiral Kuznetsov. Tra poche ore, dopo aver attraversato lo stretto di Gibilterra, la flottiglia russa composta da otto unità, raggiungerà il porto di Ceuta, enclave spagnola in Nord Africa, per fare rifornimento di viveri e carburante. Soltanto le navi logistiche e la petroliera (circa 3.750 tonnellate di combustibile) a supporto del gruppo da battaglia dovrebbero attraccare nel porto di Ceuta. Dopo la sosta, la flottiglia russa riprendere la navigazione fino a raggiungerà la sua posizione d’attacco nel Mediterraneo orientale. I raid dovrebbero iniziare entro la prima settimana di novembre.
“Madrid deve ripensare alle sue prossime azioni – ha affermato Jens Stoltenberg, Segretario Generale della Nato – quel gruppo da battaglia potrebbe essere utilizzato per intensificare i raid aerei sulla città assediata di Aleppo dove sono intrappolate 275.000 persone”.
“È compito delle nazioni che si trovano lungo la rotta per il Mediterraneo orientale garantire o meno viveri e carburante al gruppo da battaglia della Kuznetsov, ma la Nato è preoccupata per il potenziale impiego di tali vettori. Credo che tutti gli alleati siano consapevoli che le unità russe saranno utilizzate per condurre attacchi aerei sulla Siria”.
La questione del porto di Ceuta è particolare. Tecnicamente non rientra nei trattati della Nato. La Spagna rifornisce regolarmente le navi da guerra russe nel porto franco del Nord Africa fin dal 2010, anno in cui è stato aperto al supporto logistico per le navi delle altre nazioni. Sarebbero circa cinquanta le unità russe tra sottomarini, fregate, cacciatorpediniere, navi da assalto anfibio ed ausiliarie che dal 2010 hanno fatto sosta a Ceuta.
Il porto di Ceuta
Dopo la fine della Guerra fredda, Mosca perse l’accesso a molte delle basi straniere e strutture portuali su cui le forze armate russe facevano affidamento per la proiezione globale. L’accesso al porto spagnolo di Ceuta è vitale per mantenere la presenza navale russa nel Mediterraneo occidentale e nel nord-est dell’Atlantico. Da rilevare il rapporto che lega i due Paesi. Basti pensare, ad esempio, il ruolo delle società spagnole politicamente ben collegate presenti in Russia come Talgo, Iberdrola e Repsol. La questione di Ceuta, quindi, andrebbe letta in chiave tecnica, economica e con evidenti connotazioni politiche.
Un Paese membro della Nato, Organizzazione che ufficialmente considera la Russa come una minaccia che sta affrontando in diversi contesti come nei Paesi baltici, dovrebbe rifornire le navi russe?
I russi, accusati di bombardamenti indiscriminati su Aleppo ed in Siria, dovrebbero ricevere assistenza militare da un Paese, la Spagna, che proprio la scorsa settimana ha riconosciuto i crimini di guerra di Mosca firmando la dichiarazione dell’UE? La Spagna, dovrebbe garantire assistenza ad un paese, la Russia, ancora oggetto di sanzioni?
LEGGI ANCHE: La Russia è tornata una superpotenza
Secondo la Russia, la sosta delle unità navali, autorizzate caso per caso dal Ministero degli Esteri spagnolo, non violano il regime di sanzioni UE ed avvengono nel rispetto della normativa internazionale e nazionale. Il governo spagnolo rispetta scrupolosamente le sanzioni dell’Unione europea, ma cerca di mantenere le migliori relazioni possibili con la Russia. L’ultima dimostrazione è l’invito di Mosca, esteso a Madrid, per partecipare al gruppo internazionale di mediazione nella guerra siriana. Per Mosca, la sosta di Ceuta è semplice routine, da considerare come una formale questione commerciale. Non è insolito per le navi della marina russa rifornirsi in altri paesi della NATO, come Grecia ed Italia.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
LIBRE news
Può scapparci una bomba (atomica) se giochi coi terroristi
Scritto il 28/10/16 • nella Categoria: idee Condividi Tweet
L’America fa paura: è indebolita ma resta pericolosa, senza una vera leadership.
Non sta cercando di inziare una Terza Guerra Mondiale contro la Russia, ma un “incidente” con armi nucleari non è da escludere, a forza di “giocare” coi terroristi, armati e arruolati per servire Washington sotto falsa bandiera.
Lo afferma Dmitry Orlov, scrittore e ingegnere russo-americano.
«I vertici militari e i politici possono anche essere deliranti, megalomani e potenzialmente suicidi, ma i personaggi di medio livello che sviluppano i piani di guerra hanno di rado tendenze suicide», premette Orlov.
Inoltre, nel teatro che più di ogni altro potrebbe provocare l’irreparabile – la Siria – Mosca ha «accuratamente limitato le opzioni del Pentagono».
Per abbattere il governo Assad servirebbe infatti l’imposizione di una “no-fly zone”, che però è impossibile: i russi hanno dotato i siriani del sistema missilistico S-300, «che può abbattere qualunque cosa voli sui cieli di quasi tutta la Siria e parte della Turchia».
Il motivo principale per iniziare una guerra, oggi?
«E’ il fatto che l’esercito siriano sta vincendo la battaglia di Aleppo».
Una in fuga «gli jihadisti appoggiati dagli americani», la guerra civile siriana «sarà praticamente finita e inizierà la ricostruzione».
Questo risultato appare sempre più inevitabile, scrive Orlov in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”.
E così, «il progetto americano di vedere una bandiera nera sventolare su Damasco è in frantumi».
Ma, «siccome gli americani sono gente che non sa perdere», c’è il rischio che qualcuno possa «commettere azioni casuali e autodistruttive».
Dietro alla cosiddetta “isteria anti-Putin”, comunque, Orlov vede soprattutto il riflesso della “isteria anti-Trump”: «La stampa corporativa è tutta a favore della Clinton».
E la strategia della Clinton, «anche se patetica», consiste nell’affermare che Trump «è il fattorino di Putin», perciò «la strategia è demonizzare Putin e sperare che un po’ di questa demonizzazione ricada su Trump».
Ma non funziona: «I recenti sondaggi di opinione negli Stati Uniti mostrano che Putin è più popolare sia della Clinton che di Trump».
Eppure, «la preoccupazione che la guerra con la Russia possa scoppiare per un incidente rimane», visto anche il “talento” dimostrato dagli Stati Uniti, in passato, nel creare disastri.
Gli americani, ricorda Orlov, contrastarono con successo l’Unione Sovietica in Afghanistan armando e addestrando estremisti islamici (i Mujaheddin), e questo «è solo un esempio di dove il “terrorismo americano per interposta persona” ha avuto successo».
Terrorismo «inventato per l’occasione da Zbigniew Brzezinski e Jimmy Carter», fu in sostanza «un piano per distruggere l’Afghanistan allo scopo di salvarlo e, in pratica, funzionò, ma solo per la parte che riguardava la distruzione dell’Afghanistan».
Da allora in poi, il piano «è fallito tutte le volte, a tutti i livelli, ma questo non ha impedito agli americani di perseverare nei tentativi di utilizzarlo».
Vero: «Ci hanno provato in Cecenia, finanziando e armando i separatisti ceceni, ma lì la Russia ha avuto il sopravvento e ora la Cecenia è una parte pacifica della Federazione Russa.
E naturalmente ci hanno provato in Siria, nel corso degli ultimi cinque anni, con gli stessi, scarsi risultati».
Se la Siria seguirà l’esempio ceceno, continua Orlov, nel prossimo decennio «sarà una repubblica riunificata, secolare, con elezioni libere e democratiche, ricostruita con l’assistenza russa e cinese e con i grattacieli di Aleppo che rivaleggeranno con quelli della ricostruita Grozny, in Cecenia».
Nel frattempo, gli Usa continueranno con i tentativi di usare altrove il loro “terrorismo per interposta persona”?
«Si potrebbe pensare che, dopo il loro fallimento nel sostenere i “combattenti per la libertà” in Cecenia, gli strateghi americani abbiano imparato la semplice lezione: il “terrorismo per interposta persona” non funziona.
Ma non imparano quasi mai dai loro errori», preferendo «raddoppiare la posta in gioco di questa tattica fallimentare».
Infatti, «mentre usavano i terroristi per contrastare i sovietici in Afghanistan, hanno accidentalmente creato i Talebani, poi hanno invaso l’Afghanistan e hanno combattuto i Talebani per tutti gli ultimi 15 anni, ogni volta sempre con meno successo».
