Dove va l'America?
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Re: Dove va l'America?
Corriere 25.11.16
Trump apripista di una nuova era
di Massimo Gaggi
Allacciate le cinture: il voto della Brexit e l’elezione di Trump sono solo le prime sorprese di un’era nella quale si moltiplicheranno, a destra come a sinistra, i candidati antisistema. Buone notizie per i fan del cambiamento a tutti i costi, senza stare troppo a preoccuparsi delle conseguenze. Pessime per chi pensa che, con tutti gli errori e le rigidità di sistemi politici comunque da rinnovare, le logiche insurrezionali e la vittoria dei nuovi nazionalismi possono far scivolare verso il caos Paesi già di per sé instabili. Con grossi rischi per la democrazia e la governabilità di un mondo scosso da conflitti sempre più inestricabili. La miscela che alimenta questa propensione per l’avventura è fatta soprattutto di malumore del ceto medio impoverito dagli effetti della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica, filtrato attraverso un sistema dell’informazione e di interscambio delle opinioni ormai dominato dalle reti sociali anziché dai media tradizionali. Se ne discute da settimane: siamo entrati nell’era della «post verità» (neologismo dell’anno per l’Oxford Dictionary) nella quale Trump ha mostrato di sapersi muovere con abilità e cinismo impareggiabili.
Il neopresidente salito anni fa sul palcoscenico della politica facendo rullare i tamburi di una menzogna (Obama presidente illegittimo perché nato all’estero) ora si porta al governo e alla Casa Bianca personaggi come il senatore Jeff Sessions e il generale Michael Flynn, che durante la campagna hanno sostenuto tesi palesemente false: centinaia di migliaia di clandestini che ancora oggi attraversano ogni anno la frontiera messicana (parole di Sessions) e la convinzione di Flynn che dal laptop di Anhony Weiner sarebbe venuta fuori roba sufficiente per «rinchiudere a vita Hillary Clinton e il suo team» (poi l’Fbi certificò che in quel computer non c’era nulla di rilevante). Secondo molti, anche se la partita della Casa Bianca è ormai andata, questo trend può ancora essere corretto grazie al tardivo risveglio di Facebook e Google che adesso promettono di dichiarare guerra alle storie false veicolate in rete. C’è da dubitare che queste società andranno davvero fino in fondo, visto che il fake genera traffico e profitti enormi, ma anche se lo facessero non basterebbe: oltre che dalla «post verità» il nuovo megafono informativo è alimentato da massicce dosi di insinuazioni, da proclami rabbiosi e reazioni impulsive. Se questo prospera e fa utili da capogiro senza dover rendere conto a nessuno, difficile tornare indietro.
Trump apripista di una nuova era
di Massimo Gaggi
Allacciate le cinture: il voto della Brexit e l’elezione di Trump sono solo le prime sorprese di un’era nella quale si moltiplicheranno, a destra come a sinistra, i candidati antisistema. Buone notizie per i fan del cambiamento a tutti i costi, senza stare troppo a preoccuparsi delle conseguenze. Pessime per chi pensa che, con tutti gli errori e le rigidità di sistemi politici comunque da rinnovare, le logiche insurrezionali e la vittoria dei nuovi nazionalismi possono far scivolare verso il caos Paesi già di per sé instabili. Con grossi rischi per la democrazia e la governabilità di un mondo scosso da conflitti sempre più inestricabili. La miscela che alimenta questa propensione per l’avventura è fatta soprattutto di malumore del ceto medio impoverito dagli effetti della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica, filtrato attraverso un sistema dell’informazione e di interscambio delle opinioni ormai dominato dalle reti sociali anziché dai media tradizionali. Se ne discute da settimane: siamo entrati nell’era della «post verità» (neologismo dell’anno per l’Oxford Dictionary) nella quale Trump ha mostrato di sapersi muovere con abilità e cinismo impareggiabili.
Il neopresidente salito anni fa sul palcoscenico della politica facendo rullare i tamburi di una menzogna (Obama presidente illegittimo perché nato all’estero) ora si porta al governo e alla Casa Bianca personaggi come il senatore Jeff Sessions e il generale Michael Flynn, che durante la campagna hanno sostenuto tesi palesemente false: centinaia di migliaia di clandestini che ancora oggi attraversano ogni anno la frontiera messicana (parole di Sessions) e la convinzione di Flynn che dal laptop di Anhony Weiner sarebbe venuta fuori roba sufficiente per «rinchiudere a vita Hillary Clinton e il suo team» (poi l’Fbi certificò che in quel computer non c’era nulla di rilevante). Secondo molti, anche se la partita della Casa Bianca è ormai andata, questo trend può ancora essere corretto grazie al tardivo risveglio di Facebook e Google che adesso promettono di dichiarare guerra alle storie false veicolate in rete. C’è da dubitare che queste società andranno davvero fino in fondo, visto che il fake genera traffico e profitti enormi, ma anche se lo facessero non basterebbe: oltre che dalla «post verità» il nuovo megafono informativo è alimentato da massicce dosi di insinuazioni, da proclami rabbiosi e reazioni impulsive. Se questo prospera e fa utili da capogiro senza dover rendere conto a nessuno, difficile tornare indietro.
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Re: Dove va l'America?
Repubblica 26.11.16
Il club dei Paperoni al potere con Trump e Wall Street brinda
Aveva promesso di punire i lobbisti e invece recluta i loro padroni. Come Wilbur Ross, pronto per il Commercio
di Federico Rampini
NEW YORK. Ora ci mancherebbe solo il finanziere Mitt Romney al Dipartimento di Stato. Magari il banchiere Steve Mnuchin (ex Goldman Sachs) come segretario al Tesoro. O il petroliere Harold Hamm all’Energia? Allora nella squadra di Donald Trump avremmo completato il poker. Gli ultraricchi al governo, i membri del club dello 0,1%. Non c’è da stupirsi se Wall Street è in piena luna di miele col presidente- eletto: altro che rivolta anti- establishment, al potere c’è andata la finanza. E sarebbe pure naturale, visto che Trump non è un metalmeccanico. Salvo che proprio a lui sono andati tanti voti metalmeccanici. E in campagna elettorale aveva promesso, fra le altre cose, un giro di vite contro i lobbisti che infestano Washington. In un certo senso, quest’ultima promessa la sta mantenendo. A modo suo: invece dei lobbisti recluta i padroni dei lobbisti. Gente, in certi, casi, molto più ricca dello stesso Trump (sulla cui reale fortuna continua a regnare il mistero).
Politico. com valuta a 35 miliardi il patrimonio totale della nuova squadra di governo, se si confermano tutte le previsioni sul toto- nomine. Il New York Times definisce come “il re delle bancarotte” Wilbur Ross, che Trump vuole come segretario al Commercio. A differenza del bancarottiere seriale Trump (fallito sei volte), il 78enne Ross quel nomignolo se lo è acquisito per tutt’altre ragioni: la sua società di private equity WL Ross & Company è specializzata nel rilevare aziende in bancarotta, ristrutturarle e rivenderle con lauti profitti. Il ministero del Commercio include la competenza sui trattati di libero scambio e Ross è noto per la sua affinità con il protezionismo di Trump. Come vice di Ross al Commercio Trump vorrebbe un altro Paperone, il finanziere Todd Ricketts che possiede la squadra dei Chicago Cubs e il cui padre fondò la società di trading Td Ameritrade. Al dicastero dell’Istruzione è andata una donna ricchissima, Betsy DeVos, che ha finanziato per anni una delle campagne favorite dei repubblicani: le “charter school”, scuole private sostenute anche da sussidi pubblici, per dare alle famiglie un’alternativa all’istruzione di Stato.
La destra può obiettare che di straricchi furono piene le Amministrazioni democratiche. Bill Clinton a suo tempo non esitò a chiamare al Tesoro un ex capo della Goldman Sachs, Robert Rubin, e non a caso il suo governo varò la più importante deregulation finanziaria. Lo stesso Rubin divenne per un breve periodo il capo dei consiglieri economici di Barack Obama, durante la campagna elettorale del 2008, anche se poi non entrò più al governo. In compenso Obama mise al Commercio un miliardario erede della dinastia Pritzker, i fondatori degli hotel Hyatt. Dunque, nulla di nuovo sotto il sole. Se non che siamo nell’era del populismo, la vittoria di Trump è stata possibile solo perché qualche fascia di classe operaia bianca lo ha votato nel Michigan, Wisconsin e Pennsylvania, facendo ribaltare di strettissima misura la bilancia del collegio elettorale in quegli Stati chiave. Gli operai si sentivano traditi dall’establishment e ora se lo ritrovano ben rappresentato nelle prime caselle dell’organigramma. Ma in fondo l’elettorato popolare che ha scelto Trump ha deciso di abbracciare anche la sua ricchezza, e la promessa che «un imprenditore saprà gestire la nazione molto meglio dei politici e dei burocrati». Fin dall’inizio Trump ha avuto come consigliere- chiave al suo fianco il genero Jared Kushner, pure lui ereditiere, immobiliarista e finanziere, probabilmente più ricco del suocero.
Il club dei Paperoni al potere con Trump e Wall Street brinda
Aveva promesso di punire i lobbisti e invece recluta i loro padroni. Come Wilbur Ross, pronto per il Commercio
di Federico Rampini
NEW YORK. Ora ci mancherebbe solo il finanziere Mitt Romney al Dipartimento di Stato. Magari il banchiere Steve Mnuchin (ex Goldman Sachs) come segretario al Tesoro. O il petroliere Harold Hamm all’Energia? Allora nella squadra di Donald Trump avremmo completato il poker. Gli ultraricchi al governo, i membri del club dello 0,1%. Non c’è da stupirsi se Wall Street è in piena luna di miele col presidente- eletto: altro che rivolta anti- establishment, al potere c’è andata la finanza. E sarebbe pure naturale, visto che Trump non è un metalmeccanico. Salvo che proprio a lui sono andati tanti voti metalmeccanici. E in campagna elettorale aveva promesso, fra le altre cose, un giro di vite contro i lobbisti che infestano Washington. In un certo senso, quest’ultima promessa la sta mantenendo. A modo suo: invece dei lobbisti recluta i padroni dei lobbisti. Gente, in certi, casi, molto più ricca dello stesso Trump (sulla cui reale fortuna continua a regnare il mistero).
