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Magaldi: altro che Silvio e Gelli, il burattinaio è Napolitano

Scritto il 04/11/16 • nella Categoria: segnalazioni Condividi

«Giorgio Napolitano? Ne penso molto male.

Nello stesso anno in cui Berlusconi veniva iscritto alla P2, è stato iniziato alla Ur-Lodge “Three Eyes”, una superloggia internazionale antidemocratica, di cui la P2 non era altro che una succursale subalterna».

Così Gioele Magaldi ai microfoni di “Colors Radio”, in una trasmissione dedicata all’approfondimento dell’attualità politica, italiana e internazionale.

E il guaio è, aggiunge Magaldi, autore del saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata”, che Napolitano è tuttora il grande manovratore della crisi italiana, apertamente a favore del Sì al referendum renziano.

«Non mi piace l’idea di un Senato che permane, ma non è più eletto direttamente dal popolo sovrano», premette Magaldi, massone progressista, presidente del Movimento Roosevelt e gran maestro del Grande Oriente Democratico.

«C’è qualcosa di grave», dice, nel Senato-fantasma della riforma renziana.

Ovvero: «Abituare i cittadini, in modo sublimimale, all’idea che ci possano essere organi istituzionali di un certo peso che non sono eletti direttamente».

E’ una legittimazione dell’orribile Europa dei tecnocrati.

«Ed è l’idea, spregevole, offerta da un Eugenio Scalfari che, passati i 90 anni, ha gettato la maschera definitivamente, nelle sue pulsioni antidemocratiche».

Di recente, il fondatore di “Repubblica” ha infatti rivendicato la convinzione che la democrazia non sia altro che una forma di oligarchia “illuminata”.



«Scalfari – continua Magaldi – si inscrive benissimo in quell’ideologia propagata a partire dagli anni 70, di matrice “Three Eyes”, di organizzazione delle società lasciando formalmente esistere la democrazia ma svuotandola di sostanza e dando il vero potere a organi oligarchici e possibilmente anche tecnocratici».




Fino a ieri, aggiunge Magaldi, Scalfari avrebbe dissimulato un pensiero del genere, come tuttora fanno i costruttori di questo ordine europeo e globale sostanzialmente non democratico.


Ora invece Scalfari “non si tiene più”, parla senza infingimenti e senza veli: «Lo dice in faccia, al popolo: tu non sei sovrano, ed è bene che non sia sovrano. Se però il popolo mantiene la sua ignoranza, poi legittima anche questi cattivi maestri, che immginano di poter dire in modo impudente “viva l’oligarchia, abbasso la democrazia”»
.


Cattivi maestri tra i quali Magaldi annovera con decisione lo stesso Napolitano, che definisce un uomo senza scrupoli, affiliato a una potentissima organizzazione oligarchica internazionale come la “Three Eyes”.


Non regge neppure il paragone con un altro super-massone, Carlo Azeglio Ciampi, che – col divorzio di Bankitalia dal Tesoro – compromise il futuro della sovranità nazionale.


«Ciampi ha molte gravi responsabilità riguardo al pessimo modo in cui l’Italia è entrata nell’Eurozona e la stessa Eurozona è stata costruita, insieme a questa Europa tecnocratica e antidemocratica», dichiara Magaldi.


«Però poi, quando è stato presidente della Repubblica, è stato molto proficuo nel riportare i valori risorgimentali e unitari, e anche nell’arginare certe intemperanze un po’ sgangherate dell’allora presidente del Consiglio Berlusconi».



Quindi Ciampi «ha fatto molto male fino all’elezione al Quirinale».


Poi, quando diventò presidente «ormai il male era fatto».


Però bisogna ammettere che «ha fatto anche qualcosina di buono».

Napolitano, invece, no: «Ne penso tutto il male possibile, lo considero un avversario, un antagonista, di cui riconosco semmai la raffinata abilità».



Fin dall’inizio della sua lunghissima carriera politica, continua Magaldi, Giorgio Napolitano «si è distinto per spregiudicatezza, cinismo e, francamente, per una sua vocazione autenticamente oligarchica e antidemocratica».




Nella prima fase della sua storia «è stato fra i togliattiani filo-stalinisti che criticavano i compagni che protestavano per l’invasione sovietica dell’Ungheria».


Poi, quando il vento gli sembrava cambiato, «è stato tra i protagonisti della cosiddetta corrente “migliorista” del Pci che dialogava anche ufficialmente con gli Stati Uniti e col mondo democratico occidentale».