Quando poi il “terrorismo per interposta persona” contro i propri nemici è fallito, «gli americani hanno poi deciso di usarlo contro se stessi: un attacco terroristico, presumibilmente commesso l’11 Settembre dalle stesse persone che essi avevano addestrato ad equipaggiato in Afganistan, rinominate al-Qaeda, li spinse ad attaccare l’Iraq».
All’epoca non c’erano terroristi in Iraq, ma gli americani “risolsero” subito il problema: smantellarono l’esercito di Saddam creando la nuova milizia che chiamarono Nic, cioè “New Iraqi Corps”, «beatamente ignoranti del fatto che “nic”, nell’idioma locale, vuol dire “fottere”».
Intanto, agli ufficiali iracheni imprigionati veniva data ampia opportunità di esasperarsi, di creare una rete di collegamenti e di confrontarsi a vicenda; sicché, «dopo il loro rilascio fondarono l’Isis, che a sua volta si prese una bella fetta di Iraq, poi di Siria».
Il problema degli Usa, oggi, è l’assenza di leadership: «Né Obama, né la Clinton, né Trump contano», sostiene Orlov.
Così, senza un vero piano in ambito geopolitico, «vengono cautamente confinati e contrastati da altre nazioni, le quali hanno capito che, anche nella loro senescenza e decrepitezza, gli Stati Uniti rimangono (comunque) pericolosi».
C’è da temere che continuino a ricorrere al “terrorismo per interposta persona”, «anche se periodicamente si faranno male da soli», ma a un certo punto qualche scheggia impazzita «potrebbe accidentalmente scappare di mano e scatenare un conflitto maggiore».
I media accreditano la sensazione di una rottura definitiva tra Mosca e Washington, per esempio sulla Siria, dove invece Usa e Russia hanno solo sospeso i negoziati bilaterali – quelli multilaterali, invece, continuano.
Ma attenzione: i russi non resteranno accomodanti all’infinito, avverte Orlov.
Di recente, Mosca ha reagito a muso duro dopo l’“accidentale” bombardamento delle truppe siriane a Deir-ez-Zor, chiaramente coordinato con l’Isis, che immediatamente dopo l’attacco è passato all’offensiva.
Una palese violazione del cessate il fuoco, che ha indotto i russi a definire gli statunitensi “incapaci di onorare un accordo”.
Peggio ancora: «Alcuni osservatori hanno fatto notare che il fiasco di Deir-ez-Zor fa capire come l’amministrazione Obama non abbia più il controllo del Pentagono».
Ipotesi rafforzata quando «gli americani, o i loro terroristi mercenari, hanno bombardato un convoglio umanitario e hanno tentato di scaricare la colpa sui russi».
In più, i russi hanno appena cancellato un accordo sulla riduzione dell’eccesso di plutonio, «l’unico trattato sulla riduzione delle armi che Obama era riuscito a negoziare in tutti i suoi otto anni di incarico».
Motivo del dietrofront russo: gli Usa «non sono riusciti a smaltire la loro quota di plutonio».
La Casa Bianca ha subito la “punizione” senza neanche un minimo accenno sulla stampa nazionale, «che probabilmente era troppo impegnata a fare l’isterica».
Può scapparci una bomba (atomica) se giochi coi terroristi
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L’America fa paura: è indebolita ma resta pericolosa, senza una vera leadership.
Non sta cercando di inziare una Terza Guerra Mondiale contro la Russia, ma un “incidente” con armi nucleari non è da escludere, a forza di “giocare” coi terroristi, armati e arruolati per servire Washington sotto falsa bandiera.
Lo afferma Dmitry Orlov, scrittore e ingegnere russo-americano.
«I vertici militari e i politici possono anche essere deliranti, megalomani e potenzialmente suicidi, ma i personaggi di medio livello che sviluppano i piani di guerra hanno di rado tendenze suicide», premette Orlov.
Inoltre, nel teatro che più di ogni altro potrebbe provocare l’irreparabile – la Siria – Mosca ha «accuratamente limitato le opzioni del Pentagono».
Per abbattere il governo Assad servirebbe infatti l’imposizione di una “no-fly zone”, che però è impossibile: i russi hanno dotato i siriani del sistema missilistico S-300, «che può abbattere qualunque cosa voli sui cieli di quasi tutta la Siria e parte della Turchia».
Il motivo principale per iniziare una guerra, oggi?
«E’ il fatto che l’esercito siriano sta vincendo la battaglia di Aleppo».
Una in fuga «gli jihadisti appoggiati dagli americani», la guerra civile siriana «sarà praticamente finita e inizierà la ricostruzione».
Questo risultato appare sempre più inevitabile, scrive Orlov in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”.
E così, «il progetto americano di vedere una bandiera nera sventolare su Damasco è in frantumi».
Ma, «siccome gli americani sono gente che non sa perdere», c’è il rischio che qualcuno possa «commettere azioni casuali e autodistruttive».
Dietro alla cosiddetta “isteria anti-Putin”, comunque, Orlov vede soprattutto il riflesso della “isteria anti-Trump”: «La stampa corporativa è tutta a favore della Clinton».
E la strategia della Clinton, «anche se patetica», consiste nell’affermare che Trump «è il fattorino di Putin», perciò «la strategia è demonizzare Putin e sperare che un po’ di questa demonizzazione ricada su Trump».
Ma non funziona: «I recenti sondaggi di opinione negli Stati Uniti mostrano che Putin è più popolare sia della Clinton che di Trump».
Eppure, «la preoccupazione che la guerra con la Russia possa scoppiare per un incidente rimane», visto anche il “talento” dimostrato dagli Stati Uniti, in passato, nel creare disastri.
Gli americani, ricorda Orlov, contrastarono con successo l’Unione Sovietica in Afghanistan armando e addestrando estremisti islamici (i Mujaheddin), e questo «è solo un esempio di dove il “terrorismo americano per interposta persona” ha avuto successo».
Terrorismo «inventato per l’occasione da Zbigniew Brzezinski e Jimmy Carter», fu in sostanza «un piano per distruggere l’Afghanistan allo scopo di salvarlo e, in pratica, funzionò, ma solo per la parte che riguardava la distruzione dell’Afghanistan».
Da allora in poi, il piano «è fallito tutte le volte, a tutti i livelli, ma questo non ha impedito agli americani di perseverare nei tentativi di utilizzarlo».
Vero: «Ci hanno provato in Cecenia, finanziando e armando i separatisti ceceni, ma lì la Russia ha avuto il sopravvento e ora la Cecenia è una parte pacifica della Federazione Russa.
E naturalmente ci hanno provato in Siria, nel corso degli ultimi cinque anni, con gli stessi, scarsi risultati».
Se la Siria seguirà l’esempio ceceno, continua Orlov, nel prossimo decennio «sarà una repubblica riunificata, secolare, con elezioni libere e democratiche, ricostruita con l’assistenza russa e cinese e con i grattacieli di Aleppo che rivaleggeranno con quelli della ricostruita Grozny, in Cecenia».
Nel frattempo, gli Usa continueranno con i tentativi di usare altrove il loro “terrorismo per interposta persona”?
«Si potrebbe pensare che, dopo il loro fallimento nel sostenere i “combattenti per la libertà” in Cecenia, gli strateghi americani abbiano imparato la semplice lezione: il “terrorismo per interposta persona” non funziona.
Ma non imparano quasi mai dai loro errori», preferendo «raddoppiare la posta in gioco di questa tattica fallimentare».
Infatti, «mentre usavano i terroristi per contrastare i sovietici in Afghanistan, hanno accidentalmente creato i Talebani, poi hanno invaso l’Afghanistan e hanno combattuto i Talebani per tutti gli ultimi 15 anni, ogni volta sempre con meno successo».
Quando poi il “terrorismo per interposta persona” contro i propri nemici è fallito, «gli americani hanno poi deciso di usarlo contro se stessi: un attacco terroristico, presumibilmente commesso l’11 Settembre dalle stesse persone che essi avevano addestrato ad equipaggiato in Afganistan, rinominate al-Qaeda, li spinse ad attaccare l’Iraq».
All’epoca non c’erano terroristi in Iraq, ma gli americani “risolsero” subito il problema: smantellarono l’esercito di Saddam creando la nuova milizia che chiamarono Nic, cioè “New Iraqi Corps”, «beatamente ignoranti del fatto che “nic”, nell’idioma locale, vuol dire “fottere”».
Intanto, agli ufficiali iracheni imprigionati veniva data ampia opportunità di esasperarsi, di creare una rete di collegamenti e di confrontarsi a vicenda; sicché, «dopo il loro rilascio fondarono l’Isis, che a sua volta si prese una bella fetta di Iraq, poi di Siria».
Il problema degli Usa, oggi, è l’assenza di leadership: «Né Obama, né la Clinton, né Trump contano», sostiene Orlov.
