Diario della caduta di un regime.

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UncleTom
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Re: Diario della caduta di un regime.

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PUO' DARSI CHE FAUSTO CAROTENUTO ABBIA RAGIONE,...MA NON MI CONVINCE TROPPO.

LE DOMANDE IN SOSPESO NON TROVANO RISPOSTA




Un governo di spettri, guidato da un troll del Vaticano
Scritto il 14/12/16 • nella Categoria: idee Condividi

Renzi “asfaltato” dai No, poi sarà il Vaticano a scegliere il nuovo capo del governo. Questa la profezia dell’ex ministro socialista Rino Formica, pronunciata con largo anticipo sull’esito del referendum che ha poi in effetti disarcionato il premier. Azzeccata anche la seconda parte della previsione? Parrebbe di sì, a leggere “Coscienze in Rete”, il blog del network creato da Fausto Carotenuto. Gentiloni, scrive oggi il newsmagazine, è «rampollo di una famiglia nota per ripetuti, secolari servizi al Vaticano nel campo dell’influenza nella politica italiana». Lo stesso Carotenuto definisce Gentiloni «di nobili, cattolicissimi lombi». Se il No del 4 dicembre ha rappresentato «un sospiro di sollievo», per quasi 20 milioni di italiani, felici di «non vedere più in tutti i media a ripetizione il bulletto toscano che pontifica sulla propria capacità di fare miracoli, con la faccia di tolla che spara bugie a raffica, circondato da un gruppetto di pretoriani invischiati con le peggiori lobbies», attenzione: «Stiamo attenti a non riaddormentarci subito. Perché il vero problema in effetti non era Renzi». Il fiorentino «non comandava e non decideva proprio nulla: era solo il “troll”, la maschera, il burattino del potere», che infatti «rimane intatto, come prima». Il vertice ha semplicemente “ordinato” al Quirinale di «nominare il suo nuovo troll». Gentiloni chi?
«Già da un paio d’anni – scrive “Coscienze in Rete” – avvertiamo della presenza del Conte Paolo Gentiloni Siverij e delle sue fantasmagoriche imprese, dal Giubileo rutelliano o come ministro delle telecomunicazioni del governo Prodi, all’allegria con la quale, in qualità di ministro degli esteri di Renzi, si prostrava a John Kerry quando questi gli chiedeva soldi e uomini per le guerre americane in Medio Oriente». In guardia, dunque, da «un personaggio chiaramente schierato con i vincitori della corsa al potere negli ultimi anni». E non è un caso, aggiunge il blog, che «nel momento in cui serve l’ennesimo pretoriano per schiacciare i i redivivi, seppur flebili aneliti democratici di questo paese, ci mettano proprio lui». Forse, alla fine la scelta è caduta su Gentiloni per una questione d’immagine: «Uno come Padoan è troppo palesemente legato alla Troika, troppo chiacchierato. E le sue misure, tipo un eventuale ricorso al Mes per sovvertire l’esito referendario, avrebbero potuto creare malcontenti troppo estesi». Forse, «confidano che Gentiloni possa fare esattamente le stesse cose senza scatenare troppo putiferio: come cantava Mary Poppins, “Basta un poco di zuccero e la pillola va giù”».
Quando «il conte» divenne ministro degli esteri per il governo Renzi, “Coscienze in Rete” lo accolse così: «Garantisce tutti i potenti, il Conte Paolo Gentiloni Siverij, di feudi e lombi marchigiani». Per conto di Rutelli sindaco di Roma «continuò la tradizione familiare e proprio lui fu nominato assessore al Giubileo, in contatto con la banda che se ne occupò». Uno dei principali esponenti di quella storica “impresa” fu «l’efficentista Bertolaso, “eroe” della mancata ricostruzione aquilana, del disastro della Maddalena e della trasformazione della Protezione Civile in comitato d’affari». Da ministro delle comunicazioni del governo Prodi, Gentiloni «fece la faccia cattiva di quello che doveva distruggere l’impero televisivo di Berlusconi, ma «in effetti la sua funzione si è poi risolta nel proteggerlo, magari a condizioni più utili ai veri circuiti di potere». Il “conte”, poi, «non si fa mancare nemmeno il fatto di essere vicinissimo ad ambienti israeliani e soprattutto americani», scriveva il blog. «E deve proprio essere stata qualche vocina gesuitico-massonica, supportata da manine statunitensi, ad averlo convinto ad essere uno dei primi a sostenere Renzi nel Pd, ben prima che si creasse l’onda opportunistica renziana di questi mesi».
L’uomo giusto al posto giusto: al Giubileo, agli esteri, a Palazzo Chigi. «All’origine di ogni nobiltà materiale c’è un non detto, un qualcosa di inconfessabile e di indicibile compiuto al servizio di un potere oscuro più forte: lo stesso indicibile potere che mantiene certe famiglie nobili al potere per secoli», secondo “Coscienze in Rete”. Cosa farà ora questo «governo di spettri?». Se lo domanda Fausto Carotenuto, che saluta «il disgusto, unito al risveglio» degli elettori, che il 4 dicembre hanno mandato a casa «chi non lavorava per i cittadini, ma per altri poteri». Solo che, poi, se togli Renzi ti ritrovi Gentiloni. Missione del nuovo “troll” del potere: «Anestetizzare al massimo gli effetti politici del referendum». Al “conte” non manca il fisico giusto: ha «una faccia diversa» da quella di Renzi, «dimessa», nonché «un eloquio da confessionale, un portamento perfino un po’ contratto e ricurvo, l’espressione di chi è capitato lì per caso». E’ perfetto, per «dare alla gente l’impressione di una maggiore “innocuità”». Errore: «Non abbassiamo la guardia: anche lui continuerà a servire chi lo comanda, senza discussioni e con volontà ferrea. Nella costante ricerca della maggior possibile manipolazione e della riduzione al minimo della libertà di noi cittadini».
Carotenuto ne è sicuro: «Con lui si cercherà di fare in modo che nulla cambi, ma questa volta senza nemmeno far finta di cambiare qualcosa. Ancora peggio del solito italico trasformismo descritto nel Gattopardo». Secondo le stime, l’apprezzamento della gente per il nuovo governo è sotto il 20 %: il più basso della storia. «Il che prelude chiaramente alla preparazione di scenari molto diversi di manipolazione della gente, non più affidati a questi gruppi di spettri ormai spenti ed inefficaci». Come dire: il peggio deve ancora arrivare. «Apparentemente il nuovo governo serve solo a fare la nuova legge elettorale. Ma non si è riempito di saggi costituzionalisti, bensì di un numero di “trolls” ancora maggiore del precedente, confermandone la maggior parte. In effetti il ruolo di questo governo è quello di non mollare la presa del potere nemmeno per un attimo sui veri scopi di ogni ministero, che i ministri di questo governo continueranno a perseguire con efficacia, facendo finta di dirigere ministeri che in effetti sono dominati da bande di burocrati inossidabili e inamovibili, di direttori generali e funzionari al soldo dei veri poteri di manipolazione». I ministri-troll? «Sono solamente degli spettri dotati di firma, che fanno solo da “copertura” ai lobbisti legati ai poteri oscuri». E l’orchestra è diretta – come annunciato da Formica – da un nobilissimo “amico” del Vaticano.
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Sicuri che Matteo Renzi si chiami davvero Matteo Renzi?

