IL REFERENDUM COSTITUZIONALE

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paolo11
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Re: IL REFERENDUM COSTITUZIONALE

Messaggio da paolo11 »

sabato 26 novembre 2016
Fabio Mussi
Una domanda a Renzi e a una legione di miei ex compagni
Ma perché nessuno fa mai una domanda semplice semplice al torrenziale presidente del Consiglio? "Scusi, presidente Renzi, ma Lei, come ha votato nel referendum costituzionale del 2006?". Si trattava di referendum confermativo -come quello di quest'anno, 2016- di una riforma costituzionale approvata dalla maggioranza del Parlamento legittimamente in carica (ed eletto con una legge elettorale non incostituzionale). La riforma prevedeva, tra l'altro, il superamento del bicameralismo perfetto, la revisione dei poteri di Stato e Regioni, la riduzione del numero dei parlamentari, la riduzione dei costi della politica. BastavaunSì. O no?
So per certo che tutti i miei ex, allora Ds oggi Pd, in maggioranza ora fieri alfieri del Sì, votarono No. E Matteo Renzi, all'epoca, già passati i trent'anni, presidente della Provincia di Firenze, che fece, che fece? Suppongo che scelse il No, come tutto il centrosinistra. Se avesse la cortesia di confermare, gliene sarei grato.
Suppongo anche che, nel caso avesse davvero votato No, l'avesse fatto perché, nonostante tutte quelle bellurie di allora che egli vanta anche nella riforma così fortemente voluta dal suo governo oggi, non fosse convinto della bontà del complessivo impianto della nuova costituzione sottoposta a referendum. Giusto. È il modo in cui ho ragionato anch'io, e la grande maggioranza dei cittadini che votarono bocciando la riforma.
Era un cambiamento, purtroppo sbagliato. Cui ci si oppose a ragion veduta, compreso Renzi Matteo di Rignano sull'Arno, e non perché mossi dall'odio e dal rancore, o inguaribilmente affetti da una psicopatologia da bastian contrari.
Allora perché tanto ininterrotto fiammeggiare oggi -assai stridente in bocca a chi governa da tre anni, e ha dalla sua le corazzate del potere economico e finanziario- contro l'"accozzaglia" del No, tutti difensori delle "poltrone, dei privilegi, della casta"? A me, come a molti altri, capita di votare No dopo aver valutato la qualità e gli effetti della attuale riforma costituzionale. Punto.
Non mi spingerò a dire che "fa schifo" (secondo il ponderato giudizio di Massimo Cacciari, che conseguentemente vota Sì), mi limiterò a dire che non mi piace perché impoverisce la democrazia e concentra il potere.
Tanto più accoppiata all'Italicum, la legge elettorale imposta a suon di voti di fiducia, ieri esaltata come la più bella del mondo, oggi giudicata trattabile (che ovviamente resterà, nonostante Cuperlo, se vince il Sì). E l'idea, su cui c'è gran battage, che non ci sia alcun rapporto tra riforma costituzionale e legge elettorale, è una "scemenza asinina": i "sistemi politici" son determinati da assetti istituzionali, leggi elettorali, stato dei soggetti politici in campo. Per questo si chiamano "sistemi".
"Chiacchiere", si dirà, perché "bisogna cambiare". E cambiar bisogna. Purché si sappia che i cambiamenti son di tanti tipi: correzioni, restauri, aggiornamenti, riforme, controriforme, reazioni. E incasinamenti. Il cambiamento tanto voluto da Renzi è del settimo tipo rafforzato: "incasinamento pericoloso". E questo è un libero e meditato giudizio.
Perciò: presidente Renzi, se Lei ha votato No, come immagino voglia confermare, in un altro referendum costituzionale, abbia rispetto per chi vota No in questo. Compreso il rispetto dovuto a molti esponenti del suo partito.
Ascolti Richard Sennett (che peraltro temo non avrebbe apprezzato il suo Jobs Act): "Il rispetto non costa niente. Perché, allora, ne viene dispensato così poco?". Soprattutto da chi sta in alto, al governo, nel cuore dell'establishment, e non tra i reietti e gli esclusi, di cui si possono ben comprendere la ribellione e la rabbia (do you know Trump?).
Originale: http://www.huffingtonpost.it/fabio-muss ... _ref=italy
Ciao
Paolo11
UncleTom
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Re: IL REFERENDUM COSTITUZIONALE

Messaggio da UncleTom »

