La Terza Guerra Mondiale
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Re: La Terza Guerra Mondiale
A pensare male degli altri si fa peccato, ma spesso si indovina
Giulio Andreotti
Erdogan trama in medio Oriente con il nemico Putin.
A Putin si abbatte un aereo il giorno di Natale, ed a Erdogan si fa una strage all'ultimo dell'anno.
Amico avvisato, mezzo salvato
Giulio Andreotti
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A Putin si abbatte un aereo il giorno di Natale, ed a Erdogan si fa una strage all'ultimo dell'anno.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Istanbul, l’Isis rivendica. Terrorista in fuga
Jihadisti e curdi, assedio al regno di Erdogan
Strage di Capodanno al Reina, 39 morti, salvi italiani (leggi). Il Califfato: “Colpita la discoteca dei cristiani”
INTELLIGENCE TURCA INDEBOLITA DALLE PURGHE POST GOLPE: VIA IL 38% DEI GENERALI (di A. Chiriatti)
Mondo
Il 2016 si era aperto per la Turchia con l’attentato a Sultanahmet, nel cuore storico della città. Non era stato certo un fulmine a ciel sereno. Tuttavia il 12 gennaio, mentre un vento gelido spazzava la città ferita, sarebbe stato difficile immaginare quello che sarebbe accaduto nei mesi successivi. Istanbul sarebbe stata colpita ripetutamente, come Ankara del resto, da diversi gruppi terroristi. Strage al Reina, arriva la rivendicazione dello Stato islamico mentre continua la caccia all’attentatore di Capodanno (leggi)
di Marco Barbonaglia
Jihadisti e curdi, assedio al regno di Erdogan
Strage di Capodanno al Reina, 39 morti, salvi italiani (leggi). Il Califfato: “Colpita la discoteca dei cristiani”
INTELLIGENCE TURCA INDEBOLITA DALLE PURGHE POST GOLPE: VIA IL 38% DEI GENERALI (di A. Chiriatti)
Mondo
Il 2016 si era aperto per la Turchia con l’attentato a Sultanahmet, nel cuore storico della città. Non era stato certo un fulmine a ciel sereno. Tuttavia il 12 gennaio, mentre un vento gelido spazzava la città ferita, sarebbe stato difficile immaginare quello che sarebbe accaduto nei mesi successivi. Istanbul sarebbe stata colpita ripetutamente, come Ankara del resto, da diversi gruppi terroristi. Strage al Reina, arriva la rivendicazione dello Stato islamico mentre continua la caccia all’attentatore di Capodanno (leggi)
di Marco Barbonaglia
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Re: La Terza Guerra Mondiale
SI SCRIVE OBAMA MA SI LEGGE ELITE.
LIBRE news
Tank sul fronte russo, comincia l’ultima guerra di Obama
Scritto il 05/1/17 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
La notizia ha dell’incredibile, ma è vera: per la stampa tedesca, stiamo assistendo alla più grande operazione di riposizionamento dell’esercito Usa in Germania dal 1990. «Più di 2.000 carri armati, obici, jeep e automezzi stanno per essere impiegati nelle esercitazioni Nato nell’Europa dell’Est che dureranno nove mesi», scrive Johannes Stern. Lo stato maggiore della Bundeswehr conferma: colossale dislocazione di forse Usa e Nato in Polonia e negli Stati baltici, proprio mentre Obama tenta – anche con la “guerra delle spie” – di incendiare la frontiera orientale, alla vigilia dell’insediamento di Donald Trump, ostacolato in ogni modo. La situazione starebbe precipitando, dopo l’impegno della Russia per la liberazione di Aleppo, a lungo ostaggio di milizie “Isis” capeggiate da leader del Caucaso e dai combattenti di Al-Nusra, altrimenti detta “Al-Qaeda in Siria”, formazione creata, protetta e armata dall’intelligence occidentale. Persa la Siria, ora si enfatizza l’operazione “Atlantic Resolve”, spettacolare (e pericolosa) provocazione alle frontiere con la Russia, cui Obama non perdona l’aver reagito al golpe americano in Ucraina mantenendo il controllo della Crimea.
A scandire le news, nei primissimi giorni del 2017, sono le fonti delle forze armate tedesche, racconta Stern in un articolo su “Wsws” ripreso da “Come Don Chisciotte”: oltre 2.500 mezzi militari Usa hanno appena raggiunto la Germania «per essere trasportati in Polonia ed in altri paesi dell’Europa Centrale e dell’Est». Il materiale deve «arrivare nel periodo compreso fra il 6 e l’8 gennaio a Bremerhaven via mare e quindi essere trasferito in Polonia per via ferroviaria e convogli militari a partire approssimativamente dal 20 gennaio», cioè il giorno in cui dovrebbe finalmente installarsi Trump alla Casa Bianca. Sempre secondo comunicati diffusi dall’esercito statunitense in Europa, continua Stern, altri 4.000 militari e 2.000 carri armati «contribuiranno a rafforzare la forza di dissuasione e difesa dell’alleanza». Il colonnello Todd Bertulis dell’Eucom, il comando Usa in Europa di stanza a Stoccarda, ha affermato che l’operazione assicurerà che «la potenza di fuoco necessaria verrà schierata in Europa nel posto giusto al momento giusto». E il generale Frederick “Ben” Hodges, comandante delle forze americane in Europa, aggiunge: «E’ una risposta all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ed alla sua illegale annessione della Crimea».
Il che è palesemente falso, ricorda Johannes Stern: «In Ucraina non è la Russia l’aggressore, ma lo sono Usa e Nato», dal momento che «Washington e Berlino, in stretta collaborazione con le forze fasciste, hanno organizzato un colpo di Stato contro il presidente filorusso, Viktor Yanukovych, agli inizi del 2014, insediando a Kiev un regime nazionalista, fanaticamente antirusso». Mossa che «ha fatto esplodere la ribellione separatista da parte delle regioni russofone nella parte orientale del paese». Una rivolta che Mosca ha sostenuto, e che il governo di Kiev, sorretto dalle armi e dai soldi occidentali, ha tentato senza successo di reprimere con la forza. «Quanto successo in Ucraina è stato sfruttato dagli Usa, dall’Unione Europea e dalla Nato per imporre sanzioni economiche e diplomatiche alla Russia ed espandere drammaticamente le forze militari della Nato lungo il suo confine occidentale». E ora, «volendo giocare d’anticipo rispetto al 20 gennaio, inizio del mandato del nuovo presidente eletto Usa Donald Trump», che ha chiesto di abbassare il livello della tensione con la Russia, «forze contrarie all’interno dell’intelligence militare Usa e dell’establishment politico stanno cercando un’escalation nel confronto con Mosca».
Ad aprire il fuoco è lo stesso generale Hodges, secondo cui la Russia si starebbe «preparando per la guerra», con «ministeri già mobilitati». Nulla di inevitabile, per ora, «ma Mosca si sta preparando per questa evenienza». Lo spiegamento delle truppe da combattimento Usa, osserva Stern, fa parte della preparazione della Nato per una possibile guerra contro la Russia, «il culmine di una continua espansione della Nato verso est», in aperta violazione degli storici accordi conclusi con Gorbaciov in cambio del ritiro dell’Urss dall’Est Europa. Evidente l’altra guerra, sotterranea, in corso a Washington: mentre Trump scoraggia il futuro della Nato in chiave anti-russa, il senatore John McCain (fotografato tempo fa in Siria con il “Califfo” Abu-Bark Al-Baghdadi) ha appena visitato gli Stati Baltici per rassicurarli sul fatto che il supporto degli Stati Uniti continuerà. In un’intervista alla radio dell’Estonia, McCain ha chiesto un ulteriore rafforzamento delle forze Nato contro la Russia. E ha dichiarato che ogni «membro credibile» del Congresso americano vede il presidente russo Vladimir Putin «per quello che è», ovvero «un delinquente, un prepotente e un agente del Kgb».
Nella pericolosa escalation nei confronti della potenza nucleare Russia, che pone le premesse per una Terza Guerra Mondiale, la Bundeswehr ha un ruolo centrale, osserva Stern: «Senza il supporto delle forze armate tedesche non possiamo andare da nessuna parte», ha affermato il generale Hodges. E il generale Peter Bohrer, vicecapo del Joint Support Service, è d’accordo: «In passato la Germania era uno Stato di frontiera, oggi siamo una zona di transito ed uno dei compiti-chiave è fornire un comune supporto». Aggiunge Stern, con un occhio alla storia: «La Germania, che avanzò sull’Europa dell’Est nella sua guerra di sterminio 75 anni fa, si prepara a mandare truppe da combattimento nei paesi baltici». In un’intervista al giornale militare “Bundeswehr Aktuell”, il generale Volker Wieker ha confermato che la Germania ha concordato con Stati Uniti, Canada e Gran Bretagna al summit della Nato tenutosi a Varsavia di «prendere il comando con chi formasse un gruppo di battaglia». Si conta di «acquisire la cosiddetta “capacità operativa completa” per la metà dell’anno”». Un video riportato dal “Frankfurter Allgemeine Zeitung” mostra le manovre di un battaglione tedesco a Grafenwöhr, contro «un attacco nemico al confine russo-lituano». Ancora pochi giorni, per capire se Trump – qualora riuscisse a insediarsi davvero nello Studio Ovale – spegnerà rapidamente l’incendio.