Scritto il 14/12/16 • nella Categoria: idee Condividi




Il Cazzaro ha passato la campagna referendaria a promettere che in caso di sconfitta si sarebbe ritirato dalla politica.

Naturalmente non l’ha fatto.

Indovinate perché. Vi do un aiutino. Perché è un cazzaro.


È rimasto qualcuno che creda ancora alle parole di Matteo Renzi?

A questo punto c’è persino da chiedersi se si chiami davvero Matteo Renzi.



Invece di rendere conto della disfatta, mercoledì scorso ha liquidato la direzione del suo partito con un surreale comizietto trionfalistico pieno delle sue solite millanterie miste a spiritosaggini da cena aziendale, lasciando basiti i convocati, a cui è stato impedito di controbattere.



Dopodiché ha ricominciato immediatamente a intrigare per restare al potere, personalmente come segretario del Pd, e al governo attraverso un suo fedelissimo, Paolo Gentiloni Silveri, rampollo dei Conti Gentiloni Silveri di Filottrano, Cingoli e Macerata, sessantottino pentito, ed ex delfino di Rutelli come Renzi.



Quale migliore risposta all’incazzatura popolare che affidare la presidenza del Consiglio a un conte?




Esecutore degli stessi mandanti, come pattuito il governo del conte Gentiloni è programmato per essere la fotocopia in bianco e nero di quello del Cazzaro, e durare almeno sei mesi.




La scusa ufficiale è che occorrano soprattutto per rifare la legge elettorale.


Indovinate un po’. Vi do un altro aiutino. È una cazzata.


L’Italicum è una legge ordinaria, per abrogarla basta un voto parlamentare a maggioranza semplice, non c’è bisogno d’aspettare il parere della Consulta, volendo non ci vogliono sei mesi e nemmeno sei giorni.



Abrogando l’Italicum, e ripristinando anche alla Camera il cosiddetto Consultellum, il proporzionale risultato dalle modifiche della Consulta al Porcellum, si potrebbe votare subito.




Per quanto il Consultellum sia racchio, l’Italicum fa schifo al caXXo, come tutte le cose prodotte dal governo Renzi.



È l’ultimo rimasuglio di quella controriforma fascistoide e golpista che abbiamo giustamente appena respinto a calci in culo.




L’unico motivo per cui Grillo adesso sembra gradirlo, seppure corretto, è perché pensa di poterci vincere le elezioni.


Originariamente confezionato dai renziani apposta per garantire il potere assoluto al loro spocchioso ducetto, l’Italicum s’è invece rivelato di fatto della taglia del M5S di Grillo.



E i renziani danno degli incapaci ai grillini.


Nei prossimi mesi, con l’aiuto dei berlusconiani più esperti di loro in riformaialate, i renziani cercheranno di scucire l’Italicum e ricucirlo di nuovo su misura del Cazzaro, che nel frattempo dovrà però faticare per non finire divorato dalle formiche carnivore della minoranza Pd che ha cercato di schiacciare per anni, e che ovviamente non vedono l’ora di vendicarsi.


Se “Bastonare il Cazzaro che affoga” sarà il loro motto, per una volta avranno qualcosa da insegnarci.

Infatti, benché la nostra del No al referendum sia stata una grande, epocale vittoria, finora è soltanto una mezza misura.

No alla Cazzariforma, e anche alla sua continuazione con altri mezzi. No half measures.

(Alessandra Daniele, “Il Patto Cazzaroni”, da “Carmilla online” dell’11 dicembre 2016).
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Governo Gentiloni, ultimo atto del renzismo
di Fabio Marcelli | 14 dicembre 2016

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Narra la storia che Maria Antonietta abbia proposto di dare brioches al popolo francese affamato. Qualche anno dopo ci fu la rivoluzione e la poveretta ci rimise la testa. Renzi e Mattarella hanno appena rifilato un biscotto Gentiloni al popolo italiano affamato di democrazia ma anche di concreti diritti sociali. Chissà come andrà a finire.

L’individuo in sé non è cattivo. Lo attestano dichiarazioni di personaggi fra loro distanti come Fedele Confalonieri e Luciana Castellina, anche se l’apprezzamento del primo dà adito a qualche sospetto dato che il nostro ebbe a occuparsi dei media in qualità di ministro di un governo Prodi, e quello della seconda si accompagna a una critica spietata quanto sacrosanta della sua attuale impresa, dar vita a un governo giustamente definito fotocopia ed espressione di una sorta di renzismo senza Renzi destinato a preparare il terreno per il ritorno in forze del capo momentaneamente spodestato. Io lo ricordo come appassionato leaderino del Movimento studentesco del Tasso. Quantum mutatus ab illo, povero Paolo.