Napolitano è stato poi tante altre cose, «ma tutto quello che ha fatto l’ha fatto promuovendo se stesso, quindi con una grande cura del suo interesse e della sua ascesa personale».




Non era nella P2, ma nella “Three Eyes” sì, dichiara Magaldi: fu affiliato proprio mentre il Cavaliere entrava nella rete di Gelli, che in Italia suscitò enorme scandalo.



Peccato però che la P2 fosse solo la succursale italiana, e minore, della grande superloggia di Kissinger.





Naturalmente, l’interessato non ha mai confermato: «Nonostante interrogazioni di parlamentari del Movimento 5 Stelle, non c’è mai stata risposta su questa affiliazione».


Eppure, insiste Magaldi, «proprio in quanto rappresentante della “Three Eyes”, Napolitano ha favorito lo scandaloso avvento di Mario Monti al potere, un Monti insignito anche del ruolo di senatore a vita con relativa indennità».


Monti? «Dovrebbe un giorno essere chiamato a rispondere dei danni gravissimi, economici e civili, che ha causato al nostro paese».


Anche di questo, conclude Magaldi, bisogna ringraziare Napolitano, che «è stato il padre dell’operazione Monti».


Poi è stato anche «il padre dell’operazione Enrico Letta», prima di dover «subire in qualche modo l’avvento di Matteo Renzi».




E adesso, nonostante si sia dimesso da presidente della Repubblica, «continua a fare il grande burattinaio, il grande manovratore, come ha sempre fatto».




Ma attenzione: «Un personaggio così non ha nemmeno bisogno di fare il presidente della Repubblica per avere questo tipo di potere, che gli deriva dalle sue ascendenze massoniche di segno neo-aristocratico».



Non c’è da stupirsi, dunque, che resti in cabina di regia: evidentemente è il super-garante di poteri fortissimi, gli stessi peraltro che tifano per la vittoria di Renzi al referendum.
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MANCANO 5 MILIARDI Per ora nessuno vuole mettere nuove risorse. Morelli, nominato per volere di Renzi, dice che gli investitori istituzionali stanno aspettando l’esito delle urne

Mps, la banca sta fallendo:
“Nuovi capitali solo se vince il Sì”