INGRANDIMENTO
Caccia al voto dei giovani, com'è difficile la rincorsa di Renzi
È il governo con l'età più bassa nella storia della Repubblica. Eppure non riesce a sedurre gli under 35. Che al referendum rischiano di diventare il tallone d’Achille del premier. E qualche ragione per essere arrabbiati, i “nuovi adulti”, ce l’hanno
DI EMILIANO FITTIPALDI
28 novembre 2016
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Se da tre settimane gli incubi di Hillary Clinton sono popolati dagli operai bianchi del Midwest che hanno votato Donald Trump, quelli di Matteo Renzi sono gremiti di giovani precari meridionali furiosi. Il premier ha capito che sarà il voto degli under 40 a decidere chi vincerà il referendum. E che sono gli arrabbiati e i delusi, il tallone d’Achille su cui ha deciso di concentrare gli sforzi finali suoi e dei comitati del Sì. «Se non convinciamo i giovani a cambiare idea e votare per noi, il 5 dicembre andiamo tutti a casa», ripete il premier tre volte al giorno a chi gli capita davanti. Ecco spiegate le ultime mosse: Matteo che si lancia sulla copertina della rivista Rolling Stone (titolo “The young pop”, dove discetta di Fedez e Dj Ax, «almeno ha evitato di rimettere il chiodo» ironizzano gli antipatizzanti), Matteo che annuncia «una decontribuzione totale per chi assumerà giovani al Sud nel 2017», Matteo che applaude «il bonus di 500 euro per i diciottenni», che da inizio novembre possono scaricarsi la paghetta di Palazzo Chigi da una app del governo (“18App”, si chiama). Un plafond da spendersi in ebook e spettacoli teatrali, musei e concerti, pure di musica techno, che era stato approvato già un anno fa e che diventa operativo solo adesso. «Renzi sta diventando ridicolo anche nel dispensare le sue marchette», ha reagito Giorgia Meloni. «Evidentemente sa che questo referendum lo perderà».

«Non è detta l’ultima parola», pensa invece Renzi. Che sta tentando il tutto per tutto per affabulare i ragazzi d’Italia: i trend fotografati dalla categoria più sbeffeggiata dell’anno, quella dei sondaggisti, varranno anche poco, ma tutte le rilevazioni segnalano che per ora il No è in predominio schiacciante soprattutto tra chi ha meno di quarant’anni. Che votano “contro” non tanto per difendere la Costituzione del 1948, ma per mandare a casa un governo che non li ha mai rappresentati. «Tra i ragazzi c’è un sentiment antisistema, frutto anche di un’insoddisfazione che continua a essere molto violenta», ragiona Giuliano Da Empoli, uno dei consiglieri più ascoltati da Renzi, preoccupato dal fatto che i giovani elettori abbiano abbandonato il Pd in blocco, rivolgendosi all’offerta politica del Movimento 5 Stelle.

Un vero paradosso, per il governo più “young” della storia della Repubblica. Un esecutivo riempito di ministri e ministre di primo pelo, che ha fatto della rottamazione, del cambiamento, della novità a tutti i costi il perno della sua comunicazione. Il punto, probabilmente, sta proprio qui. Nello spread tra quello che è stato annunciato dallo storytelling renziano e quello che è stato davvero realizzato.

Analizzando documenti ufficiali della Banca d’Italia, dell’Istat, dell’Ocse, scartabellando le misure dei primi mille giorni dell’esecutivo, ecco che il quadro si fa più chiaro. Mostrando come l’insoddisfazione e la rabbia si basano su uno status quo che Renzi ha certamente ereditato, ma che non sembra aver affrontato con vigore sufficiente per tentare di ribaltare. Anzi: le diseguaglianze generazionali sono aumentate, e di riforme importanti per ridurre il gap di opportunità tra giovani e anziani, in questi primi tre anni dell’era di Rignano sull’Arno, non s’è vista l’ombra.

Partiamo dal lavoro, pietra miliare di ogni polemica. «I dati dell’Istat pubblicizzati dal governo raccontano che da febbraio 2014 ad oggi ci sono 656 mila posti in più», ha detto Renzi qualche giorno fa. In realtà, il tasso di disoccupazione giovanile è sì migliorato di qualche decimale, ma resta inchiodato a un mostruoso 37,1 per cento, con punte che vanno dal 60 all’80 per cento in regioni del Sud come Campania, Calabria e Sicilia. I nuovi occupati, dati alla mano, sono infatti in gran parte over 50, una crescita esponenziale dovuta alla stretta sull’età pensionabile voluta dall’ex ministro Elsa Fornero.

Le nuovi assunzioni a tempo indeterminato sono state pagate in larga parte dallo Stato, e hanno riguardato soprattutto lavoratori maturi: nel 2015 grazie al Jobs Act le imprese hanno potuto assumere ottenendo sgravi fiscali da favola, foraggiati di fatto dai contribuenti, e la bolla è scoppiata appena il governo ha chiuso i rubinetti degli incentivi. «Questo Paese ha speso ad oggi circa 18 miliardi per poter permettere al presidente del Consiglio di dire che ha qualche centinaio di migliaia di occupati in più. Una spesa straordinaria, con un risultato minimo», ha attaccato Susanna Camusso, leader di un sindacato, la Cgil, che non si è recentemente distinto come campione dei diritti dei giovani. «Un risultato che peraltro, con tutto il rispetto per le persone, riguarda prevalentemente la fascia over 50».