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Tank sul fronte russo, comincia l’ultima guerra di Obama
Scritto il 05/1/17 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
La notizia ha dell’incredibile, ma è vera: per la stampa tedesca, stiamo assistendo alla più grande operazione di riposizionamento dell’esercito Usa in Germania dal 1990. «Più di 2.000 carri armati, obici, jeep e automezzi stanno per essere impiegati nelle esercitazioni Nato nell’Europa dell’Est che dureranno nove mesi», scrive Johannes Stern. Lo stato maggiore della Bundeswehr conferma: colossale dislocazione di forse Usa e Nato in Polonia e negli Stati baltici, proprio mentre Obama tenta – anche con la “guerra delle spie” – di incendiare la frontiera orientale, alla vigilia dell’insediamento di Donald Trump, ostacolato in ogni modo. La situazione starebbe precipitando, dopo l’impegno della Russia per la liberazione di Aleppo, a lungo ostaggio di milizie “Isis” capeggiate da leader del Caucaso e dai combattenti di Al-Nusra, altrimenti detta “Al-Qaeda in Siria”, formazione creata, protetta e armata dall’intelligence occidentale. Persa la Siria, ora si enfatizza l’operazione “Atlantic Resolve”, spettacolare (e pericolosa) provocazione alle frontiere con la Russia, cui Obama non perdona l’aver reagito al golpe americano in Ucraina mantenendo il controllo della Crimea.
A scandire le news, nei primissimi giorni del 2017, sono le fonti delle forze armate tedesche, racconta Stern in un articolo su “Wsws” ripreso da “Come Don Chisciotte”: oltre 2.500 mezzi militari Usa hanno appena raggiunto la Germania «per essere trasportati in Polonia ed in altri paesi dell’Europa Centrale e dell’Est». Il materiale deve «arrivare nel periodo compreso fra il 6 e l’8 gennaio a Bremerhaven via mare e quindi essere trasferito in Polonia per via ferroviaria e convogli militari a partire approssimativamente dal 20 gennaio», cioè il giorno in cui dovrebbe finalmente installarsi Trump alla Casa Bianca. Sempre secondo comunicati diffusi dall’esercito statunitense in Europa, continua Stern, altri 4.000 militari e 2.000 carri armati «contribuiranno a rafforzare la forza di dissuasione e difesa dell’alleanza». Il colonnello Todd Bertulis dell’Eucom, il comando Usa in Europa di stanza a Stoccarda, ha affermato che l’operazione assicurerà che «la potenza di fuoco necessaria verrà schierata in Europa nel posto giusto al momento giusto». E il generale Frederick “Ben” Hodges, comandante delle forze americane in Europa, aggiunge: «E’ una risposta all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ed alla sua illegale annessione della Crimea».
Il che è palesemente falso, ricorda Johannes Stern: «In Ucraina non è la Russia l’aggressore, ma lo sono Usa e Nato», dal momento che «Washington e Berlino, in stretta collaborazione con le forze fasciste, hanno organizzato un colpo di Stato contro il presidente filorusso, Viktor Yanukovych, agli inizi del 2014, insediando a Kiev un regime nazionalista, fanaticamente antirusso». Mossa che «ha fatto esplodere la ribellione separatista da parte delle regioni russofone nella parte orientale del paese». Una rivolta che Mosca ha sostenuto, e che il governo di Kiev, sorretto dalle armi e dai soldi occidentali, ha tentato senza successo di reprimere con la forza. «Quanto successo in Ucraina è stato sfruttato dagli Usa, dall’Unione Europea e dalla Nato per imporre sanzioni economiche e diplomatiche alla Russia ed espandere drammaticamente le forze militari della Nato lungo il suo confine occidentale». E ora, «volendo giocare d’anticipo rispetto al 20 gennaio, inizio del mandato del nuovo presidente eletto Usa Donald Trump», che ha chiesto di abbassare il livello della tensione con la Russia, «forze contrarie all’interno dell’intelligence militare Usa e dell’establishment politico stanno cercando un’escalation nel confronto con Mosca».
Ad aprire il fuoco è lo stesso generale Hodges, secondo cui la Russia si starebbe «preparando per la guerra», con «ministeri già mobilitati». Nulla di inevitabile, per ora, «ma Mosca si sta preparando per questa evenienza». Lo spiegamento delle truppe da combattimento Usa, osserva Stern, fa parte della preparazione della Nato per una possibile guerra contro la Russia, «il culmine di una continua espansione della Nato verso est», in aperta violazione degli storici accordi conclusi con Gorbaciov in cambio del ritiro dell’Urss dall’Est Europa. Evidente l’altra guerra, sotterranea, in corso a Washington: mentre Trump scoraggia il futuro della Nato in chiave anti-russa, il senatore John McCain (fotografato tempo fa in Siria con il “Califfo” Abu-Bark Al-Baghdadi) ha appena visitato gli Stati Baltici per rassicurarli sul fatto che il supporto degli Stati Uniti continuerà. In un’intervista alla radio dell’Estonia, McCain ha chiesto un ulteriore rafforzamento delle forze Nato contro la Russia. E ha dichiarato che ogni «membro credibile» del Congresso americano vede il presidente russo Vladimir Putin «per quello che è», ovvero «un delinquente, un prepotente e un agente del Kgb».
Nella pericolosa escalation nei confronti della potenza nucleare Russia, che pone le premesse per una Terza Guerra Mondiale, la Bundeswehr ha un ruolo centrale, osserva Stern: «Senza il supporto delle forze armate tedesche non possiamo andare da nessuna parte», ha affermato il generale Hodges. E il generale Peter Bohrer, vicecapo del Joint Support Service, è d’accordo: «In passato la Germania era uno Stato di frontiera, oggi siamo una zona di transito ed uno dei compiti-chiave è fornire un comune supporto». Aggiunge Stern, con un occhio alla storia: «La Germania, che avanzò sull’Europa dell’Est nella sua guerra di sterminio 75 anni fa, si prepara a mandare truppe da combattimento nei paesi baltici». In un’intervista al giornale militare “Bundeswehr Aktuell”, il generale Volker Wieker ha confermato che la Germania ha concordato con Stati Uniti, Canada e Gran Bretagna al summit della Nato tenutosi a Varsavia di «prendere il comando con chi formasse un gruppo di battaglia». Si conta di «acquisire la cosiddetta “capacità operativa completa” per la metà dell’anno”». Un video riportato dal “Frankfurter Allgemeine Zeitung” mostra le manovre di un battaglione tedesco a Grafenwöhr, contro «un attacco nemico al confine russo-lituano». Ancora pochi giorni, per capire se Trump – qualora riuscisse a insediarsi davvero nello Studio Ovale – spegnerà rapidamente l’incendio.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
In occasione dell’eliminazione delle due figlie di 7 e 9 anni con la candeggina, a Gela, la scorsa settimana, da parte della madre, ho chiesto ad un’amico super cattolico, di 70 anni, con istruzione di scuola superiore, è un ingegnere, il significato del senso della vita.
La risposta è stata:
“Questa è una vita in preparazione della vera vita, cioè quella dopo la morte”
La risposta non mi ha soddisfatto in quanto non capisco comunque il senso della vita di queste due bimbe, tra l’altro soppresse con un metodo atroce che non impiegavano neppure i nazisti del Terzo Reich.
Adesso il quesito si ripresenta osservando la fotografia del bimbo di 16 mesi, morto come Alan Kurdi nel settembre scorso.
La domanda quindi, la rivolgo ai cattolici del forum:
Che senso ha la vita??? Ma soprattutto in questo caso, che significato possono avere queste vite cosi brevi, stroncate per volontà dell’uomo???
Birmania, il bimbo Rohingya morto “come Alan” diventa simbolo del genocidio nel Paese di Aung San Suu Kyi
di F. Q. | 5 gennaio 2017
Vedi foto in:
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/01 ... i/3297114/
Mondo
E' annegato nel fiume Naf mentre con la famiglia cercava di fuggire in Bangladesh per salvarsi dalla violenza dei militari. A raccontare la sua storia è stato il padre alla Cnn. La sua fine è simile a quella del piccolo siriano morto sulla spiaggia turca dopo un naufragio. Secondo l'Onu nel paese si sta compiendo una pulizia etnica che macchia l'immagine della giovane democrazia e la stessa leader, vincitrice del Nobel per la pace
di F. Q. | 5 gennaio 2017
•
Più informazioni su: Aung San Suu Kyi, Birmania, Diritti Umani, Genocidio
Seminudo. Con la faccia immersa nel fango. Ha solo 16 mesi, ma è già morto. Come lo era Alan Kurdi, il bambino siriano annegato in un naufragio nel settembre del 2015 durante la traversata verso la Grecia, che le onde hanno riportato sulla spiaggia turca da cui era partito. L’immagine di Aylan commosse il mondo e divenne simbolo della tragedia dell’immigrazione. Qui invece siamo in Birmania e questa foto potrebbe diventare l’icona di una guerra sconosciuta. Il piccolo, infatti, era di etnia Rohingya, la minoranza musulmana perseguitata dai militari birmani. Il governo, però, di cui Aung San Suu Kyi, politica nota per il suo impegno per i diritti umani e Nobel per la pace nel 1991, è Consigliere di Stato, ministro degli Esteri e ministro dell’Ufficio del Presidente, continua a negare il genocidio.