Così, senza un vero piano in ambito geopolitico, «vengono cautamente confinati e contrastati da altre nazioni, le quali hanno capito che, anche nella loro senescenza e decrepitezza, gli Stati Uniti rimangono (comunque) pericolosi».
C’è da temere che continuino a ricorrere al “terrorismo per interposta persona”, «anche se periodicamente si faranno male da soli», ma a un certo punto qualche scheggia impazzita «potrebbe accidentalmente scappare di mano e scatenare un conflitto maggiore».
I media accreditano la sensazione di una rottura definitiva tra Mosca e Washington, per esempio sulla Siria, dove invece Usa e Russia hanno solo sospeso i negoziati bilaterali – quelli multilaterali, invece, continuano.
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Di recente, Mosca ha reagito a muso duro dopo l’“accidentale” bombardamento delle truppe siriane a Deir-ez-Zor, chiaramente coordinato con l’Isis, che immediatamente dopo l’attacco è passato all’offensiva.
Una palese violazione del cessate il fuoco, che ha indotto i russi a definire gli statunitensi “incapaci di onorare un accordo”.
Peggio ancora: «Alcuni osservatori hanno fatto notare che il fiasco di Deir-ez-Zor fa capire come l’amministrazione Obama non abbia più il controllo del Pentagono».
Ipotesi rafforzata quando «gli americani, o i loro terroristi mercenari, hanno bombardato un convoglio umanitario e hanno tentato di scaricare la colpa sui russi».
In più, i russi hanno appena cancellato un accordo sulla riduzione dell’eccesso di plutonio, «l’unico trattato sulla riduzione delle armi che Obama era riuscito a negoziare in tutti i suoi otto anni di incarico».
Motivo del dietrofront russo: gli Usa «non sono riusciti a smaltire la loro quota di plutonio».
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Re: La Terza Guerra Mondiale
INCHIESTA
Donne e bimbe rapite dall'Isis e vendute online
Il Califfato finanzia la sua guerra mettendo all'asta le sue prigioniere nelle chat su Telegram e altre applicazioni per smartphone. È l'agghiacciante mercato delle "sabaya", catturate durante i combattimenti e poi trasformate in schiave sessuali. Un traffico che l'Espresso è in grado di documentare e mostrare
DI SARA LUCARONI
27 ottobre 2016
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Una delle vittime della tratta
Tradisce un dolore devastante quello sguardo di vetro di una bambina di 12 anni, ingigantito dall’umiliazione della posa: maglietta con spalla scoperta, la mano tocca la bandiera nera appesa alla parete. C’è anche lei tra le foto di una vendita avvenuta un mese e mezzo fa in una chat segreta di Telegram, l’ultima di cui si hanno prove. Chi le ha intercettate sostiene che fosse per pochi danarosi, che le ragazze siano state rivendute tutte e che i mercati fisici siano ridotti per evitare spostamenti e assembramenti. Le città al centro del traffico sono Mosul e Deir Ezzor. Le vetrine i database e gli account privati di Instagram o siti come “al Khillafah”- Il Califfato, “Sabbi”- Prigionieri, “Sabyya lilbaee”- Prigionieri in vendita, “Alhidayya”- La Guida, “Suq al Khilafah”- Il Mercato del Califfato. Averne una è privilegio e diritto di combattenti, emiri e sceicchi di Al Baghdadi. Ma ora che i raid aerei della Coalizione fanno più male e più paura, con Mosul sotto attacco, con la paga del combattente scesa a 35 euro e i miliziani stranieri che cominciano a dissentire su strategie e obiettivi, quel privilegio e quel diritto stringono la presa su vite già distrutte.
La tendenza è recente: make up pesante, fronzoli, abiti “occidentali” in salotti di marmo o in un giardino. Ora si aggiunge anche la descrizione del comportamento e delle specialità nelle prestazioni sessuali. I compratori hanno dai 20 ai 60 anni e sono solo militanti e affiliati all’Isis: iracheni, siriani, marocchini, algerini, tunisini, turchi, libici, egiziani, sudanesi, uzbeki, kazaki, ma anche belgi e australiani. E naturalmente i sauditi, i più ricchi. «Ora circolano foto senza numeri, si compra e si vende in piccolissimi gruppi Telegram o negli appositi siti in cui vengono postate le foto con il prezzo. Ma non sappiamo cosa succede loro, il luogo di vendita, la trattativa», spiega Khidher Domle, ricercatore e membro del “Conflict and Peace Building Center” all’Università di Duhok.
Isis, le foto delle donne in vendita su Telegram
http://espresso.repubblica.it/inchieste ... =HEF_RULLO
Donne e bimbe rapite dall'Isis e vendute online
Il Califfato finanzia la sua guerra mettendo all'asta le sue prigioniere nelle chat su Telegram e altre applicazioni per smartphone. È l'agghiacciante mercato delle "sabaya", catturate durante i combattimenti e poi trasformate in schiave sessuali. Un traffico che l'Espresso è in grado di documentare e mostrare
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Una delle vittime della tratta
Tradisce un dolore devastante quello sguardo di vetro di una bambina di 12 anni, ingigantito dall’umiliazione della posa: maglietta con spalla scoperta, la mano tocca la bandiera nera appesa alla parete. C’è anche lei tra le foto di una vendita avvenuta un mese e mezzo fa in una chat segreta di Telegram, l’ultima di cui si hanno prove. Chi le ha intercettate sostiene che fosse per pochi danarosi, che le ragazze siano state rivendute tutte e che i mercati fisici siano ridotti per evitare spostamenti e assembramenti. Le città al centro del traffico sono Mosul e Deir Ezzor. Le vetrine i database e gli account privati di Instagram o siti come “al Khillafah”- Il Califfato, “Sabbi”- Prigionieri, “Sabyya lilbaee”- Prigionieri in vendita, “Alhidayya”- La Guida, “Suq al Khilafah”- Il Mercato del Califfato. Averne una è privilegio e diritto di combattenti, emiri e sceicchi di Al Baghdadi. Ma ora che i raid aerei della Coalizione fanno più male e più paura, con Mosul sotto attacco, con la paga del combattente scesa a 35 euro e i miliziani stranieri che cominciano a dissentire su strategie e obiettivi, quel privilegio e quel diritto stringono la presa su vite già distrutte.
La tendenza è recente: make up pesante, fronzoli, abiti “occidentali” in salotti di marmo o in un giardino. Ora si aggiunge anche la descrizione del comportamento e delle specialità nelle prestazioni sessuali. I compratori hanno dai 20 ai 60 anni e sono solo militanti e affiliati all’Isis: iracheni, siriani, marocchini, algerini, tunisini, turchi, libici, egiziani, sudanesi, uzbeki, kazaki, ma anche belgi e australiani. E naturalmente i sauditi, i più ricchi. «Ora circolano foto senza numeri, si compra e si vende in piccolissimi gruppi Telegram o negli appositi siti in cui vengono postate le foto con il prezzo. Ma non sappiamo cosa succede loro, il luogo di vendita, la trattativa», spiega Khidher Domle, ricercatore e membro del “Conflict and Peace Building Center” all’Università di Duhok.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Aleppo, una guerra totale
OTT 28, 2016 2 COMMENTI IN EVIDENZA,PUNTI DI VISTA ALESSANDRA BENIGNETTI
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“La cosa peggiore è vivere ogni giorno sotto il tiro ininterrotto dei missili che non cadono solo sull’esercito e sulle milizie ribelli, ma anche sui civili innocenti, sulle scuole, sugli ospedali sulle chiese, sulle moschee, per le strade e sulle abitazioni della gente”. Racconta così, Padre Ibrahim Alsabagh, parroco della chiesa parrocchiale latina di San Francesco d’Assisi, la sua vita nell’inferno di Aleppo. La città siriana che sta attraversando la sua notte più lunga. Quella della guerra di tutti contro tutti. Racconta la notte di Aleppo, Padre Alsabagh, “un istante prima dell’alba”. Come il titolo del suo libro, che raccoglie lettere e impressioni della vita del sacerdote dentro “l’apocalisse” del conflitto siriano.
“Un istante prima dell’alba”
Racconta il dolore di “aspettare insieme ad una madre, le notizie dei due figli intrappolati sotto le macerie del quarto piano di un edificio, con le lacrime negli occhi ed il Rosario in mano”. Racconta il dolore di “accompagnare, mano nella mano, una madre e un padre al funerale del loro unico figlio di sette anni”. Padre Ibrahim Alsabagh, è, infatti, prima di tutto un sacerdote, che cura le anime afflitte di chi ad Aleppo resta anche solo “perché qui, almeno, ha un posto al cimitero”. Ma è anche un “vigile del fuoco, un infermiere, un badante”. In un posto in cui “la vita è impossibile”. Oggi ad al Shahba, un quartiere occidentale controllato dalle truppe governative, poco distante dalla parrocchia di Padre Alsabagh e dal convento dei frati francescani della Custodia di Terra Santa, sei bambini sono morti ed altri 15 sono rimasti feriti, nel bombardamento di una scuola da parte dei ribelli. Altri tre bambini hanno perso la vita in un altro attacco dei ribelli nel vicino distretto di Al Hamdaniya.