Vicende personali e ricordi di gioventù a parte, la decisione del Pd, o meglio di Renzi che ha deciso di bandire ogni possibilità di discussione democratica all’interno di un partito che pure democratico si definisce, aggrava senza dubbio la crisi di rappresentatività del Parlamento attuale, nato da una legge definita anticostituzionale in molte sue parti dalla Corte costituzionale e che ha sostenuto a maggioranza una pessima riforma della Costituzione respinta pochi giorni fa a grande maggioranza del popolo italiano.

Come insegna la migliore dottrina costituzionalista, un referendum che evidenzi una tale enorme divergenza tra il popolo e i suoi rappresentanti rende opportune nuove elezioni politiche al più presto. A ciò si oppone come ben sappiamo la circostanza, anch’essa da addebitarsi alla vanagloriosa presunzione del governo Renzi, di non prevedere una nuova legge elettorale per il Senato, nell’infondata credenza che quest’ultimo sarebbe stato abolito o meglio trasformato nell’ombra di se stesso a causa delle riforme renziane.

Una nuova legge elettorale si rende a ogni modo indispensabile e urgente anche per le numerose critiche di incostituzionalità rivolte all’Italicum, che presto dovrebbero essere quantomeno in parte accolte dalla Corte costituzionale, evidenziando un ulteriore motivo di profonda inadeguatezza del Parlamento esistente.

Siamo per molti aspetti quindi in una sorta di vicolo cieco istituzionale determinato dal fatto che il Parlamento che dovrebbe legiferare per dare vita a leggi elettorali finalmente legittime è profondamente screditato per i motivi accennati. Ma uscirne al più presto costituisce un imperativo morale, politico e giuridico. Se ne può uscire con una legge elettorale proporzionale che costituirebbe l’unica risposta ammissibile e positiva alla vera crisi che stiamo vivendo, una crisi di rappresentatività e non già di governabilità.

Un governo che agisca senza capacità di ascoltare il popolo è destinato a produrre ulteriori sfracelli, aumentando la distanza fra cittadini e istituzioni e preparando le condizioni o per una violenta reazione popolare o per un’ulteriore disgregazione sociale, in una situazione contrassegnata dal costante aggravamento della situazione di crescente povertà e disagio.

Ovviamente il governo fotocopia Gentiloni non si pone per nulla su questa strada, dato che ripropone uomini e donne compromessi e politiche fallimentari su cui il popolo italiano si è espresso con chiarezza il 4 dicembre. Ci si attende in buona sostanza una minestrina riscaldata a base di voucher, tagli alla spesa sociale, precarietà e tentativi di rilancio del clientelismo a base di fritture miste per i poveracci e grandi opere per quelli che contano, nonch una snervante trattativa fra gli alleati di governo per mettere a punto, magari fra un anno, un sistema elettorale che non risponda a elementari esigenze di democrazia e costituzionalità ma ai meschini interessi di questo o di quello.

La goffa finzione di novità messa in scena da Renzi ha convinto solo una minoranza nonostante lavaggi del cervello, ricatti, minacce e lusinghe. Il Paese vuole un vero cambiamento nel metodo e nel merito, e Gentiloni significa piena continuità con la goffa finzione inscenata con scarso successo dal suo autore, anzi per molti versi un suo ulteriore peggioramento. Demenziale pretendere che gli Italiani non se ne accorgano.

Come affermato dal sagace D’Alema, il Pd dovrebbe temere che questa politica ciecamente arrogante e che insulta in modo aperto la volontà popolare si traduca in una nuova valanga di voti contro di esso. A chi ha sostenuto la necessità del No in termini chiari sulla base di valori ed esigenze di sinistra spetta oggi denunciare con forza questa manovra inaccettabile, ponendo al tempo stesso le basi per l’inevitabile alternativa di governo e di sistema. O poniamo in essere le condizioni per un rinnovato protagonismo popolare attraverso istituzioni adeguate o rischiano di entrare o tornare in scena personaggi come Renzi o anche peggio di lui, se possibile. Il popolo italiano merita di meglio.





di Fabio Marcelli | 14 dicembre 2016
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Re: Diario della caduta di un regime.

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La bomba sotto l'esecutivo


Il voto sulla riforma è la mina letale. E si può disinnescare soltanto con le elezioni anticipate

Augusto Minzolini - Mer, 14/12/2016 - 19:22

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A volte il gioco delle parti in politica raggiunge vette impensabili. Al Senato alcuni parlamentari del Pd, cioè del partito di maggioranza relativa, perno del nuovo equilibrio politico, si interrogano sul futuro del governo Gentiloni. «Questo è un esecutivo fatto per cadere», osserva Luciano Pizzetti, ex-sottosegretario alla presidenza del Consiglio, l'uomo che muoveva per Renzi le truppe in Parlamento.

«Infatti - aggiunge pensoso - sto riflettendo se entrarci o meno». Una premessa interrotta dal consigliere di Bersani, Miguel Gotor, che chiede scanzonato: «Ma davvero ci saranno i referendum sul Jobs Act in primavera? Se non possiamo evitarli allora bisogna andare ad elezioni per rinviarli...». Pizzetti risponde scanzonato: «Ci vorrebbe un decreto del governo altrimenti si vota...». Già, ma quale governo? Il governo Gentiloni che sembra già un morto che cammina? Non per vestire i panni di Cassandra ma lì dentro, nell'ala del Parlamento più perigliosa, lo considerano già tale. «Il problema - spiega ancora Pizzetti, che conosce i numeri a memoria - non è il voto di fiducia, ma quelli per andare avanti. Ora ci si è messo pure Verdini. Dicono che Forza Italia darà una mano sul numero legale? Io non ci credo, ma, anche se fosse, non potrebbe più di tanto».