Il bambino, scrive la Cnn, si chiamava Mohammed Shohayet, è annegato insieme a mamma, fratellino di tre anni e zio mentre, sotto al fuoco dei militari, la sua famiglia tentava la traversata del fiume Naf, confine fra lo stato di Rakhine, in Birmania, e il Bangladesh, verso il quale stavano fuggendo. “Quando vedo questa foto, sento che vorrei morire. Non ha più senso per me vivere in questo mondo”, ha raccontato alla Cnn il giovane padre del bimbo, Zafor Alam, che racconta la sua storia: “Nel nostro villaggio gli elicotteri ci hanno sparato contro e poi i soldati birmani ci hanno sparato contro. Non potevamo restare nella nostra casa. Siamo dovuti scappare e nasconderci nella giungla. Ma mio nonno e mia nonna sono stati bruciati vivi. Il nostro villaggio è stato incendiato dai militari. Non è rimasto nulla”.
Quel massacro era solo l’inizio: “Ho camminato per sei giorni. Non ho potuto mangiare neanche riso per quattro giorni. Non ho potuto dormire per sei giorni. Dovevamo cambiare posto continuamente perché i soldati cercavano i Rohingya”. Poi il fiume: lui l’attraversa a nuoto per cercare aiuto, viene soccorso da un pescatore bengalese, insieme al quale va alla ricerca della sua famiglia. Chiama sul cellulare la moglie, e sente il piccolo che chiama il papà (Abba! Abba!). Dice alla moglie di aspettare, ma i militari birmani, nel frattempo, hanno iniziato a sparare sui fuggitivi. Il pescatore raccoglie più persone possibili. Troppe, e affonda. Alam non sa più nulla della famiglia, fino a quando qualcuno che lui conosce gli dice di aver visto e fotografato suo figlio: morto.
Secondo stime dell’Oim, l’agenzia Onu per le migrazioni, negli ultimi mesi 34.000 Rohingya sono fuggiti in Bangladesh attraverso il fiume Naf. Musulmani, di lingua affine al bengalese, sono circa un milione e vivono nello stato birmano occidentale di Rakhine. Le organizzazioni umanitarie denunciano la loro privazione di ogni diritto e la grande maggioranza dei birmani li considera immigrati provenienti dal Bangladesh illegalmente insediatisi in Birmania. In autunno è iniziata un’operazione militare che si configura come vera e propria pulizia etnica, secondo una recente ammissione dell’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati. Una macchia che pesa sulla giovanissima democrazia birmana, dove i militari sono sospettati di comandare ancora, anche se dietro le quinte. Una macchia che finisce per ledere anche l’immagine di Aung San Suu Kyi, capo ‘de facto’ del governo, che sulla vicenda è rimasta in silenzio.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/01 ... i/3297114/
La risposta è stata:
“Questa è una vita in preparazione della vera vita, cioè quella dopo la morte”
La risposta non mi ha soddisfatto in quanto non capisco comunque il senso della vita di queste due bimbe, tra l’altro soppresse con un metodo atroce che non impiegavano neppure i nazisti del Terzo Reich.
Adesso il quesito si ripresenta osservando la fotografia del bimbo di 16 mesi, morto come Alan Kurdi nel settembre scorso.
La domanda quindi, la rivolgo ai cattolici del forum:
Che senso ha la vita??? Ma soprattutto in questo caso, che significato possono avere queste vite cosi brevi, stroncate per volontà dell’uomo???
Birmania, il bimbo Rohingya morto “come Alan” diventa simbolo del genocidio nel Paese di Aung San Suu Kyi
di F. Q. | 5 gennaio 2017
Vedi foto in:
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/01 ... i/3297114/
Mondo
E' annegato nel fiume Naf mentre con la famiglia cercava di fuggire in Bangladesh per salvarsi dalla violenza dei militari. A raccontare la sua storia è stato il padre alla Cnn. La sua fine è simile a quella del piccolo siriano morto sulla spiaggia turca dopo un naufragio. Secondo l'Onu nel paese si sta compiendo una pulizia etnica che macchia l'immagine della giovane democrazia e la stessa leader, vincitrice del Nobel per la pace
di F. Q. | 5 gennaio 2017
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Più informazioni su: Aung San Suu Kyi, Birmania, Diritti Umani, Genocidio
Seminudo. Con la faccia immersa nel fango. Ha solo 16 mesi, ma è già morto. Come lo era Alan Kurdi, il bambino siriano annegato in un naufragio nel settembre del 2015 durante la traversata verso la Grecia, che le onde hanno riportato sulla spiaggia turca da cui era partito. L’immagine di Aylan commosse il mondo e divenne simbolo della tragedia dell’immigrazione. Qui invece siamo in Birmania e questa foto potrebbe diventare l’icona di una guerra sconosciuta. Il piccolo, infatti, era di etnia Rohingya, la minoranza musulmana perseguitata dai militari birmani. Il governo, però, di cui Aung San Suu Kyi, politica nota per il suo impegno per i diritti umani e Nobel per la pace nel 1991, è Consigliere di Stato, ministro degli Esteri e ministro dell’Ufficio del Presidente, continua a negare il genocidio.
Il bambino, scrive la Cnn, si chiamava Mohammed Shohayet, è annegato insieme a mamma, fratellino di tre anni e zio mentre, sotto al fuoco dei militari, la sua famiglia tentava la traversata del fiume Naf, confine fra lo stato di Rakhine, in Birmania, e il Bangladesh, verso il quale stavano fuggendo. “Quando vedo questa foto, sento che vorrei morire. Non ha più senso per me vivere in questo mondo”, ha raccontato alla Cnn il giovane padre del bimbo, Zafor Alam, che racconta la sua storia: “Nel nostro villaggio gli elicotteri ci hanno sparato contro e poi i soldati birmani ci hanno sparato contro. Non potevamo restare nella nostra casa. Siamo dovuti scappare e nasconderci nella giungla. Ma mio nonno e mia nonna sono stati bruciati vivi. Il nostro villaggio è stato incendiato dai militari. Non è rimasto nulla”.
Quel massacro era solo l’inizio: “Ho camminato per sei giorni. Non ho potuto mangiare neanche riso per quattro giorni. Non ho potuto dormire per sei giorni. Dovevamo cambiare posto continuamente perché i soldati cercavano i Rohingya”. Poi il fiume: lui l’attraversa a nuoto per cercare aiuto, viene soccorso da un pescatore bengalese, insieme al quale va alla ricerca della sua famiglia. Chiama sul cellulare la moglie, e sente il piccolo che chiama il papà (Abba! Abba!). Dice alla moglie di aspettare, ma i militari birmani, nel frattempo, hanno iniziato a sparare sui fuggitivi. Il pescatore raccoglie più persone possibili. Troppe, e affonda. Alam non sa più nulla della famiglia, fino a quando qualcuno che lui conosce gli dice di aver visto e fotografato suo figlio: morto.
Secondo stime dell’Oim, l’agenzia Onu per le migrazioni, negli ultimi mesi 34.000 Rohingya sono fuggiti in Bangladesh attraverso il fiume Naf. Musulmani, di lingua affine al bengalese, sono circa un milione e vivono nello stato birmano occidentale di Rakhine. Le organizzazioni umanitarie denunciano la loro privazione di ogni diritto e la grande maggioranza dei birmani li considera immigrati provenienti dal Bangladesh illegalmente insediatisi in Birmania. In autunno è iniziata un’operazione militare che si configura come vera e propria pulizia etnica, secondo una recente ammissione dell’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati. Una macchia che pesa sulla giovanissima democrazia birmana, dove i militari sono sospettati di comandare ancora, anche se dietro le quinte. Una macchia che finisce per ledere anche l’immagine di Aung San Suu Kyi, capo ‘de facto’ del governo, che sulla vicenda è rimasta in silenzio.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/01 ... i/3297114/
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Re: La Terza Guerra Mondiale
4 ore fa
687
Esplode autobomba a Smirne
"Quattro morti e undici feriti"
Lucio Di Marzo
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Lucio Di Marzo
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Re: La Terza Guerra Mondiale
A QUALE RAZZA DI ANIMALI APPARTENIAMO??????
http://www.lastampa.it/2017/01/05/ester ... agina.html
In Birmania un altro Aylan, bimbo Rohingya morto annegato
Mohammed Shohayet, 16 mesi, perde la vita durante la fuga verso il Bangladesh. La sua minoranza di religione musulmana vittima di un massacro dimenticato
Mohammed Shohayet è morto a 16 mesi insieme alla madre e al fratellino nel tentativo di attraversare il fiume Naf per fuggire in Bangladesh dalla Birmania
Pubblicato il 05/01/2017
filippo femia
Il corpicino riverso, la faccia affondata nel fango. Il cadavere di un bimbo giace lungo la sponda del fiume Naf. È morto affogato con il fratellino e la madre. Mohammed Shohayet, 16 mesi, stava scappando dal pogrom di cui il suo popolo, i Rohingya, è vittima in Birmania. La barca su cui viaggiava verso il Bangladesh è affondata lo scorso dicembre, mentre i soldati sparavano sui fuggitivi.
L’immagine choc riporta la mente all’estate del 2015. Turchia, spiaggia di Bodrum. Una giornalista fotografa un bimbo senza vita sul bagnasciuga, le braccia stese dalla risacca. La posizione di Aylan Kurdi, tre anni, è la stessa di Mohammed. Anche lui è morto insieme al fratellino e alla madre, scappati dalla Siria inseguendo il sogno europeo. Solo il padre sopravvive. Come nel caso di Mohammed: «La mia vita non ha più senso. Preferirei essere morto», ha detto alla Cnn dal campo profughi del Bangladesh dove si trova.