Il refrain è sempre lo stesso. Renzi, Maria Elena Boschi, Marianna Madia, Luca Lotti, i “ragazzini” di Palazzo Chigi non hanno cambiato una tendenza che dura da tre lustri: quella dell’impoverimento strutturale delle nuove generazioni, che la Banca d’Italia ha individuato come i soggetti più colpiti dalla crisi iniziata nel 2008. Non solo. Nell’ultimo rapporto annuale dell’Istat si dice che un ragazzo su tre sotto i 34 anni è «sovraistruito», cioè troppo qualificato per il lavoro che svolge. Significa che lui e la sua famiglia hanno investito tempo e denaro per una formazione che l’ha portato, come primo lavoro, a fare «il commesso, il cameriere, il barista, l’addetto personale, il cuoco, il parrucchiere, l’estetista», scrivono nel maggio 2016, sconfortati, gli esperti dell’istituto.


Ovvio che il sentimento dominante, anche per coloro che un lavoro ce l’hanno, sia quello della frustrazione. E della consapevolezza che l’istruzione non è più la chiave di volta per la mobilità sociale: se Almalaurea racconta che gli stipendi dei neolaureati italiani sono i peggiori del continente, a tre anni dal titolo di studio e dalla bicchierata fuori l’ateneo con nonne e parenti solo la metà dei rampolli italiani ha trovato un contratto standard e un posto degno corrispondente agli studi fatti.

«La vecchiaia non è così male se considerate le alternative», diceva Maurice Chevalier. Mai aforisma fu più azzeccato, almeno sotto le Alpi: è un fatto che la Generazione X e quella successiva dei Millennial abbiano ormai la certezza che le loro condizioni economiche e il loro stile di vita saranno peggiori di quello dei loro padri. È la prima volta, dal Dopoguerra, che si registra un fenomeno di questo tipo: l’ascensore sociale, quello che consentiva di migliorare attraverso lo studio, il merito, l’iniziativa individuale, è bloccato da anni. E quando si muove lo fa in un’unica direzione: il basso.

La Boschi, ministro per le Riforme e architetto del referendum, invita i giovani a votare Sì «per non farsi rubare il futuro». Il rischio è che votino No perché Renzi non ha saputo rispondere alle emergenze del presente. Oltre che sul Jobs Act, il governo ha puntato sul progetto europeo “Garanzia giovani”, un programma nato per aiutare gli under 30 a trovare un posto decente. È un flop clamoroso: secondo l’Isfol, ente pubblico del ministero del Lavoro guidato da Giuliano Poletti, su quasi un milione di italiani iscritti al programma solo 32 mila (quindi il 3,7 per cento) hanno trovato un’occupazione vera e un contratto decente. Gran parte dei denari investiti, 1,5 miliardi di euro arrivati dalla Ue, è scomparsa nei rivoli della burocrazia. Molti iscritti non hanno mai ricevuto una risposta dai centri per l’impiego, che si sono affannati a smistare qualche migliaio di ragazzi in tirocini, corsi professionali e perfino nel servizio civile. «Che un milione di giovani si siano attivati e registrati a Garanzia giovani è un dato di grande rilievo», aveva detto Poletti qualche giorno prima che il suo Isfol mettesse una pietra tombale sull’esperienza, costringendo Renzi ad ammettere che i risultati sono «così così, poteva andare meglio».

Non stupisce, dunque, che nell’anno di grazia 2016 sette milioni di under 35 siano costretti a vivere ancora con i genitori: si tratta di studenti e disoccupati, dei cosiddetti Neet (oltre due milioni di giovani che non studiano e non lavorano: in Sicilia e Calabria restano nel limbo della loro vecchia cameretta 4 ragazzi su 10), ma anche di persone che hanno lavori saltuari o malpagati, che non permettono loro di emanciparsi dalla famiglia d’origine, fare a meno del welfare elargito da papà, affittarsi o comprarsi una casa propria, sposarsi e fare figli. Anche Eurostat spiega che nel 2015, «i giovani adulti» entro i 34 anni che vivono con almeno un genitore sono il 67 per cento, un esercito di “bamboccioni per forza” in netta crescita rispetto alla rilevazione precedente. Siamo i peggiori in Europa, di gran lunga.

Il 7 novembre Giorgio Alleva, presidente dell’Istat, in un’audizione alla Camera sulla legge di Bilancio 2017, lo ha ribadito: «I giovani sono oggi una delle categorie più svantaggiate: si tratta di generazioni che, dopo anni di istruzione e formazione, faticano a trovare lavoro, con ricadute che interessano i comportamenti, le condizioni economiche, le scelte riproduttive e di vita».