Politico. com valuta a 35 miliardi il patrimonio totale della nuova squadra di governo, se si confermano tutte le previsioni sul toto- nomine. Il New York Times definisce come “il re delle bancarotte” Wilbur Ross, che Trump vuole come segretario al Commercio. A differenza del bancarottiere seriale Trump (fallito sei volte), il 78enne Ross quel nomignolo se lo è acquisito per tutt’altre ragioni: la sua società di private equity WL Ross & Company è specializzata nel rilevare aziende in bancarotta, ristrutturarle e rivenderle con lauti profitti. Il ministero del Commercio include la competenza sui trattati di libero scambio e Ross è noto per la sua affinità con il protezionismo di Trump. Come vice di Ross al Commercio Trump vorrebbe un altro Paperone, il finanziere Todd Ricketts che possiede la squadra dei Chicago Cubs e il cui padre fondò la società di trading Td Ameritrade. Al dicastero dell’Istruzione è andata una donna ricchissima, Betsy DeVos, che ha finanziato per anni una delle campagne favorite dei repubblicani: le “charter school”, scuole private sostenute anche da sussidi pubblici, per dare alle famiglie un’alternativa all’istruzione di Stato.
La destra può obiettare che di straricchi furono piene le Amministrazioni democratiche. Bill Clinton a suo tempo non esitò a chiamare al Tesoro un ex capo della Goldman Sachs, Robert Rubin, e non a caso il suo governo varò la più importante deregulation finanziaria. Lo stesso Rubin divenne per un breve periodo il capo dei consiglieri economici di Barack Obama, durante la campagna elettorale del 2008, anche se poi non entrò più al governo. In compenso Obama mise al Commercio un miliardario erede della dinastia Pritzker, i fondatori degli hotel Hyatt. Dunque, nulla di nuovo sotto il sole. Se non che siamo nell’era del populismo, la vittoria di Trump è stata possibile solo perché qualche fascia di classe operaia bianca lo ha votato nel Michigan, Wisconsin e Pennsylvania, facendo ribaltare di strettissima misura la bilancia del collegio elettorale in quegli Stati chiave. Gli operai si sentivano traditi dall’establishment e ora se lo ritrovano ben rappresentato nelle prime caselle dell’organigramma. Ma in fondo l’elettorato popolare che ha scelto Trump ha deciso di abbracciare anche la sua ricchezza, e la promessa che «un imprenditore saprà gestire la nazione molto meglio dei politici e dei burocrati». Fin dall’inizio Trump ha avuto come consigliere- chiave al suo fianco il genero Jared Kushner, pure lui ereditiere, immobiliarista e finanziere, probabilmente più ricco del suocero.
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Re: Dove va l'America?
Nel suo ultimo libro, da noi in libreria, il filosofo statunitense,
Chi sono i padroni del mondo
di Noam Chomsky
Descrizione
Al centro del libro il rapporto fra le strategie di guerra definite "terroristiche" di realtà molto diverse nel Medio Oriente e in altre parti del mondo e quelle dell'Occidente, in particolare della potenza americana e dei suoi alleati. Sullo sfondo, i rapporti di forza ed economici fra Stati, la gara per le risorse, la finanziarizzazione progressiva di un mondo in cui contano sempre più le potenze extra-governative: grandi multinazionali industriali, imprese di distribuzione globali, compagnie che gestiscono le grandi infrastrutture e i grandi giacimenti.
definisce, tra l'altro, gli Usa come un grande Stato terroristico.
Se lo dice lui.......
Chi sono i padroni del mondo
di Noam Chomsky
Descrizione
Al centro del libro il rapporto fra le strategie di guerra definite "terroristiche" di realtà molto diverse nel Medio Oriente e in altre parti del mondo e quelle dell'Occidente, in particolare della potenza americana e dei suoi alleati. Sullo sfondo, i rapporti di forza ed economici fra Stati, la gara per le risorse, la finanziarizzazione progressiva di un mondo in cui contano sempre più le potenze extra-governative: grandi multinazionali industriali, imprese di distribuzione globali, compagnie che gestiscono le grandi infrastrutture e i grandi giacimenti.
definisce, tra l'altro, gli Usa come un grande Stato terroristico.
Se lo dice lui.......
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Re: Dove va l'America?
LIBRE news
Recensioni
Hayek, il profeta dell’élite che ha rottamato la democrazia
Scritto il 07/12/16 • nella Categoria: idee Condividi
Le origini dell’ascesa di Trump, ovvero: come una rete spietata di ideologi super-ricchi ha ucciso il potere di scelta e distrutto la fede della gente nella politica. «L’uomo che ha affondato la candidatura di Hillary Clinton alla presidenza non è stato Donald Trump. È stato suo marito», Bill Clinton. Lo afferma l’analista inglese George Monbiot, secondo cui Clinton è stato l’ultimo epigono dell’aberrante visione del mondo proposta dal pensatore austriaco neo-aristocratico Frederick von Hayek, sinistro profeta della dittatura dell’élite finanziaria in nome di presunti valori. «La serie di eventi che ha portato all’elezione di Donald Trump è iniziata in Inghilterra nel 1975», sostiene Monbiot. Durante un incontro pochi mesi dopo che Margaret Thatcher era diventata leader del partito conservatore, uno dei suoi colleghi stava esponendo quelli che secondo lui erano i valori fondanti del conservativismo, o almeno questo è ciò che si dice. Lei aprì di scatto la sua borsetta, tirò fuori un libro consumato, e lo sbatté sul tavolo. «Questo è ciò che noi crediamo», disse. «Era appena iniziata una rivoluzione politica che sarebbe dilagata in tutto il mondo. Il libro era “The Constitution of Liberty” di Frederick Hayek».
La sua pubblicazione nel 1960 segnò la transizione da una filosofia rispettabile, anche se estrema, ad un caos totale, scrive Monbiot, in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. Quella filosofia era chiamata neoliberalismo. «Considerava la competizione come la caratteristica distintiva delle relazioni umane. Il mercato avrebbe trovato la sua naturale gerarchia di vincitori e perdenti, e ne sarebbe risultato un sistema più efficiente di quanto sarebbe stato possibile attraverso la programmazione o la progettazione». Attenzione: «Qualsiasi cosa impedisse tale processo, come tasse sostanziose, regole, attività sindacali o incentivi statali, era controproducente. L’imprenditorialità senza restrizioni avrebbe prodotto una ricchezza con effetti positivi a cascata su tutti». Quando Hayek iniziò a scrivere “The Constitution of Liberty”, «la rete di lobbisti e pensatori che aveva creato stava ricevendo generosi finanziamenti da parte di multi-milionari che vedevano questa dottrina come un modo per difendere se stessi dalla democrazia». Hayek inizia il libro suggerendo la concezione più semplice possibile di libertà: l’assenza di coercizione. Rifiuta nozioni come libertà politica, diritti universali, uguaglianza degli esseri umani e distribuzione equa della ricchezza.
Tutti concetti che, limitando il campo d’azione di ricchi e potenti, si interpongono tra loro e l’assoluta libertà dai vincoli a cui ambiscono. La democrazia, al contrario, «non è un valore supremo o gradito a tutti». Infatti, la libertà consiste nell’impedire che la maggioranza abbia potere decisionale sulla direzione che la politica e la società decidono di prendere. Hayek «giustifica questa visione delineando una narrativa epica di estrema prosperità», e identifica l’élite economica «con un gruppo di pionieri della filosofia e della scienza che spenderanno il loro denaro in modi nuovi». Così come il filosofo politico dovrebbe essere libero di “pensare l’impensabile”, allo stesso modo «chi è molto ricco dovrebbe essere libero di tentare l’infattibile, senza vincoli posti dall’interesse collettivo o dall’opinione pubblica». E allora i super-ricchi diventano «esploratori» che «sperimentano nuovi stili di vita», tracciando la strada che il resto della società seguirà. Il progresso della società «dipende dalla libertà di questi “indipendenti” di guadagnare tutto il denaro che vogliono e di spenderlo come meglio credono. Tutto ciò che è buono e utile, quindi, deriva dall’ineguaglianza». Non ci dovrebbe essere connessione tra merito e ricompensa, nessuna distinzione tra guadagni giusti e immeritati e alcun limite agli affitti che possono far pagare.
Inoltre, la ricchezza ereditata è socialmente più utile di quella guadagnata: «Il ricco indolente», che non deve lavorare per denaro, può dedicarsi a influenzare «aree di pensiero e opinione, gusti e idee». Anche quando sembra che spenda soldi solo per uno «sfoggio senza senso», sta in realtà agendo da avanguardia della società. Tutto ciò che il ricco fa è, per definizione, positivo. Hayek ammorbidì l’opposizione ai monopoli e irrigidì quella verso i sindacati. Criticò la tassazione progressiva e ogni tentativo da parte dello Stato di elevare il benessere generale dei cittadini. Insistette che ci fossero «argomentazioni schiaccianti contro la sanità pubblica gratuita per tutti» e respinse l’idea della salvaguardia delle risorse naturali (non stupisce che abbiano dato il Nobel per l’economia). Sicché, «quando la signora Thatcher sbatté il suo libro sul tavolo, si era già formata su entrambe le rive dell’Atlantico una vivace rete di think tank, lobbisti e accademici che promuovevano la dottrina di Hayek, abbondantemente finanziata da alcune delle persone e compagnie più ricche del pianeta, compresi DuPont, General Electric, la società di birrificazione Coors, Charles Koch, Richard Mellon Scaife, Lawrence Fertig, il William Volcker Fund e la Earhart Foundation».
Usando in modo geniale la psicologia e la linguistica, continua Monbiot, i pensatori sponsorizzati da queste persone trovarono le parole e le argomentazioni necessarie per trasformare l’inno all’élite di Hayek in un programma politico plausibile. Il Thatcherismo e il Reaganismo? Due facce del medesimo neoliberismo: «L’imponente taglio alle tasse per i ricchi, l’attacco ai sindacati, la riduzione degli alloggi popolari, la liberalizzazione, privatizzazione, delocalizzazione e la concorrenza nei servizi pubblici erano già stati teorizzati da Hayek e dai suoi discepoli». Ma il vero trionfo di questo network, sottolinea Monbiot, non fu la sua “innovativa” concezione del diritto, bensì «la conquista di partiti che un tempo erano schierati a favore di tutto ciò che Hayek detestava», cioè le formazioni politiche “di sinistra”, che furono completamente “colonizzate”. Bill Clinton e Tony Blair «estrapolarono alcuni elementi di ciò che un tempo i loro partiti avevano creduto, lo combinarono con idee prese in prestito dai loro oppositori, e da questa improbabile combinazione diedero vita alla “terza via”. Era inevitabile che lo sfavillante e rivoluzionario entusiasmo del neoliberalismo avrebbe esercitato una forza di attrazione più potente della stella morente della democrazia sociale».