Il quadro è davvero sconfortante: un governo nato per cadere; che sulla sua strada ha mine letali come il referendum sul Jobs Act; e che per sopravvivere deve sperare nella benevolenza dell'opposizione. E, comunque, paradosso nel paradosso, a sentire i discorsi del Pd è stato studiato proprio per renderlo incapace di reagire alla forza di gravità. «Sì, è un po' così - spiega un altro piddino del Senato, Vito Vattuone - è fatto per non reggere. Ad esempio se si arriva al referendum sul Jobs Act il Pd è morto, perché è un argomento che entra nella nostra carne, nelle nostre divisioni. Se si riesce a votare a giugno si evita. Certo c'è bisogno della nuova legge elettorale e io non credo che il problema ce lo risolverà la Consulta. Si sa: quelli si comportano da principi ma sono solo avvocati!».

C'è molto fatalismo nell'aria che si respira dentro il Pd. Lì dentro ce l'hanno con il mondo intero, addirittura con la Consulta, ma soprattutto non capiscono come possano essere finiti in questo cul de sac. Renzi la fa facile: «L'unica strada è il voto, al più presto». Ma il partito è perplesso. «La situazione è complicata - ammette laconico il capogruppo del Senato, Luigi Zanda -. Ci sono tanti suicidi, anche le nazioni si suicidano. E se uno si vuole suicidare, c'è poco da fare». In realtà più che un suicidio l'idea di Renzi è una sorta di eutanasia programmata: la Dc si era inventata il cosiddetto «governo amico», un governo che non sentiva suo e che nel suo Dna aveva una durata limitata; il renzismo, invece, ha riveduto e corretto il meccanismo in ossequio alla modernità 2.0, e ha creato questa sorta di esecutivo, appunto, a eutanasia programmata. Che non possa sopravvivere è proprio nel suo atto di nascita. Nella sua natura, nella sua composizione. Nell'imprinting che l'ex premier e segretario del Pd gli ha voluto dare: una sorta di clone a durata limitata. Privato anche di quella cintura di sicurezza che aveva il governo Renzi, cioè l'apporto di Verdini e dei suoi. «Perché Verdini ha preso le distanze? Guardi - risponde Maurizio Sacconi, che è stato nella maggioranza del governo precedente prima di uscirne sbattendo la porta - non esiste in natura che Verdini sia contro Renzi. È stato un modo per rendere il governo Gentiloni ancora più precario. Questo è un governo che avrà contro tutti i giorni Renzi. Basta pensare che la battaglia più cruenta sulla sua composizione sia avvenuta sul puntiglio di Renzi di mettere Lotti nella casella di sottosegretario ai Servizi segreti. C'è voluto il no di Mattarella per impedirlo. Siamo al paradosso che i renziani sono all'opposizione, mentre l'ex Pdl tenta di non infierire. Io sono tentato di non votargli contro, ma di astenermi sulla fiducia».

Il gioco delle parti in politica. C'è il sottosegretario del Pd che non vuole entrare nel governo Gentiloni perché lo considera già morto. E il centrista d'opposizione che, invece, muore dalla voglia di astenersi. La verità è che il Pd per rimuovere le avversità del presente, pensa al futuro. Renzi parla solo del prossimo congresso, delle primarie, delle prossime elezioni. Tant'è che in questa crisi si è solo preoccupato di mandare il messaggio che è lui l'uomo che continua a contare. Ha fatto delle consultazioni parallele. Ha cercato di cambiare nella struttura il meno possibile. E quando è stato stoppato sulla nomina di Lotti ai servizi segreti, si è adoperato per far quadrare il cerchio delle nomine dei suoi. Ha chiesto alla Boschi se voleva stare al partito, al gruppo parlamentare o al governo. E quando quest'ultima ha scelto una poltrona a Palazzo Chigi, ha accontentato il suo desiderio con un laconico «come vuoi tu». Poi, per risarcire Lotti gli ha procurato una poltrona di ministro. Da ieri per lui la pratica del governo Gentiloni è già archiviata, pensa ad altro. E così tutti i suoi. «Il governo? Non andrà oltre giugno», risponde il fido Carboni. Una data di scadenza che neppure una persona prudente come l'ex viceministro dell'Economia, Enrico Morando, nasconde. Anzi, lui già sta pensando alla prossima legislatura. «Si vota prima di quest'estate», è la premessa del suo ragionamento: «Il problema è quello di dare a questo Paese una legge elettorale. Quella migliore potrebbe uscire dalla Consulta da quanto sento in giro: resta il premio di maggioranza al 40%; si cancella il ballottaggio; e vedremo come modificare la norma sui capilista bloccati. Insomma, una legge a impianto proporzionale».

Sembra di sentir parlare il Cav. Gentiloni già non è più nei pensieri di Morando. È il passato. Per cui il suo destino l'attuale premier se lo deve giocare in altri luoghi. Se vuole durare Gentiloni deve affidarsi alla palude, all'istinto di sopravvivenza dei parlamentari. «I miei amici senatori del Pd - confida Franco Carraro, gran conoscitore dei meandri del Palazzo - mi dicono che nel loro gruppo solo quattro sono disposti a fare insieme a Renzi i kamikaze del voto anticipato: Marcucci, Cociancich, Del Barba e Collina». Anche dentro Ncd la linea filorenziana di Alfano stenta a passare. «Angelino - racconta Antonio Gentile, riferimento di metà del gruppo del Senato - è pronto a immolarsi per Renzi, a seguirlo fino alle elezioni anticipate. Noi, invece, non ci suicidiamo per nessuno, tantomeno per Renzi». E anche i verdiniani ormai non lasciano carta bianca al capo. «Se sono d'accordo Denis e Renzi? Io so solo - risponde Antonio Milo - che Renzi ci ha dato una grande inc...». Una constatazione che spinge Domenico Auricchio, un altro napoletano della compagnia, a trasformare un desiderio in una profezia: «'Sta legislatura ha da durà".

