La Terza Guerra Mondiale
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Re: La Terza Guerra Mondiale
L’INTERVISTA
Isis, le parole di Gabrielli:
«Prima o poi colpirà anche noi»
Il capo della polizia: «Un prezzo lo dovremo pagare. Ci auguriamo sia quanto più contenuto possibile. Questo, però, non deve toglierci la nostra libertà»
di Redazione Online
«Lo dico in maniera molto cruda: prima o poi anche noi un prezzo lo dovremo pagare. Ci auguriamo sia quanto più contenuto possibile», ma «noi dentro a quella minaccia ci siamo. Le indagini, spesso successive ai rimpatri, hanno dimostrato che buona parte delle persone fermate nel nostro Paese perché considerate vicine all’Isis stava realmente per compiere attentati e fare morti. Questo, però, non deve toglierci la nostra libertà. Saremmo sconfitti solo se ci lasciassimo condizionare nella nostra quotidianità». Lo afferma il capo della polizia, Franco Gabrielli, in due interviste in apertura di prima pagina al Giornale e a Qn.
Il fatto che l’Italia non sia ancora stata toccata direttamente dal terrorismo di matrice islamista «è il frutto di diversi fattori. Oltre all’ottimo lavoro di prevenzione, il punto è che non abbiamo sacche gravi di marginalizzazione e che noi i sospetti terroristi li espelliamo subito», dice Gabrielli. «La verità è che se la smettessimo di giudicarci più coglioni degli altri, scopriremmo che in molti casi siamo migliori». In merito alla radicalizzazione in Rete, «sarebbe sbagliato limitare l’uso del web, mentre è giusto indagarlo con squadre e strumenti speciali. È quel che facciamo quotidianamente».
Per il prefetto è «importante riaprire i Cie in numero sufficiente e in ogni regione. Si arriverà a una permanenza di un massimo di un anno in presenza di motivi di sicurezza pubblica». Sui rimpatri dei migranti che fanno ricorso per la negazione del diritto d’asilo, «la normativa europea prevede almeno un grado di giudizio, il nostro sistema giudiziario ne presuppone tre. Intendiamo fermarci al primo». I Paesi d’origine non recepiscono le espulsioni perché «l’emigrazione è due volte vantaggiosa: decomprime la demografia e garantisce importanti rimesse di denaro», osserva Gabrielli. «Dunque occorre fare in modo che riprenderseli sia ancora più vantaggioso. Con quello che spende lo Stato per accoglienza, sanità e sicurezza, le risorse da distribuire a mo’ di incentivo non mancherebbero».
In merito agli accordi bilaterali sugli espulsi e centri di raccolta dei migranti in nord Africa ipotizzati dal ministro dell’Interno Minniti, «il governo sta lavorando seriamente su entrambi i fronti, e sono sicuro che a breve avremo importanti novità anche nel rapporto con la Libia», dichiara Gabrielli.
7 gennaio 2017 (modifica il 7 gennaio 2017 | 10:01)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/cronache/17_genn ... e88f.shtml
Isis, le parole di Gabrielli:
«Prima o poi colpirà anche noi»
Il capo della polizia: «Un prezzo lo dovremo pagare. Ci auguriamo sia quanto più contenuto possibile. Questo, però, non deve toglierci la nostra libertà»
di Redazione Online
«Lo dico in maniera molto cruda: prima o poi anche noi un prezzo lo dovremo pagare. Ci auguriamo sia quanto più contenuto possibile», ma «noi dentro a quella minaccia ci siamo. Le indagini, spesso successive ai rimpatri, hanno dimostrato che buona parte delle persone fermate nel nostro Paese perché considerate vicine all’Isis stava realmente per compiere attentati e fare morti. Questo, però, non deve toglierci la nostra libertà. Saremmo sconfitti solo se ci lasciassimo condizionare nella nostra quotidianità». Lo afferma il capo della polizia, Franco Gabrielli, in due interviste in apertura di prima pagina al Giornale e a Qn.