“È una situazione impossibile per la vita”, racconta Padre Alsabagh presentando il suo libro ai giornalisti, “viviamo da più di tre anni senza elettricità, per settimane rimaniamo senza acqua, l’80% delle famiglie della nostra comunità sono senza lavoro, il 92% sono sotto la soglia della povertà e il 30% vive nella miseria più totale”. “Mancano ospedali attrezzati, mancano i medici perché la maggior parte sono scappati all’estero, mancano le medicine”, racconta il sacerdote. Sono molti quelli che scappano, “che si buttano nelle braccia dei pirati” pur di avere una possibilità di sopravvivere. “Ad Aleppo sono rimasti solo i più poveri”, spiega il sacerdote, “oppure quelli che sono convinti di rimanere, che sperano in un futuro migliore e pensano che valga la pena, dopo aver aspettato cinque anni, aspettare ancora un po’”. “Davanti al dramma di un popolo in agonia, ci siamo rimboccati le maniche, con la semplicità francescana e ci siamo inchinati davanti alle piaghe dell’umanità, davanti a chi viene privato ogni giorno, centinaia di volte, della propria dignità umana”, racconta Padre Alsabagh, “anche se nessuno, oggi, nel mondo è all’altezza di dare una risposta ad una crisi umanitaria come quella in corso in Siria, ed in special modo ad Aleppo”.
I civili ostaggio dei ribelli ad Aleppo Est
“Abbiamo sentito di 12 persone ad Aleppo Est, uccise dai ribelli perché provavano ad uscire dai corridoi umanitari per consegnarsi all’esercito regolare e di un capo religioso musulmano, che aveva organizzato una manifestazione pacifica per chiedere il permesso alle milizie di fare uscire tutti gli innocenti, che è stato ammazzato dai ribelli”. Padre Alsabagh testimonia una realtà diversa da quella che siamo abituati ad ascoltare. “Bisogna evitare di fare una lettura parziale della crisi”, afferma il sacerdote. “Nella parte occidentale della città vivono 1,2 milioni di abitanti sotto la protezione di Assad e dell’esercito regolare, mentre la parte Est è un’area più piccola della città, controllata dalle milizie ribelli, dove vivono circa duecentomila persone”, spiega il presule, “da più di tre anni i ribelli bombardano i civili nei nostri quartieri per terrorizzare il popolo, come arma di pressione contro il governo”. Per questo, afferma Padre Alsabagh, “quando i giornali parlano solo dei bombardamenti dell’esercito di Assad o dei russi sulla parte orientale rimaniamo a bocca aperta”. Il sacerdote ha quindi ricordato che “quando si parla di Aleppo, bisogna parlare del martirio dei civili sia ad est, sia ad ovest, perché la violenza è cieca, e a pagare sono sempre gli innocenti, come succede anche in queste ore”.
“Ad Aleppo si combatte la Terza Guerra Mondiale”
Nella città siriana il rischio, secondo il sacerdote, è quello di una “guerra totale”. La situazione, infatti, peggiora di giorno in giorno. “La città è divisa in due, a volte si combatte anche a distanza di due metri, con missili di tre metri, di grande potenza”, afferma il presule. Uno di questi è caduto pochi giorni fa nel monastero delle suore carmelitane. La comunità internazionale resta divisa. “Questa divisione si riflette nelle aule delle Nazioni Unite e nelle strade di Aleppo”, dice Padre Alsabagh. “Se la comunità internazionale non mostrerà maturità tutto il mondo sarà come Aleppo”, afferma il sacerdote, perché “la situazione sta precipitando non solo a livello umanitario ma, in generale, sul piano del dialogo internazionale”.
“La Guerra Mondiale a pezzi, di cui ha parlato Papa Francesco, è già in atto”, afferma padre Alsabagh, “e noi da Aleppo ne cogliamo i segnali: nelle truppe sul terreno, nei camion carichi di armi, nei missili con enormi capacità distruttive”. “Ora sono i potenti che devono scegliere”, dice il sacerdote. Ed è una scelta netta, tra “continuare questa guerra all’infinito o cercare una soluzione attraverso il dialogo”. Padre Alsabagh è sicuro: “Oggi l’umanità si trova ad un bivio che segnerà la storia del mondo”. “Dove vogliamo andare?”, si chiede il parroco della città martoriata. “Verso una guerra totale?”.
OTT 28, 2016 2 COMMENTI IN EVIDENZA,PUNTI DI VISTA ALESSANDRA BENIGNETTI
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“La cosa peggiore è vivere ogni giorno sotto il tiro ininterrotto dei missili che non cadono solo sull’esercito e sulle milizie ribelli, ma anche sui civili innocenti, sulle scuole, sugli ospedali sulle chiese, sulle moschee, per le strade e sulle abitazioni della gente”. Racconta così, Padre Ibrahim Alsabagh, parroco della chiesa parrocchiale latina di San Francesco d’Assisi, la sua vita nell’inferno di Aleppo. La città siriana che sta attraversando la sua notte più lunga. Quella della guerra di tutti contro tutti. Racconta la notte di Aleppo, Padre Alsabagh, “un istante prima dell’alba”. Come il titolo del suo libro, che raccoglie lettere e impressioni della vita del sacerdote dentro “l’apocalisse” del conflitto siriano.
“Un istante prima dell’alba”
Racconta il dolore di “aspettare insieme ad una madre, le notizie dei due figli intrappolati sotto le macerie del quarto piano di un edificio, con le lacrime negli occhi ed il Rosario in mano”. Racconta il dolore di “accompagnare, mano nella mano, una madre e un padre al funerale del loro unico figlio di sette anni”. Padre Ibrahim Alsabagh, è, infatti, prima di tutto un sacerdote, che cura le anime afflitte di chi ad Aleppo resta anche solo “perché qui, almeno, ha un posto al cimitero”. Ma è anche un “vigile del fuoco, un infermiere, un badante”. In un posto in cui “la vita è impossibile”. Oggi ad al Shahba, un quartiere occidentale controllato dalle truppe governative, poco distante dalla parrocchia di Padre Alsabagh e dal convento dei frati francescani della Custodia di Terra Santa, sei bambini sono morti ed altri 15 sono rimasti feriti, nel bombardamento di una scuola da parte dei ribelli. Altri tre bambini hanno perso la vita in un altro attacco dei ribelli nel vicino distretto di Al Hamdaniya.
“È una situazione impossibile per la vita”, racconta Padre Alsabagh presentando il suo libro ai giornalisti, “viviamo da più di tre anni senza elettricità, per settimane rimaniamo senza acqua, l’80% delle famiglie della nostra comunità sono senza lavoro, il 92% sono sotto la soglia della povertà e il 30% vive nella miseria più totale”. “Mancano ospedali attrezzati, mancano i medici perché la maggior parte sono scappati all’estero, mancano le medicine”, racconta il sacerdote. Sono molti quelli che scappano, “che si buttano nelle braccia dei pirati” pur di avere una possibilità di sopravvivere. “Ad Aleppo sono rimasti solo i più poveri”, spiega il sacerdote, “oppure quelli che sono convinti di rimanere, che sperano in un futuro migliore e pensano che valga la pena, dopo aver aspettato cinque anni, aspettare ancora un po’”. “Davanti al dramma di un popolo in agonia, ci siamo rimboccati le maniche, con la semplicità francescana e ci siamo inchinati davanti alle piaghe dell’umanità, davanti a chi viene privato ogni giorno, centinaia di volte, della propria dignità umana”, racconta Padre Alsabagh, “anche se nessuno, oggi, nel mondo è all’altezza di dare una risposta ad una crisi umanitaria come quella in corso in Siria, ed in special modo ad Aleppo”.