Per cui mentre i grillini minacciano l'Aventino per avere le elezioni, i leghisti si schierano davanti a Montecitorio inneggiando alla sovranità popolare, i renziani teorizzano un governo a scadenza, Gentiloni per durare si deve affidare alla benevolenza di una parte dell'opposizione e alla palude. Essendo un uomo di mondo, si dà da fare. Come può. Se Renzi ha sempre avuto un atteggiamento strafottente verso il Senato, lo ha dato per morente fin dal suo primo discorso da premier, Gentiloni ieri mattina si è presentato lui stesso a Palazzo Madama per dare la notizia della soluzione della crisi di governo e si è intrattenuto affabilmente con gli ex morituri diventati redivivi. Ma può bastare? Difficile, anche perché per scongiurare le elezioni questa classe dirigente rischia un pericolo ben più grande, il classico epilogo dalla padella alla brace. «Questo governo è una cagata galattica - riflette il leghista Raffaele Volpi -, ma quelli che più mi sorprendono sono quelli che stanno qua dentro, in Parlamento. Qui senza nessun input dei gruppi dirigenti, la base grillina e quella leghista stanno trovando un minimo comun denominatore: la voglia di elezioni alla faccia dei parlamentari che vogliono solo la pensione. Quel 67% che è andato a votare al referendum, è il dato più eclatante. Un dato su cui tutti gli abitanti di questo Palazzo dovrebbero riflettere».
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ULTIMO ATTO DELLA SECONDA REPUBBLICA



Personalmente ringrazio il Sig. Bollorè, per aver scelto questi giorni per sferrare l’attacco al Biscione con la B.
Il mio è un punto di vista è strettamente egoistico, ma pratico e necessario.

Anche se non risolutiva, la partecipazione di Berlusconi al referendum del 4 dicembre schierato con il NO, è servita a contribuire alla messa in frigorifero del bullo di Rignano.

Le cose vanno male lo stesso, ma è già un sollievo non sentirlo più starnazzare inutilmente a cappero su tutti i mezzi di comunicazione.

Meno male che una parte di italiani seguendo il loro profeta Silvio da Hardcore, si sono schierati per il NO.

Ringrazio Bollorè, perché leggendo i giornali stamani in Biblioteca, a pagina 5 di Libero, leggo:
Silvio ferma gli attacchi al Pd
Il Cav ordina la linea morbida ai falchi del partito: è un’operazione ostile, ci servono coperture politiche.

E’ ritornato quello di sempre.

Se Bollorè avesse sferrato l’attacco al Biscione con la B., solo un mese fa, non sono così sicuro che il risultato del referendum sarebbe stato così clamoroso da disarcionare il Cazzaro nazionale.


In un articolo successivo possiamo ancora leggere:
Commento
Ma la scalata non è un reato
Il libero mercato funziona così

di FAUSTO CARIOTI

Mi sembreva, il l’ex Cav non l’intende così.
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LA REPUBBLICA DEI BROCCHI-ULTIMO ATTO


Il Fatto Quotidiano scrive in prima pagina:
PRIORITA’ Il governo offre lo scudo a Berlusconi contro la scalata francese di Vivendi

Gentiloni atto primo: salvare
Mediaset. Le banche si vedrà


Che tradotto dal politichese del Sor Conte Gentilò, significa:
IO DO’ UNA MANO E TE E TU DAI UNA MANO A ME.
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NELLA REPUBBLICA DEL BUNGA-BUNGA LA MERITOCRAZIA FUNZIONA AL CONTRARIO.

SE FAI CAZZATE TI PROMUOVONO.

QUESTO VALE PER LA MADIA CHE LA CONSULTA GLIA HA CASSATO LA RIFORMA-
.
VALE PER MARIA CLARETTA ETRURIA BOSCHI, CHE GLI ITALIANI HANNO BOCCIATO LA RIFORMA.

ADESSO E' IL TURNO DI DEL(i)RIO





La legge Delrio funzionava solo con il Sì
Le Province rinate preparano ricorsi a pioggia

Nel riordino degli enti locali c’è un comma che lega le modifiche “alla riforma del Titolo V della Carta”
Enti tagliati dal ministro, ma salvati dal No: a rischio 100mila km di strade e 5mila scuole (di A. Tundo)
Politica
E ora viene fuori anche il buco della legge sulle province, detta Delrio, quella che – anticipando la riforma costituzionale di Renzi – le ha trasformate in “enti di secondo livello” abolendo in sostanza le elezioni e incasinando la ripartizione delle competenze tra Regioni ed enti locali. Come vedremo, si attendono nuovi ricorsi ed ennesime bocciature della Consulta. Perché? Perché nella legge qualcuno ha voluto scrivere “in attesa della riforma” e ora la riforma non esiste più
di Marco Palombi

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» Politica
giovedì 15/12/2016



Province, il buco nella legge Delrio. Ora pioveranno ricorsi

Nella norma di riordino degli enti locali c’è un comma che potrebbe creare molti problemi in futuro: “In attesa della riforma del Titolo V della Carta...”

Province, il buco nella legge Delrio. Ora pioveranno ricorsi

di Marco Palombi | 15 dicembre 2016


E ora viene fuori anche il buco della legge sulle province, detta Delrio, quella che – anticipando la riforma costituzionale di Renzi – le ha trasformate in “enti di secondo livello” abolendo in sostanza le elezioni e incasinando la ripartizione delle competenze tra Regioni ed enti locali. Come vedremo, si attendono nuovi ricorsi ed ennesime bocciature della Consulta. Perché? Perché nella legge qualcuno ha voluto scrivere “in attesa della riforma” e ora la riforma non esiste più.

La colpa – al di là dei governi e dei singoli ministri – è di un modello legislativo che in questa legislatura è divenuto una sorta di dogma: siccome le riforme, e s’intende quelle costituzionali, erano una sorta di imperativo categorico imposto dall’ex presidente Giorgio Napolitano al Parlamento, le Camere hanno legiferato a babbo morto, per quando cioè la nuova Costituzione futura sarebbe stata in vigore. Qual è il problema? Non pensare che 19,4 milioni e spicci di italiani possano recarsi ai seggi per dire che la Costituzione cambiata in quel modo non va bene.