Dovunque, allora, si poteva assistere al trionfo di Hayek: dall’ampliamento della Private Finance Initiative di Blair alla revoca da parte di Clinton del Glass-Steagal Act, che regolava il settore finanziario. «Nonostante le sue lodevoli intenzioni, nemmeno Barack Obama aveva una narrativa politica ben definita (eccetto la “speranza”), e lentamente è stato cooptato da coloro che detenevano migliori mezzi di persuasione». Il risultato di tutto ciò è stato «prima l’indebolimento del potere e poi la privazione dei diritti civili». Se l’ideologia dominante consiglia ai governi di non garantire più la giustizia sociale, «essi non possono più rispondere ai bisogni dell’elettorato», e così «la politica diventa irrilevante per le vite dei cittadini». Al che, il cittadino defraudato dei propri diritti «si rivolge verso un’astiosa anti-politica, dove fatti e ragionamenti vengono sostituiti da slogan». Il risultato di oggi è paradossale, dice Monbiot: proprio la sollevazione popolare contro la “dittatura” del neoliberismo «ha portato al successo proprio quel tipo di uomo che Hayek mitizzava», cioè Donald Trump, ovvero un uomo «che non ha una visione politica coerente, non è un neoliberale classico, ma è la perfetta rappresentazione dell’“indipendente” di Hayek: è il beneficiario di una fortuna ereditata, non assoggettato ai comuni limiti della moralità, le cui rozze inclinazioni aprono nuove strade che altri potrebbero seguire».
I pensatori neoliberali adesso «brulicano intorno a questo uomo vacuo, a questo vaso vuoto che aspetta di essere riempito da coloro che sanno bene cosa vogliono». Il probabile risultato «sarà la demolizione di tutto ciò che ancora ci fa onore, a cominciare dall’accordo sulla limitazione del riscaldamento globale». Conclude Monbiot: «Coloro che raccontano storie governano il mondo. La politica è fallita a causa della mancanza di narrative valide. La sfida principale adesso è raccontare una storia nuova, quella di cosa significhi “umanità” nel ventunesimo secolo». Un nuovo “racconto”, dunque, che «deve essere tanto seducente per coloro che hanno votato Trump e lo Ukip, quanto per i sostenitori di Hillary Clinton, Bernie Sanders o Jeremy Corbyn». La psicologia e le neuroscienze riconoscono che gli esseri umani, rispetto ad altri animali, sono al tempo stesso fortemente sociali e fortemente egoisti? Certo, e «l’atomizzazione e il comportamento cinico che il neoliberalismo promuove va contro quasi tutto ciò che caratterizza la natura umana. Hayek ci ha detto chi siamo, e si sbagliava. Il primo passo da compiere è riappropriarci della nostra umanità».
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Hayek, il profeta dell’élite che ha rottamato la democrazia
Scritto il 07/12/16 • nella Categoria: idee Condividi
Le origini dell’ascesa di Trump, ovvero: come una rete spietata di ideologi super-ricchi ha ucciso il potere di scelta e distrutto la fede della gente nella politica. «L’uomo che ha affondato la candidatura di Hillary Clinton alla presidenza non è stato Donald Trump. È stato suo marito», Bill Clinton. Lo afferma l’analista inglese George Monbiot, secondo cui Clinton è stato l’ultimo epigono dell’aberrante visione del mondo proposta dal pensatore austriaco neo-aristocratico Frederick von Hayek, sinistro profeta della dittatura dell’élite finanziaria in nome di presunti valori. «La serie di eventi che ha portato all’elezione di Donald Trump è iniziata in Inghilterra nel 1975», sostiene Monbiot. Durante un incontro pochi mesi dopo che Margaret Thatcher era diventata leader del partito conservatore, uno dei suoi colleghi stava esponendo quelli che secondo lui erano i valori fondanti del conservativismo, o almeno questo è ciò che si dice. Lei aprì di scatto la sua borsetta, tirò fuori un libro consumato, e lo sbatté sul tavolo. «Questo è ciò che noi crediamo», disse. «Era appena iniziata una rivoluzione politica che sarebbe dilagata in tutto il mondo. Il libro era “The Constitution of Liberty” di Frederick Hayek».
La sua pubblicazione nel 1960 segnò la transizione da una filosofia rispettabile, anche se estrema, ad un caos totale, scrive Monbiot, in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. Quella filosofia era chiamata neoliberalismo. «Considerava la competizione come la caratteristica distintiva delle relazioni umane. Il mercato avrebbe trovato la sua naturale gerarchia di vincitori e perdenti, e ne sarebbe risultato un sistema più efficiente di quanto sarebbe stato possibile attraverso la programmazione o la progettazione». Attenzione: «Qualsiasi cosa impedisse tale processo, come tasse sostanziose, regole, attività sindacali o incentivi statali, era controproducente. L’imprenditorialità senza restrizioni avrebbe prodotto una ricchezza con effetti positivi a cascata su tutti». Quando Hayek iniziò a scrivere “The Constitution of Liberty”, «la rete di lobbisti e pensatori che aveva creato stava ricevendo generosi finanziamenti da parte di multi-milionari che vedevano questa dottrina come un modo per difendere se stessi dalla democrazia». Hayek inizia il libro suggerendo la concezione più semplice possibile di libertà: l’assenza di coercizione. Rifiuta nozioni come libertà politica, diritti universali, uguaglianza degli esseri umani e distribuzione equa della ricchezza.
Tutti concetti che, limitando il campo d’azione di ricchi e potenti, si interpongono tra loro e l’assoluta libertà dai vincoli a cui ambiscono. La democrazia, al contrario, «non è un valore supremo o gradito a tutti». Infatti, la libertà consiste nell’impedire che la maggioranza abbia potere decisionale sulla direzione che la politica e la società decidono di prendere. Hayek «giustifica questa visione delineando una narrativa epica di estrema prosperità», e identifica l’élite economica «con un gruppo di pionieri della filosofia e della scienza che spenderanno il loro denaro in modi nuovi». Così come il filosofo politico dovrebbe essere libero di “pensare l’impensabile”, allo stesso modo «chi è molto ricco dovrebbe essere libero di tentare l’infattibile, senza vincoli posti dall’interesse collettivo o dall’opinione pubblica». E allora i super-ricchi diventano «esploratori» che «sperimentano nuovi stili di vita», tracciando la strada che il resto della società seguirà. Il progresso della società «dipende dalla libertà di questi “indipendenti” di guadagnare tutto il denaro che vogliono e di spenderlo come meglio credono. Tutto ciò che è buono e utile, quindi, deriva dall’ineguaglianza». Non ci dovrebbe essere connessione tra merito e ricompensa, nessuna distinzione tra guadagni giusti e immeritati e alcun limite agli affitti che possono far pagare.
Inoltre, la ricchezza ereditata è socialmente più utile di quella guadagnata: «Il ricco indolente», che non deve lavorare per denaro, può dedicarsi a influenzare «aree di pensiero e opinione, gusti e idee». Anche quando sembra che spenda soldi solo per uno «sfoggio senza senso», sta in realtà agendo da avanguardia della società. Tutto ciò che il ricco fa è, per definizione, positivo. Hayek ammorbidì l’opposizione ai monopoli e irrigidì quella verso i sindacati. Criticò la tassazione progressiva e ogni tentativo da parte dello Stato di elevare il benessere generale dei cittadini. Insistette che ci fossero «argomentazioni schiaccianti contro la sanità pubblica gratuita per tutti» e respinse l’idea della salvaguardia delle risorse naturali (non stupisce che abbiano dato il Nobel per l’economia). Sicché, «quando la signora Thatcher sbatté il suo libro sul tavolo, si era già formata su entrambe le rive dell’Atlantico una vivace rete di think tank, lobbisti e accademici che promuovevano la dottrina di Hayek, abbondantemente finanziata da alcune delle persone e compagnie più ricche del pianeta, compresi DuPont, General Electric, la società di birrificazione Coors, Charles Koch, Richard Mellon Scaife, Lawrence Fertig, il William Volcker Fund e la Earhart Foundation».
Usando in modo geniale la psicologia e la linguistica, continua Monbiot, i pensatori sponsorizzati da queste persone trovarono le parole e le argomentazioni necessarie per trasformare l’inno all’élite di Hayek in un programma politico plausibile. Il Thatcherismo e il Reaganismo? Due facce del medesimo neoliberismo: «L’imponente taglio alle tasse per i ricchi, l’attacco ai sindacati, la riduzione degli alloggi popolari, la liberalizzazione, privatizzazione, delocalizzazione e la concorrenza nei servizi pubblici erano già stati teorizzati da Hayek e dai suoi discepoli». Ma il vero trionfo di questo network, sottolinea Monbiot, non fu la sua “innovativa” concezione del diritto, bensì «la conquista di partiti che un tempo erano schierati a favore di tutto ciò che Hayek detestava», cioè le formazioni politiche “di sinistra”, che furono completamente “colonizzate”. Bill Clinton e Tony Blair «estrapolarono alcuni elementi di ciò che un tempo i loro partiti avevano creduto, lo combinarono con idee prese in prestito dai loro oppositori, e da questa improbabile combinazione diedero vita alla “terza via”. Era inevitabile che lo sfavillante e rivoluzionario entusiasmo del neoliberalismo avrebbe esercitato una forza di attrazione più potente della stella morente della democrazia sociale».