»GIORGIO MELETTI
Il Monte dei Paschi di Siena rischia di fallire perché gli investitori interpellati da Jp Morgan e Mediobanca per l’aum ento di capitale da 5 miliardi non si fidano a prendere impegni prima di sapere l’esito del referendum del 4 dicembre. Non si tratta di una maliziosa insinuazione ma di quanto ha scritto il consiglio d’amministrazione di Mps nella relazione illustrativa per l’assemblea degli azionisti che il prossimo 24 novembre saranno chiamati ad approvare l’aumento di capitale. Testualmente: “S os ta nz ia le indisponibilità manifestata dagli investitori istituzionali ad assumere importanti decisioni di investimento relative a società italiane prima di conoscere l’esito del referendum costituzionale”. Il cda presieduto dal dimissionario Massimo Tononi fa sapere agli azionisti di Mps che questa informazione proviene da Jp Morgan, incaricata insieme a Mediobanca di curare l’aumento di capitale. Jp Morgan è la stessa banca che tre anni fa pubblicòla suaricetta perl’Italia, il Paese che ama, con prescrizioni stringenti per le riforme da fare, a cominciare da quella della Costituzione, frutto sorpassato dell’a nt ifascismo e troppo parlamentarista a discapito del potere de ll ’esecutivo; per continuare con riforma della giustizia e della burocrazia, del mercato del lavoro e della legge elettorale. Tutto fatto, manca solo il ritocco alla Carta. Jp Morgan è la stessa banca che a fine agosto ha convinto Matteo Renzi che i mercati avrebbero apprezzato il siluramento dell’Ad di Mps Fabrizio Viola e la sua sostituzione con il suo ex capo per l’Italia Marco Morelli.
LA MOSSA, prontamente eseguita da palazzo Chigi attraverso l’obbediente ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan (primo azionista di Mps con il 4 per cento del capitale), doveva sbloccare le timidezze degli investitori verso l’aumento di capitale da 5 miliardi su una banca che in Borsa vale meno di 700 milioni. Ma non ha sortito un buon effetto. La nomina di Morelli al posto di Viola è stata seguita da un crollo in Borsa del titolo, da 24 centesimi fino a un minimo di 16. E adesso la stessa Jp Morgan è costretta a dire al suo cliente Mps che i misteriosi investitori che avrebbero chiesto la testa di Viola adesso avrebbero alzato le pretese fino a un livello inverosimile: chiedono la vittoria del Sì per investire sulla banca più antica del mondo. Costringendo l’istituto a programmare un aumento di capitale a tappe forzate tra il 5 e il 31 dicembre da far sottoscrivere, in pochi giorni e per grosse tranche a grandi investitori internazionali. I casi sono due: o è una balla, oppurec’è da chiedersi che cosa questi investitoristiano contrattandocon il governo Renzi per non sopportare l’idea che il referendum possa disarcionarlo. Ieri la relazione del cda per l’assemblea è stata ac
compagnata e aggravata da altre notizie infauste. La prima è che Corrado Passera è andato alla Consob a raccontare quello che sa del suo tentativo –respinto da Morelli e Tononi –di proporre a Rocca Salimbeniper laricapitalizzazione una soluzione alternativa che, parole dell’ex ministro, “potrebbe essere realizzata con oneri per la Banca inferiori per diverse centinaia di milioni”rispetto alle commissioni stellari pretese da Jp Morgan.
LA SECONDA è che ieri mattina Mps ha pubblicato il disastroso bilancio dei primi nove mesi. Non solo c’è una perdita di 850 milioni contro l’utiledi 584 realizzato dodici mesi prima da Viola, ma tutti i barometri segnano burrasca: ricavi in calo del 16,6 per cento, raccolta da clientela -11,6 per cento. La situazione è talmente drammatica che lo stesso Cda nella relazione ha dovuto ammettere che la “continuità az i en d a le ”, cioè la sopravvivenza stessa della banca, è in pericolo senon riesceil piano di salvataggio imperniato sull’aumento di capitale. Val la pena di leggere esattamente la formulazione scelta dal Cda: “La Banca, valutato lo stato di attuazione del progetto sopra delineato, le residue incertezze connesse al manifestarsi dellecondizioni per la sua realizzazione nonché ai possibili esiti della sopra menzionata ispezione in corso da parte della Bce, subordinatamente alla concreta attuazione del progetto stesso, ha la ragionevole aspettativadi continuarecon la sua esistenzaoperativa in un futuro prevedibile e ha pertanto redatto la situazione patrimoniale ed economica al 30 settembre 2016 nel presupposto della continuità aziendale”.
A FAR CAPIRE quanto sia zoppicante la situazione ci ha pensato lasocietà di revisione Ernst Young, che dichiara in calce al bilancio dei primi nove mesi: “Non esprimiamo un giudizio sul bilancio consolidato intermedio”. I revisori spiegano di aver svolto una revisione contabile “limitata”che “non ci consente di avere la sicurezza di essere venuti a conoscenza di tutti i fatti significativi che potrebbero essere identificati con lo svolgimento di una revisione contabile completa”.

Twitter@giorgiomeletti © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Loreta, la donna che ha in mano le sorti d'Italia
La Dorigo è magistrato da trent'anni e non ama i riflettori. Ha seguito il processo Mills


Cristina Bassi - Ven, 04/11/2016 - 08:14
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Milano - Loreta Dorigo avrebbe fatto volentieri a meno dei riflettori che nell'ultima settimana si sono accesi davanti alla sua stanza.


Passato il ponte del Primo novembre, l'«assedio» dei giornalisti in quel corridoio al quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano si è fatto più intenso. Tanto che ieri è stato chiesto a un gruppo di cronisti in attesa di allontanarsi per lasciare alla giudice Dorigo la serenità necessaria a prendere una decisione. Ed è arrivata la comunicazione del presidente della Prima sezione civile, Paola Maria Gandolfi, sui dieci giorni che ancora serviranno. Un modo anche per attenuare l'insistenza di giornali e agenzie di stampa.

Loreta Maria Grazia Dorigo, nata a Milano, compirà 58 anni il prossimo 27 dicembre. Indossa la toga dal 1986. Magistrato discreto e schivo, nelle scorse ore si è mostrata a tratti infastidita dall'attenzione mediatica. All'inizio sia lei sia i vertici del Tribunale si sono trincerati dietro il principio secondo cui nel rito civile la pubblicità degli atti non è prevista. Poi però hanno dovuto fare i conti con il fatto che la decisione sui due ricorsi sul referendum costituzionale pendenti presso la Prima sezione riguarda il Paese intero. E che la politica nazionale è appesa al giudice Dorigo.