Differenti le cause della fuga, identico l’epilogo: Mohammed e Aylan sono legati da un tragico filo. L’immagine del piccolo Rohingya è stata pubblicata dalla Cnn, con il titolo: «Il mondo si indignerà anche ora?». Il riferimento è proprio ad Aylan. In quel caso l’immagine si trasformò in un atto d’accusa contro la politica dei muri. Inchiodò il mondo alle sue responsabilità, rompendo il muro dell’indifferenza. E diventò il simbolo della crisi dei migranti.
In Birmania la tragedia dimenticata dei Rohingya dura dal secolo scorso. La minoranza di fede musulmana - circa un milione in un Paese dove il 90% della popolazione è buddista - vive principalmente nello stato di Rakhine, nel nordovest. La maggioranza dei birmani li considera immigrati dal Bangladesh che si sono stabiliti illegalmente.
Il governo nega loro la cittadinanza e il voto e li ha esclusi dalla lista dei 135 gruppi etnici del Paese. Non hanno nessun diritto, nemmeno quello di essere chiamati con il loro nome. Una circolare del ministero dell’informazione ha vietato ai funzionari di utilizzare il termine Rohingya, imponendo la definizione «popolazioni di origine islamica». Quasi 150 mila di loro vivono in squallidi campi-ghetto, da cui possono uscire solo con il permesso, accordato di rado, delle autorità.
La tragedia dei Rohingya inizia nel 1970, data del primo grande esodo: 250 mila persone fuggono dalla persecuzione dell’esercito. Negli ultimi anni la repressione si è intensificata, obbligando migliaia di disperati a cercare rifugio nei Paesi vicini: Bangladesh, Thailandia, Malaysia. Spesso la traversata si rivela mortale. Secondo l’Oim, l’agenzia Onu per le migrazioni, negli ultimi mesi 34 mila Rohingya sono fuggiti in Bangladesh attraverso il fiume in cui è morto Mohammed. Nell’ottobre scorso è iniziata un’offensiva militare con rastrellamenti arbitrari. Il bilancio è di 86 morti e 27 mila fuggiti.
L’accesso allo Stato di Rakhine è vietato a giornalisti e attivisti. Ma nei giorni scorsi Human Rights Watch ha diffuso foto satellitari in cui si vedono interi villaggi bruciati e centinaia di case abbandonate. In una di quelle viveva la famiglia di Mohammed. «I soldati sparavano dagli elicotteri sulle case. I miei nonni sono morti bruciati vivi. Noi siamo scappati e ci siamo nascosti nella giungla per giorni. Dovevamo cambiare posto perché i soldati cercavano i Rohingya», ha raccontato il padre, Zafor Alam. Una storia che il governo ha bollato come «montatura».
Ma il massacro dei Rohingya continua nel silenzio colpevole di Aung San Suu Kyi. La presidente, che ha dedicato la sua vita alla lotta per i diritti umani, ha finora voltato la testa dall’altra parte, ignorando quella che l’Unhcr ha definito «pulizia etnica». Nei giorni scorsi 23 leader mondiali, tra cui diversi Nobel per la Pace, hanno inviato una lettera all’Onu per costringerla a riconoscere gli abusi in atto e garantire i «pieni diritti di cittadinanza» ai Rohingya.
http://www.lastampa.it/2017/01/05/ester ... agina.html
In Birmania un altro Aylan, bimbo Rohingya morto annegato
Mohammed Shohayet, 16 mesi, perde la vita durante la fuga verso il Bangladesh. La sua minoranza di religione musulmana vittima di un massacro dimenticato
Mohammed Shohayet è morto a 16 mesi insieme alla madre e al fratellino nel tentativo di attraversare il fiume Naf per fuggire in Bangladesh dalla Birmania
Pubblicato il 05/01/2017
filippo femia
Il corpicino riverso, la faccia affondata nel fango. Il cadavere di un bimbo giace lungo la sponda del fiume Naf. È morto affogato con il fratellino e la madre. Mohammed Shohayet, 16 mesi, stava scappando dal pogrom di cui il suo popolo, i Rohingya, è vittima in Birmania. La barca su cui viaggiava verso il Bangladesh è affondata lo scorso dicembre, mentre i soldati sparavano sui fuggitivi.
L’immagine choc riporta la mente all’estate del 2015. Turchia, spiaggia di Bodrum. Una giornalista fotografa un bimbo senza vita sul bagnasciuga, le braccia stese dalla risacca. La posizione di Aylan Kurdi, tre anni, è la stessa di Mohammed. Anche lui è morto insieme al fratellino e alla madre, scappati dalla Siria inseguendo il sogno europeo. Solo il padre sopravvive. Come nel caso di Mohammed: «La mia vita non ha più senso. Preferirei essere morto», ha detto alla Cnn dal campo profughi del Bangladesh dove si trova.
Differenti le cause della fuga, identico l’epilogo: Mohammed e Aylan sono legati da un tragico filo. L’immagine del piccolo Rohingya è stata pubblicata dalla Cnn, con il titolo: «Il mondo si indignerà anche ora?». Il riferimento è proprio ad Aylan. In quel caso l’immagine si trasformò in un atto d’accusa contro la politica dei muri. Inchiodò il mondo alle sue responsabilità, rompendo il muro dell’indifferenza. E diventò il simbolo della crisi dei migranti.
In Birmania la tragedia dimenticata dei Rohingya dura dal secolo scorso. La minoranza di fede musulmana - circa un milione in un Paese dove il 90% della popolazione è buddista - vive principalmente nello stato di Rakhine, nel nordovest. La maggioranza dei birmani li considera immigrati dal Bangladesh che si sono stabiliti illegalmente.
Il governo nega loro la cittadinanza e il voto e li ha esclusi dalla lista dei 135 gruppi etnici del Paese. Non hanno nessun diritto, nemmeno quello di essere chiamati con il loro nome. Una circolare del ministero dell’informazione ha vietato ai funzionari di utilizzare il termine Rohingya, imponendo la definizione «popolazioni di origine islamica». Quasi 150 mila di loro vivono in squallidi campi-ghetto, da cui possono uscire solo con il permesso, accordato di rado, delle autorità.
La tragedia dei Rohingya inizia nel 1970, data del primo grande esodo: 250 mila persone fuggono dalla persecuzione dell’esercito. Negli ultimi anni la repressione si è intensificata, obbligando migliaia di disperati a cercare rifugio nei Paesi vicini: Bangladesh, Thailandia, Malaysia. Spesso la traversata si rivela mortale. Secondo l’Oim, l’agenzia Onu per le migrazioni, negli ultimi mesi 34 mila Rohingya sono fuggiti in Bangladesh attraverso il fiume in cui è morto Mohammed. Nell’ottobre scorso è iniziata un’offensiva militare con rastrellamenti arbitrari. Il bilancio è di 86 morti e 27 mila fuggiti.
L’accesso allo Stato di Rakhine è vietato a giornalisti e attivisti. Ma nei giorni scorsi Human Rights Watch ha diffuso foto satellitari in cui si vedono interi villaggi bruciati e centinaia di case abbandonate. In una di quelle viveva la famiglia di Mohammed. «I soldati sparavano dagli elicotteri sulle case. I miei nonni sono morti bruciati vivi. Noi siamo scappati e ci siamo nascosti nella giungla per giorni. Dovevamo cambiare posto perché i soldati cercavano i Rohingya», ha raccontato il padre, Zafor Alam. Una storia che il governo ha bollato come «montatura».
Ma il massacro dei Rohingya continua nel silenzio colpevole di Aung San Suu Kyi. La presidente, che ha dedicato la sua vita alla lotta per i diritti umani, ha finora voltato la testa dall’altra parte, ignorando quella che l’Unhcr ha definito «pulizia etnica». Nei giorni scorsi 23 leader mondiali, tra cui diversi Nobel per la Pace, hanno inviato una lettera all’Onu per costringerla a riconoscere gli abusi in atto e garantire i «pieni diritti di cittadinanza» ai Rohingya.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
LIBRE news
Chi ha ucciso Olof Palme? Un atto di guerra, contro tutti noi
Scritto il 06/1/17 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
«Informa il nostro amico che la palma svedese verrà abbattuta». Curioso: in Svezia non crescono palmizi. Di che “palma” si trattasse, il mondo lo scoprì tre giorni dopo, il 27 febbraio 1986, quando un killer freddò il premier svedese Olof Palme, considerato il padre spirituale del welfare europeo, il sistema di diritti estesi su cui la sinistra moderata e riformista ha costruito il benessere dell’Europa nel dopoguerra, cioè quel sistema contro cui si batte, strenuamente, l’Unione Europea del rigore e dell’austerity. Ma attenzione: se non bastano la super-tassazione e l’euro, i tagli alla spesa e il pareggio di bilancio, può intervenire anche il terrorismo: Charlie Hebdo, Bruxelles, Bataclan, Nizza, Berlino. E’ la tesi dell’avvocato Gianfranco Carpeoro, studioso di simbologia, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”. L’accusa: l’élite mondialista reazionaria si avvale di settori dei servizi segreti per fabbricare una nuova strategia della tensione, impiegando manovalanza presentata oggi come islamista. Obiettivo: seminare il caos, la paura, perché nulla cambi e il sistema resti com’è, fondato sul dominio della finanza a spese della democrazia.