Dovunque, allora, si poteva assistere al trionfo di Hayek: dall’ampliamento della Private Finance Initiative di Blair alla revoca da parte di Clinton del Glass-Steagal Act, che regolava il settore finanziario. «Nonostante le sue lodevoli intenzioni, nemmeno Barack Obama aveva una narrativa politica ben definita (eccetto la “speranza”), e lentamente è stato cooptato da coloro che detenevano migliori mezzi di persuasione». Il risultato di tutto ciò è stato «prima l’indebolimento del potere e poi la privazione dei diritti civili». Se l’ideologia dominante consiglia ai governi di non garantire più la giustizia sociale, «essi non possono più rispondere ai bisogni dell’elettorato», e così «la politica diventa irrilevante per le vite dei cittadini». Al che, il cittadino defraudato dei propri diritti «si rivolge verso un’astiosa anti-politica, dove fatti e ragionamenti vengono sostituiti da slogan». Il risultato di oggi è paradossale, dice Monbiot: proprio la sollevazione popolare contro la “dittatura” del neoliberismo «ha portato al successo proprio quel tipo di uomo che Hayek mitizzava», cioè Donald Trump, ovvero un uomo «che non ha una visione politica coerente, non è un neoliberale classico, ma è la perfetta rappresentazione dell’“indipendente” di Hayek: è il beneficiario di una fortuna ereditata, non assoggettato ai comuni limiti della moralità, le cui rozze inclinazioni aprono nuove strade che altri potrebbero seguire».
I pensatori neoliberali adesso «brulicano intorno a questo uomo vacuo, a questo vaso vuoto che aspetta di essere riempito da coloro che sanno bene cosa vogliono». Il probabile risultato «sarà la demolizione di tutto ciò che ancora ci fa onore, a cominciare dall’accordo sulla limitazione del riscaldamento globale». Conclude Monbiot: «Coloro che raccontano storie governano il mondo. La politica è fallita a causa della mancanza di narrative valide. La sfida principale adesso è raccontare una storia nuova, quella di cosa significhi “umanità” nel ventunesimo secolo». Un nuovo “racconto”, dunque, che «deve essere tanto seducente per coloro che hanno votato Trump e lo Ukip, quanto per i sostenitori di Hillary Clinton, Bernie Sanders o Jeremy Corbyn». La psicologia e le neuroscienze riconoscono che gli esseri umani, rispetto ad altri animali, sono al tempo stesso fortemente sociali e fortemente egoisti? Certo, e «l’atomizzazione e il comportamento cinico che il neoliberalismo promuove va contro quasi tutto ciò che caratterizza la natura umana. Hayek ci ha detto chi siamo, e si sbagliava. Il primo passo da compiere è riappropriarci della nostra umanità».
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Re: Dove va l'America?
LA STORIA E' MAESTRA. -(VECCHIO DETTO)
MA DOVE????????????????????????
NON ABBIAMO IMPARATO NIENTE E RIPETIAMO SEMPRE GLI STESSI ERRORI ED ORRORI
LIBRE news
McGovern: l’America fa paura, come la Germania nel 1933
Scritto il 12/12/16 • nella Categoria: idee Condividi
Donald Trump dovrebbe “perdonare” gli americani per la loro ignoranza e condurre «un assalto frontale contro il “New York Times” e il “Wall Street Journal”, che ai cittadini hanno raccontato il contrario della verità». Se farà davvero un accordo strategico con Putin, il neopresidente «dimostrerà la sua serietà». Parola di Ray McGovern, ex dirigente della Cia. «Non sappiamo se Trump riuscirà a governare in modo indipendente dall’establishment: Jimmy Carter ci provò, ma non ci riuscì». L’unica buona notizia è che Hillary ha perso: «Si allontana così il rischio di una guerra nucleare», che McGovern – curatore del briefing quotidiano alla Casa Bianca dal 1963 fino al 1990 – giudicava concreto, con la Clinton al comando. Ma non c’è da stare allegri: «La situazione ricorda quella della Germania all’indomani dell’incendio del Reichstag nel 1933, che lanciò Hitler». Il problema? «Gli americani vivono sotto minaccia, dall’11 Settembre». Prima Bush, poi Obama, hanno calpestato la Costituzione in nome della sicurezza. E tutto, sulla base di rischi inventati di sana pianta, come le inesistenti armi di Saddam. Pessimo affare: l’America è nei guai, quindi anche il mondo. C’è solo da sperare che Trump sia sincero, e che non venga mangiato vivo dal super-potere.
«Credo che a breve vedremo di che pasta è fatto, Donald Trump», dice McGovern a Giulietto Chiesa, in una video-intervista concessa a “Pandora Tv”. «A parire dall’11 settembre 2001 – dice – gli americani si sentono spaventati, in pericolo: ed è stato l’establishment ad alimentare queste paure». Ora tocca a Trump: riuscirà a non farsi spolpare subito da Wall Street e dal Pentagono? A quanto sembra, le aperture verso la Russia lo confermerebbero. Poi c’è il fronte interno: «Le elezioni si vincono e si perdono sulle questioni economiche». Ufficialmente, «il tasso di disoccupazione è tornato ai livelli di oltre dieci anni fa, ma le persone sono ancora senza lavoro, o costrette a fare due lavori». Trump ha intercettato il malumore della gente comune, che «si sente abbabndonata, non gli piace quello che ha fatto il governo e ha sentito di non contare nulla». Ma la propaganda di Trump – sessismo, razzismo – è stata violenta: «Quello che mi fa paura è che ci troviamo in una situazione non molto diversa da quella che si manifestò dopo l’incendio del Reichstag», dice McGovern. E le premesse per l’esasperazione popolare, aggiunge, portano la firma di Bush e Obama.
A partire dall’11 Settembre, insiste Ray McGovern, negli Usa sta prendendo piede una reazione simile a quella della Germania alla vigilia sdel nazismo: «La gente normale è spaventata e crede che la Costituzione debba fare un passo indietro per lasciare spazio a “nuove leggi”: i tedeschi le chiamarono “leggi d’emergenza”, noi Patriot Act. Leggi che infrangono la Costituzione». Ci vogliono anni prima che la Carta stabilisca che sono incostituzionali, ma «nel frattempo, molta viene viene arrestata e incarcerata, illegalmente». Per esempio, il presidente Obama può ancora arrestare qualcuno senza neppure un processo e sbatterlo a Guantanamo, fintanto che è in corso la “guerra al terrorismo”. «Sarebbe legale? No. E’ stata varata, questa legge? No, ma è stata scritta. Quindi, potrebbe essere considerata legale». Nessuno è più libero di criticare il governo, insiste l’ex alto funzionario Cia. «E’ una cosa maledettamente seria. E’ sui libri, è scritta, e ha già un effetto deterrente su ciò che le persone fanno o dicono». Lo stesso Obama ha sorvolato ripetutamente la Costituzione: «Come la mettiamo coi i “presunti terroristi” che il presidente ha ordinato di uccidere in Afghanistan e in Pakistan? Alcuni di loro erano cittadini americani, sono stati privati della loro vita senza un regolare processo. Ma il ministro della giustizia di Obama, Eric Holder, diceva: no, noi non lo facciamo, il giusto processo, lo facciamo già qui alla Casa Bianca, senza bisogno di nessun tribunale».
«La cosa più triste», aggiunge McGovern, è che negli Usa «la professione legale si comporta in modo vergognoso: approva la tortura». Tutto merito di «un pugno di avvocati», che hanno dato il loro ok nel silenzio generale dei colleghi, «tutti molto riluttanti, troppo impegnati col loro prossimo ricco contratto». Persino gli psicologi, «utilizzati per avallare le tesi di Bush, dissero che non c’erano state torture: avevano corrotto anche loro». Ma, in compenso, «l’ordine degli psicologi li radiò dall’albo». Lo fecero «perché vincolati alla stessa regola dei medici: non fare del male». McGovern rivendica la “pulizia” di interi settori dell’intelligence: «Sapevamo, anche prima della guerra in Iraq, che le prove delle armi di distruzione di massa di Al-Qaeda e Saddam Hussein erano solo vecchi stracci, cioè che non esistevano. Lo abbiamo fatto presente, ma il presidente voleva la sua guerra, e così è stato». E la stampa? Non pervenuta: si è allienata al potere. Da allora è diventata il megafono della Casa Bianca, prima sotto Bush e poi con Obama. «I media hanno raccontato agli americani che la Russia ha “invaso” la Crimea il 23 febbraio 2014, anziché dire la verità: e cioè che noi, gli Stati Uniti, il giorno prima avevamo fatto un colpo di Stato in Ucraina contro la Russia».
Riuscirà Trump a imporre una narrazione veritiera degli eventi? Sarebbe bello, sospira McGovern, dopo che la Clinton ha definito “killer” un leader come Putin, sostenuto da oltre l’80% dei russi. «Credo che Trump ce la possa fare», dice l’ex dirigente Cia, ma dovrà dire ai grandi media: «Ci avete mentito, non ci avete riportato i fatti reali e i problemi dell’Europa». Trump ha l’opportunità di smentire il mainstream, facendo un accordo con Putin. Gli europei? Ne saranno disorientati: «La cattiva notizia, per loro, sarà che dovranno spendere di più per la loro difesa. Ma la buona notizia è che la gente si chiederà: perché?». Già: se la Russia non è più una minaccia, perché investire ancora nella Nato? Allora, dice McGovern, sulla stampa americana cominceremmo a leggere cose del tipo “ok, avevamo esagerato: è vero, non abbiamo più bisogno di incrementare la difesa”. «Se hai a che fare con un popolo che non è stato nutrito di informazioni corrette, devi cominciare a farlo. E Trump lo può fare». Funzionerebbe: «La stampa lo seguirà e dirà: ah è vero, la Russia non è poi così male. Putin? Sta parlando col nostro presidente, quindi non dev’essere così cattivo». Ma lo stesso McGovern è il primo a sapere che, prima, bisogna fare i conti con l’oste: «La stampa è controllata dalle mega-corporations che fanno soldi con l’industria delle armi».
MA DOVE????????????????????????