La quale nella sua quasi trentennale carriera è sempre rimasta nell'ombra. Non è certo di quei magistrati che amano finire sui giornali o cavalcare casi spettacolari. Con un'unica, e non trascurabile, eccezione: il processo a carico di David Mills. Loreta Dorigo faceva infatti parte della corte che nel febbraio del 2009 ha condannato in primo grado a quattro anni e sei mesi l'avvocato inglese per corruzione in atti giudiziari. Allora membro della Decima sezione penale del Tribunale, era giudice a latere, insieme a Pietro Caccialanza della presidente Nicoletta Gandus. Lo stesso collegio giudicante eviterà poi nel 2012 il processo parallelo a Silvio Berlusconi (che verrà prosciolto per prescrizione). Era infatti diventato incompatibile, perché si era già espresso sugli stessi fatti. Dorigo è successivamente passata alla Prima civile, una sezione quasi tutta al femminile (le donne sono sette su nove) guidata dalla presidente Gandolfi. Quest'ultima magistrato di grande esperienza, tra l'altro, in diritto della famiglia. Sta toccando anche a lei la delicata gestione dei ricorsi sul referendum.

Più passano i giorni e meno probabile si fa l'ipotesi che la giudice disponga ulteriori atti nel procedimento. Non resterà che accogliere, e mandare gli atti alla Consulta, oppure respingere. Anche se la decisione fosse già presa - come si mormora - i giorni in più servirebbero a scrivere e limare nei dettagli la motivazione, che sarà contestuale. L'autore di uno dei due ricorsi, Valerio Onida, è una vera autorità del diritto costituzionale: servirà un verdetto ineccepibile. Soprattutto in caso di bocciatura dell'istanza.
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NEL PAESE DEL BUNGA BUNGA,....DOVE TUTTO E' UNA BUFALA





Identità digitale, c’è un buco nella sicurezza: “Così ti divento Matteo Renzi”

di Thomas Mackinson | 4 novembre 2016
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Doveva essere “facile, veloce e sicuro“. Ma per violare la “grande rivoluzione digitale” del governo Renzi bastano colla, forbici e un computer. A otto mesi dal lancio del Sistema pubblico per l’identità digitale (Spid) si scopre che lo si può usare per carpire i dati sensibili di qualunque cittadino, perfino lo stesso Renzi, e carpire informazioni sensibili: dalla sanità alla dichiarazione dei redditi, dalle tasse all’iscrizione dei figli al nido. Senza essere hacker.

Dal 15 marzo scorso è operativo “Spid”, il Sistema pubblico d’identità digitale che con un pin unico permette di accedere a tutti i servizi online della pubblica amministrazione (Inps, Agenzia Entrate, Comuni, scuole, asl) e interagire direttamente con loro, rendendo il rapporto con la burocrazia “veloce, semplice e sicuro“. Finché arriva qualcuno a guastare la festa, armato dell’astuccio di un bambino e di un computer.



IL FLOP – Vero pilastro del piano Renzi-Madia per la semplificazione 2015-2017, il sistema Spid è partito otto mesi fa, con un anno di ritardo sul ruolino di marcia. Il governo prevedeva di collegare entro il 2017 circa 10 milioni di utenti ma dopo sei mesi le identità digitali rilasciate sono poco più di 140.000 e di questo passo per centrare l’obiettivo non basteranno 25 anni. Dietro al flop, va detto, ci sono ragioni tecniche ed economiche. Le amministrazioni periferiche dello Stato faticano ad effettuare la migrazione dai loro vecchi sistemi di accreditamento (tipo Cns), tanto che solo due regioni (Emilia Romagna e Friuli) sono agganciate a Spid (tutte dovranno adeguarsi entro dicembre 2017). Non aiutano poi la procedura farraginosa e i costi per il cittadino: l’identità digitale è stata pubblicizzata come “gratuita per i primi due anni” ma ottenerla può costargli anche 20 euro.