I civili ostaggio dei ribelli ad Aleppo Est
“Abbiamo sentito di 12 persone ad Aleppo Est, uccise dai ribelli perché provavano ad uscire dai corridoi umanitari per consegnarsi all’esercito regolare e di un capo religioso musulmano, che aveva organizzato una manifestazione pacifica per chiedere il permesso alle milizie di fare uscire tutti gli innocenti, che è stato ammazzato dai ribelli”. Padre Alsabagh testimonia una realtà diversa da quella che siamo abituati ad ascoltare. “Bisogna evitare di fare una lettura parziale della crisi”, afferma il sacerdote. “Nella parte occidentale della città vivono 1,2 milioni di abitanti sotto la protezione di Assad e dell’esercito regolare, mentre la parte Est è un’area più piccola della città, controllata dalle milizie ribelli, dove vivono circa duecentomila persone”, spiega il presule, “da più di tre anni i ribelli bombardano i civili nei nostri quartieri per terrorizzare il popolo, come arma di pressione contro il governo”. Per questo, afferma Padre Alsabagh, “quando i giornali parlano solo dei bombardamenti dell’esercito di Assad o dei russi sulla parte orientale rimaniamo a bocca aperta”. Il sacerdote ha quindi ricordato che “quando si parla di Aleppo, bisogna parlare del martirio dei civili sia ad est, sia ad ovest, perché la violenza è cieca, e a pagare sono sempre gli innocenti, come succede anche in queste ore”.
“Ad Aleppo si combatte la Terza Guerra Mondiale”
Nella città siriana il rischio, secondo il sacerdote, è quello di una “guerra totale”. La situazione, infatti, peggiora di giorno in giorno. “La città è divisa in due, a volte si combatte anche a distanza di due metri, con missili di tre metri, di grande potenza”, afferma il presule. Uno di questi è caduto pochi giorni fa nel monastero delle suore carmelitane. La comunità internazionale resta divisa. “Questa divisione si riflette nelle aule delle Nazioni Unite e nelle strade di Aleppo”, dice Padre Alsabagh. “Se la comunità internazionale non mostrerà maturità tutto il mondo sarà come Aleppo”, afferma il sacerdote, perché “la situazione sta precipitando non solo a livello umanitario ma, in generale, sul piano del dialogo internazionale”.
“La Guerra Mondiale a pezzi, di cui ha parlato Papa Francesco, è già in atto”, afferma padre Alsabagh, “e noi da Aleppo ne cogliamo i segnali: nelle truppe sul terreno, nei camion carichi di armi, nei missili con enormi capacità distruttive”. “Ora sono i potenti che devono scegliere”, dice il sacerdote. Ed è una scelta netta, tra “continuare questa guerra all’infinito o cercare una soluzione attraverso il dialogo”. Padre Alsabagh è sicuro: “Oggi l’umanità si trova ad un bivio che segnerà la storia del mondo”. “Dove vogliamo andare?”, si chiede il parroco della città martoriata. “Verso una guerra totale?”.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Carri armati tedeschi al confine russo
OTT 28, 2016 28 COMMENTI ULTIME NOTIZIE FRANCO IACCH
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La Germania invierà in Lituania anche una formazione di carri armati Leopard 2. Il piano rientra nel più grande rafforzamento militare della NATO ai confini della Russia dai tempi della Guerra fredda. Nei prossimi mesi si assisterà ad un graduale aumento della presenza militare lungo i fianchi orientali e meridionali della NATO. E’ stato il Ministro della Difesa tedesco Ursula von der Leyen ad annunciare l’impiego dei Leopard 2 durante l’ultima riunione che si è tenuta nel quartier generale dell’Alleanza, a Bruxelles.
banner_cristiani
Il battaglione NATO sotto il comando tedesco sarà di stanza in Lituania entro il prossimo febbraio. Il personale del battaglione sarà composto da mille soldati, 450-650 dei quali provenienti dalla Germania. Altri 300/500 soldati saranno schierati da Francia, Belgio e Croazia. Il battaglione tattico (così come gli altri tre in rotazione), volto a scoraggiare una possibile aggressione russa nella regione dei Paesi Baltici, sarà autonomo e pienamente operativo dal primo giugno del prossimo anno.
La Germania prende seriamente la sicurezza dei membri della NATO sul fianco orientale – ha ribadito il Ministro della Difesa tedesco Ursula von der Leyen – i nostri carri armati sono un segnale chiaro. Qualsiasi attacco contro un membro della NATO sarà considerato come un atto di guerra rivolto ai 28 membri dell’Alleanza.
Il problema dei carri armati tedeschi
Le munizioni dei carri armati tedeschi non sarebbero in grado di produrre abbastanza energia cinetica per mettere fuori uso l’ultima versione dei T-90 e dei T-80. Senza considerare, infine, la piattaforma T-14 Armata. Durante la Guerra Fredda, i tedeschi avevano in inventario poco meno di 2400 Leopard di tutte le versioni. A causa di tagli alla Difesa, la Germania ridusse quel numero a 225 Leopard-2 in servizio attivo. La crisi ucraina, tuttavia, ha scatenato preoccupazioni in Occidente tanto da spingere il Ministro della Difesa tedesco, Ursula von der Leyen, ad ordinare altri 100 Leopard-2. Nella Bundeswehr, quindi, saranno in servizio 328 carri armati. Il problema dei Leopard-2 è nel loro sistema di combattimento. Per essere efficaci, i proiettili dei Leopard dovrebbero essere di uranio impoverito. Tuttavia, dal punto di vista politico questo è ormai inaccettabile. La maggior parte dei carri armati tedeschi operativi sono della serie A-6 e A-5. Circa 100 Leopard-2 sono della serie A-4. La modernizzazione delle munizioni avverrà solo a partire dal 2017 e riguarderà soltanto la serie A-7.
I battaglioni della NATO: l’Italia in Lettonia
Il primo battaglione NATO sotto il comando tedesco sarà di stanza in Lituania entro il prossimo gennaio. Il personale sarà composto da circa mille soldati provenienti da Germania, Francia, Belgio e Croazia.
Il secondo battaglione NATO sotto il comando canadese sarà di stanza in Lettonia entro il prossimo gennaio. Il personale sarà composto da circa mille soldati provenienti da Canada, Albania, Italia, Polonia e Slovenia.
Il terzo battaglione NATO sotto il comando inglese sarà di stanza in Estonia entro il prossimo gennaio. Il personale sarà composto da circa mille soldati provenienti dal Regno Unito, Danimarca e Francia.
Il quarto battaglione NATO sotto il comando statunitense sarà di stanza in Polonia entro il prossimo gennaio. Il personale sarà composto da circa mille soldati provenienti Stati Uniti, Romania e Regno Unito.
Per controbilanciare l’accumulo di forze in Europa orientale, la Russia sta predisponendo, secondo dichiarazioni ufficiale del Cremlino, quattro divisioni, nove brigate e 22 reggimenti. Saranno schierate a Rostov sul Don e nelle regioni di Smolensk e Voronezh entro la fine dell’anno
OTT 28, 2016 28 COMMENTI ULTIME NOTIZIE FRANCO IACCH
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La Germania invierà in Lituania anche una formazione di carri armati Leopard 2. Il piano rientra nel più grande rafforzamento militare della NATO ai confini della Russia dai tempi della Guerra fredda. Nei prossimi mesi si assisterà ad un graduale aumento della presenza militare lungo i fianchi orientali e meridionali della NATO. E’ stato il Ministro della Difesa tedesco Ursula von der Leyen ad annunciare l’impiego dei Leopard 2 durante l’ultima riunione che si è tenuta nel quartier generale dell’Alleanza, a Bruxelles.
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Il battaglione NATO sotto il comando tedesco sarà di stanza in Lituania entro il prossimo febbraio. Il personale del battaglione sarà composto da mille soldati, 450-650 dei quali provenienti dalla Germania. Altri 300/500 soldati saranno schierati da Francia, Belgio e Croazia. Il battaglione tattico (così come gli altri tre in rotazione), volto a scoraggiare una possibile aggressione russa nella regione dei Paesi Baltici, sarà autonomo e pienamente operativo dal primo giugno del prossimo anno.
La Germania prende seriamente la sicurezza dei membri della NATO sul fianco orientale – ha ribadito il Ministro della Difesa tedesco Ursula von der Leyen – i nostri carri armati sono un segnale chiaro. Qualsiasi attacco contro un membro della NATO sarà considerato come un atto di guerra rivolto ai 28 membri dell’Alleanza.
Il problema dei carri armati tedeschi
Le munizioni dei carri armati tedeschi non sarebbero in grado di produrre abbastanza energia cinetica per mettere fuori uso l’ultima versione dei T-90 e dei T-80. Senza considerare, infine, la piattaforma T-14 Armata. Durante la Guerra Fredda, i tedeschi avevano in inventario poco meno di 2400 Leopard di tutte le versioni. A causa di tagli alla Difesa, la Germania ridusse quel numero a 225 Leopard-2 in servizio attivo. La crisi ucraina, tuttavia, ha scatenato preoccupazioni in Occidente tanto da spingere il Ministro della Difesa tedesco, Ursula von der Leyen, ad ordinare altri 100 Leopard-2. Nella Bundeswehr, quindi, saranno in servizio 328 carri armati. Il problema dei Leopard-2 è nel loro sistema di combattimento. Per essere efficaci, i proiettili dei Leopard dovrebbero essere di uranio impoverito. Tuttavia, dal punto di vista politico questo è ormai inaccettabile. La maggior parte dei carri armati tedeschi operativi sono della serie A-6 e A-5. Circa 100 Leopard-2 sono della serie A-4. La modernizzazione delle munizioni avverrà solo a partire dal 2017 e riguarderà soltanto la serie A-7.