NON ABBIAMO IMPARATO NIENTE E RIPETIAMO SEMPRE GLI STESSI ERRORI ED ORRORI
LIBRE news
McGovern: l’America fa paura, come la Germania nel 1933
Scritto il 12/12/16 • nella Categoria: idee Condividi
Donald Trump dovrebbe “perdonare” gli americani per la loro ignoranza e condurre «un assalto frontale contro il “New York Times” e il “Wall Street Journal”, che ai cittadini hanno raccontato il contrario della verità». Se farà davvero un accordo strategico con Putin, il neopresidente «dimostrerà la sua serietà». Parola di Ray McGovern, ex dirigente della Cia. «Non sappiamo se Trump riuscirà a governare in modo indipendente dall’establishment: Jimmy Carter ci provò, ma non ci riuscì». L’unica buona notizia è che Hillary ha perso: «Si allontana così il rischio di una guerra nucleare», che McGovern – curatore del briefing quotidiano alla Casa Bianca dal 1963 fino al 1990 – giudicava concreto, con la Clinton al comando. Ma non c’è da stare allegri: «La situazione ricorda quella della Germania all’indomani dell’incendio del Reichstag nel 1933, che lanciò Hitler». Il problema? «Gli americani vivono sotto minaccia, dall’11 Settembre». Prima Bush, poi Obama, hanno calpestato la Costituzione in nome della sicurezza. E tutto, sulla base di rischi inventati di sana pianta, come le inesistenti armi di Saddam. Pessimo affare: l’America è nei guai, quindi anche il mondo. C’è solo da sperare che Trump sia sincero, e che non venga mangiato vivo dal super-potere.
«Credo che a breve vedremo di che pasta è fatto, Donald Trump», dice McGovern a Giulietto Chiesa, in una video-intervista concessa a “Pandora Tv”. «A parire dall’11 settembre 2001 – dice – gli americani si sentono spaventati, in pericolo: ed è stato l’establishment ad alimentare queste paure». Ora tocca a Trump: riuscirà a non farsi spolpare subito da Wall Street e dal Pentagono? A quanto sembra, le aperture verso la Russia lo confermerebbero. Poi c’è il fronte interno: «Le elezioni si vincono e si perdono sulle questioni economiche». Ufficialmente, «il tasso di disoccupazione è tornato ai livelli di oltre dieci anni fa, ma le persone sono ancora senza lavoro, o costrette a fare due lavori». Trump ha intercettato il malumore della gente comune, che «si sente abbabndonata, non gli piace quello che ha fatto il governo e ha sentito di non contare nulla». Ma la propaganda di Trump – sessismo, razzismo – è stata violenta: «Quello che mi fa paura è che ci troviamo in una situazione non molto diversa da quella che si manifestò dopo l’incendio del Reichstag», dice McGovern. E le premesse per l’esasperazione popolare, aggiunge, portano la firma di Bush e Obama.
A partire dall’11 Settembre, insiste Ray McGovern, negli Usa sta prendendo piede una reazione simile a quella della Germania alla vigilia sdel nazismo: «La gente normale è spaventata e crede che la Costituzione debba fare un passo indietro per lasciare spazio a “nuove leggi”: i tedeschi le chiamarono “leggi d’emergenza”, noi Patriot Act. Leggi che infrangono la Costituzione». Ci vogliono anni prima che la Carta stabilisca che sono incostituzionali, ma «nel frattempo, molta viene viene arrestata e incarcerata, illegalmente». Per esempio, il presidente Obama può ancora arrestare qualcuno senza neppure un processo e sbatterlo a Guantanamo, fintanto che è in corso la “guerra al terrorismo”. «Sarebbe legale? No. E’ stata varata, questa legge? No, ma è stata scritta. Quindi, potrebbe essere considerata legale». Nessuno è più libero di criticare il governo, insiste l’ex alto funzionario Cia. «E’ una cosa maledettamente seria. E’ sui libri, è scritta, e ha già un effetto deterrente su ciò che le persone fanno o dicono». Lo stesso Obama ha sorvolato ripetutamente la Costituzione: «Come la mettiamo coi i “presunti terroristi” che il presidente ha ordinato di uccidere in Afghanistan e in Pakistan? Alcuni di loro erano cittadini americani, sono stati privati della loro vita senza un regolare processo. Ma il ministro della giustizia di Obama, Eric Holder, diceva: no, noi non lo facciamo, il giusto processo, lo facciamo già qui alla Casa Bianca, senza bisogno di nessun tribunale».
«La cosa più triste», aggiunge McGovern, è che negli Usa «la professione legale si comporta in modo vergognoso: approva la tortura». Tutto merito di «un pugno di avvocati», che hanno dato il loro ok nel silenzio generale dei colleghi, «tutti molto riluttanti, troppo impegnati col loro prossimo ricco contratto». Persino gli psicologi, «utilizzati per avallare le tesi di Bush, dissero che non c’erano state torture: avevano corrotto anche loro». Ma, in compenso, «l’ordine degli psicologi li radiò dall’albo». Lo fecero «perché vincolati alla stessa regola dei medici: non fare del male». McGovern rivendica la “pulizia” di interi settori dell’intelligence: «Sapevamo, anche prima della guerra in Iraq, che le prove delle armi di distruzione di massa di Al-Qaeda e Saddam Hussein erano solo vecchi stracci, cioè che non esistevano. Lo abbiamo fatto presente, ma il presidente voleva la sua guerra, e così è stato». E la stampa? Non pervenuta: si è allienata al potere. Da allora è diventata il megafono della Casa Bianca, prima sotto Bush e poi con Obama. «I media hanno raccontato agli americani che la Russia ha “invaso” la Crimea il 23 febbraio 2014, anziché dire la verità: e cioè che noi, gli Stati Uniti, il giorno prima avevamo fatto un colpo di Stato in Ucraina contro la Russia».
Riuscirà Trump a imporre una narrazione veritiera degli eventi? Sarebbe bello, sospira McGovern, dopo che la Clinton ha definito “killer” un leader come Putin, sostenuto da oltre l’80% dei russi. «Credo che Trump ce la possa fare», dice l’ex dirigente Cia, ma dovrà dire ai grandi media: «Ci avete mentito, non ci avete riportato i fatti reali e i problemi dell’Europa». Trump ha l’opportunità di smentire il mainstream, facendo un accordo con Putin. Gli europei? Ne saranno disorientati: «La cattiva notizia, per loro, sarà che dovranno spendere di più per la loro difesa. Ma la buona notizia è che la gente si chiederà: perché?». Già: se la Russia non è più una minaccia, perché investire ancora nella Nato? Allora, dice McGovern, sulla stampa americana cominceremmo a leggere cose del tipo “ok, avevamo esagerato: è vero, non abbiamo più bisogno di incrementare la difesa”. «Se hai a che fare con un popolo che non è stato nutrito di informazioni corrette, devi cominciare a farlo. E Trump lo può fare». Funzionerebbe: «La stampa lo seguirà e dirà: ah è vero, la Russia non è poi così male. Putin? Sta parlando col nostro presidente, quindi non dev’essere così cattivo». Ma lo stesso McGovern è il primo a sapere che, prima, bisogna fare i conti con l’oste: «La stampa è controllata dalle mega-corporations che fanno soldi con l’industria delle armi».
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Re: Dove va l'America?
LIBRE news
“Bufale sul web”, l’ultima guerra di Obama contro la verità
Scritto il 22/12/16 • nella Categoria: idee Condividi Tweet
Bavaglio ai social, per evitare la valanga “populista”. Hanno speso anni a spiegarci che non esistono i fatti, solo le interpretazioni, senza oggettività? Adesso, pare arrivato il contrordine: media e politici hanno scoperto che bisogna combattere contro la “post-verità”, ossia, secono l’Oxford Dictionary, le “circostanze in cui le credenze contano più dei fatti oggettivi”. «Il concetto di “post-verità” non è granché fresco, ma è stato riesumato in queste settimane e riverniciato per adattarlo a una crociata che è essenzialmente politica», sostiene Daniele Scalea. La grande paura dell’élite? Semplice: la vittoria di Donald Trump. «La tesi di fondo, al di là del ricorso a lessico ricercato e para-scientifico, è che il successo dei movimenti populisti in Occidente sia dovuto non a oggettivo malessere sociale o economico patito dai cittadini, bensì al loro essere turlupinati dalle bufale che girano in Internet». Da qui la pression su Facebook e Google, «avviata da Barack Obama in persona e andata a buon fine» affinché i grandi social media intervenissero per frenare la diffusione di notizie incontrollate. Alla base, c’è un’idea auto-assolutoria: l’establishment è «buono e giusto», gli elettori sono “depistati”.
Fino a ieri, scrive Scalea sul “Foglio”, si era soliti prendersela col basso livello d’istruzione e l’analfabetismo funzionale degli elettori. Poi «ci si è accorti che, a furia di dare del cretino ignorante a qualcuno, non te lo fai amico e non lo convinci a votare a tuo favore». Così, «le bordate dell’artiglieria mediatica hanno scelto un nuovo bersaglio: le bufale web». Davvero Internet sta cambiando il panorama dell’informazione, portandoci da un passato fatto di notizie vere e accurate a un presente di bufale virali in cui non si distingue più il vero dal falso? Lo studioso Mario Pireddu ritiene che quest’asserzione sulla post-verità sia, essa stessa, una post-verità, poiché non trova riscontro in nessun dato oggettivo: la maggior parte degli utenti di Internet utilizza fonti più differenziate rispetto a coloro che si informano con mezzi tradizionali (Tv, radio e giornali), e oggi il controllo incrociato sulle news è più facile, rapido e diffuso di un tempo. Ma se le cose stanno così, si domanda Scalea, che cosa si nasconde dietro la crociata sulla post-verità cui stiamo assistendo? «Probabilmente, un’assai tradizionale reazione censoria contro la montante critica rivolta all’establishment».
Il confine tra notizia falsa e notizia dubbia «è labile, come sempre più labile è il confine tra notizia e opinione», osserva Scalea: «Con la scusa delle “fake news” si potranno ben colpire le visioni eterodosse, lasciando per giunta il lavoro sporco a impersonali algoritmi sviluppati nella liberal Silicon Valley». In effetti, «sarebbe come pretendere che un software ci dicesse se è più giusto votare per un candidato o per un altro». L’esito, ovviamente, «non sarebbe quello suggerito dall’oggettività del computer, ma dalla soggettività dello sviluppatore», dal momento che «soggettiva, e non oggettiva, è la domanda posta». I media? Non distinguono più tra i fatti e i semplici punti di vista: «Le opinioni, le valutazioni, sono raffrontate con l’opinione prevalente (o per meglio dire, mainstream) e in base alla loro aderenza con essa accreditate di verità o falsità intese in senso assolute». Per Scalea, «il metodo non è molto lontano da quello dell’Inquisizione, ma almeno allora ci si fondava su un testo sacro e una tradizione apostolica, non certo su qualche blog di debunking».