In ogni caso il dato è imbarazzante per il governo che deve esser corso ai ripari esercitando pressioni sull’Agid, l’Agenzia per il digitale (che fa capo alla Presidenza del Consiglio) e sugli Identity Provider accreditati (Infocert, Tim, Poste) per recuperare il ritardo e scongiurare la figuraccia. Finendo però per farne una peggiore, perché in Italia – lo abbiamo dimostrato e documentato con un video – non è un colosso privato tipo Yahoo o un attacco informatico straniero a insidiare la privacy e la sicurezza dei cittadini. Ma il loro governo. Ecco come.

LA FALLA – Pur di accelerare la distribuzione delle identità l’Agenzia il rilascio anche attraverso il riconoscimento Web: usando la WebCam un operatore di un call-center privato (sì, non un pubblico ufficiale!) visiona i documenti che gli vengono mostrati ma dei quali non può accertare l’autenticità, rischiando così di essere facilmente tratto in inganno da chi volesse sostituirsi a un altro cittadino per far incetta dei suoi dati sensibili come la dichiarazione dei redditi e l’Isee, referti e visite mediche, la situazione previdenziale e le denunce di infortuni all’Inail, l’iscrizione all’asilo nido e i congedi di maternità, il pagamento di tasse e bolli, proprietà immobiliari e dichiarazioni di successione. Un’impresa, ad esempio, può sfogliare le fatture elettroniche di un concorrente. Senza che qualcuno se ne accorga.

L’ESPERIMENTO – Il punto di forza diventa così l’anello debole della catena. Chi scrive lo ha sfruttato riuscendo senza difficoltà a farsi accreditare agli occhi dello Stato con l’identità di un collega. Lo stesso esperimento, va detto, si poteva tentare a uno sportello fisico, correndo solo qualche rischio in più perché il punto è questo: se fino a ieri con un documento falso non si andava lontano oggi – con l’identità digitale fasulla interconnessa a tutti i servizi della PA – si può carpire una miriade di informazioni su una persona, una famiglia, un lavoratore e un’impresa. E presto operare direttamente sui loro conti correnti, il giorno in cui Spid – come ipotizzano dall’Agid – sarà abilitato in ambito bancario. Il futuro riserva poi lo switch off obbligatorio e allora nessuno sarà esente da rischi, neppure il cittadino Matteo Renzi. Al quale ora tocca chiedere:

a) Quanto è costata l’infrastruttura che rottama 50milioni di CNS (Carta nazionale dei servizi) già distribuite ai cittadini?

b) Chi restituirà a privati e imprese i soldi che hanno pagato di tasca loro per essere accreditati a operare in un sistema che si è scoperto (e dimostrato) permeabile a un bambino?

c) Chi può garantire che i 140mila accreditamenti rilasciati finora siano stati e siano in condizioni di assoluta sicurezza?

d) Chi, come e quando si prende l’impegno di adeguare il sistema mettendolo in sicurezza?
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La Verità, quotidiano di Maurizio Belpietro, in prima pagina riporta in grande evidenza questa notizia

In Italia chiuso per fallimento 57 aziende al giorno.


La notizia è stata ripresa da Dagospia:


4 NOV 2016 11:58
1. IN SETTE ANNI SONO FALLITE 100MILA AZIENDE IN ITALIA. NON CHIUSE, PROPRIO FALLITE


2. OGNI GIORNO 57 IMPRESE VANNO A GAMBE ALL'ARIA: UN DATO CHE NON HA PARAGONI CON LE GRANDI ECONOMIE OCSE. PER TUTTI GLI ALTRI, DAL 2009 A OGGI, LE COSE SONO MIGLIORATE


3. UNA PRESSIONE FISCALE ABNORME, CHE OBBLIGA IMPRENDITORI E ARTIGIANI A VERSARE ALLO STATO ALMENO 55 CENT PER OGNI EURO INCASSATO (FINO A 68 CON ALTRI ONERI O IMPOSTE)


4. MA C'È ANCHE UNA LUNGA SERIE DI TASSE OCCULTE. SCARTOFFIE, CORSI OBBLIGATORI, CERTIFICAZIONI. DAL PRIMO SOCCORSO AL RUMORE, LO STRESS, LA VALUTAZIONE DEI RISCHI


5. NEGLI INDICI GLOBALI L'EFFICIENZA DEL MERCATO DEL LAVORO È AL 119° POSTO SU 138. L' EFFICIENZA DELLE ISTITUZIONI? 103. E LA TRASPARENZA DEL MERCATO FINANZIARIO: 122



Claudio Antonelli per La Verità

Nell' arco delle 24 ore in cui questa edizione sarà valida, in Italia avranno chiuso per insolvenza 57 aziende. È la media aritmetica dei fallimenti registrati. Un numero spaventoso che se viene spalmato dal 2009 a oggi arriva a contare 6 cifre. Se continua così chiuderemo, infatti, l' anno con 100.000 imprese finite a gambe all' aria. I conti li ha fatti il centro studi Impresa Lavoro, presieduto da Massimo Blasoni, e definiscono un Paese in profonda crisi.