I battaglioni della NATO: l’Italia in Lettonia
Il primo battaglione NATO sotto il comando tedesco sarà di stanza in Lituania entro il prossimo gennaio. Il personale sarà composto da circa mille soldati provenienti da Germania, Francia, Belgio e Croazia.
Il secondo battaglione NATO sotto il comando canadese sarà di stanza in Lettonia entro il prossimo gennaio. Il personale sarà composto da circa mille soldati provenienti da Canada, Albania, Italia, Polonia e Slovenia.
Il terzo battaglione NATO sotto il comando inglese sarà di stanza in Estonia entro il prossimo gennaio. Il personale sarà composto da circa mille soldati provenienti dal Regno Unito, Danimarca e Francia.
Il quarto battaglione NATO sotto il comando statunitense sarà di stanza in Polonia entro il prossimo gennaio. Il personale sarà composto da circa mille soldati provenienti Stati Uniti, Romania e Regno Unito.
Per controbilanciare l’accumulo di forze in Europa orientale, la Russia sta predisponendo, secondo dichiarazioni ufficiale del Cremlino, quattro divisioni, nove brigate e 22 reggimenti. Saranno schierate a Rostov sul Don e nelle regioni di Smolensk e Voronezh entro la fine dell’anno
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Re: La Terza Guerra Mondiale
QUESTA NOTIZIA RIPORTATA DA FELTRI(Littorio), GIUDICATELA VOI
DOSSIER SEGRETO
APOCALISSE MILITARE
Cosa può fare Putin in 60 ore
Europa, il destino è segnato
"2017, guerra con la Russia"
"Texas polverizzato in un secondo". Svelata l'arma in diretta tv
IL DOSSIER SEGRETO
"A Putin bastano 60 ore": Europa sull'orlo dell'apocalisse militare, cosa può fare lo Zar
Quanto ci metterebbe Vladimir Putin ad invadere Estonia, Lettonia e Lituania e annetterli nuovamente alla Russia? E soprattutto, cosa potrebbe fare a quel punto la Nato? Se questi due interrogativi sono inquietanti, le risposte lo sono di più. Secondo un dossier elaborato da un think thank americano, riportato dal tabloid britannico Sun, i russi impiegherebbero 60 ore, ossia meno di tre giorni. In un lampo i carri armati e le truppe dello Zar occuperebbero Tallinn, Riga e Vilnius, prendendosi il controllo pressoché totale del Mar Baltico e lanciando una minaccia mai così concreta all'Europa dai tempi della Guerra Fredda.
Fantapolitica? Non proprio, perché gli esperti americani sottolineano anche l'impreparazione o la sostanziale inutilità della Nato, che si troverebbe a fronteggiare due opzioni, "entrambe pessime". Il primo caso: una "sanguinosa controffensiva miliare" per liberare gli Stati baltici, con il rischio di una guerra nucleare. Il secondo: un collasso della stessa Alleanza atlantica, umiliata militarmente e diplomaticamente da Mosca. In un solo caso l'Occidente potrebbe bloccare Putin: schierando una forza di 7 brigate, di cui 3 con armi pesanti, supportate da caccia e un sistema missilistico da terra. Un esercito rigorosamente pronto a combattere.
Il fatto che questo scenario venga prospettato ora non è casuale. Da alcuni mesi a questa parte il mondo sta assistendo a una pericolosissima escalation di manovre tattiche e provocazioni, da un lato e dall'altro della ex Cortina di ferro. Nel 2014, dopo l'annessione della Crimea, Polonia e Stati Baltici hanno mobilitato le truppe ai confini come deterrente contro le mire russe. La Nato ha dato vita alle più imponenti esercitazioni dai tempi della Guerra fredda e nel 2017 invierà 4.000 soldati. Nel frattempo la Russia si sta muovendo nel Mediterraneo in Medio Oriente, mobilitando la sua flotta anche nel Canale della Manica, con scene da "guerra navale" europea. "Le decisioni politiche e militari che stiamo prendendo e che abbiamo già preso - ha spiegato l'ex generale Nato Richard Shirreff, inglese - ci stanno spingendo verso una futura guerra contro la Russia". Quando? "Nel 2017", assicura il militare.
DOSSIER SEGRETO
APOCALISSE MILITARE
Cosa può fare Putin in 60 ore
Europa, il destino è segnato
"2017, guerra con la Russia"
"Texas polverizzato in un secondo". Svelata l'arma in diretta tv
IL DOSSIER SEGRETO
"A Putin bastano 60 ore": Europa sull'orlo dell'apocalisse militare, cosa può fare lo Zar
Quanto ci metterebbe Vladimir Putin ad invadere Estonia, Lettonia e Lituania e annetterli nuovamente alla Russia? E soprattutto, cosa potrebbe fare a quel punto la Nato? Se questi due interrogativi sono inquietanti, le risposte lo sono di più. Secondo un dossier elaborato da un think thank americano, riportato dal tabloid britannico Sun, i russi impiegherebbero 60 ore, ossia meno di tre giorni. In un lampo i carri armati e le truppe dello Zar occuperebbero Tallinn, Riga e Vilnius, prendendosi il controllo pressoché totale del Mar Baltico e lanciando una minaccia mai così concreta all'Europa dai tempi della Guerra Fredda.
Fantapolitica? Non proprio, perché gli esperti americani sottolineano anche l'impreparazione o la sostanziale inutilità della Nato, che si troverebbe a fronteggiare due opzioni, "entrambe pessime". Il primo caso: una "sanguinosa controffensiva miliare" per liberare gli Stati baltici, con il rischio di una guerra nucleare. Il secondo: un collasso della stessa Alleanza atlantica, umiliata militarmente e diplomaticamente da Mosca. In un solo caso l'Occidente potrebbe bloccare Putin: schierando una forza di 7 brigate, di cui 3 con armi pesanti, supportate da caccia e un sistema missilistico da terra. Un esercito rigorosamente pronto a combattere.
Il fatto che questo scenario venga prospettato ora non è casuale. Da alcuni mesi a questa parte il mondo sta assistendo a una pericolosissima escalation di manovre tattiche e provocazioni, da un lato e dall'altro della ex Cortina di ferro. Nel 2014, dopo l'annessione della Crimea, Polonia e Stati Baltici hanno mobilitato le truppe ai confini come deterrente contro le mire russe. La Nato ha dato vita alle più imponenti esercitazioni dai tempi della Guerra fredda e nel 2017 invierà 4.000 soldati. Nel frattempo la Russia si sta muovendo nel Mediterraneo in Medio Oriente, mobilitando la sua flotta anche nel Canale della Manica, con scene da "guerra navale" europea. "Le decisioni politiche e militari che stiamo prendendo e che abbiamo già preso - ha spiegato l'ex generale Nato Richard Shirreff, inglese - ci stanno spingendo verso una futura guerra contro la Russia". Quando? "Nel 2017", assicura il militare.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Corriere La Lettura 30.10.16
La terza espansione russa
Il comportamento aggressivo di Putin si ricollega alla politica di potenza inaugurata ai tempi di Pietro il Grande e giunta al culmine sotto Stalin
Nonostante il ritardo del Paese in campo economico, il leader del Cremlino mostra
i muscoli in Medio Oriente e sul teatro europeo. Ecco quali sono i pericoli di una strategia
che fa leva sulla frustrazione di un popolo abituato a coltivare l’orgoglio nazionalista dopo
la grande vittoria sui tedeschi nella Seconda guerra mondiale
di Antonio Monteverdi
In una recente corrispondenza da Istanbul per «Le Monde», Marie Jégo ha attirato l’attenzione sulla singolare iniziativa presa dalla stampa turca filogovernativa, la quale ha pubblicato le carte geografiche dell’Impero ottomano prima della sconfitta nella Grande guerra. I giornali hanno ricordato all’opinione pubblica interna che Mosul e Kirkuk, nonché l’intera Siria, un tempo appartenevano all’impero turco. Un influente commentatore politico, vicino al presidente Erdogan, ha scritto che il Nord dell’Iraq e la Siria debbono considerarsi il cortile di casa della Turchia, così come Putin considera lo spazio della defunta Urss la naturale sfera d’influenza della Russia. In effetti, vi sono analogie tra i sogni imperiali del sultano di Ankara e i progetti dello zar di Mosca, se non altro per il linguaggio antioccidentale che li accomuna.