Il fatto che l’Italia non sia ancora stata toccata direttamente dal terrorismo di matrice islamista «è il frutto di diversi fattori. Oltre all’ottimo lavoro di prevenzione, il punto è che non abbiamo sacche gravi di marginalizzazione e che noi i sospetti terroristi li espelliamo subito», dice Gabrielli. «La verità è che se la smettessimo di giudicarci più coglioni degli altri, scopriremmo che in molti casi siamo migliori». In merito alla radicalizzazione in Rete, «sarebbe sbagliato limitare l’uso del web, mentre è giusto indagarlo con squadre e strumenti speciali. È quel che facciamo quotidianamente».
Per il prefetto è «importante riaprire i Cie in numero sufficiente e in ogni regione. Si arriverà a una permanenza di un massimo di un anno in presenza di motivi di sicurezza pubblica». Sui rimpatri dei migranti che fanno ricorso per la negazione del diritto d’asilo, «la normativa europea prevede almeno un grado di giudizio, il nostro sistema giudiziario ne presuppone tre. Intendiamo fermarci al primo». I Paesi d’origine non recepiscono le espulsioni perché «l’emigrazione è due volte vantaggiosa: decomprime la demografia e garantisce importanti rimesse di denaro», osserva Gabrielli. «Dunque occorre fare in modo che riprenderseli sia ancora più vantaggioso. Con quello che spende lo Stato per accoglienza, sanità e sicurezza, le risorse da distribuire a mo’ di incentivo non mancherebbero».
In merito agli accordi bilaterali sugli espulsi e centri di raccolta dei migranti in nord Africa ipotizzati dal ministro dell’Interno Minniti, «il governo sta lavorando seriamente su entrambi i fronti, e sono sicuro che a breve avremo importanti novità anche nel rapporto con la Libia», dichiara Gabrielli.
7 gennaio 2017 (modifica il 7 gennaio 2017 | 10:01)
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Re: La Terza Guerra Mondiale
TEMPI DI POST-VERITA’, DI BUFALE, E QUANT’ALTRO DI SIMILE
Mi raccontava un quarto di secolo fa, un amico di Monza, passato poi a “miglior vita”(modo di dire), che quando era piccolo, all’inizio del novecento, a Torino, e suo nonno lo mandava ad acquistare il giornale, incontrava regolarmente un generale di cavalleria dei Savoia, che si rivolgeva all’edicolante in questo modo:
“DAMM DU SOLD AD BALI”, che tradotto dal piemontese significa:
“DAMMI DUE SOLDI DI BALLE”.
Quindi dobbiamo dedurre che il problema delle post-verità, delle bufale et similia, è un vecchio problema delle società umane.
Per me Gabrielli è poco credibile, in quanto racconta la “sua verità” che può piacere solo al POTERE delle èlite.
1) Il suo diretto superiore politico, il ministro dell’Interno Minniti, era presente al dibattito all’Università Mediterranea del giugno 2015, quando il Procuratore Capo di Reggio Calabria, Cafiero De Raho confermava quanto aveva annunciato alla stampa nel febbraio precedente.
L’allarme di Cafiero De Raho: ”Isis e ‘ndrangheta potrebbero aiutarsi a vicenda”
domenica 22 febbraio 2015
20:00
L’Isis, in Calabria, potrebbe trovare l’appoggio della ndrangheta in cambio di armi e droga.
Al momento si tratta solo di un’ipotesi, che però ha in Federico Cafiero De Raho, procuratore capo di Reggio Calabria, uno dei formulatori.
“E’ un’idea da percorrere. Un territorio come quello calabrese – afferma – capillarmente controllato dalla ndrangheta potrebbe rappresentare un appoggio logistico per il terrorismo”.
Cafiero si spinge anche nel concreto: “Coperture in aziende agricole, in terreni di montagna, falsificazione di documenti. Il tutto in cambio di armi e droga”.