Rielaborando i numeri forniti da Ocse e Cribis, società di servizi per la gestione del credito, appare chiaro come rispetto a sei anni fa i fallimenti in Italia siano cresciuti del 55%, passando dai 9.384 del 2009 ai 14.585 del 2015.

Un dato che non ha paragoni con le altre grandi economie monitorate dall' Ocse: oltre all' Italia, infatti, solo la Francia (+13,81%) presenta oggi un numero di crac superiore rispetto al 2009 e con proporzioni del fenomeno decisamente più limitate rispetto alle nostre.
Tutti le altre nazioni segnalano, invece, un numero di aziende fallite inferiore a quello di sei anni fa. Le imprese costrette a chiudere per insolvenza sono infatti in calo in Spagna (-4,45%), Germania (-22,90%) e Olanda (-30,25%). Idem per la Finlandia, il Belgio e la Svezia.


Lo stupore di fronte a tale mortalità dovrebbe però lasciare spazio alla consapevolezza che la nazione che ci ospita è fondamentalmente avversa all' imprenditoria privata. Statalisti nel Dna, i politici che guidano il Paese sono molto restii a ridurre il perimetro della burocrazia e dello Stato. Qui sta il male originario di tutti i problemi e i gravami che cadono sulla testa di chi investe i propri capitali.

Lo straripamento della spesa pubblica non genera solo una pressione fiscale abnorme, che obbliga un' azienda a versare allo Stato non meno di 55 centesimi per ogni euro incassato (arrivano a essere 68 se si aggiungono altri oneri o imposte), ma produce una lunga serie aggiuntiva di tasse occulte. Sono scartoffie, corsi obbligatori per il personale, certificazioni vissute non come una tutela, ma una vera e propria vessazione.


Un artigiano che lavora l' intera settimana senza pause può essere costretto a sborsare 160 euro + Iva per un certificato contro lo stress da lavoro correlato. Chi si occupa di autotrasporto sa che le norme nazionali o regionali sono un labirinto che finisce immancabilmente con un prelievo dal portafogli.

Un' azienda che si occupa di impianti termoidraulici e magari ha 5 dipendenti nell' arco di cinque anni avrà finito con lo spendere 4.000 euro per la formazione professionale e oltre 250 ore sottratte alla produttività. In molti si chiedono a che servano i corsi di primo soccorso, se poi nessuno si azzarda a intervenire per timore che arrivi una denuncia penale e si finisca con l' essere processati. Così si chiama sempre il 118. Eppure se il titolare non si mette in regola (serve almeno un dipendente formato) scattano le sanzioni e persino le multe.

Da tenere nel cassetto ci sono anche le certificazioni sul rumore (300 euro + Iva) e il documento per la valutazione dei rischi che ovviamente passa per le mani di un professionista e non costa meno di 380 euro, sempre Iva esclusa. E questa è solo una veloce carrellata che rende l' idea di come la burocrazia appesantisca un' impresa quasi più della pressione fiscale. Certo, un giovane che si mette a fare l' imprenditore capisce subito che dovrebbe trasferirsi altrove.

Per avviare un' impresa servono almeno nove procedure e si può arrivare ad attendere 36 mesi per avere tutte le carte in regola. E ci sarà un motivo se le persone pagano più per timore delle multe che per reale convinzione: perché spesso gli adempimenti servono a giustificare l' esistenza di chi li ha inventati.


Ovviamente queste «rogne» riguardano solo le attività che sono in salute. Le altre devono affrontare la rigidità dei finanziamenti, la crisi del credito e alla fine la voragine della giustizia civile.

Il primo motivo per cui gli stranieri sono restii a investire in Italia. Nel complesso, l' ambiente è ostile alle aziende. Non è odio. È solo aridità. Come vivere nel deserto se si è una pianta di mele: molto difficile. Non a caso tutte le statistiche internazionali ci dipingono come una nazione del Terzo mondo. L' ultimo in ordine di tempo è il Global Competitiveness Index.