In linea di principio, conclude Scalea, «promuovere la verità non è mai sbagliato». Nella pratica, «dal momento che la verità è spesso inafferrabile, quest’intento si è sovente tramutato in disastro». I bolscevichi, ad esempio, «hanno cercato di seguire le verità proposte dal “socialismo scientifico”, coi ben noti risultati». La “Pravda”, che in russo si traduce in modo esplicito (“la verità”), era la loro voce ufficiale. «Non si può realizzare un mondo in cui tutta l’informazione sia sempre verità, senza annichilire il libero discorso e affermare una falsa verità soggettiva e partigiana», conclude Scalea. «Lo stolto che afferma che la Terra sia piatta è il prezzo che paghiamo affinché l’onesto possa indicarci che il “Re è nudo” – senza essere accusato perciò di propinare una bufala e censurato da Facebook e Google».
“Bufale sul web”, l’ultima guerra di Obama contro la verità
Scritto il 22/12/16 • nella Categoria: idee Condividi Tweet
Bavaglio ai social, per evitare la valanga “populista”. Hanno speso anni a spiegarci che non esistono i fatti, solo le interpretazioni, senza oggettività? Adesso, pare arrivato il contrordine: media e politici hanno scoperto che bisogna combattere contro la “post-verità”, ossia, secono l’Oxford Dictionary, le “circostanze in cui le credenze contano più dei fatti oggettivi”. «Il concetto di “post-verità” non è granché fresco, ma è stato riesumato in queste settimane e riverniciato per adattarlo a una crociata che è essenzialmente politica», sostiene Daniele Scalea. La grande paura dell’élite? Semplice: la vittoria di Donald Trump. «La tesi di fondo, al di là del ricorso a lessico ricercato e para-scientifico, è che il successo dei movimenti populisti in Occidente sia dovuto non a oggettivo malessere sociale o economico patito dai cittadini, bensì al loro essere turlupinati dalle bufale che girano in Internet». Da qui la pression su Facebook e Google, «avviata da Barack Obama in persona e andata a buon fine» affinché i grandi social media intervenissero per frenare la diffusione di notizie incontrollate. Alla base, c’è un’idea auto-assolutoria: l’establishment è «buono e giusto», gli elettori sono “depistati”.
Fino a ieri, scrive Scalea sul “Foglio”, si era soliti prendersela col basso livello d’istruzione e l’analfabetismo funzionale degli elettori. Poi «ci si è accorti che, a furia di dare del cretino ignorante a qualcuno, non te lo fai amico e non lo convinci a votare a tuo favore». Così, «le bordate dell’artiglieria mediatica hanno scelto un nuovo bersaglio: le bufale web». Davvero Internet sta cambiando il panorama dell’informazione, portandoci da un passato fatto di notizie vere e accurate a un presente di bufale virali in cui non si distingue più il vero dal falso? Lo studioso Mario Pireddu ritiene che quest’asserzione sulla post-verità sia, essa stessa, una post-verità, poiché non trova riscontro in nessun dato oggettivo: la maggior parte degli utenti di Internet utilizza fonti più differenziate rispetto a coloro che si informano con mezzi tradizionali (Tv, radio e giornali), e oggi il controllo incrociato sulle news è più facile, rapido e diffuso di un tempo. Ma se le cose stanno così, si domanda Scalea, che cosa si nasconde dietro la crociata sulla post-verità cui stiamo assistendo? «Probabilmente, un’assai tradizionale reazione censoria contro la montante critica rivolta all’establishment».
Il confine tra notizia falsa e notizia dubbia «è labile, come sempre più labile è il confine tra notizia e opinione», osserva Scalea: «Con la scusa delle “fake news” si potranno ben colpire le visioni eterodosse, lasciando per giunta il lavoro sporco a impersonali algoritmi sviluppati nella liberal Silicon Valley». In effetti, «sarebbe come pretendere che un software ci dicesse se è più giusto votare per un candidato o per un altro». L’esito, ovviamente, «non sarebbe quello suggerito dall’oggettività del computer, ma dalla soggettività dello sviluppatore», dal momento che «soggettiva, e non oggettiva, è la domanda posta». I media? Non distinguono più tra i fatti e i semplici punti di vista: «Le opinioni, le valutazioni, sono raffrontate con l’opinione prevalente (o per meglio dire, mainstream) e in base alla loro aderenza con essa accreditate di verità o falsità intese in senso assolute». Per Scalea, «il metodo non è molto lontano da quello dell’Inquisizione, ma almeno allora ci si fondava su un testo sacro e una tradizione apostolica, non certo su qualche blog di debunking».
In linea di principio, conclude Scalea, «promuovere la verità non è mai sbagliato». Nella pratica, «dal momento che la verità è spesso inafferrabile, quest’intento si è sovente tramutato in disastro». I bolscevichi, ad esempio, «hanno cercato di seguire le verità proposte dal “socialismo scientifico”, coi ben noti risultati». La “Pravda”, che in russo si traduce in modo esplicito (“la verità”), era la loro voce ufficiale. «Non si può realizzare un mondo in cui tutta l’informazione sia sempre verità, senza annichilire il libero discorso e affermare una falsa verità soggettiva e partigiana», conclude Scalea. «Lo stolto che afferma che la Terra sia piatta è il prezzo che paghiamo affinché l’onesto possa indicarci che il “Re è nudo” – senza essere accusato perciò di propinare una bufala e censurato da Facebook e Google».
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Re: Dove va l'America?
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Lo squallore di Obama, il bugiardo più pericoloso del mondo
Scritto il 02/1/17 • nella Categoria: idee Condividi Tweet
Eh sì, ora potete verificare di persona che tipo di persona sia Barack Obama. E soprattutto potete rendervi conto di quanto importante e destabilizzante sia stata la vittoria di Trump, che ha posto fine a un lunghissimo periodo di potere esercitato da un gruppo élitario – neoconservatore ma non solo – che, ha dominato Washington, rovinando sia gli Usa sia il mondo. Circa tre settimane fa in un’intervista al blog di Beppe Grillo affermavo che l’establishment di Obama, che aveva le sue radici strategiche e ideologiche nell’amministrazione Bush, avrebbe fatto di tutto per mettere in difficoltà o addirittura impedire l’elezione di Trump. Avete visto cos’è successo negli Stati Uniti: manifestazioni di piazza, riconteggio dei voti in alcuni Stati, pressioni senza precedenti sui Grandi Elettori affinché rinnegassero il voto popolare. Tutto inutile, per fortuna. Per fermare Trump restano solo due modi: un colpo di stato parlamentare o l’eliminazione fisica. Entrambi non ipotizzabili, al momento.
La reazione scomposta di Obama in questi giorni, però, non rivela solo la stizza di un presidente uscente e la scarsa caratura di un uomo ampiamente sopravvalutato, evidenzia soprattutto la frustrazione di un clan che vede svanire il perseguimento dei propri obiettivi strategici. Infatti: gli Usa hanno perso la guerra in Siria, combattuta la fianco dei peggiori gruppi fondamentalisti. Nessun rappresentante dell’establishment uscente è stato eletto nei posti chiave dell’amministrazione Trump. La globalizzazione e il continuo smantellamento delle sovranità nazionali non sono più garantite, anzi rischiano di essere fermate da Trump che crede nei valori e negli interessi nazionali. L’obiettivo di conquistare il controllo dell’Eurasia, facendo cadere Putin, sostituendolo con un presidente filomaericano, è fallito; Putin oggi è più forte che mai. Persino Israele, che si è subito allineata a Trump, è diventata ostile. Il via libera alla Risoluzione Onu rappresenta un’inversione a “U” clamorosa e dai chiari intenti punitivi.
Le ultime decisioni dell’amministrazione Obama segnalano il tentativo di far deragliare il nuovo corso di Trump o perlomeno di metterlo in fortissima difficoltà sia con Israele, sia, soprattutto, con la Russia. La speranza segreta della Casa Bianca era che Putin potesse cedere a una reazione impulsiva, tale da mettere davvero in imbarazzo Trump. E invece il presidente russo ha tenuto i nervi a posto. Anzi ha dato a Obama l’ennesima lezione di stile, rifiutandosi di espellere a propria volta 35 diplomatici americani. Le nuove sanzioni e l’espulsione di 35 diplomatici russi sono comunque un colpo basso, tale da provocare tensioni con il Congresso, ma non così gravi da far desistere Trump dall’avviare un nuovo corso con Putin. Quanto alle accuse di ingerenze russe nel voto americano sono risibili, pretestuose. Quel che conta, alla fine di un incredibile 2016, è la sostanza. Ovvero: il clan che ha governato l’America per almeno 16 anni lascia per la prima volta il potere. E chi si è opposto, dentro e fuori gli Usa, a politiche egemoniche autenticamente neoimperiali trova motivi di speranza. Ed è un’ottima notizia per il mondo.
(Marcello Foa, “Che squallore Obama! Ora capite che uomo è (e perché Trump fa tanta paura)”, dal blog “Il Cuore del Mondo” su “Il Giornale” del 30 dicembre 2016).
Lo squallore di Obama, il bugiardo più pericoloso del mondo
Scritto il 02/1/17 • nella Categoria: idee Condividi Tweet
Eh sì, ora potete verificare di persona che tipo di persona sia Barack Obama. E soprattutto potete rendervi conto di quanto importante e destabilizzante sia stata la vittoria di Trump, che ha posto fine a un lunghissimo periodo di potere esercitato da un gruppo élitario – neoconservatore ma non solo – che, ha dominato Washington, rovinando sia gli Usa sia il mondo. Circa tre settimane fa in un’intervista al blog di Beppe Grillo affermavo che l’establishment di Obama, che aveva le sue radici strategiche e ideologiche nell’amministrazione Bush, avrebbe fatto di tutto per mettere in difficoltà o addirittura impedire l’elezione di Trump. Avete visto cos’è successo negli Stati Uniti: manifestazioni di piazza, riconteggio dei voti in alcuni Stati, pressioni senza precedenti sui Grandi Elettori affinché rinnegassero il voto popolare. Tutto inutile, per fortuna. Per fermare Trump restano solo due modi: un colpo di stato parlamentare o l’eliminazione fisica. Entrambi non ipotizzabili, al momento.