La logica del profitto, secondo il Procuratore, sarebbe l’unica seguita dall’organizzazione criminale calabrese che, proprio da quei paesi, importa armi e che, attraverso l’Isis, troverebbe un canale preferenziale per l’eroina: “La ‘ndrangheta è protagonista nell’ importazione di cocaina dai Paesi sudamericani ed è protagonista anche per l’eroina ma non attraverso lo stesso canale ma da quelli che provengono da Turchia, Iraq, Nigeria, vari paesi che consentono queste importazioni. Pensare ad uno scambio armi e droga con appoggi logistici penso sia una ipotesi da percorre su cui vale la pena lavorare””.
Cafiero rivela inoltre che sono già in corso delle indagini “fondate sul monitoraggio internet, per verificare, con l’ausilio della Polizia Postale, se soggetti che provengono dalle aree più calde e che risiedono nel territorio reggino possano avere rapporti con esponenti dell’Isi. Abbiamo indizi – afferma – di vicinanza ma non intraneità al terrorismo”.
La lente di ingrandimento si è fermata anche sui flussi migratori di massa che, negli ultimi mesi, hanno interessato le coste calabresi.
In particolare la grandezza del fenomeno ha fatto si che il personale delle Forze dell’Ordine presente sul luogo di approdo spesso non sia sufficiente per identificare immediatamente quanti arrivino a terra e, in talune circostanze, ha fatto si che sul territorio si siano diffuse persone non identificate.
“Su questo stiamo lavorando – conclude Cafiero – per mettendo a punto, con il Prefetto e le forze dell’ordine, un protocollo per potere avere certezza dell’identificazione”.
2) Ovviamente la ‘ndrangheta non ha nessun interesse che lo Stato ficchi il naso nei suoi affari.
Pertanto diventa evidente che all’Isis chieda di non fare attentati in Italia.
3) Gabrielli può dirci se il patto ‘ndrangheta-Isis non è più valido se preannuncia attacchi nel Bel Paese????????
Mi raccontava un quarto di secolo fa, un amico di Monza, passato poi a “miglior vita”(modo di dire), che quando era piccolo, all’inizio del novecento, a Torino, e suo nonno lo mandava ad acquistare il giornale, incontrava regolarmente un generale di cavalleria dei Savoia, che si rivolgeva all’edicolante in questo modo:
“DAMM DU SOLD AD BALI”, che tradotto dal piemontese significa:
“DAMMI DUE SOLDI DI BALLE”.
Quindi dobbiamo dedurre che il problema delle post-verità, delle bufale et similia, è un vecchio problema delle società umane.
Per me Gabrielli è poco credibile, in quanto racconta la “sua verità” che può piacere solo al POTERE delle èlite.
1) Il suo diretto superiore politico, il ministro dell’Interno Minniti, era presente al dibattito all’Università Mediterranea del giugno 2015, quando il Procuratore Capo di Reggio Calabria, Cafiero De Raho confermava quanto aveva annunciato alla stampa nel febbraio precedente.
L’allarme di Cafiero De Raho: ”Isis e ‘ndrangheta potrebbero aiutarsi a vicenda”
domenica 22 febbraio 2015
20:00
L’Isis, in Calabria, potrebbe trovare l’appoggio della ndrangheta in cambio di armi e droga.
Al momento si tratta solo di un’ipotesi, che però ha in Federico Cafiero De Raho, procuratore capo di Reggio Calabria, uno dei formulatori.
“E’ un’idea da percorrere. Un territorio come quello calabrese – afferma – capillarmente controllato dalla ndrangheta potrebbe rappresentare un appoggio logistico per il terrorismo”.
Cafiero si spinge anche nel concreto: “Coperture in aziende agricole, in terreni di montagna, falsificazione di documenti. Il tutto in cambio di armi e droga”.
La logica del profitto, secondo il Procuratore, sarebbe l’unica seguita dall’organizzazione criminale calabrese che, proprio da quei paesi, importa armi e che, attraverso l’Isis, troverebbe un canale preferenziale per l’eroina: “La ‘ndrangheta è protagonista nell’ importazione di cocaina dai Paesi sudamericani ed è protagonista anche per l’eroina ma non attraverso lo stesso canale ma da quelli che provengono da Turchia, Iraq, Nigeria, vari paesi che consentono queste importazioni. Pensare ad uno scambio armi e droga con appoggi logistici penso sia una ipotesi da percorre su cui vale la pena lavorare””.