L' Italia si è piazzata al 44° posto (43° nel 2015) preceduta, tra gli altri, da Islanda 29°, Malesia, Azerbaigian, Federazione Russa e Spagna (33°).

L' efficienza del mercato del lavoro è al numero 119 su 138 in classifica. L' efficienza delle istituzioni è al numero 103 e la trasparenza del mercato finanziario al 122° posto.

Per innovazione tecnologica ritorniamo nella parte alta della classifica. Come ci riusciamo, con tutte le zavorre, non si sa. Deve essere lo stesso mistero che permette all' Italia di svegliarsi ogni mattina. E ripartire dai fallimenti.
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...SE FALLISCONO ANCHE LE FARMACIE,.....SIAMO A POSTO.....


Il Messaggero > Roma > Cronaca


Roma, l'allarme di Federfarma: «Due farmacie fallite in due giorni e una su tre non ha futuro»

Due farmacie fallite in due giorni. Circa 30 casi tra fallimenti e concordati preventivi da inizio anno. Tra le farmacie ancora in attività, il 30% versa in condizioni finanziarie gravissime ed è ormai a un punto di non ritorno. Sono le preoccupanti condizioni in cui versano le farmacie di Roma e provincia, colpite ormai da anni da una crisi che negli ultimi tempi si è fatta sempre più pesante, evidenzia Ferderfarma Roma. «Questi dati sono relativi soltanto al nostro territorio - spiega il presidente Vittorio Contarina - ma anche nel resto d'Italia la situazione non è molto diversa. Le farmacie italiane sono in crisi e molte non ce la fanno, con prevedibili e pesanti conseguenze non solo per chi in quelle farmacie ci lavora, ma anche e soprattutto per i cittadini. E pensare - osserva Contarina - che c'è ancora chi continua a definirci una casta. Quella di oggi non è più la farmacia degli anni '80 e '90. La realtà, come dimostrano questi numeri, racconta tutta un'altra storia, e le ultime due farmacie fallite a distanza di neanche 48 ore l'una dall'altra testimoniano una fortissima crisi che non può più essere sottovalutata dalle istituzioni, le quali devono assolutamente metterci nelle condizioni di dare alla cittadinanza il servizio di pubblica utilità di cui hanno bisogno».

«Non siamo qui a chiedere favori - precisa - non vogliamo alcuna agevolazione di sorta. Vogliamo soltanto rispetto e un riconoscimento formale della crisi che stiamo attraversando. In questo momento la nostra categoria è fragile e non è assolutamente in grado di reggere altri colpi». «Chiedo inoltre al sindaco Virginia Raggi - conclude il presidente di Federfarma Roma - di riattivare appena possibile i decentramenti, perché molte farmacie del centro di Roma sono letteralmente intrappolate in zone ormai svuotate di uffici e abitanti, continuando a pagare affitti altissimi senza la possibilità di spostarsi fino alla fine della procedura di assegnazione dell'ultimo concorso. Il tempo a nostra disposizione è sempre di meno ed è necessario, per quanto possibile, accelerare i tempi. Non possiamo aspettare ancora».
Venerdì 4 Novembre 2016 - Ultimo aggiornamento: 16:32

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CHOMSKY DESCRIVE PERFETTAMENTE QUANTO STA SUCCEDENDO AL POPOLO ITALIANO.




Politica scolastica
Chomsky, il principio della rana bollita e il popolo senza nessuna opposizione
I lettori ci scrivono Mercoledì, 02 Settembre 2015

AAAA

Il principio della rana bollita, utilizzato dal filosofo americano Noam Chomsky, fa riferimento alla Società, ai Popoli che accettando passivamente, il degrado, le vessazioni, la scomparsa dei valori, dell'etica, ne accettano di fatto la deriva.
Questo principio può essere usato anche per il comportamento delle Persone inerti, immobili, remissive, rinunciatarie, noncuranti, che si deresponsabilizzano di fronte alle scelte.