È successo con la legge elettorale detta “Italicum”, che l’attuale capo dello Stato Sergio Mattarella ha firmato nonostante entrasse in vigore a scoppio ritardato e non si applicasse al Senato: tanto Renzi aveva abolito le elezioni… Peraltro, valendo per una sola Camera era per ciò stesso incostituzionale – vista la sentenza della Consulta del dicembre 2013 (tra i giudici c’era lo stesso Mattarella) – perché i due rami del Parlamento vanno eletti con legge omogenea. Ora si aspetta solo che la Consulta faccia a pezzi l’Italicum.

Stesso metodo, stesso fallimento pure con la riforma della Pubblica amministrazione: siccome la Costituzione renziana riportava parecchie competenze sotto il controllo del governo centrale, la “legge Madia” delegava l’esecutivo a fare come gli pareva “previo parere” della conferenza Stato-Regioni. La Consulta ha di recente ricordato al governo che, in ogni caso, serve non il “parere” delle Regioni, che poi uno può ignorare, ma “l’intesa” secondo “il principio della leale collaborazione” tra istituzioni dello Stato (Palazzo Chigi, anche se molti lo dimenticano, non è l’unica).

Un destino simile probabilmente attende la riforma delle province, nata quando il renziano Delrio era ministro degli Affari regionali di Enrico Letta e approvata dopo lo #staisereno che tutti ricordano. In sostanza, la legge istituisce le città metropolitane: originariamente 11, ma poi pure Messina, Reggio Calabria e Cagliari si sono aggiunte all’elenco delle metropoli italiane. Nel resto d’Italia – detratte le province di Trento e Bolzano e la Val d’Aosta – ci sono ora 93 “enti di area vasta” non elettivi falcidiati dai tagli nonostante mantengano competenze rilevantissime su scuola, strade e ambiente. Pure il trattamento del personale è stato l’ennesimo episodio tra dilettantismo e arroganza : la metà fa quel che faceva prima, l’altra metà è stata ricollocata in altri gangli dello Stato a caso (dai tribunali alle Regioni alle scuole), più qualche sfigato che è ancora in mobilità e rischia dunque di trovarsi per strada.

Ecco, tutto questa meraviglia e altre ancora sono appese a una piccola frase. La legge Delrio è stata infatti approvata sotto forma di maxi-emendamento con la fiducia: un articolo unico con 151 commi uno dietro l’altro. E al comma 51, dopo aver istituito le città metropolitane, si inizia a riformare le normali province sotto quello che può essere considerato un auspicio con forza di legge: “In attesa della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione e delle relative norme di attuazione, le province sono disciplinate dalla presente legge”. Quest’attesa si fa ora messianica, mentre i problemi delle province – come potete leggere qui accanto – sono urgenti e immediati: nel 2015 la Consulta bocciò i ricorsi di alcune Regioni contro la legge Delrio, chissà se oggi andrebbe alla stessa maniera. Tanto più che c’è quel comma 51, la legislazione nell’attesa.
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Politica

Governo Gentiloni (o Renzi-bis), ma non dovevano andarsene?
di Paolo Farinella | 15 dicembre 2016

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Un aforisma latino descrive la situazione post referendum che è post renziana, che a sua volta, dopo nemmeno 24 ore dalla duplice fiducia, è post Gentiloni, nobile foglia di fico delle vergogne renziste: Quos perdere vult, deus demendat prius (traduco liberamente: Li fa prima impazzire quelli che dio vuole distruggere).

Con un risultato abissale di 20 punti di differenza a favore del No che ha raso al suolo la prosopopea saccente di Renzi, la petulanza della Boschi-Etruria e l’arroganza del Pd renzista (ma fino a quando?), tutti si aspettava che i protagonisti incauti di una riforma impossibile facessero autocritica e mantenessero i giuramenti reiterati in pubblico a telecamere accese e ossequiose: “Se vince il No, lascio/lasciamo non solo il governo, ma addirittura la politica e si torna a casa a fare dell’altro”.

Il timbro finale era in ceralacca rossa: “Non siamo attaccati alle poltrone, io/noi siamo diversi”. Su questa diversità hanno esercitato un ricatto perenne in questi sei mesi sciagurati di campagna referendaria, alla quale è stato sacrificato ogni cosa, anche l’ordinaria amministrazione del governo. Tutto era commisurato alla fatidica data del 4 dicembre, che ha soppiantato anche la profezia dei Maya del 12-12- 2012.

Il 5 dicembre, nonostante il Sì abbia perso alla grande, è sorto il sole e l’apocalisse è stata sospesa, i malati di cancro non guariscono più e le borse del mondo non si sono nemmeno accorti del referendum nell’italietta renziana. La Confindustria dovrebbe pagare i danni per procurato terrorismo economico e il governo avrebbe dovuto scomparire dalla faccia della terra. Invece, come se niente fosse!

Se Renzi non avesse fatto finta di dimettersi e avesse lasciato la direzione del Pd e si fosse ritirato a vita privata, come peraltro aveva giurato e spergiurato spudoratamente, oggi avremmo un’Italia diversa, un governo istituzionale per approntare la legge elettorale e per rimediare ai danni messi in atto da Renzi/Boschi/Lotti che davano per certa la vittoria del Sì.

Non solo, oggi avremmo il rispetto della volontà di un popolo che in massa si è riversato ai seggi per respingere i barbari che con mani impure volevano deturpare le fondamenta della Casa Comune. Nulla! Non ha imparato nulla dalla tremenda batosta e si ostinano a sfidare il popolo che li ha rinnegati. Non sono né intelligente né furbi.