Cafiero rivela inoltre che sono già in corso delle indagini “fondate sul monitoraggio internet, per verificare, con l’ausilio della Polizia Postale, se soggetti che provengono dalle aree più calde e che risiedono nel territorio reggino possano avere rapporti con esponenti dell’Isi. Abbiamo indizi – afferma – di vicinanza ma non intraneità al terrorismo”.
La lente di ingrandimento si è fermata anche sui flussi migratori di massa che, negli ultimi mesi, hanno interessato le coste calabresi.
In particolare la grandezza del fenomeno ha fatto si che il personale delle Forze dell’Ordine presente sul luogo di approdo spesso non sia sufficiente per identificare immediatamente quanti arrivino a terra e, in talune circostanze, ha fatto si che sul territorio si siano diffuse persone non identificate.
“Su questo stiamo lavorando – conclude Cafiero – per mettendo a punto, con il Prefetto e le forze dell’ordine, un protocollo per potere avere certezza dell’identificazione”.
2) Ovviamente la ‘ndrangheta non ha nessun interesse che lo Stato ficchi il naso nei suoi affari.
Pertanto diventa evidente che all’Isis chieda di non fare attentati in Italia.
3) Gabrielli può dirci se il patto ‘ndrangheta-Isis non è più valido se preannuncia attacchi nel Bel Paese????????
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Re: La Terza Guerra Mondiale
|IL FATTO QUOTIDIANO |Lunedì 9 Gennaio 2017
Storia di copertina
Le strategie dell’Isis
Terrorismo, l’allarme per le armi chimiche
Secondo gli esperti de l l’IPFM
nel mondo circolerebbe una quantità
tale di plutonio e uranio arricchito
per fabbricare 20mila bombe come
quella lanciata ad Hiroshima
»LEONARDO COEN
Premesse e promesse della prossima apocalisse: ovvero come evolve il terrorismo islamico in nome dell’Isis.
Dagli attentati con esplosivi tradizionali siamo passati alla minaccia delle armi chimiche e biologiche, senza dimenticare il rischio atomico, l’incubo della Guerra Fredda.
Il sangue di Natale a Berlino e del Capodanno a Istanbul hanno infatti spinto il conservatore Ben Wallace, ministro della Sicurezza britannica, a dichiarare che lo Stato islamico ha in serbo qualcosa di peggio, giacché “non ha scrupoli nell’usare i gas e le armi chimiche contro le popolazioni e, se potessero, lo farebbero in questo Paese”.
Parole pesanti. Da prendere con le pinze?
Le parole infondate di Blair e Bush
Ricordano purtroppo quelle di Blair e Bush, i quali, per giustificare la seconda guerra contro Saddam Hussein, evocarono il pericolo che il dittatore iracheno potesse replicare con “armi di distruzione di massa”, secondo i rapporti dell’intelligence.
C’era stato l’11 settembre del 2001.
C’era la voglia di una Grande Vendetta americana.
Saddam Hussein era sospettato di aiutare Osama Bin Laden.
Ma le micidiali armi di distruzione di massa non furono mai trovate.
Poi si scoprì che i rapporti dei servizi segreti erano una losca manipolazione.
Un pretesto per la guerra.
Siamo dunque vaccinati contro le bugie e le montature Blair-Bush, perciò generalmente diffidiamo degli allarmi di analoga e drammatica portata: però, stavolta, gli indizi raccolti sembrano più circostanziati.
Dunque, maledettamente inquietanti.
L’eredità dell’orribile 2016.
Tutto cominciò seriamente dodici mesi fa, lo scorso gennaio. Deserto iracheno.
Il Pentagono autorizza un raid segretissimo dell’unità EFT (Expeditionary Targeting Force): la sua missione è catturare o uccidere i quadri dirigenti dell’Isis e ottenere informazioni.