Il principio della rana bollita: Immaginate in un pentolone pieno d'acqua fredda, nel quale nuota tranquillamente una rana. Il fuoco è acceso sotto la pentola, l'acqua si riscalda pian piano.
Presto l'acqua diventa tiepida. La rana la trova piuttosto gradevole. La temperatura sale. Adesso l'acqua è calda, un pò più di quanto la rana non apprezzi. La rana si scalda un pò tuttavia non si spaventa. Adesso l'acqua è davvero troppo calda, e la rana la trova molto sgradevole. Ma si è indebolita, e non ha la forza di reagire. La rana non ha la forza di reagire, dunque sopporta. Sopporta e non fa nulla per salvarsi. La temperatura sale ancora, e la rana, semplicemente, finisce morta bollita. Ma se l'acqua fosse stata già bollente, la rana non ci si sarebbe mai immersa, avrebbe dato un forte colpo di zampa per salvarsi.
Ciò significa che quando un cambiamento viene effettuato in maniera sufficientemente lenta e graduale sfugge alla coscienza e non suscita nessuna reazione, nessuna opposizione.
A nome degli insegnanti precari demonizzati, vilipesi, offesi, denigrati, umiliati, derisi, sfruttati.
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"La bancarotta dell’umanità ”, da noi si sente più che altrove.

E' UN MISTERO COME POSSA DORMIRE TUTTE LE NOTTI, ANGELINO ALFANO, SE SI E' FATTO INCOLLARE LA POLTRONA ALLE CHIAPPE CON L'ATTAK?




Alfano: "Anche se vince il No il governo non cade"
Il ministro dell'Interno fa campagna per il Sì e non risparmia bordate alle opposizioni: "Per il No ex presidenti del consiglio che vogliono solo cambiare premier"


Chiara Sarra - Dom, 06/11/2016 - 13:52
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"Il governo non cade". Ne è sicuro Angelino Alfano che intervenendo a un convegno dei "Moderati per il Sì" non risparmia bordate alle opposizioni.


"Mi fa specie vedere tanti ex presidenti del consiglio che hanno provato a cambiare l'Italia e che non ci sono riusciti", accusa il ministro dell'Interno, "E ora che noi ci proviamo, e siamo a un passo dal traguardo, vogliono impedire di cambiare l'Italia nella direzione che volevano, ma senza riuscirci. Non è giusto impedire agli altri di fare una cosa giusta che loro non sono riusciti a fare. Noi dovremo dire agli italiani che la riforma tocca solo il motore organizzativo della macchina dello Stato e non gli ideali e valori della nostra costituzione per cui sono morti i nostri giovani".

Poi si "incolla" alla poltrona: "Quelli che votano No pensando Sì, ma votano No solo per far cadere il governo, possono votare Sì tranquilli e sereni", dice con sicumera, "Anche se votano No e vince il No, il Governo non cade, visto che noi siamo dell'idea che l'esecutivo non debba dimettersi anche in caso di successo del No".
UncleTom
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Iscritto il: 11/10/2016, 2:47

Re: Diario della caduta di un regime.

Messaggio da UncleTom »

"Mi fa specie vedere tanti ex presidenti del consiglio che hanno provato a cambiare l'Italia e che non ci sono riusciti", accusa il ministro dell'Interno, "E ora che noi ci proviamo, e siamo a un passo dal traguardo, vogliono impedire di cambiare l'Italia nella direzione che volevano, ma senza riuscirci.


Se qualcuno ha delle amicizie nell'enturage di quel genio di Angelino Alfano, è pregato di fargli sapere che l'Italia è fallita su tutti i fronti.
pancho
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Iscritto il: 21/02/2012, 19:25

Re: Diario della caduta di un regime.

Messaggio da pancho »

UncleTom ha scritto:"Mi fa specie vedere tanti ex presidenti del consiglio che hanno provato a cambiare l'Italia e che non ci sono riusciti", accusa il ministro dell'Interno, "E ora che noi ci proviamo, e siamo a un passo dal traguardo, vogliono impedire di cambiare l'Italia nella direzione che volevano, ma senza riuscirci.


Se qualcuno ha delle amicizie nell'enturage di quel genio di Angelino Alfano, è pregato di fargli sapere che l'Italia è fallita su tutti i fronti.
In mancanza di veri politici non si fa più politica.

Si cerca solo di conservarsi la poltrona. E che poltrona.

Siamo noi i fessi e non loro. Ci fidiamo ciecamente per il semplice fatto che non vogliamo romperci i cosidetti. Basta che ci lascino in pace.


un salutone
Cercando l'impossibile, l'uomo ha sempre realizzato e conosciuto il possibile, e coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che sembrava possibile non sono mai avanzati di un sol passo.(M.A.Bakunin)
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