La risposta di Renzi e del governo “young” è stata quella di allargare a un altro milione di pensionati la “quattordicesima”, un assegno supplementare dell’Inps pagato ai pensionati con redditi sotto i 10.290 euro l’anno. Chi già la prende, inoltre, vedrà accresciuto l’assegno. Una mossa che di certo dà una mano a chi se la vede male, ma che per l’ennesima volta dimostra che, se ha fiches da investire, Renzi preferisce puntarle sugli anziani e i dipendenti pubblici. Non a caso base elettorale del Pd, e - secondo i sondaggi - più propensa a votare Sì.

Perfino il presidente dell’Inps voluto da Renzi, Tito Boeri, si sta smarcando da mesi dalle scelte di Palazzo Chigi, evidenziando che l’Italia «non può investire solo su chi ha smesso di lavorare», e che la manovra finanziaria che verrà è, ancora una volta, tutta squilibrata: «Per i giovani si fa poco, e un paese che smette di investire su di loro è un paese che non ha grandi prospettive di crescita». Il problema vero è quello dell’equità: «Ci sono delle persone che oggi hanno dei trattamenti pensionistici, o dei vitalizi, come nel caso dei politici, che sono del tutto ingiustificati alla luce dei contributi versati in passato. Abbiamo concesso per tanti anni questo trattamento privilegiato a queste persone». Ora, propone Boeri, bisogna che chi ha prestazioni elevate contribuisca a alleggerire i conti previdenziali, e permettere una redistribuzione alle persone che, la pensione, rischiano di non averla mai. O decurtata, come indicano tutte le analisi, del 50-60 per cento rispetto all’ultimo stipendio.

Il governo, però, non è d’accordo. Tanto che Tommaso Nannicini, sottosegretario alla presidenza del Consiglio e consigliere economico di Renzi, ha risposto secco che le pensioni ricche e i vitalizi «non si toccano». Motivo: «Il rischio di mettere le mani nelle tasche sbagliate è troppo grosso».

È un punto centrale, che dà il segno profondo delle politiche renziane, non disposte a tagliare l’enorme fetta di spesa pubblica (il 32 per cento del totale, secondo dati Ocse del 2014, in media la percentuale è tre volte più alta di Svezia, Norvegia, Regno Unito e Olanda) destinata ai pensionati. «La conseguenza», ragiona la sociologa Chiara Saraceno, «è che abbiamo pochi soldi per altre spese sociali fondamentali, e pochissimo per i giovani: per l’istruzione in Europa spendiamo meno di tutti, per la ricerca idem».

«Giovani e precari: dobbiamo prendere i loro Sì. Al Nord, almeno: il Sud ormai è andato», ripete Renzi ai suoi. Ma se è vero (come è vero) che il referendum del 4 dicembre è diventato, a causa di errori strategici del premier, innanzitutto un voto politico sull’operato del governo, è difficile che chi viene pagato con i voucher non sfoghi nelle urne la sua rabbia su una leadership che ha permesso l’esplosione dei buoni lavoro, usati dalle aziende per pagare gli ex co.co.co. Il piddino Cesare Damiano spiega che alla fine del 2016, se il trend rimarrà costante, «potremmo arrivare a 150 milioni di voucher venduti. Un vero record rispetto ai 500 mila del 2008, un numero 300 volte più basso». Una follia, dicono i sindacati dei precari, visto che i buoni sono stati inventati nel 2003 per far uscire dal nero i lavoretti una tantum, come quelli degli studenti che arrotondano al bar e il babysitteraggio occasionale. Nell’era Renzi, invece, i blocchetti vengono usati a piene mani da commercianti, professionisti, ristoratori per camuffare lavoro nero, contratti stagionali, e stipendi da fame dei dipendenti: secondo l’Inps quest’anno la paga “tipo” di chi viene retribuito con i buoni si aggira in media sui 500 euro. L’anno.

Naturale che la promessa di un reddito di cittadinanza (anche se la copertura economica resta operazione difficilissima) attragga milioni di ragazzi verso il M5S. Stanchi dell’immobilismo di una classe dirigente che sembra incapace di affrontare i costi politici e i prezzi elettorali di una necessaria redistribuzione generazionale del reddito e della ricchezza.

Mentre aspettano una rivoluzione che non arriva mai, i giovani restano esclusi dai gangli del potere pubblico (abbiamo i dirigenti pubblici più vecchi d’Europa), dalle imprese private, dai quadri sindacali (la metà degli iscritti sono pensionati), dalle università (nel 2014, su 13239 professori ordinari nemmeno uno ha meno di 35 anni, e solo 15 - spesso figli di baroni e potenti - sono sotto i 40. «Se va avanti così, con il turn over che ci lascia prendere un giovane ogni due docenti che vanno in pensione, rischiamo nel 2020 di non avere più giovani che possano concorrere ai programmi europei», commenta l’ex capo della Conferenza nazionale dei rettori Stefano Paleari.