Nelle loro mani casca il “pesce grosso”.
Slimane Daud al-Afari, uno specialista di armi chimiche dell’Isis.
Messo sotto torchio, l’uomo ammette che il suo gruppo intendeva utilizzare gas mostarda per attacchi futuri.
E spiega come. La soddisfazione di Washington è evidente.
Venerdì 9 febbraio James Clapper, coordinatore dei servizi d’intelligence Usa, e, tre giorni dopo, venerdì 12 febbraio (via Twitter) John Brennan, direttore della Cia, accusano per la prima volta apertamente l’Isis di utilizzare armi chimiche, così come di fabbricare piccole quantità di cloro e di gas mostarda in Siria e in Iraq.
Già nell’agosto del 2013 gli ispettori dell’Onu, capitanati dal professore svedese Ake Sellstrom, avevano denunciato che inSiria c’erano stati attacchi con bombe tossiche alla periferia di Damasco. Azioni ripetute più volte nei successivi anni di guerra. Le informazioni strappate ad al-Afari permettono incursioni
aeree su dei bersagli considerati cruciali per il programma di armi chimiche dell’Isi s. Dall’OIAC (l’o r g a n iz z a z i one per il divieto delle armi chimiche) si conferma che n el l’agosto del 2015 e nel febbraio del 2016 si è utilizzato yperite nei combattimenti al nord dell’Iraq (però non si dice da parte di chi).
L’attacco studiato su quattro città
E tuttavia, nonostante l’offensiva delle forze che contrastano l’Isis, lo scenario muta.
CONTINUA
Storia di copertina
Le strategie dell’Isis
Terrorismo, l’allarme per le armi chimiche
Secondo gli esperti de l l’IPFM
nel mondo circolerebbe una quantità
tale di plutonio e uranio arricchito
per fabbricare 20mila bombe come
quella lanciata ad Hiroshima
»LEONARDO COEN
Premesse e promesse della prossima apocalisse: ovvero come evolve il terrorismo islamico in nome dell’Isis.
Dagli attentati con esplosivi tradizionali siamo passati alla minaccia delle armi chimiche e biologiche, senza dimenticare il rischio atomico, l’incubo della Guerra Fredda.
Il sangue di Natale a Berlino e del Capodanno a Istanbul hanno infatti spinto il conservatore Ben Wallace, ministro della Sicurezza britannica, a dichiarare che lo Stato islamico ha in serbo qualcosa di peggio, giacché “non ha scrupoli nell’usare i gas e le armi chimiche contro le popolazioni e, se potessero, lo farebbero in questo Paese”.
Parole pesanti. Da prendere con le pinze?
Le parole infondate di Blair e Bush
Ricordano purtroppo quelle di Blair e Bush, i quali, per giustificare la seconda guerra contro Saddam Hussein, evocarono il pericolo che il dittatore iracheno potesse replicare con “armi di distruzione di massa”, secondo i rapporti dell’intelligence.
C’era stato l’11 settembre del 2001.
C’era la voglia di una Grande Vendetta americana.
Saddam Hussein era sospettato di aiutare Osama Bin Laden.
Ma le micidiali armi di distruzione di massa non furono mai trovate.
Poi si scoprì che i rapporti dei servizi segreti erano una losca manipolazione.
Un pretesto per la guerra.
Siamo dunque vaccinati contro le bugie e le montature Blair-Bush, perciò generalmente diffidiamo degli allarmi di analoga e drammatica portata: però, stavolta, gli indizi raccolti sembrano più circostanziati.
Dunque, maledettamente inquietanti.
L’eredità dell’orribile 2016.
Tutto cominciò seriamente dodici mesi fa, lo scorso gennaio. Deserto iracheno.
Il Pentagono autorizza un raid segretissimo dell’unità EFT (Expeditionary Targeting Force): la sua missione è catturare o uccidere i quadri dirigenti dell’Isis e ottenere informazioni.
Nelle loro mani casca il “pesce grosso”.
Slimane Daud al-Afari, uno specialista di armi chimiche dell’Isis.