A lungo Barack Obama e le cancellerie europee hanno sottovalutato i proclami e gli atti imperiali di Vladimir Putin, scorgendovi una rude espressione dell’orgoglio nazionale russo. Neppure l’invasione e lo smembramento dell’Ucraina, uno Stato sovrano grande come la Francia, hanno aperto gli occhi ai governanti e all’opinione pubblica dell’Occidente. Soltanto adesso Obama e alcuni governi europei, non quello italiano, sembrano aver capito chi è davvero e cosa vuole il signore del Cremlino. Ma ciò è avvenuto soltanto dopo infiniti segnali inquietanti, dalle provocatorie esibizioni degli aerei militari di Mosca alla montante isteria guerrafondaia in Russia, dalla rozza intromissione nella competizione elettorale americana ai crimini di guerra contro la popolazione civile di Aleppo.
Dopo aver intonato spesso un cupo lamento sulla fine dell’Urss, negli ultimi anni Putin è andato annunciando con voce tonante la necessità per la Russia di riarmarsi e di tornare da protagonista sulla scena internazionale. Aprendo il 5 ottobre i lavori del suo docile Parlamento, egli ha ribadito il diritto storico della Russia ad «essere forte». Tale messaggio ricorda quanto avvenuto parecchie volte nella storia dell’impero eurasiatico, assurto con Pietro il Grande al rango di potenza europea e mondiale. Alberto Ronchey coniò la calzante formula di «superpotenza sottosviluppata» per designare i tratti peculiari dell’Urss poststaliniana, pronta a rivaleggiare con gli Usa nella corsa al riarmo, ma incapace di garantire un livello di vita decoroso ai suoi abitanti. L’economia statalizzata destinava le migliori risorse e le più progredite tecnologie al settore militare, garantendo il benessere della casta privilegiata e trascurando i bisogni della popolazione comune.
L’odierno capitalismo mafioso e parassitario, che ha sostituito la pianificazione burocratica, ha logorato il vecchio tessuto produttivo, generando stridenti diseguaglianze e diffuse sacche di povertà. Gli alti prezzi del petrolio e del gas hanno rimpinguato, per alcuni anni, le casse dello Stato. Putin ne ha approfittato per potenziare la capacità bellica del Paese, senza curarsi di ammodernare l’economia e di tutelare i ceti meno abbienti. Così, oggi la Russia dispone nuovamente di armi sofisticate e altre ne prepara, come il nuovo missile intercontinentale Satan 2; ma carenti restano la tecnologia civile e la medicina. Ci sarebbero tutti i presupposti per una violenta esplosione della collera popolare, come tante volte è accaduto nella storia russa. Invece — ecco il miracolo operato da Putin — la gente si stringe intorno al suo zar, sfogando contro l’Occidente frustrazione e rabbia. Come mai? La risposta si trova nelle parole del giornalista tedesco Christian Neef: «Il patriottismo offre anche ai più umiliati russi della provincia, privi di diritti, un sentimento di superiorità sulle persone che vivono in Paesi di gran lunga più democratici e opulenti. Essi si rallegrano quando Putin fa di nuovo volare sull’Atlantico bombardieri a lungo raggio, e parla giorno dopo giorno di “armi miracolose”; e quando l’Occidente ha di nuovo paura della Russia» («Der Spiegel», 28 marzo 2015).
Perché un Paese gigantesco, che dopo la fine dell’Urss non è stato invaso né minacciato da nessuno, non sa utilizzare saggiamente le proprie immense risorse? Se diamo uno sguardo alla storia, vediamo che il primo grande sforzo produttivo si ebbe all’inizio del Settecento per iniziativa di Pietro il Grande, impegnato nel grande duello con la Svezia per il dominio sul Baltico. Oltre a introdurre costumi occidentali, lo zar creò in breve tempo un apparato industriale, decuplicando il numero delle fabbriche e manifatture. Create dallo Stato, esse si reggevano sulle commesse statali, lavoravano per la guerra e adopravano manodopera servile. Si trattava d’una industrializzazione drogata e diretta dall’alto, volta a finalità belliche e basata su una tremenda pressione fiscale, che esaurì il Paese suscitando malcontento e rivolte. Inoltre, Pietro consolidò ed estese la servitù della gleba, che in Occidente s’era estinta o stava morendo. Su tali basi egli creò l’impero, assumendo nel 1721 il titolo di imperatore. La Russia divenne una grande potenza espansionistica, dotata d’un temibile esercito e partecipe dei grandi giochi diplomatico-militari. Ma la società russa, al di là della occidentalizzazione di facciata, restava arcaica e arretrata era l’economia.
I successori di Pietro ampliarono ulteriormente i confini dell’impero, senza avviare un reale rinnovamento. Soltanto negli ultimi decenni dell’Ottocento sorse una più solida base industriale e l’influsso europeo si fece maggiormente sentire. Il terremoto del 1917 portò poi alla disgregazione dell’artificioso e anacronistico impero russo. Ma la «prigione dei popoli» fu in parte ricostruita dai bolscevichi, i quali ne rinnovarono le basi ideologiche, sostituendo alla religione ortodossa e al culto dello zar il messaggio falsamente universale del comunismo, in cui si celava il nocciolo duro dell’imperialismo zarista.
Aggredendo l’Urss nel 1941, Hitler paradossalmente salvò l’impopolare regime comunista, e contribuì enormemente alla mirabolante espansione dell’impero di Stalin. La Seconda guerra mondiale ebbe un’altra importante conseguenza: la nascita dello spirito patriottico in un Paese i cui ceti popolari prima erano rimasti sordi alla sirena patriottarda e avevano sempre avversato i signori di turno, nobili o comunisti che fossero. Invece, dopo la «Grande guerra patriottica», il culto sciovinistico di Stalin cominciò ad attecchire tra i russi, fieri della marcia trionfale dell’Armata rossa in Europa. Fu allora che si forgiò un’identità nazionale, o meglio nazionalista.
La coscienza sciovinistica dei russi andò affievolendosi, fin quasi a scomparire, in seguito alle attese deluse di un benessere economico che non giungeva mai. Cominciò a diffondersi tra gli abitanti delle grandi città l’ammirazione del livello di vita occidentale, tanto superiore al loro. La fine dell’Urss portò all’insorgere di frustrazioni e fobie, generate dal peggioramento delle condizioni di vita e dal sentimento d’umiliazione per la perdita, dai russi giudicata iniqua, di territori etnicamente e culturalmente non russi. Il retaggio della propaganda comunista fece sì che molti cominciassero a rovesciare sugli stranieri la colpa dei loro mali e della loro incapacità, radicata in secolari vicende storiche, di dar vita a una società e a uno Stato moderni e civili. Putin ha saputo cavalcare per le sue ambizioni imperiali gli umori antioccidentali dei suoi compatrioti. I russi, da sempre alla disperata ricerca d’una identità nazionale, l’hanno oggi trovata nel furore sciovinistico. Ad alimentare una siffatta identità contribuisce grandemente la Chiesa ortodossa di Mosca, alleata del potere politico.
La Russia di Putin è ancora, al pari dell’Urss, una potenza sottosviluppata. Ma vi sono importanti differenze. L’arsenale convenzionale non ha raggiunto il livello dell’epoca sovietica, e il poderoso complesso militare-industriale è solo un ricordo del passato. Ma Putin è popolare, come non lo è stato nessun capo sovietico dopo Stalin, e possiede un terrificante arsenale nucleare. Mentre la direzione collegiale nell’Urss poststaliniana rappresentava, in fondo, una garanzia contro follie individuali, Putin è solo al comando; e paiono sinistre le sue reiterate minacce di premere il grilletto atomico. L’angosciosa speranza è che gli Stati Uniti e la Nato sappiano assolvere l’arduo compito di fermare il capo del Cremlino senza mettere a repentaglio la sopravvivenza del genere umano.