Ieri, prima di Al-Qaeda e dell’Isis, c’erano altre sigle in circolazione: Gladio, Stay Behind. Accusate di aver organizzato attentati come quello costato la vita all’uomo simbolo dell’Europa democratica e ostile alla guerra, Olof Palme. «Tell our friend the Swedish palm will be felled». Firmato: Licio Gelli. Messaggio ricevuto il 25 febbraio 1986 da Philip Guarino, esponente repubblicano Usa vicinissimo a George Bush senior e stretto collaboratore di Michael Ledeen, «storico e giornalista le cui vicende sono torbidamente intrecciate con l’intelligence americana», scrive Carpeoro. «Legatissimo alla Cia e appartenente alle logge massoniche di stretta emanazione Nato», negli anni ‘80 Ledeen è stato consulente strategico per i servizi statunitensi sotto Reagan e Bush. «Su posizioni neoconservatrici e reazionarie da sempre», Ledeen è stato consulente del Sismi quando il servizio era diretto dal generale Giuseppe Santovito, affiliato alla P2.
Fu sponsor di Craxi e consulente di Cossiga, «per tutelare la Gladio», anche come “esperto” durante il sequestro Moro. Il faccendiere Francesco Pazienza ne indicò il ruolo anche nel depistaggio delle indagini sull’attentato a Wojtyla: fu lui, disse Pazienza, a “inventare” la fantomatica “pista bulgara”. Il nome di Ledeen, sostiene Carpeoro, è collegabile – tramite Licio Gelli – anche al giallo, tuttora irrisolto, della morte di Olof Palme, che segnò l’inizio della fine della grande stagione del benessere europeo. Nel profetico romanzo “Nel nome di Ishmael”, lo scrittore italiano Giuseppe Genna include l’assassinio di Palme tra gli oscuri misfatti della “Rete Ishmael”, dove gli omicidi eccellenti vengono sempre fatti precedere dalla raccapricciante uccisione – rituale – di un bambino, a scopro propriziatorio. E’ un mondo, quello di “Ishmael”, che ricorda sinistramente quello degli attentati di oggi, intrisi di simbologie: la data-cardine dell’epopea dei Templari ricorre nella strage del Bataclan, come il 14 luglio – la Presa della Bastiglia, cara alla massoneria illuminista – nella mattanza di Nizza.
Olof Palme viene “abbattuto” il 27 febbraio: nell’anno 380 coincide con l’Editto di Tessalonica, in cui l’Impero Romano proclama religione di Stato il cristianesimo, gettando così le basi per un altro “impero”, il più longevo della storia. E sempre il 27 febbraio, ma del 1933, i nazisti incendiano il Reichstag per dare inizio al Terzo Reich. E se l’esoterismo (deviato) ha a che fare con Palme, vale ricordare che ancora un 27 febbraio, quello del 1593, viene incarcerato Giordano Bruno. Un caso, quella data, per la fine di Olof Palme? Era pur sempre il capo della P2 l’italiano Licio Gelli che, dal Sudamerica, recapitò quell’enigmatico messaggio a Washington, all’indirizzo di Guarino, sua vecchia conoscenza: «Alcuni anni prima – scrive Enrico Fedrighini sul “Fatto Quotidiano” – avevano entrambi sottoscritto un affidavit a favore di un finanziere, Michele Sindona». Era pericoloso, Olof Palme? Assolutamente sì: lo dice l’elenco dei suoi potentissimi nemici. Al premier svedese guardavano le sinistre europee: dopo aver «spogliato la monarchia svedese degli ultimi poteri formali di cui godeva», Palme aveva varato clamorose riforme sociali che avevano portato a un aumento del potere dei sindacati all’interno delle aziende, ricorda “Il Post”. «Ma fu grazie alla politica estera che Palme divenne famoso in tutto il mondo». Si scagliò contro la guerra Usa in Vietnam, «paragonando i massicci bombardamenti sul Vietnam del Nord ai massacri dei nazisti», dichiarazione che «spinse il governo degli Stati Uniti a ritirare il suo ambasciatore in Svezia».
Olof Palme, continua il “Post”, fu ugualmente critico nei confronti dell’Unione Sovietica: attaccò la repressione della Primavera di Praga nel 1968 e poi l’invasione dell’Afghanistan nel 1979. Criticò il regime di Augusto Pinochet in Cile, l’apartheid in Sudafrica, la dittatura di Francisco Franco in Spagna, la corsa agli armamenti nucleari e le disuguaglianze globali. L’Onu aveva affidato a Olof Palme il delicato incarico di arbitrato internazionale fra Iraq e Iran, in guerra da sei anni. «Una guerra sanguinosa, sporca, un crocevia di traffico d’armi e operazioni coperte: l’Iran stava ricevendo segretamente forniture di armi attraverso una rete formata da pezzi dell’apparato politico-militare Usa; i proventi servivano anche a finanziare l’opposizione dei Contras in Nicaragua», ricorda Fedrighini sul “Fatto”. Palme scoprì «qualcosa di ancora più grave, di più spaventoso». Ovvero: la rete che forniva armi all’Iran sembrava agire con strutture operative ramificate all’interno di diversi paesi dell’Europa occidentale, anche nella civilissima Scandinavia. Scoperte che Palme avrebbe fatto il giorno stesso della sua morte, a colloquio con l’ambasciatore iracheno.
La sera andò al cinema, con la moglie, dopo aver licenziato la scorta. Fu colpito mentre si allontanava a piedi dopo la proiezione. Dal buio sbucò «un uomo con un soprabito scuro», armato di Smith & Wesson 357 Magnum. Due colpi, alla schiena. Le indagini delle autorità svedesi non portarono a nulla. Lo scrittore svedese Stieg Larsson, autore di “Uomini che odiano le donne”, aveva condotto indagini riservate sul caso, accumulando 15 scatoloni di dossier, inutilmente consegnati alla polizia e alla Säpo, il servizio segreto reale, «nella vana speranza che facessero luce sulla tragedia», scrive “Repubblica”. «Larsson lanciò un’accusa precisa: i colpevoli erano i servizi segreti del Sudafrica razzista. Ma non fu ascoltato». Lo ha rivelato lo “Svenska Dagbladet”, il primo quotidiano svedese, poco dopo la morte del romanziere, deceduto nel 2004 per un infarto. Secondo l’avvocato Paolo Franceschetti, anche Stieg Larsson «è stato probabilmente giustiziato». Lo suggeriscono troppe “coincidenze”, a partire dalla data della morte, 9.11.2004, il cui «valore numerico-rituale» è 8, cioè “giustizia”. Lo scrittore «muore come il personaggio del suo terzo libro, “La ragazza che giocava con il fuoco”: muore cioè di infarto, nella redazione del suo giornale».
Per Franceschetti, sono circostanze che richiamano «la legge del contrappasso, utilizzata dall’organizzazione che si chiama Rosa Rossa», e che – sempre secondo Franceschetti – adotta, per le sue esecuzioni “eccellenti”, proprio la procedura in base alla quale Dante Alighieri organizza l’Inferno nella Divina Commedia: punizioni simboliche, commisurate alle azioni compiute durante la vita. Nulla che, in ogni caso, abbia potuto contribuire a far luce sull’omicidio Palme, per il quale venne condannato in primo grado nel 1988 un pregiudicato, Christer Patterson, prosciolto poi in appello del 1989 per mancanza di prove. Ma anche Patterson, come Stieg Larsson, non sopravivisse: «Il 15 settembre 2004, Patterson contatta Marten Palme», il figlio dello statista ucciso. «Desidera incontrarlo, ha qualcosa di importante da confidargli sulla morte del padre», racconta sempre Fedrighini sul “Fatto”. «Il giorno dopo, Patterson viene ricoverato in coma al Karolinska University Hospital con gravi ematomi alla testa. Muore il 29 settembre per emorragia cerebrale, senza mai aver ripreso conoscenza».
Chi tocca muore: non era rimasta senza spiacevoli conseguenze neppure la divulgazione, nell’aprile 1990, ad opera del quotidiano svedese “Dagens Nyheter”, del telegramma inviato da Licio Gelli a Guarino nel 1986, tre giorni prima dell’omicidio Palme. Contattando i colleghi svedesi, ricorda Fedrighini, un giornalista del Tg1, Ennio Remondino, rintracciò e intervistò le fonti, due agenti della Cia, che confermarono la notizia del telegramma, «rivelando anche l’esistenza di una struttura segreta operante in diversi paesi dell’Europa occidentale, denominata Stay Behind (nella versione italiana, Gladio), coinvolta da decenni in traffici d’armi ed azioni finalizzate a “stabilizzare per destabilizzare”». L’intervista con uno dei due, Dick Brenneke, venne trasmessa dal Tg1 nell’estate del 1990, provocando «la reazione furibonda di Cossiga, il licenziamento in tronco del direttore del Tg1 Nuccio Fava e il trasferimento di Remondino all’estero come inviato sui principali fronti di guerra».
Dopo oltre un quarto di secolo, il buio è sempre fitto: «L’arma del delitto non è mai stata trovata, e l’omicidio di Olof Palme è un caso ancora aperto». Per Gianfranco Carpeoro, il killer politico di Palme è già noto, si chiama “sovragestione” ed è tuttora in azione, in Europa, fra attentati e stragi. Carpeoro si sofferma in particolare sul possibile ruolo di Michael Ledeen, deus ex machina di tante operazioni coperte che hanno segnato la nostra storia recente, al punto che a metà degli anni ‘80 l’ammiraglio Fulvio Martini, allora capo del Sismi, lo fece allontanare dall’Italia come “persona non grata”. «Ledeen è membro dell’American Enterprise Institute», organismo che, «dopo l’11 Settembre, si è reso leader di un’enorme operazione di lobbismo per dirigere la politica estera Usa verso l’attuale e rovinosa “guerra al terrorismo globale”, sponsorizzando intensamente l’invasione dell’Afghanistan, l’occupazione dell’Iraq, e tentando ripetutamente di provocare l’aggressione dell’Iran». Fonti americane lo segnalano oggi nel team-ombra di Trump, impegnato a sabotare gli accordi sul nucleare con Teheran.