La reazione scomposta di Obama in questi giorni, però, non rivela solo la stizza di un presidente uscente e la scarsa caratura di un uomo ampiamente sopravvalutato, evidenzia soprattutto la frustrazione di un clan che vede svanire il perseguimento dei propri obiettivi strategici. Infatti: gli Usa hanno perso la guerra in Siria, combattuta la fianco dei peggiori gruppi fondamentalisti. Nessun rappresentante dell’establishment uscente è stato eletto nei posti chiave dell’amministrazione Trump. La globalizzazione e il continuo smantellamento delle sovranità nazionali non sono più garantite, anzi rischiano di essere fermate da Trump che crede nei valori e negli interessi nazionali. L’obiettivo di conquistare il controllo dell’Eurasia, facendo cadere Putin, sostituendolo con un presidente filomaericano, è fallito; Putin oggi è più forte che mai. Persino Israele, che si è subito allineata a Trump, è diventata ostile. Il via libera alla Risoluzione Onu rappresenta un’inversione a “U” clamorosa e dai chiari intenti punitivi.
Le ultime decisioni dell’amministrazione Obama segnalano il tentativo di far deragliare il nuovo corso di Trump o perlomeno di metterlo in fortissima difficoltà sia con Israele, sia, soprattutto, con la Russia. La speranza segreta della Casa Bianca era che Putin potesse cedere a una reazione impulsiva, tale da mettere davvero in imbarazzo Trump. E invece il presidente russo ha tenuto i nervi a posto. Anzi ha dato a Obama l’ennesima lezione di stile, rifiutandosi di espellere a propria volta 35 diplomatici americani. Le nuove sanzioni e l’espulsione di 35 diplomatici russi sono comunque un colpo basso, tale da provocare tensioni con il Congresso, ma non così gravi da far desistere Trump dall’avviare un nuovo corso con Putin. Quanto alle accuse di ingerenze russe nel voto americano sono risibili, pretestuose. Quel che conta, alla fine di un incredibile 2016, è la sostanza. Ovvero: il clan che ha governato l’America per almeno 16 anni lascia per la prima volta il potere. E chi si è opposto, dentro e fuori gli Usa, a politiche egemoniche autenticamente neoimperiali trova motivi di speranza. Ed è un’ottima notizia per il mondo.
(Marcello Foa, “Che squallore Obama! Ora capite che uomo è (e perché Trump fa tanta paura)”, dal blog “Il Cuore del Mondo” su “Il Giornale” del 30 dicembre 2016).
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Re: Dove va l'America?
Paura, eh?
Donald Trump, la legge sui dazi spaventa Sergio Machionne ed Fca
Uno dei punti del programma del presidente Donald Trump che spaventa di più osservatori e cancellerie internazionali è il protezionismo, ovvero i dazi. In campagna elettorale The Donald assicurava di voler introdurre dazi per i prodotti importati dall'estero, una misura con la quale andrebbe a "punire" soprattutto il colonialismo economico a basso prezzo della Cina. Una misura che però - esclusi improbabili dazi ad hoc contro il Dragone - andrebbe a colpire anche gli altri Paesi, con effetti che potrebbero rivelarsi gravi per gli accenni di ripresa dopo la grande tempesta della crisi economica iniziata ormai nel 2008.
E tra i Paesi esteri colpiti, ovviamente, ci sarebbe anche l'Italia. Ovvero ci sarebbe soprattutto Sergio Marchionne. Per intendersi, in questo 2016 saranno oltre 100mila le vetture con il marchio Fca che andranno dal nostro Paese verso gli Stati Uniti, un numero di vetture in grado da solo di far risalire la produzione automobilistica (che in totale prevede circa 1 milione di auto su base annua). Va da sé, la svolta protezionista sarebbe un grosso guaio per l'Italia e per Marchionne. Resta però un potente argine contro l'idea del presidente Trump, e paradossalmente è proprio la maggioranza repubblicana appena eletta al Congresso Usa: liberal per definizioni e dunque contrari ai dazi, difficilmente ingoieranno l'ipotesi trumpiana di un isolazionismo a stelle e strisce.
http://www.liberoquotidiano.it/news/eco ... e-fca.html
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Chi lo puo fare e chi non lo puo fare? Come la mettiamo allora con chi continua a delocalizzare selvaggiamente come sta succedendo in questi anni?
Quale altra alternativa?
un salutone
Donald Trump, la legge sui dazi spaventa Sergio Machionne ed Fca
Uno dei punti del programma del presidente Donald Trump che spaventa di più osservatori e cancellerie internazionali è il protezionismo, ovvero i dazi. In campagna elettorale The Donald assicurava di voler introdurre dazi per i prodotti importati dall'estero, una misura con la quale andrebbe a "punire" soprattutto il colonialismo economico a basso prezzo della Cina. Una misura che però - esclusi improbabili dazi ad hoc contro il Dragone - andrebbe a colpire anche gli altri Paesi, con effetti che potrebbero rivelarsi gravi per gli accenni di ripresa dopo la grande tempesta della crisi economica iniziata ormai nel 2008.
E tra i Paesi esteri colpiti, ovviamente, ci sarebbe anche l'Italia. Ovvero ci sarebbe soprattutto Sergio Marchionne. Per intendersi, in questo 2016 saranno oltre 100mila le vetture con il marchio Fca che andranno dal nostro Paese verso gli Stati Uniti, un numero di vetture in grado da solo di far risalire la produzione automobilistica (che in totale prevede circa 1 milione di auto su base annua). Va da sé, la svolta protezionista sarebbe un grosso guaio per l'Italia e per Marchionne. Resta però un potente argine contro l'idea del presidente Trump, e paradossalmente è proprio la maggioranza repubblicana appena eletta al Congresso Usa: liberal per definizioni e dunque contrari ai dazi, difficilmente ingoieranno l'ipotesi trumpiana di un isolazionismo a stelle e strisce.
http://www.liberoquotidiano.it/news/eco ... e-fca.html
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Chi lo puo fare e chi non lo puo fare? Come la mettiamo allora con chi continua a delocalizzare selvaggiamente come sta succedendo in questi anni?
Quale altra alternativa?
un salutone
Cercando l'impossibile, l'uomo ha sempre realizzato e conosciuto il possibile, e coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che sembrava possibile non sono mai avanzati di un sol passo.(M.A.Bakunin)
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Re: Dove va l'America?
Usa
Ford annulla investimenti in Messico
Trump su Twitter: «Merito mio»
La decisione della casa automobilistica fa esultare lo staff del neopresidente. E Trump se la prende con General Motors che produrrà un modello di auto in Messico anziché negli Usa
di Laura De Feudis
Investimenti in origine previsti in Messico destinati (anche se dimezzati) agli Usa: Ford cambia i piani e annuncia di aver dirottato i fondi per l’impianto messicano di San Luis Potosi, all’ampliamento di uno stabilimento in Michigan (dove la casa automobilistica è stata fondata nel 1903). 1 miliardo e 600 milioni di dollari la cifra prevista per la produzione messicana. 700 milioni di dollari, invece, per la fabbrica americana di Flat Rock.
Trump: «merito mio»
L’annuncio del colosso di Detroit arriva solo poche ore dopo l’attacco di Donald Trump che, via Twitter, aveva criticato la decisione di General Motors di produrre un modello di auto in Messico anziché negli Usa. Nel programma del neopresidente c’è da sempre una svolta protezionista in politica economica. Tanto che in più di una occasione ha esortato i grandi produttori a valorizzare gli stabilimenti Usa arrivando anche a minacciare di imporre dazi e tariffe doganali. Lo stesso Trump, sempre via Twitter, si è intestato il merito della decisione. «Ford cancella fabbrica in Messico, investe in Michigan grazie alle politiche di Trump» ha scritto il capo del suo staff social media Dan Scavino. In effetti, annunciando la decisione l'amministratore delegato di Ford Mark Fields ha citato le politiche di Trump e del nuovo congresso come «vitali per la decisione dell'azienda».
http://www.corriere.it/esteri/17_gennai ... resh_ce-cp
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Le incertezze dell'occidente che si crede democratico si e' rilevato non essere all'altezza di risolvere tutte le problematiche che la globalizzazione voluta urgentemente dalle lobbies e ora tutto questo ci presenta il conto.
Parlare di populismo mi sembra un modo inadeguato per dare le risposte adeguate a tutto questo.
I problemi di un popolo son ben diversi da quelli che vedono i maitre a penser dal loro alto scanno.
Le cosidette democrazie che molto si danno da fare per osannarle probabilmente hanno poco di democrazia
I risultati son questi e non e' da meravigliarsi più di tanto se il prossimo uomo dell'anno sara' Putin.
un sutone
Ford annulla investimenti in Messico
Trump su Twitter: «Merito mio»
La decisione della casa automobilistica fa esultare lo staff del neopresidente. E Trump se la prende con General Motors che produrrà un modello di auto in Messico anziché negli Usa
di Laura De Feudis
Investimenti in origine previsti in Messico destinati (anche se dimezzati) agli Usa: Ford cambia i piani e annuncia di aver dirottato i fondi per l’impianto messicano di San Luis Potosi, all’ampliamento di uno stabilimento in Michigan (dove la casa automobilistica è stata fondata nel 1903). 1 miliardo e 600 milioni di dollari la cifra prevista per la produzione messicana. 700 milioni di dollari, invece, per la fabbrica americana di Flat Rock.
Trump: «merito mio»
L’annuncio del colosso di Detroit arriva solo poche ore dopo l’attacco di Donald Trump che, via Twitter, aveva criticato la decisione di General Motors di produrre un modello di auto in Messico anziché negli Usa. Nel programma del neopresidente c’è da sempre una svolta protezionista in politica economica. Tanto che in più di una occasione ha esortato i grandi produttori a valorizzare gli stabilimenti Usa arrivando anche a minacciare di imporre dazi e tariffe doganali. Lo stesso Trump, sempre via Twitter, si è intestato il merito della decisione. «Ford cancella fabbrica in Messico, investe in Michigan grazie alle politiche di Trump» ha scritto il capo del suo staff social media Dan Scavino. In effetti, annunciando la decisione l'amministratore delegato di Ford Mark Fields ha citato le politiche di Trump e del nuovo congresso come «vitali per la decisione dell'azienda».
http://www.corriere.it/esteri/17_gennai ... resh_ce-cp
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Le incertezze dell'occidente che si crede democratico si e' rilevato non essere all'altezza di risolvere tutte le problematiche che la globalizzazione voluta urgentemente dalle lobbies e ora tutto questo ci presenta il conto.