Non è un caso, infine, che lo Svimez segnali come pure nel 2016 sia proseguita «la desertificazione del capitale umano meridionale»: in cerca di migliori condizioni di vita, in vent’anni i flussi migratori hanno portato via dal Sud oltre un milione di persone, facendo scomparire in pratica una metropoli grande come Napoli. In pochi hanno notato che per il 2015 l’Istat ha segnalato come il numero delle nascite al Sud abbia raggiunto il livello più basso dai tempi dell’unità d’Italia. La Fondazione Migrantes, della Conferenza episcopale italiana, ha poi messo il carico da novanta, raccontando che in valore assoluto vanno via (con destinazioni privilegiate Regno Unito, Germania, Francia e Svizzera) soprattutto giovani under 35 non dal Sud, ma dalla Lombardia, da Veneto, Lazio e Piemonte. Centosettemila persone nel 2015, il 6,2 per cento in più rispetto al 2014.

Se la Commissione Ue ha detto che la fuga di cervelli dall’Italia «può provocare una perdita netta permanente di capitale umano qualificato a danno della competitività del paese» e che «non si può parlare di scambio di cervelli» perché se molte teste lasciano il paese pochissimi laureati stranieri scelgono di venire a lavorare qui, il giovane-vecchio, Matteo, ha replicato annoiato che la questione «è ormai trita e ritrita: agli scienziati dico di tornare a casa, ma se tornate dovete sapere di tornare in un paese dove la ricerca è fondamentale. Sono orgoglioso di voi. Il mio indirizzo è matteo@governo.it, restiamo in contatto». Il 4 dicembre, però, per Renzi sarà fondamentale riuscire a restare in contatto con i giovani incazzati che non sono ancora partiti.

http://espresso.repubblica.it/palazzo/2 ... =HEF_RULLO
UncleTom
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Re: IL REFERENDUM COSTITUZIONALE

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IL TERRORISMO PSICOLOGICO ALLA FINE POTREBBE RIVELARSI UN BOOMERANG

TOCCA A DRAGHI FARE IL POMPIERE



28 NOV 2016 17:01
DRAGHI: NON CI SARA' NESSUNO SCOSSONE SUI MERCATI DAL REFERENDUM (L’ESPERIENZA DI BREXIT E TRUMP)


- “EUROPA E’ UNA CASA COSTRUITA A METÀ. NON È STABILE, MA FRAGILE. SERVONO PROGRESSI"


- IL PRESIDENTE BCE AUSPICA UNA MAGGIORE UNIONE POLITICA (MA OCCHIO: I TRATTATI UE SARANNO COMPETENZA DEL NUOVO SENATO DI DOPOLAVORISTI)




Da Adnkronos



"Un'importante lezione" che abbiamo imparato "dalla crisi è che una casa costruita a metà non è stabile, ma fragile. Quindi servono progressi" in tutti i campi "identificati dal Rapporto dei Cinque Presidenti" per superare le vulnerabilità dell'Unione Economica e Monetaria "derivanti dalla sua incompletezza". Lo sottolinea il presidente della Bce Mario Draghi, in audizione davanti alla Commissione Econ del Parlamento Europeo, a Bruxelles.

"E' molto difficile valutare esattamente l'impatto" di avvenimenti che riguardano la sfera politica o geopolitica "nel medio termine", dice Draghi rispondendo alla domanda di un eurodeputato sulle possibili conseguenze del risultato del referendum sulla riforma costituzionale in Italia sui mercati e sulle banche italiane.


"Guardando agli eventi recenti - osserva Draghi - è abbastanza chiaro che l'incertezza geopolitica diventa una grande fonte di incertezza" per i mercati, ma "la tendenza" che abbiamo visto negli ultimi tempi è "una reazione" dei mercati molto finanziari nel breve termine, mentre "in seguito la reazione dei mercati ha avuto una tendenza a placarsi", cosa che porta a concludere che "i mercati sono stati più resilienti".