Consulente di vari ministri israeliani, continua Carpeoro, «Ledeen è stato anche tra i capi del Jewish Institute for National Security Affairs (Jinsa), al cupola semi-segreta collegata al B’nai Brith, la superloggia massonica ebraica che sovragestisce le relazioni inconfessabili tra l’esercito israeliano, alcuni settori del Pentagono e l’apparato militare industriale americano». Ledeen, continua Carpeoro, riuscì anche a sabotare i rapporti fra Italia e Usa durante il sequestro dell’Achille Lauro, traducendo in diretta – in modo infedele – le parole che Ronald Reagan rivolse a Bettino Craxi. Il suo nome, poi, riaffiora durante lo scandalo Nigergate: come svelato dai giornalisti italiani Carlo Bonini e Giuseppe D’Avanzo, Ledeen avrebbe scelto il Sismi «per trasmettere alla Cia falsi documenti a riprova dell’importazione di uranio dal Niger da parte dell’Iraq di Saddam Hussein», poi utilizzati da Bush come “prova” dell’armamento “nucleare” di Saddam, alibi perfetto per scatenare la Seconda Guerra del Golfo, l’invasione dell’Iraq e l’uccisione dello stesso Saddam, in possesso di segreti troppo scomodi per la Casa Bianca.
Nel film “L’avvocato del diavolo”, Al Pacino (il diavolo) rimprovera il suo allievo, Keanu Reeves: «Sei troppo appariscente», gli dice: «Guarda me, invece: nessuno mi nota, nessuno mi vede arrivare». A pochissimi, in Italia, il nome Michel Ledeen dice qualcosa, nonostante abbia avuto un ruolo in moltissime pagine della nostra storia, fino a Di Pietro (in contatto con Ledeen all’epoca di Mani Pulite) e ora «con Beppe Grillo» e con lo stesso Matteo Renzi, «attraverso Marco Carrai». Per Gioele Magaldi, Ledeen milita nella Ur-Lodge “Hathor Pentalpha”, fondata dal clan Bush, con al seguito personaggi come Blair, Sarkozy, Erdogan. La “Hathor” avrebbe avuto un ruolo nell’11 Settembre, nella creazione di Al-Qaeda e poi in quella dell’Isis, avendo affiliato lo stesso Abu Bakr Al-Baghdadi. Nuovo ordine mondiale, da mantenere ad ogni costo scatenando il caos attraverso la guerra e il terrorismo? Carpeoro la chiama, semplicemente, “sovragestione”. Spiga che le sue “menti” si richiamano alla teoria della “sinarchia” del marchese Alexandre Saint-Yves d’Alveydre: l’élite illuminata ha il diritto divino di imporsi sul popolo, anche con la violenza, uccidendo i paladini dei diritti democratici. Come sarebbe, oggi, l’Europa, con uomini come Olof Palme? Quattro anni prima di essere trucidato, Palme aveva varato il rivoluzionario Piano Meidner: un nuovo modello di partecipazione, che coinvolgeva i lavoratori nella gestione delle imprese, condividendone anche gli utili. Olof Palme “doveva” morire. E con lui, noi europei.
Chi ha ucciso Olof Palme? Un atto di guerra, contro tutti noi
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«Informa il nostro amico che la palma svedese verrà abbattuta». Curioso: in Svezia non crescono palmizi. Di che “palma” si trattasse, il mondo lo scoprì tre giorni dopo, il 27 febbraio 1986, quando un killer freddò il premier svedese Olof Palme, considerato il padre spirituale del welfare europeo, il sistema di diritti estesi su cui la sinistra moderata e riformista ha costruito il benessere dell’Europa nel dopoguerra, cioè quel sistema contro cui si batte, strenuamente, l’Unione Europea del rigore e dell’austerity. Ma attenzione: se non bastano la super-tassazione e l’euro, i tagli alla spesa e il pareggio di bilancio, può intervenire anche il terrorismo: Charlie Hebdo, Bruxelles, Bataclan, Nizza, Berlino. E’ la tesi dell’avvocato Gianfranco Carpeoro, studioso di simbologia, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”. L’accusa: l’élite mondialista reazionaria si avvale di settori dei servizi segreti per fabbricare una nuova strategia della tensione, impiegando manovalanza presentata oggi come islamista. Obiettivo: seminare il caos, la paura, perché nulla cambi e il sistema resti com’è, fondato sul dominio della finanza a spese della democrazia.
Ieri, prima di Al-Qaeda e dell’Isis, c’erano altre sigle in circolazione: Gladio, Stay Behind. Accusate di aver organizzato attentati come quello costato la vita all’uomo simbolo dell’Europa democratica e ostile alla guerra, Olof Palme. «Tell our friend the Swedish palm will be felled». Firmato: Licio Gelli. Messaggio ricevuto il 25 febbraio 1986 da Philip Guarino, esponente repubblicano Usa vicinissimo a George Bush senior e stretto collaboratore di Michael Ledeen, «storico e giornalista le cui vicende sono torbidamente intrecciate con l’intelligence americana», scrive Carpeoro. «Legatissimo alla Cia e appartenente alle logge massoniche di stretta emanazione Nato», negli anni ‘80 Ledeen è stato consulente strategico per i servizi statunitensi sotto Reagan e Bush. «Su posizioni neoconservatrici e reazionarie da sempre», Ledeen è stato consulente del Sismi quando il servizio era diretto dal generale Giuseppe Santovito, affiliato alla P2.
Fu sponsor di Craxi e consulente di Cossiga, «per tutelare la Gladio», anche come “esperto” durante il sequestro Moro. Il faccendiere Francesco Pazienza ne indicò il ruolo anche nel depistaggio delle indagini sull’attentato a Wojtyla: fu lui, disse Pazienza, a “inventare” la fantomatica “pista bulgara”. Il nome di Ledeen, sostiene Carpeoro, è collegabile – tramite Licio Gelli – anche al giallo, tuttora irrisolto, della morte di Olof Palme, che segnò l’inizio della fine della grande stagione del benessere europeo. Nel profetico romanzo “Nel nome di Ishmael”, lo scrittore italiano Giuseppe Genna include l’assassinio di Palme tra gli oscuri misfatti della “Rete Ishmael”, dove gli omicidi eccellenti vengono sempre fatti precedere dalla raccapricciante uccisione – rituale – di un bambino, a scopro propriziatorio. E’ un mondo, quello di “Ishmael”, che ricorda sinistramente quello degli attentati di oggi, intrisi di simbologie: la data-cardine dell’epopea dei Templari ricorre nella strage del Bataclan, come il 14 luglio – la Presa della Bastiglia, cara alla massoneria illuminista – nella mattanza di Nizza.
Olof Palme viene “abbattuto” il 27 febbraio: nell’anno 380 coincide con l’Editto di Tessalonica, in cui l’Impero Romano proclama religione di Stato il cristianesimo, gettando così le basi per un altro “impero”, il più longevo della storia. E sempre il 27 febbraio, ma del 1933, i nazisti incendiano il Reichstag per dare inizio al Terzo Reich. E se l’esoterismo (deviato) ha a che fare con Palme, vale ricordare che ancora un 27 febbraio, quello del 1593, viene incarcerato Giordano Bruno. Un caso, quella data, per la fine di Olof Palme? Era pur sempre il capo della P2 l’italiano Licio Gelli che, dal Sudamerica, recapitò quell’enigmatico messaggio a Washington, all’indirizzo di Guarino, sua vecchia conoscenza: «Alcuni anni prima – scrive Enrico Fedrighini sul “Fatto Quotidiano” – avevano entrambi sottoscritto un affidavit a favore di un finanziere, Michele Sindona». Era pericoloso, Olof Palme? Assolutamente sì: lo dice l’elenco dei suoi potentissimi nemici. Al premier svedese guardavano le sinistre europee: dopo aver «spogliato la monarchia svedese degli ultimi poteri formali di cui godeva», Palme aveva varato clamorose riforme sociali che avevano portato a un aumento del potere dei sindacati all’interno delle aziende, ricorda “Il Post”. «Ma fu grazie alla politica estera che Palme divenne famoso in tutto il mondo». Si scagliò contro la guerra Usa in Vietnam, «paragonando i massicci bombardamenti sul Vietnam del Nord ai massacri dei nazisti», dichiarazione che «spinse il governo degli Stati Uniti a ritirare il suo ambasciatore in Svezia».
Olof Palme, continua il “Post”, fu ugualmente critico nei confronti dell’Unione Sovietica: attaccò la repressione della Primavera di Praga nel 1968 e poi l’invasione dell’Afghanistan nel 1979. Criticò il regime di Augusto Pinochet in Cile, l’apartheid in Sudafrica, la dittatura di Francisco Franco in Spagna, la corsa agli armamenti nucleari e le disuguaglianze globali. L’Onu aveva affidato a Olof Palme il delicato incarico di arbitrato internazionale fra Iraq e Iran, in guerra da sei anni. «Una guerra sanguinosa, sporca, un crocevia di traffico d’armi e operazioni coperte: l’Iran stava ricevendo segretamente forniture di armi attraverso una rete formata da pezzi dell’apparato politico-militare Usa; i proventi servivano anche a finanziare l’opposizione dei Contras in Nicaragua», ricorda Fedrighini sul “Fatto”. Palme scoprì «qualcosa di ancora più grave, di più spaventoso». Ovvero: la rete che forniva armi all’Iran sembrava agire con strutture operative ramificate all’interno di diversi paesi dell’Europa occidentale, anche nella civilissima Scandinavia. Scoperte che Palme avrebbe fatto il giorno stesso della sua morte, a colloquio con l’ambasciatore iracheno.