Il governo di Paolo Gentiloni, discendente di Vincenzo Ottorino Gentiloni, conte del Sacro Romano Impero, autore del Patto Gentiloni che all’inizio del sec. XX permise il ritorno dei cattolici in politica e l’alleanza con i liberali di Giolitti, ha un solo scopo: dare tempo a Renzi di smaltire le finte dimissioni, vendute come coerenza istituzionale.

Peccato che i fatti siano di segno opposto. Renzi non si è dimesso, ma accusa il popolo cinico di non aver capito “tutto quello che io ho fatto” e rilancia sfottendo e sfidando: Boschi/Etruria e Lotti Luca sonoramente bocciati sono imposti a cani da guardia del conte del Sacro Romano Impero purché non si azzardi a fare di testa propria. Il ministro Poletti auspica le elezioni non per rispetto al voto popolare, ma per evitare il ventilato referendum contro la legge, detta vezzosamente Jobs Act, meglio conosciuta tra il popolo come “Legge sul licenziamento e la precarietà dei voucher“.

A questo punto il M5S e la Lega possono dormire sonni tranquilli e se sono furbi, non facciano e non dicano nulla, perché in loro favore stanno facendo tutto Renzi, Boschi, Lotti, Fedeli e Finocchiaro e gli spergiuri consimili. Gentiloni ha provvisoriamente rinunciato a Verdini (se lo avessero imbarcato nel governo, sarebbe stato troppo indecente), perché ora c’è Berlusconi a correre in soccorso: in pubblico deve smarcarsi, ma in privato garantisce ogni appoggio, visto quello che sta succedendo.

Ci avevano detto e minacciato che la vittoria del No avrebbe allontanato per sempre gl’investitori stranieri e quindi miseria per tutti. Alcuni giorni dopo il No, arriva in nome di “San Mercato“, uno che, alla luce del sole, scala Mediaset che è sul mercato e il governo grida alla “italianità”, agli stranieri ostili, ma non eravamo in un’Europa senza confini per investitori e finanza e speculatori e merci? I confini non esistevano solo per le persone, per i migranti e i poveri?

Bisogna salvare Berlusconi, anche se il governo non dovrebbe alcuna competenza, essendo un privato quotato in borsa. In cambio è garantito il suo appoggio e non è un caso che Mediaset abbia votato Sì. Ah, le aziende, alla faccia dell’Italia, dell’interesse generale. Cosa non si fa per il bene dell’Italia, a costo di essere spergiuri. Tanto gli Italiani, affetti da amnesia, dimenticano presto.
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Re: Diario della caduta di un regime.

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GHE SEM!!!! - CI SIAMO NELLA MIA LINGUA E QUELLA DI SILVIETTO


MARRA ARRESTATO A ROMA - SALA AUTOSOSPESO A MILANO - GIUDICATE VOI LA SITUAZIONE IN CUI CI TROVIAMO.







IlFattoQuotidiano.it / Giustizia & Impunità


Expo, il sindaco Giuseppe Sala indagato per falso: “Non ho idea delle accuse, ma mi autosospendo”


Giustizia & Impunità


L'inchiesta riguarda la realizzazione della Piastra di Expo 2015, l’infrastruttura più costosa realizzata nel sito di Rho Pero dalla ditta Mantovani. La notizia emerge dalla richiesta di proroga inviata dal sostituto pg che ha chiesto altri sei mesi di tempo per approfondire la vicenda, dopo aver avocato a sé l’indagine. La Procura, al contrario, puntava sull'archiviazione ma il gip si è opposto

di F. Q. | 16 dicembre 2016

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Più informazioni su: Expo 2015, Milano, Procura di Milano


“Apprendo da fonti giornalistiche che sarei iscritto nel registro degli indagati nell’ambito dell’inchiesta sulla piastra Expo. Pur non avendo la benché minima idea delle ipotesi investigative, ho deciso di autosospendermi dalla carica di Sindaco, determinazione che formalizzerò domani mattina nelle mani del Prefetto di Milano“. A parlare è il sindaco di Milano Giuseppe Sala , che ha deciso di autosospendersi dall’incarico di primo cittadino. Il motivo: è stato iscritto nel registro degli indagati dalla procura generale del capoluogo lombardo nell’ambito dell’inchiesta per corruzione e turbativa d’asta riguardo all’appalto per la Piastra di Expo, l’infrastruttura più costosa realizzata nel sito di Rho Pero dalla ditta Mantovani. L’ipotesi di reato a carico del primo cittadino sono falso materiale e concorso in falso ideologico. Tra gli indagati anche il legale rappresentante del gruppo Pizzarotti di Parma: per lui l’accusa è di tentata turbativa d’asta. La notizia emerge dalla richiesta di proroga delle indagini inviata dal sostituto procuratore generale Felice Isnardi, che ha chiesto altri sei mesi di tempo per approfondire la vicenda, dopo aver avocato a sé l’inchiesta. La Procura, al contrario, puntava sull’archiviazione ma il gip Andrea Ghinetti si è opposto.


Gli investigatori del Nucleo di polizia tributaria, del resto, dopo che la Procura aveva iscritto nel registro degli indagati i primi nomi, avevano scritto tra le altre cose che anche l’allora amministratore delegato di Expo Giuseppe Sala, il responsabile unico all’epoca del procedimento Carlo Chiesa e l’allora general manager Paris non avrebbero tenuto un comportamento “irreprensibile e lineare”. Pur “con gradi di responsabilità diversi – chiariva la Gdf – attraverso le loro condotte fattive ed omissive hanno comunque contribuito a concretizzare la strategia volta a danneggiare indebitamente la Mantovani (impresa che vinse l’appalto con un ribasso di oltre il 40%, ndr) per tutelare e garantire, si ritiene, più che la società Expo 2015 Spa il loro personale ruolo all’interno della stessa”. Sala, poi, come ha messo a verbale l’ex dg di Infrastrutture Lombarde spa Antonio Rognoni, avrebbe detto al manager che “non avevano tempo per potere” verificare la congruità dei “prezzi che erano stati stabiliti da Mantovani” nel corso dell’esecuzione del contratto con l’inserimento di costi aggiuntivi, e “per verificare se l’offerta era anomala o meno”.