"Ma questo - ammette Draghi - non significa che sappiamo che cosa avverrà nel medio termine", poiché avvenimenti "piuttosto profondi" influenzeranno "la realtà" delle cose in un modo che è arduo prevedere.
UncleTom
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Re: IL REFERENDUM COSTITUZIONALE

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Mercurio
Emiliano Brancaccio
28 nov
Il destino delle banche italiane dipende dal referendum? Solo un patetico imbroglio


Ieri sul Financial Times leggevamo: "Alti funzionari e banchieri dichiarano che fino a otto banche italiane rischiano il fallimento se Renzi perde il referendum costituzionale". Non è indispensabile conoscere i nomi di questi segreti informatori del FT: svariati capitani dell'alta finanza hanno apertamente evocato in questi giorni la minaccia di turbolenze bancarie se domenica i No alla riforma dovessero prevalere. Il motivo, essi dicono, è che un'eventuale sconfitta costringerebbe il Premier e i suoi ministri a dimettersi, con la conseguenza di interrompere i tentativi del governo di stabilizzare il sistema bancario italiano.

Oggi che la borsa è in rosso e che le banche vanno per l'ennesima volta sotto, una pletora di commentatori nostrani rilancia le parole degli alti finanzieri: il pericolo sta nelle urne, nel rischio di una vittoria del No al referendum.

Questa lettura della partita referendaria è del tutto fuorviante, e francamente anche un po' patetica. La ragione è semplice: essa presuppone che le iniziative del governo, dall'istituzione del fondo Atlante alla gestione del dossier Montepaschi, siano in grado di scongiurare una crisi bancaria.

La verità, purtroppo, è che le misure adottate finora dal governo sono state del tutto inadeguate, e persino controproducenti. Il caso Montepaschi è un esempio emblematico. Matteo Renzi avrebbe dovuto finalmente avviare la ricapitalizzazione pubblica della banca, come in questi anni si è fatto innumerevoli volte nel resto del mondo, dagli Stati Uniti alla Germania. A tale scopo, Renzi avrebbe potuto persino ricorrere all'applicazione di regole europee vigenti, secondo le quali il salvataggio statale di una banca è consentito senza bail-in qualora sia in gioco la stabilità finanziaria di un paese.

Invece, riesumando una stantia retorica liberista, il Premier ha voluto imporre una sgangherata "soluzione di mercato": vale a dire, trovare investitori privati disposti ad acquistare la banca a prezzi di saldo. Questa iniziativa non sta funzionando, per usare un eufemismo. Nello scenario attuale, chi detiene ingenti capitali prevede ulteriori cali dei prezzi e magari svalutazioni incontrollate, che permetterebbero di fare incetta delle banche dei paesi in difficoltà a prezzi ancor più scontati. Ecco perché è così difficile trovare oggi degli acquirenti privati. L'unica certezza della "soluzione di mercato" è che anche nel caso in cui essa fallisca Montepaschi dovrà comunque pagare laute commissioni a JP Morgan, la banca d'affari a cui Renzi ha affidato la gestione dell'operazione.

La linea d'azione del governo aiuta dunque a stabilizzare il sistema bancario nazionale? Chi lo sostiene è un bell'incosciente. O forse ha interessi in gioco.

Con Dani Rodrik e altri sostenemmo proprio sul Financial Times che i guai dei mercati finanziari e dei sistemi bancari, italiani e non solo, dipendono da cause profonde, legate alla struttura dell'Unione monetaria e alla funesta politica deflazionista con cui le autorità europee e i governi nazionali stanno gestendo la crisi: in questo scenario nuovi tracolli bancari e quindi ulteriori crisi dell'eurozona saranno eventi inesorabili. L'unica ragione per cui finora le turbolenze sono state circoscritte sta nel fatto che la BCE ha inondato i mercati di liquidità ad ogni fiammata ribassista. Ma ad ogni attacco il banchiere centrale deve rispondere con azioni sempre più incisive ed estese, al limite rivolte non più solo ai titoli pubblici ma anche privati. Ecco perché gli speculatori non stanno cambiando idea: essi sono pronti a buttare giù il mercato ogni volta che sorga un dubbio sulla capacità di Mario Draghi di convincere il direttorio a spingere sempre di più la politica monetaria oltre i confini degli accordi europei.

In un simile inviluppo macroeconomico, il referendum è solo uno dei tanti pretesti possibili: in realtà ogni occasione è propizia per alimentare nuove onde al ribasso del mercato. Con buona pace di chi sostiene che sotto l'euro siamo protetti.

Se si volesse davvero iniziare ad affrontare la situazione bisognerebbe prepararsi a nazionalizzazioni bancarie e a controlli sui movimenti di capitale, con o senza il consenso delle istituzioni europee. Simili soluzioni trovano riscontri persino all'interno del Fondo Monetario Internazionale e sono state ampiamente praticate altrove, ma in Italia non sembrano attecchire. A quanto pare, siamo talmente sedotti dalle "soluzioni di mercato" che qualcuno sarebbe capace di rifilarcele anche in caso di uscita dall'euro. Di questo passo, al cospetto di una crisi di portata storica, potremmo a breve essere additati come una delle ultime province occidentali tuttora disposte a bersi le vecchie, sballate ricette del liberismo finanziario.