La sera andò al cinema, con la moglie, dopo aver licenziato la scorta. Fu colpito mentre si allontanava a piedi dopo la proiezione. Dal buio sbucò «un uomo con un soprabito scuro», armato di Smith & Wesson 357 Magnum. Due colpi, alla schiena. Le indagini delle autorità svedesi non portarono a nulla. Lo scrittore svedese Stieg Larsson, autore di “Uomini che odiano le donne”, aveva condotto indagini riservate sul caso, accumulando 15 scatoloni di dossier, inutilmente consegnati alla polizia e alla Säpo, il servizio segreto reale, «nella vana speranza che facessero luce sulla tragedia», scrive “Repubblica”. «Larsson lanciò un’accusa precisa: i colpevoli erano i servizi segreti del Sudafrica razzista. Ma non fu ascoltato». Lo ha rivelato lo “Svenska Dagbladet”, il primo quotidiano svedese, poco dopo la morte del romanziere, deceduto nel 2004 per un infarto. Secondo l’avvocato Paolo Franceschetti, anche Stieg Larsson «è stato probabilmente giustiziato». Lo suggeriscono troppe “coincidenze”, a partire dalla data della morte, 9.11.2004, il cui «valore numerico-rituale» è 8, cioè “giustizia”. Lo scrittore «muore come il personaggio del suo terzo libro, “La ragazza che giocava con il fuoco”: muore cioè di infarto, nella redazione del suo giornale».
Per Franceschetti, sono circostanze che richiamano «la legge del contrappasso, utilizzata dall’organizzazione che si chiama Rosa Rossa», e che – sempre secondo Franceschetti – adotta, per le sue esecuzioni “eccellenti”, proprio la procedura in base alla quale Dante Alighieri organizza l’Inferno nella Divina Commedia: punizioni simboliche, commisurate alle azioni compiute durante la vita. Nulla che, in ogni caso, abbia potuto contribuire a far luce sull’omicidio Palme, per il quale venne condannato in primo grado nel 1988 un pregiudicato, Christer Patterson, prosciolto poi in appello del 1989 per mancanza di prove. Ma anche Patterson, come Stieg Larsson, non sopravivisse: «Il 15 settembre 2004, Patterson contatta Marten Palme», il figlio dello statista ucciso. «Desidera incontrarlo, ha qualcosa di importante da confidargli sulla morte del padre», racconta sempre Fedrighini sul “Fatto”. «Il giorno dopo, Patterson viene ricoverato in coma al Karolinska University Hospital con gravi ematomi alla testa. Muore il 29 settembre per emorragia cerebrale, senza mai aver ripreso conoscenza».
Chi tocca muore: non era rimasta senza spiacevoli conseguenze neppure la divulgazione, nell’aprile 1990, ad opera del quotidiano svedese “Dagens Nyheter”, del telegramma inviato da Licio Gelli a Guarino nel 1986, tre giorni prima dell’omicidio Palme. Contattando i colleghi svedesi, ricorda Fedrighini, un giornalista del Tg1, Ennio Remondino, rintracciò e intervistò le fonti, due agenti della Cia, che confermarono la notizia del telegramma, «rivelando anche l’esistenza di una struttura segreta operante in diversi paesi dell’Europa occidentale, denominata Stay Behind (nella versione italiana, Gladio), coinvolta da decenni in traffici d’armi ed azioni finalizzate a “stabilizzare per destabilizzare”». L’intervista con uno dei due, Dick Brenneke, venne trasmessa dal Tg1 nell’estate del 1990, provocando «la reazione furibonda di Cossiga, il licenziamento in tronco del direttore del Tg1 Nuccio Fava e il trasferimento di Remondino all’estero come inviato sui principali fronti di guerra».
Dopo oltre un quarto di secolo, il buio è sempre fitto: «L’arma del delitto non è mai stata trovata, e l’omicidio di Olof Palme è un caso ancora aperto». Per Gianfranco Carpeoro, il killer politico di Palme è già noto, si chiama “sovragestione” ed è tuttora in azione, in Europa, fra attentati e stragi. Carpeoro si sofferma in particolare sul possibile ruolo di Michael Ledeen, deus ex machina di tante operazioni coperte che hanno segnato la nostra storia recente, al punto che a metà degli anni ‘80 l’ammiraglio Fulvio Martini, allora capo del Sismi, lo fece allontanare dall’Italia come “persona non grata”. «Ledeen è membro dell’American Enterprise Institute», organismo che, «dopo l’11 Settembre, si è reso leader di un’enorme operazione di lobbismo per dirigere la politica estera Usa verso l’attuale e rovinosa “guerra al terrorismo globale”, sponsorizzando intensamente l’invasione dell’Afghanistan, l’occupazione dell’Iraq, e tentando ripetutamente di provocare l’aggressione dell’Iran». Fonti americane lo segnalano oggi nel team-ombra di Trump, impegnato a sabotare gli accordi sul nucleare con Teheran.
Consulente di vari ministri israeliani, continua Carpeoro, «Ledeen è stato anche tra i capi del Jewish Institute for National Security Affairs (Jinsa), al cupola semi-segreta collegata al B’nai Brith, la superloggia massonica ebraica che sovragestisce le relazioni inconfessabili tra l’esercito israeliano, alcuni settori del Pentagono e l’apparato militare industriale americano». Ledeen, continua Carpeoro, riuscì anche a sabotare i rapporti fra Italia e Usa durante il sequestro dell’Achille Lauro, traducendo in diretta – in modo infedele – le parole che Ronald Reagan rivolse a Bettino Craxi. Il suo nome, poi, riaffiora durante lo scandalo Nigergate: come svelato dai giornalisti italiani Carlo Bonini e Giuseppe D’Avanzo, Ledeen avrebbe scelto il Sismi «per trasmettere alla Cia falsi documenti a riprova dell’importazione di uranio dal Niger da parte dell’Iraq di Saddam Hussein», poi utilizzati da Bush come “prova” dell’armamento “nucleare” di Saddam, alibi perfetto per scatenare la Seconda Guerra del Golfo, l’invasione dell’Iraq e l’uccisione dello stesso Saddam, in possesso di segreti troppo scomodi per la Casa Bianca.
Nel film “L’avvocato del diavolo”, Al Pacino (il diavolo) rimprovera il suo allievo, Keanu Reeves: «Sei troppo appariscente», gli dice: «Guarda me, invece: nessuno mi nota, nessuno mi vede arrivare». A pochissimi, in Italia, il nome Michel Ledeen dice qualcosa, nonostante abbia avuto un ruolo in moltissime pagine della nostra storia, fino a Di Pietro (in contatto con Ledeen all’epoca di Mani Pulite) e ora «con Beppe Grillo» e con lo stesso Matteo Renzi, «attraverso Marco Carrai». Per Gioele Magaldi, Ledeen milita nella Ur-Lodge “Hathor Pentalpha”, fondata dal clan Bush, con al seguito personaggi come Blair, Sarkozy, Erdogan. La “Hathor” avrebbe avuto un ruolo nell’11 Settembre, nella creazione di Al-Qaeda e poi in quella dell’Isis, avendo affiliato lo stesso Abu Bakr Al-Baghdadi. Nuovo ordine mondiale, da mantenere ad ogni costo scatenando il caos attraverso la guerra e il terrorismo? Carpeoro la chiama, semplicemente, “sovragestione”. Spiga che le sue “menti” si richiamano alla teoria della “sinarchia” del marchese Alexandre Saint-Yves d’Alveydre: l’élite illuminata ha il diritto divino di imporsi sul popolo, anche con la violenza, uccidendo i paladini dei diritti democratici. Come sarebbe, oggi, l’Europa, con uomini come Olof Palme? Quattro anni prima di essere trucidato, Palme aveva varato il rivoluzionario Piano Meidner: un nuovo modello di partecipazione, che coinvolgeva i lavoratori nella gestione delle imprese, condividendone anche gli utili. Olof Palme “doveva” morire. E con lui, noi europei.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
IL TITOLO E' DI QUELLI CHE NON VORRESTI VEDERE MAI. MA IL GIORNALE.IT, LO METTE IN EVIDENZA SULLA PRIMA PAGINA.
L'AUTORE E' DI TUTTO RISPETTO, A MENO CHE NON SIA IMPAZZITO NELLA VECCHIAIA
Siamo in guerra
Il jihadismo ha ormai cambiato "modus operandi" e ora attacca i cittadini. Per questo ora è necessario aprire gli occhi
di Piero Ostellino
2 ore fa
865
http://www.ilgiornale.it/?refresh_cens
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Siamo in guerra
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Re: La Terza Guerra Mondiale
UncleTom ha scritto:IL TITOLO E' DI QUELLI CHE NON VORRESTI VEDERE MAI. MA IL GIORNALE.IT, LO METTE IN EVIDENZA SULLA PRIMA PAGINA.