La terza espansione russa
Il comportamento aggressivo di Putin si ricollega alla politica di potenza inaugurata ai tempi di Pietro il Grande e giunta al culmine sotto Stalin
Nonostante il ritardo del Paese in campo economico, il leader del Cremlino mostra
i muscoli in Medio Oriente e sul teatro europeo. Ecco quali sono i pericoli di una strategia
che fa leva sulla frustrazione di un popolo abituato a coltivare l’orgoglio nazionalista dopo
la grande vittoria sui tedeschi nella Seconda guerra mondiale
di Antonio Monteverdi
In una recente corrispondenza da Istanbul per «Le Monde», Marie Jégo ha attirato l’attenzione sulla singolare iniziativa presa dalla stampa turca filogovernativa, la quale ha pubblicato le carte geografiche dell’Impero ottomano prima della sconfitta nella Grande guerra. I giornali hanno ricordato all’opinione pubblica interna che Mosul e Kirkuk, nonché l’intera Siria, un tempo appartenevano all’impero turco. Un influente commentatore politico, vicino al presidente Erdogan, ha scritto che il Nord dell’Iraq e la Siria debbono considerarsi il cortile di casa della Turchia, così come Putin considera lo spazio della defunta Urss la naturale sfera d’influenza della Russia. In effetti, vi sono analogie tra i sogni imperiali del sultano di Ankara e i progetti dello zar di Mosca, se non altro per il linguaggio antioccidentale che li accomuna.
A lungo Barack Obama e le cancellerie europee hanno sottovalutato i proclami e gli atti imperiali di Vladimir Putin, scorgendovi una rude espressione dell’orgoglio nazionale russo. Neppure l’invasione e lo smembramento dell’Ucraina, uno Stato sovrano grande come la Francia, hanno aperto gli occhi ai governanti e all’opinione pubblica dell’Occidente. Soltanto adesso Obama e alcuni governi europei, non quello italiano, sembrano aver capito chi è davvero e cosa vuole il signore del Cremlino. Ma ciò è avvenuto soltanto dopo infiniti segnali inquietanti, dalle provocatorie esibizioni degli aerei militari di Mosca alla montante isteria guerrafondaia in Russia, dalla rozza intromissione nella competizione elettorale americana ai crimini di guerra contro la popolazione civile di Aleppo.
Dopo aver intonato spesso un cupo lamento sulla fine dell’Urss, negli ultimi anni Putin è andato annunciando con voce tonante la necessità per la Russia di riarmarsi e di tornare da protagonista sulla scena internazionale. Aprendo il 5 ottobre i lavori del suo docile Parlamento, egli ha ribadito il diritto storico della Russia ad «essere forte». Tale messaggio ricorda quanto avvenuto parecchie volte nella storia dell’impero eurasiatico, assurto con Pietro il Grande al rango di potenza europea e mondiale. Alberto Ronchey coniò la calzante formula di «superpotenza sottosviluppata» per designare i tratti peculiari dell’Urss poststaliniana, pronta a rivaleggiare con gli Usa nella corsa al riarmo, ma incapace di garantire un livello di vita decoroso ai suoi abitanti. L’economia statalizzata destinava le migliori risorse e le più progredite tecnologie al settore militare, garantendo il benessere della casta privilegiata e trascurando i bisogni della popolazione comune.
L’odierno capitalismo mafioso e parassitario, che ha sostituito la pianificazione burocratica, ha logorato il vecchio tessuto produttivo, generando stridenti diseguaglianze e diffuse sacche di povertà. Gli alti prezzi del petrolio e del gas hanno rimpinguato, per alcuni anni, le casse dello Stato. Putin ne ha approfittato per potenziare la capacità bellica del Paese, senza curarsi di ammodernare l’economia e di tutelare i ceti meno abbienti. Così, oggi la Russia dispone nuovamente di armi sofisticate e altre ne prepara, come il nuovo missile intercontinentale Satan 2; ma carenti restano la tecnologia civile e la medicina. Ci sarebbero tutti i presupposti per una violenta esplosione della collera popolare, come tante volte è accaduto nella storia russa. Invece — ecco il miracolo operato da Putin — la gente si stringe intorno al suo zar, sfogando contro l’Occidente frustrazione e rabbia. Come mai? La risposta si trova nelle parole del giornalista tedesco Christian Neef: «Il patriottismo offre anche ai più umiliati russi della provincia, privi di diritti, un sentimento di superiorità sulle persone che vivono in Paesi di gran lunga più democratici e opulenti. Essi si rallegrano quando Putin fa di nuovo volare sull’Atlantico bombardieri a lungo raggio, e parla giorno dopo giorno di “armi miracolose”; e quando l’Occidente ha di nuovo paura della Russia» («Der Spiegel», 28 marzo 2015).
Perché un Paese gigantesco, che dopo la fine dell’Urss non è stato invaso né minacciato da nessuno, non sa utilizzare saggiamente le proprie immense risorse? Se diamo uno sguardo alla storia, vediamo che il primo grande sforzo produttivo si ebbe all’inizio del Settecento per iniziativa di Pietro il Grande, impegnato nel grande duello con la Svezia per il dominio sul Baltico. Oltre a introdurre costumi occidentali, lo zar creò in breve tempo un apparato industriale, decuplicando il numero delle fabbriche e manifatture. Create dallo Stato, esse si reggevano sulle commesse statali, lavoravano per la guerra e adopravano manodopera servile. Si trattava d’una industrializzazione drogata e diretta dall’alto, volta a finalità belliche e basata su una tremenda pressione fiscale, che esaurì il Paese suscitando malcontento e rivolte. Inoltre, Pietro consolidò ed estese la servitù della gleba, che in Occidente s’era estinta o stava morendo. Su tali basi egli creò l’impero, assumendo nel 1721 il titolo di imperatore. La Russia divenne una grande potenza espansionistica, dotata d’un temibile esercito e partecipe dei grandi giochi diplomatico-militari. Ma la società russa, al di là della occidentalizzazione di facciata, restava arcaica e arretrata era l’economia.
I successori di Pietro ampliarono ulteriormente i confini dell’impero, senza avviare un reale rinnovamento. Soltanto negli ultimi decenni dell’Ottocento sorse una più solida base industriale e l’influsso europeo si fece maggiormente sentire. Il terremoto del 1917 portò poi alla disgregazione dell’artificioso e anacronistico impero russo. Ma la «prigione dei popoli» fu in parte ricostruita dai bolscevichi, i quali ne rinnovarono le basi ideologiche, sostituendo alla religione ortodossa e al culto dello zar il messaggio falsamente universale del comunismo, in cui si celava il nocciolo duro dell’imperialismo zarista.
Aggredendo l’Urss nel 1941, Hitler paradossalmente salvò l’impopolare regime comunista, e contribuì enormemente alla mirabolante espansione dell’impero di Stalin. La Seconda guerra mondiale ebbe un’altra importante conseguenza: la nascita dello spirito patriottico in un Paese i cui ceti popolari prima erano rimasti sordi alla sirena patriottarda e avevano sempre avversato i signori di turno, nobili o comunisti che fossero. Invece, dopo la «Grande guerra patriottica», il culto sciovinistico di Stalin cominciò ad attecchire tra i russi, fieri della marcia trionfale dell’Armata rossa in Europa. Fu allora che si forgiò un’identità nazionale, o meglio nazionalista.
La coscienza sciovinistica dei russi andò affievolendosi, fin quasi a scomparire, in seguito alle attese deluse di un benessere economico che non giungeva mai. Cominciò a diffondersi tra gli abitanti delle grandi città l’ammirazione del livello di vita occidentale, tanto superiore al loro. La fine dell’Urss portò all’insorgere di frustrazioni e fobie, generate dal peggioramento delle condizioni di vita e dal sentimento d’umiliazione per la perdita, dai russi giudicata iniqua, di territori etnicamente e culturalmente non russi. Il retaggio della propaganda comunista fece sì che molti cominciassero a rovesciare sugli stranieri la colpa dei loro mali e della loro incapacità, radicata in secolari vicende storiche, di dar vita a una società e a uno Stato moderni e civili. Putin ha saputo cavalcare per le sue ambizioni imperiali gli umori antioccidentali dei suoi compatrioti. I russi, da sempre alla disperata ricerca d’una identità nazionale, l’hanno oggi trovata nel furore sciovinistico. Ad alimentare una siffatta identità contribuisce grandemente la Chiesa ortodossa di Mosca, alleata del potere politico.
La Russia di Putin è ancora, al pari dell’Urss, una potenza sottosviluppata. Ma vi sono importanti differenze. L’arsenale convenzionale non ha raggiunto il livello dell’epoca sovietica, e il poderoso complesso militare-industriale è solo un ricordo del passato. Ma Putin è popolare, come non lo è stato nessun capo sovietico dopo Stalin, e possiede un terrificante arsenale nucleare. Mentre la direzione collegiale nell’Urss poststaliniana rappresentava, in fondo, una garanzia contro follie individuali, Putin è solo al comando; e paiono sinistre le sue reiterate minacce di premere il grilletto atomico. L’angosciosa speranza è che gli Stati Uniti e la Nato sappiano assolvere l’arduo compito di fermare il capo del Cremlino senza mettere a repentaglio la sopravvivenza del genere umano.
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