Parlare di populismo mi sembra un modo inadeguato per dare le risposte adeguate a tutto questo.
I problemi di un popolo son ben diversi da quelli che vedono i maitre a penser dal loro alto scanno.
Le cosidette democrazie che molto si danno da fare per osannarle probabilmente hanno poco di democrazia
I risultati son questi e non e' da meravigliarsi più di tanto se il prossimo uomo dell'anno sara' Putin.
un sutone
Cercando l'impossibile, l'uomo ha sempre realizzato e conosciuto il possibile, e coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che sembrava possibile non sono mai avanzati di un sol passo.(M.A.Bakunin)
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Re: Dove va l'America?
Usa, spari in aeroporto di Fort Lauderdale (Florida). Almeno 5 morti e 8 feriti. Testimone: “Il killer mirava alla testa”
Mondo
E' accaduto nell'area del ritiro bagagli del Terminal 2, usato dalla Delta Air Lines e da Air Canada. Parti dello scalo sono state chiuse. Secondo l'Associated Press, l’uomo che ha aperto il fuoco era un passeggero di un volo proveniente dal Canada e aveva la pistola in una borsa imbarcata nella stiva dell’aereo. Il killer avrebbe caricato l’arma in bagno, una volta recuperata la borsa
di F. Q. | 6 gennaio 2017
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465
Più informazioni su: Sparatoria, Usa
Sparatoria nell’aeroporto Fort Lauderdale, in Florida. Il bilancio è di almeno 5 morti, secondo quanto riportano la Cnn e il Washington Post, citando forze di sicurezza. I feriti sarebbero 13 o 8 a seconda delle fonti. Un tweet dell’aeroporto ha confermato che la sparatoria è avvenuta nel Terminal 2 dello scalo, usato dalla Delta Air Lines e da Air Canada, nella zona ritiro bagagli. I passeggeri sono stati evacuati sulla pista di atterraggio.
Video:00:13
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/01 ... i/3299791/
L’ufficio dello sceriffo via Twitter ha assicurato che l’uomo che ha sparato è “in custodia“. Secondo il senatore statale Bill Nelson, citato da Msnbc, il killer si chiama Esteban Santiago ed è stato trovato in possesso di una carta d’identità militare. Santiago sarebbe stato colpito da spari esplosi dai poliziotti mentre tentava di ricaricare l’arma utilizzata, ha riferito Msnbc, citando testimoni non identificati. Era “vestito con una t-shirt di Guerre Stellari, mirava alla testa delle sue vittime”, ha raccontato a FoxNews un testimone. Il killer era un passeggero di un volo proveniente dal Canada e aveva la pistola in una borsa imbarcata nella stiva dell’aereo dopo averla regolarmente registrata, come riferisce il capo della contea Chip La Marca via Facebook. Il killer avrebbe caricato l’arma da fuoco in bagno, una volta recuperata la borsa al terminal 2 dell’aeroporto. L’uomo secondo i media americani, avrebbe 29 anni e sarebbe nato in New Jersey. Sarebbe un ex militare e avrebbe trascorso gli ultimi due anni in Alaska ad Anchorage.
La Tsa, l’autorità federale per la sicurezza aeroportuale, ha lanciato un allarme via Twitter, parlando di uno “sparatore attivo” e annunciando la chiusura dello scalo. Mentre nel parcheggio della struttura sarebbero stati uditi degli altri spari . “Sono in corso ricerche per accertare se c’è un altro sparatore” dopo le indicazioni di ulteriori colpi di arma da fuoco, ha fatto sapere lo sceriffo della contea di Broward, sottolineando che le ricerche sono in corso al Terminal 1. Anche se poco dopo ha dichiarato che “a questo punto non c’è alcun secondo uomo armato nell’aeroporto Fort Lauderdale-Hollywood in Florida” e sembra che il killer “abbia agito da solo”, tuttavia le verifiche continuano per accertare che non persistano minacce. Lo sceriffo ha poi precisato che non ci sono conferme di altre sparatorie oltre a quella nel terminal 2 dell’aeroporto, mentre un solo sospetto è stato “preso in custodia dalla polizia senza incidenti”. La polizia ha quindi sottolineato che “è troppo presto per dire se si tratta di terrorismo”, le indagini vanno avanti: “lo sparatore è stato arrestato, è illeso. Lo stiamo interrogando”. Quanto ai feriti “otto persone sono ricoverate in ospedale ma non sappiamo le loro condizioni”, aggiunge la polizia. Sul posto è presente anche l’Fbi.
A riportare tra i primi quanto accaduto è stato Ari Fleischer, ex portavoce della Casa Bianca nell’era di George W. Bush, che ha scritto sempre su Twitter di trovarsi nell’aeroporto e che “tutti stanno fuggendo via”. Aggiungendo in un secondo momento che “tutto ora sembra calmo. Ma la polizia non lascia uscire nessuno dall’aeroporto”.
Video:00:19
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/01 ... i/3299791/
I’m at the Ft. Lauderdale Airport. Shots have been fired. Everyone is running.
— Ari Fleischer (@AriFleischer) 6 gennaio 2017
Il presidente eletto Donald Trump, su Twitter, ha invitato le persone che si trovano sul posto “a stare al sicuro”. Trump sta monitorando la “terribile situazione” mantenendosi in contatto, tra gli altri, con il governatore della Florida.
Monitoring the terrible situation in Florida. Just spoke to Governor Scott. Thoughts and prayers for all. Stay safe!
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) 6 gennaio 2017
Mondo
E' accaduto nell'area del ritiro bagagli del Terminal 2, usato dalla Delta Air Lines e da Air Canada. Parti dello scalo sono state chiuse. Secondo l'Associated Press, l’uomo che ha aperto il fuoco era un passeggero di un volo proveniente dal Canada e aveva la pistola in una borsa imbarcata nella stiva dell’aereo. Il killer avrebbe caricato l’arma in bagno, una volta recuperata la borsa
di F. Q. | 6 gennaio 2017
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Più informazioni su: Sparatoria, Usa
Sparatoria nell’aeroporto Fort Lauderdale, in Florida. Il bilancio è di almeno 5 morti, secondo quanto riportano la Cnn e il Washington Post, citando forze di sicurezza. I feriti sarebbero 13 o 8 a seconda delle fonti. Un tweet dell’aeroporto ha confermato che la sparatoria è avvenuta nel Terminal 2 dello scalo, usato dalla Delta Air Lines e da Air Canada, nella zona ritiro bagagli. I passeggeri sono stati evacuati sulla pista di atterraggio.
Video:00:13
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/01 ... i/3299791/
L’ufficio dello sceriffo via Twitter ha assicurato che l’uomo che ha sparato è “in custodia“. Secondo il senatore statale Bill Nelson, citato da Msnbc, il killer si chiama Esteban Santiago ed è stato trovato in possesso di una carta d’identità militare. Santiago sarebbe stato colpito da spari esplosi dai poliziotti mentre tentava di ricaricare l’arma utilizzata, ha riferito Msnbc, citando testimoni non identificati. Era “vestito con una t-shirt di Guerre Stellari, mirava alla testa delle sue vittime”, ha raccontato a FoxNews un testimone. Il killer era un passeggero di un volo proveniente dal Canada e aveva la pistola in una borsa imbarcata nella stiva dell’aereo dopo averla regolarmente registrata, come riferisce il capo della contea Chip La Marca via Facebook. Il killer avrebbe caricato l’arma da fuoco in bagno, una volta recuperata la borsa al terminal 2 dell’aeroporto. L’uomo secondo i media americani, avrebbe 29 anni e sarebbe nato in New Jersey. Sarebbe un ex militare e avrebbe trascorso gli ultimi due anni in Alaska ad Anchorage.
La Tsa, l’autorità federale per la sicurezza aeroportuale, ha lanciato un allarme via Twitter, parlando di uno “sparatore attivo” e annunciando la chiusura dello scalo. Mentre nel parcheggio della struttura sarebbero stati uditi degli altri spari . “Sono in corso ricerche per accertare se c’è un altro sparatore” dopo le indicazioni di ulteriori colpi di arma da fuoco, ha fatto sapere lo sceriffo della contea di Broward, sottolineando che le ricerche sono in corso al Terminal 1. Anche se poco dopo ha dichiarato che “a questo punto non c’è alcun secondo uomo armato nell’aeroporto Fort Lauderdale-Hollywood in Florida” e sembra che il killer “abbia agito da solo”, tuttavia le verifiche continuano per accertare che non persistano minacce. Lo sceriffo ha poi precisato che non ci sono conferme di altre sparatorie oltre a quella nel terminal 2 dell’aeroporto, mentre un solo sospetto è stato “preso in custodia dalla polizia senza incidenti”. La polizia ha quindi sottolineato che “è troppo presto per dire se si tratta di terrorismo”, le indagini vanno avanti: “lo sparatore è stato arrestato, è illeso. Lo stiamo interrogando”. Quanto ai feriti “otto persone sono ricoverate in ospedale ma non sappiamo le loro condizioni”, aggiunge la polizia. Sul posto è presente anche l’Fbi.
A riportare tra i primi quanto accaduto è stato Ari Fleischer, ex portavoce della Casa Bianca nell’era di George W. Bush, che ha scritto sempre su Twitter di trovarsi nell’aeroporto e che “tutti stanno fuggendo via”. Aggiungendo in un secondo momento che “tutto ora sembra calmo. Ma la polizia non lascia uscire nessuno dall’aeroporto”.
Video:00:19
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/01 ... i/3299791/
I’m at the Ft. Lauderdale Airport. Shots have been fired. Everyone is running.
— Ari Fleischer (@AriFleischer) 6 gennaio 2017
Il presidente eletto Donald Trump, su Twitter, ha invitato le persone che si trovano sul posto “a stare al sicuro”. Trump sta monitorando la “terribile situazione” mantenendosi in contatto, tra gli altri, con il governatore della Florida.
Monitoring the terrible situation in Florida. Just spoke to Governor Scott. Thoughts and prayers for all. Stay safe!
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) 6 gennaio 2017
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