L'AUTORE E' DI TUTTO RISPETTO, A MENO CHE NON SIA IMPAZZITO NELLA VECCHIAIA
Siamo in guerra
Il jihadismo ha ormai cambiato "modus operandi" e ora attacca i cittadini. Per questo ora è necessario aprire gli occhi
di Piero Ostellino
2 ore fa
865
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Siamo in guerra Ora l'ha capito anche la sinistra
Il jihadismo ha ormai cambiato "modus operandi" e ora attacca i cittadini. Per questo ora è necessario aprire gli occhi
Piero Ostellino - Ven, 06/01/2017 - 22:58
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Come ormai dimostrano chiaramente gli attentati di Parigi, Nizza e questi ultimi a Berlino e Istanbul, il terrorismo islamico ha ormai cambiato «modus operandi». Non colpisce più singole personalità o obiettivi precisi, militari, strategici che richiedono un'organizzazione complessa, finanziamenti ecc.
e, proprio per questo, risultano più semplici da individuare, contrastare e prevenire.
Oggi attacca i cittadini, nei luoghi di ritrovo e di divertimento, in occasione di ricorrenze e feste, in modo da uccidere il più alto numero di persone possibile. Non c'è bisogno di una grande organizzazione. L'Occidente pullula di potenziali terroristi, di singole cellule «impazzite» che, con mezzi e armi rudimentali e di facile reperimento, a partire dai camion - e per questo molto più difficili da individuare e più imprevedibili , sono in grado di provocare vere e proprie stragi. Si tratta di una strategia semplice e di un'efficacia mostruosa. Che sembra avere un duplice obiettivo. In primo luogo terrorizzare le popolazioni dei Paesi occidentali per indurli poi a reagire e a regredire al livello dell'estremismo islamico. Quella che era una contrapposizione tra religioni si è trasformata in una guerra di civiltà. Se le democrazie liberali cedessero alla tentazione di porsi sullo stesso piano del terrorismo islamico, regredirebbero di qualche secolo e la civilizzazione occidentale tornerebbe a prima dell'illuminismo. L'islam non lo ha conosciuto e non ha operato quella separazione che l'Occidente ha fatto tra religione e politica. La religione non ammette transazioni e compromessi, che sono invece la cifra della politica.
Questa opera sul terreno della relatività tra valori contrapposti e, salvo che nei regimi assoluti, non è animata da principi e valori tra loro inconciliabili. L'islam fa ancora coincidere religione e politica, caratterizzandosi, sul piano storico, come un regime autoritario e illiberale. È vero che qualche secolo fa nei Paesi islamici riparavano i cristiani e persino gli ebrei perseguitati, trovandovi spirito di tolleranza e libertà. Ma è altrettanto vero e incontrovertibile che la storia ha fatto il suo corso e l'islam è oggi fautore di regimi autoritari, che negano le libertà e l'equiparazione tra uomini e donne, relegando queste ultime a una condizione di permanente sudditanza ai maschi. Oltre a una contrapposizione religiosa, «una guerra religiosamente motivata», come sottolinea Panebianco, chiedendosi come mai tante persone fatichino ad ammetterlo che siamo di fronte a una vera e propria guerra di civiltà. Dirlo non è razzismo. È un dato di fatto storicamente innegabile. Tra le tante cose da fare, forse sarebbe utile partire anche da qui.
Dal coraggio di uscire dal confortevole politically correct della sinistra salottiera e, purtroppo, dello stesso Vaticano - che garantisce ancora una certa ascendenza sull'opinione pubblica - e iniziare a chiamare le cose con il loro nome. Perché evitare accuratamente di aggiungere al sostantivo terrorismo l'aggettivo islamico? Perché i fatti continuano a essere «delle cose terribilmente ostinate», come sosteneva Lenin? Se siamo in guerra, come ormai sono disposti ad ammettere nel resto d'Europa e negli Stati Uniti, come in ogni guerra la prima cosa è individuare e conoscere il proprio nemico. La classe dirigente italiana, a tutti i livelli, è prigioniera di una cultura che si domanda perché le cose avvengono e non (in modo empirico) come avvengono. È una cultura che giudica prima di capire, filosofeggia invece di fare. Osserviamo il mondo attraverso categorie ideologiche (giustizia, eguaglianza) che derivano dai totalitarismi di destra e di sinistra, che abbiamo combattuto, ma di cui abbiamo conservato il lessico. Al contrario degli anglosassoni, che invece hanno sempre guardato al mondo per problemi concreti, a cui danno priorità politica a seconda delle circostanze. In questo modo, ieri non abbiamo capito che il comunismo era una religione truccata da programma politico e oggi non capiamo che il fondamentalismo islamico è un programma politico truccato da religione.
Sarebbe anche ora che la politica programmasse una qualche soluzione e provvedesse ad applicarla sul fronte dell'invasione migratoria. Un modo di affrontare il fenomeno potrebbe essere quello di bloccare le partenze dai luoghi d'origine. Naturalmente, bisognerebbe mettersi d'accordo con i governi dei Paesi di partenza dei barconi. Sarebbe un accordo costoso perché si tratterebbe di andare ad investire in quei Paesi per trattenervi chi se ne vuole andare , ma pur sempre socialmente ed economicamente meno costoso di quanto non sia già accogliere migliaia di uomini, donne, e bambini che, poi, non si sa dove mettere e come occupare.
In Libia era stato fatto, ma sappiamo, con la scellerata scelta di fare fuori Gheddafi, come è andata a finire. In questo senso, sembra che il ministro Minniti stia iniziando a muoversi nella giusta direzione. È inutile oggi stare a vedere se Renzi ha colonizzato o meno servizi e Viminale con uomini del Pd. Più importante sarà vedere come si comportano di fronte alle diverse emergenze. L'Italia aveva provato a rimpatriare il tunisino che ha compiuto l'attentato a Berlino, dopo che questi aveva dato fuoco al campo profughi dove era ospitato, ma la Tunisia ha detto di no. Un fatto del genere non può ripetersi. Un maggiore e più efficiente coordinamento europeo e tra le varie intelligence è poi indispensabile, come mostrano le numerose lacune e gli errori commessi finora. Se non si provvede rapidamente, e efficacemente, rischiamo di dover convivere a lungo con l'immigrazione di massa. Un fenomeno che, come si vede, non siamo in grado di gestire.
E che porta con sé il pericolo dell'arrivo di nuovi potenziali o già sperimentati terroristi. Siamo una tappa di transito verso i Paesi europei del Nord, ma il rischio è che molti immigrati si fermino in Italia sollecitati da un'accoglienza che li gratifica, malgrado l'opposizione delle Regioni dove essa si attesta. Prima che essa produca una reazione popolare e sociale, da parte degli italiani che ne fanno le spese, occorre che la politica intervenga, in vista di una soluzione che scongiuri altri arrivi indiscriminati.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
E’ proprio vero che l’ignoranza è una gran brutta bestia.
Io non sapevo che Piero Ostellino era passato dal Corriere della Sera ad Il Giornale nel 2015.
Piero Ostellino
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Dal 1967 al gennaio 2015 ha scritto sul «Corriere della Sera», quotidiano nel quale ha ricoperto diversi incarichi: è stato corrispondente da Mosca dal 1973 al 1978 e da Pechino nel 1979 e 1980; inviato speciale, nonché direttore responsabile dal 1984 al 1987. È stato editorialista e titolare della rubrica settimanale “Il dubbio”.
Dal febbraio 2015 scrive sul concorrente «Il Giornale».[1]
Non condividere sempre alcuni suoi articoli pubblicati sul Corriere della Sera, non sminuivano la sua autorevolezza di giornalista anziano (Venezia, 9 ottobre 1935).
Ma passare dal Corriere della Sera al Giornale a 80 anni può significare solo che gli 80 anni gli sono stati fatali.
Si è fatto intrappolare dalla banda Sallusti.
E solo la vecchiaia poteva fargli accettare un titolo provocatorio come quello scelto dalla nota banda.
Siamo in guerra.
Questo è un titolo allarmistico che segue la linea editoriale della banda Sallusti negli ultimi tre anni.
E leggendo l’articolo si comprende chiaramente che il “Siamo in guerra” è solo una sua impressione personale, anche se la ragione ci impone di non trascurare di analizzare ed approfondire i dati oggettivi.
CONTINUA
Io non sapevo che Piero Ostellino era passato dal Corriere della Sera ad Il Giornale nel 2015.
Piero Ostellino
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Dal 1967 al gennaio 2015 ha scritto sul «Corriere della Sera», quotidiano nel quale ha ricoperto diversi incarichi: è stato corrispondente da Mosca dal 1973 al 1978 e da Pechino nel 1979 e 1980; inviato speciale, nonché direttore responsabile dal 1984 al 1987. È stato editorialista e titolare della rubrica settimanale “Il dubbio”.
Dal febbraio 2015 scrive sul concorrente «Il Giornale».[1]
Non condividere sempre alcuni suoi articoli pubblicati sul Corriere della Sera, non sminuivano la sua autorevolezza di giornalista anziano (Venezia, 9 ottobre 1935).
Ma passare dal Corriere della Sera al Giornale a 80 anni può significare solo che gli 80 anni gli sono stati fatali.
Si è fatto intrappolare dalla banda Sallusti.
E solo la vecchiaia poteva fargli accettare un titolo provocatorio come quello scelto dalla nota banda.
Siamo in guerra.
Questo è un titolo allarmistico che segue la linea editoriale della banda Sallusti negli ultimi tre anni.
E leggendo l’articolo si comprende chiaramente che il “Siamo in guerra” è solo una sua impressione personale, anche se la ragione ci impone di non trascurare di analizzare ed approfondire i dati oggettivi.
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