La situazione delle banche in Italia è dunque grave ma non è seria. Legare la stabilità del sistema bancario agli esiti del referendum e al destino del governo Renzi è solo un patetico imbroglio.
UncleTom
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Re: IL REFERENDUM COSTITUZIONALE

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Nessun rischio crac in Borsa:
"Il mercato ha già votato No"
Per l'ad di Piazza Affari i grandi operatori hanno già venduto Dopo il lunedì nero, il listino sale del 2% e le banche volano


di Camilla Conti
1 ora fa
UncleTom
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Re: IL REFERENDUM COSTITUZIONALE

Messaggio da UncleTom »

UncleTom ha scritto:Nessun rischio crac in Borsa:
"Il mercato ha già votato No"
Per l'ad di Piazza Affari i grandi operatori hanno già venduto Dopo il lunedì nero, il listino sale del 2% e le banche volano


di Camilla Conti
1 ora fa

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Nessun rischio crac in Borsa: "Il mercato ha già votato No"
Per l'ad di Piazza Affari i grandi operatori hanno già venduto Dopo il lunedì nero, il listino sale del 2% e le banche volano


Camilla Conti - Mer, 30/11/2016 - 10:14
commenta
Il mercato ha già votato No al referendum. A dirlo, ieri, è stato l'amministratore delegato di Borsa Italiana, Raffaele Jerusalmi, a margine di un convegno organizzato a Milano.


econdo l'ad «la presenza di colossali posizioni corte (ovvero le posizioni ribassiste e dunque la vendita in massa di titoli ndr) sull'Italia in Usa e in Paesi dove ci sono grandi investitori segnala la scommessa su una vittoria del No al referendum costituzionale di domenica prossima». Sempre secondo Jerusalmi tra gli investitori da una parte ci sia la consapevolezza che una vittoria del Sì garantirà stabilità; ma c'è anche la convinzione profonda da parte di una grande fetta di investitori che vincerà il no. «Ma si sono sbagliati tante volte, è possibile si sbaglino anche stavolta».

Le parole dell'ad di Borsa arrivano il giorno dopo l'articolo del Financial Times, certo che se Renzi perderà la partita le otto banche «malate» del sistema rischierebbero di fallire. Tagliente il giudizio di Jerusalmi sulla «profezia» del quotidiano della City: «Non leggo l'Ft da molto tempo proprio perché fanno spesso articoli un po'fantasiosi, forse questo è uno di quelli». Meglio credere all'Economist, che si è schierato apertamente per il No? «Sono scettico per definizione come tutti i bravi trader, non crediamo in generale», ha risposto.

Il quotidiano britannico si era schierato a favore dei «remain» durante il referendum casalingo sulla Brexit. In quel caso, i mercati avevano scommesso sul sì e avevano dunque dovuto ammortizzare un evento del tutto inatteso. In queste settimane, anzi in questi ultimi mesi, i titoli bancari italiani hanno già perso tanto in Borsa non (solo) per i timori legate all'instabilità politica ma per la mole di sofferenze che zavorrano i bilanci di quelle in difficoltà. Quindi la performance azionaria non può che migliorare con uno choc eventualmente positivo.

Di certo, se lunedì scorso le big del credito hanno reagito al Financial Times crollando in Piazza Affari e affossando l'intero listino, ieri in Borsa si è visto tutto un altro film. Come se quelle stesse banche fossero improvvisamente risorte: Milano ha fatto meglio di tutte le altre piazze europee (+2,1%) proprio grazie agli istituti della «lista nera»: Mps è rimbalzata del 17,4%, Unicredit ha guadagnato più del 3%, Ubi il 5,8%, Carige il 5,6%, Intesa Sanpaolo il 4,2%, il Banco Popolare il 4,1% e Bpm il 4,2 per cento. «Qualcuno in queste due ultime sedute ha guadagnato molto, qualcun altro si è fatto molto male», commentano nelle sale operative. A prendere fiato ieri è stato anche il temuto spread tra Btp e Bund che ha chiuso la seduta in forte calo a 174 punti base, sui minimi delle ultime due settimane.

I rialzi sono stati alimentati dalle indiscrezioni su un possibile cordone sanitario steso dalla Banca Centrale Europea in caso di bocciatura del referendum. La Vigilanza di Francoforte sarebbe infatti pronta a ad aumentare gli acquisti di titoli di Stato italiani, se fosse necessario in caso di tensioni sui mercati. In sostanza, la Bce di Mario Draghi potrebbe utilizzare il piano di quantitative easing da 80 miliardi al mese per contrastare un eventuale balzo dei rendimenti dei titoli.