L’inchiesta condotta dai pm Paolo Filippini, Roberto Pellicano e Giovanni Polizzi, poi avocata dalla procura generale di Milano, del resto riguarda l’assegnazione alla società Mantovani di un appalto per la realizzazione della Piastra dell’area di Rho Pero, dove si è svolta l’esposizione universale. La base d’asta era di 272 milioni di euro e la Mantovani si era aggiudicata la gara con un ribasso del 42% per 149 milioni di euro. Gli indagati per corruzione e turbativa d’asta noti fino a ora sono cinque: Piergiorgio Baita (presidente della società Mantovani, già arrestato a Venezia per il Mose), due ex manager Expo già arrestati per altre vicende, Angelo Paris e Antonio Acerbo, e gli imprenditori della società Socostramo, Erasmo e Ottaviano Cinque.

Data la mole del materiale raccolto e gli approfondimenti che devono essere ancora effettuati, il sostituto pg Felice Isnardi ha deciso di chiedere che gli vengano concessi altri sei mesi per indagare. Il gip Andrea Ghinetti, a fine ottobre, non avendo accolto la richiesta di archiviazione presentata dalla Procura, aveva convocato le parti per la discussione della vicenda per poi decidere se archiviare o chiedere un supplemento di indagine o ordinare l’imputazione coatta. Nel frattempo, però, la Procura generale ha avocato il fascicolo e ha ottenuto un mese di tempo per nuove indagini, termine poi scaduto. Da qui la richiesta di proroga. Il fascicolo era stato al centro dello scontro tra l’ormai ex procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati e l’ex aggiunto Alfredo Robledo, il quale, su decisione del primo, nel 2014 era stato di fatto estromesso dagli interrogatori ‘centrali’ dell’inchiesta. L’indagine sull’appalto più rilevante di Expo, vinto dalla Mantovani grazie ad un ribasso del 42% su una base d’asta di 272 milioni di euro, era partita nel 2012.
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ROMANZO CRIMINALE



Ilva, beffati i bambini malati Fermi i 50 milioni promessi

I soldi tagliati nella manovra dovevano rientrare il 12 dicembre. Ma il cambio di governo ha bloccato tutto

Giuseppe Marino - Ven, 16/12/2016 - 08:48

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Il referendum è finito in archivio con le sue polemiche insieme al vecchio governo, quello nuovo ha giurato ed è in carica, ma non c'è ancora neppure una scadenza certa per mantenere la promessa di restituire ai bambini malati di Taranto lo stanziamento cancellato in Parlamento.

Eppure, appena scoppiate le polemiche per il taglio dei 50 milioni destinati a cura e prevenzione degli effetti dell'inquinamento dell'Ilva, l'allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Claudio De Vincenti aveva bollato quelle critiche come strumentali e aveva promesso che si sarebbe posto rimedio in fretta: «Ciò di cui Taranto e i suoi cittadini hanno bisogno sarà valutato, attentamente come sempre, al Tavolo istituzionale del 12 dicembre. E quanto necessario sarà messo». Nel frattempo però c'è stato il voto referendario con le conseguenti dimissioni di Renzi. E il 12 dicembre a Taranto non si è visto nessuno. L'annuncio è arrivato al sindaco di Taranto Ezio Stefano attraverso una telefonata di De Vincenti in cui si annunciava che il tavolo saltava «per garbo istituzionale» verso il nuovo governo in quei giorni ancora in gestazione. Il sottosegretario prometteva comunque di trasmettere «un rapporto con le iniziative avviate e quelle in itinere in modo da impegnare il nuovo governo». Sforzo che sarà risultato minimo, perché De Vincenti avrà trasmesso l'incartamento a se stesso, avendo ricevuto, nel nuovo governo, l'incarico di ministro per il Sud. Eppure non ci sono ancora certezze sul rispetto della famosa promessa. Forse perché il nuovo dicastero cammina su gambe decisamente fragili. «Bisogna vedere che deleghe avrà, non vorrei che finisse per essere un ministero per i convegni sul Sud», ironizza Francesco Boccia, il presidente della Commissione bilancio della Camera protagonista di un'aspra polemica con Renzi e De Vincenti sui fondi per Taranto. Il riferimento di Boccia è chiaro: il povero De Vincenti, già inviato da Renzi a cancellare lo stanziamento per Taranto per punire il dissidente governatore della Puglia Michele Emiliano, è ora alla guida di un ministero per il Sud che non controlla i fondi per il Sud. La delega per il Cipe, il Comitato interministeriale che gestisce il rubinetto dei fondi europei, cioè il grosso dei soldi per il Mezzogiorno, è in mano al ministro dello Sport, ovvero a Luca Lotti. Segno che Renzi lo considera leva elettorale strategica. L'ex premier ha ben presenti i flussi dei voti per il referendum: a Napoli e Palermo più del 40 per cento degli elettori del Pd ha scelto il No, secondo le analisi dell'Istituto Cattaneo. A Taranto quasi il 70 per cento dei votanti ha preferito la Renxit.

Toccherà a Lotti dunque cercare di recuperare consenso. Ma le premesse non sono rosee. «I vincoli europei sul pareggio di bilancio nel 2019 -spiega Andrea Del Monaco, esperto di fondi europei- ci costringono a rinviare l'effettiva erogazione di 35 miliardi di euro del Fondo Sviluppo e Coesione, su 46 stanziati, a dopo il 2020. Per l'80% erano soldi per il Sud». Sui 50 milioni dell'Ilva, che non dipendono da fondi europei, c'è speranza? «Tutti i gruppi parlamentari hanno preso un impegno», dice Boccia. C'è in ballo il Milleproroghe. Ma più probabilmente servirà un decreto omnibus. Fatto apposta per turare le tante falle della legge di Bilancio renziana.
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