Si tratterebbe comunque di un intervento limitato a pochi giorni, al massimo qualche settimana. Se le tensioni dovessero proseguire dovrebbe essere il governo a chiedere formalmente aiuto.
UncleTom
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Re: IL REFERENDUM COSTITUZIONALE

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Con un "sì" non si mangia
Per risolvere i problemi finanziari non servono i Sì referendari, serve un governo con i piedi per terra



Francesco Forte - Mer, 30/11/2016 - 22:22
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L'altro ieri il titolo del Monte Dei Paschi ha perso il 13,8% sulla base della tesi che la vittoria del No genera crisi bancaria.


Ma ieri lo stesso titolo ha recuperato così tanto (il 17%!) che è stato sospeso per eccesso di rialzo. È bastata una giornata per dimostrare che la vittoria del No non comporterà danni finanziari perché mentre i trader, che comprano e vendono in Borsa per giocare sui differenziali, guardano al brevissimo termine, gli investitori e i regolatori dei mercati considerano orizzonti più ampi. Certo, le operazioni ribassiste dei trader possono creare grosse turbative.

Ma Draghi, capo della Banca Centrale Europea, ha ricordato ciò che aveva già dichiarato in passato, ossia che rientra nel suo mandato contrastare operazioni di trading che turbano il mercato. E ciò ha contribuito a disinnescare il trading negativo su Mps, che comunque era partito su presupposti errati. Si immaginava che solo Renzi avesse la forza di convincere il pubblico a convertire le obbligazioni del Monte in azioni, e dunque favorire l'aumento di capitale. Mentre una crisi di Mps avrebbe avuto effetti di contagio, generando il crac di altre banche.


Ma ignorano, i trader, che il governo italiano, qualsiasi esso sia, non può far fallire Mps perché possiede una quota del suo capitale, il 4%. Lo Stato italiano non può buttare a mare tale investimento, lo deve tutelare e, pertanto, sarebbe costretto a comprare le azioni Mps che altri non sottoscrivono. Ciò non sarebbe un aiuto di stato, vietato dalla Ue, ma è auspicabile che lo Stato non faccia altre donazione di sangue a questa banca. È meno probabile che ciò accada con Renzi al comando, che con governi estranei alle cose toscane. Con il No questo e altri problemi si possono ridimensionare. Occorre ridurre di 0,3 il deficit per attenuare il rischio del nostro debito e per non aver bisogno di «sconti» da Bruxelles che comportano di contraccambiare, come accade per gli immigrati. La riduzione del rischio debito pubblico ha conseguenze positive per le banche, che ne posseggono molto. Bisogna attenuare la tassazione immobiliare, anche per rivalorizzare gli immobili che le banche hanno, a garanzia dei crediti in sofferenza. Per risolvere i problemi finanziari non servono i Sì referendari, serve un governo con i piedi per terra.
UncleTom
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Re: IL REFERENDUM COSTITUZIONALE

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"Votare Sì è da fascisti" Csm vuole punire la toga
Dopo le parole del presidente del tribunale di Bologna, Francesco Caruso, il Csm ha aperto una pratica. La toga rischia il trasferimento


Luca Romano - Gio, 01/12/2016 - 12:31
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Il referendum di domenica prossima agita e non poco le acque della magistratura. E a far discutere sono le parole del nuovo presidente del Tribunale di Bologna che avrebbe definito "repubblichini" in un post su Facebook tutti coloro che si schierano a favore del Sì.


E la toga lo fa senza usare giri di parole: "Si avvera la profezia dell'ideologo leghista Gianfranco Miglio -si spinge a dichiarare Caruso-, che nel 1994 proponeva una riforma che costituzionalizzasse le mafie, approvata col 50,1% perché la Costituzione altro non sarebbe che la legge che la maggioranza impone alla minoranza e che fa rispettare schierando la polizia nelle piazze. Temo che siamo incredibilmente vicini a quel momento".

"La Costituzione -sottolinea il presidente del Tribunale di Bologna- era basata sui valori della Resistenza. L'abbiamo detto e ripetuto fino a trasformare la frase in una giaculatoria nella quale molti non credono più". Poi l'affondo: "I sinceri democratici che credono al Sì riflettano — scrive Caruso — nulla sarà come prima e voi sarete stati inesorabilmente dalla parte sbagliata, come coloro che nel ‘43 scelsero male, pur in buona fede". E adesso il Csm ha deciso di avviare una pratica sul magistrato. Il comitato di presidenza del Csm, a quanto si apprende, nella seduta di ieri mattina ha deliberato di trasmettere copia dell'articolo della Gazzetta di Reggio, che ha pubblicato un post su Facebook con la presa di posizione per il 'no' al referendum del presidente del tribunale di Bologna Francesco Maria Caruso in cui si parla di "riforma fondata sulla corruzione", al Procuratore Generale della Cassazione affinché faccia le valutazioni di sua competenza e alla I Commissione per eventuali profili di incompatibilità funzionale.
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