Messo sotto torchio, l’uomo ammette che il suo gruppo intendeva utilizzare gas mostarda per attacchi futuri.
E spiega come. La soddisfazione di Washington è evidente.
Venerdì 9 febbraio James Clapper, coordinatore dei servizi d’intelligence Usa, e, tre giorni dopo, venerdì 12 febbraio (via Twitter) John Brennan, direttore della Cia, accusano per la prima volta apertamente l’Isis di utilizzare armi chimiche, così come di fabbricare piccole quantità di cloro e di gas mostarda in Siria e in Iraq.
Già nell’agosto del 2013 gli ispettori dell’Onu, capitanati dal professore svedese Ake Sellstrom, avevano denunciato che inSiria c’erano stati attacchi con bombe tossiche alla periferia di Damasco. Azioni ripetute più volte nei successivi anni di guerra. Le informazioni strappate ad al-Afari permettono incursioni
aeree su dei bersagli considerati cruciali per il programma di armi chimiche dell’Isi s. Dall’OIAC (l’o r g a n iz z a z i one per il divieto delle armi chimiche) si conferma che n el l’agosto del 2015 e nel febbraio del 2016 si è utilizzato yperite nei combattimenti al nord dell’Iraq (però non si dice da parte di chi).
L’attacco studiato su quattro città
E tuttavia, nonostante l’offensiva delle forze che contrastano l’Isis, lo scenario muta.
CONTINUA
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Re: La Terza Guerra Mondiale
UncleTom ha scritto:|IL FATTO QUOTIDIANO |Lunedì 9 Gennaio 2017
Storia di copertina
Le strategie dell’Isis
Terrorismo, l’allarme per le armi chimiche
Secondo gli esperti de l l’IPFM
nel mondo circolerebbe una quantità
tale di plutonio e uranio arricchito
per fabbricare 20mila bombe come
quella lanciata ad Hiroshima
»LEONARDO COEN
Premesse e promesse della prossima apocalisse: ovvero come evolve il terrorismo islamico in nome dell’Isis.
Dagli attentati con esplosivi tradizionali siamo passati alla minaccia delle armi chimiche e biologiche, senza dimenticare il rischio atomico, l’incubo della Guerra Fredda.
Il sangue di Natale a Berlino e del Capodanno a Istanbul hanno infatti spinto il conservatore Ben Wallace, ministro della Sicurezza britannica, a dichiarare che lo Stato islamico ha in serbo qualcosa di peggio, giacché “non ha scrupoli nell’usare i gas e le armi chimiche contro le popolazioni e, se potessero, lo farebbero in questo Paese”.
Parole pesanti. Da prendere con le pinze?
Le parole infondate di Blair e Bush
Ricordano purtroppo quelle di Blair e Bush, i quali, per giustificare la seconda guerra contro Saddam Hussein, evocarono il pericolo che il dittatore iracheno potesse replicare con “armi di distruzione di massa”, secondo i rapporti dell’intelligence.
C’era stato l’11 settembre del 2001.
C’era la voglia di una Grande Vendetta americana.
Saddam Hussein era sospettato di aiutare Osama Bin Laden.
Ma le micidiali armi di distruzione di massa non furono mai trovate.
Poi si scoprì che i rapporti dei servizi segreti erano una losca manipolazione.
Un pretesto per la guerra.
Siamo dunque vaccinati contro le bugie e le montature Blair-Bush, perciò generalmente diffidiamo degli allarmi di analoga e drammatica portata: però, stavolta, gli indizi raccolti sembrano più circostanziati.
Dunque, maledettamente inquietanti.
L’eredità dell’orribile 2016.
Tutto cominciò seriamente dodici mesi fa, lo scorso gennaio. Deserto iracheno.
Il Pentagono autorizza un raid segretissimo dell’unità EFT (Expeditionary Targeting Force): la sua missione è catturare o uccidere i quadri dirigenti dell’Isis e ottenere informazioni.
Nelle loro mani casca il “pesce grosso”.
Slimane Daud al-Afari, uno specialista di armi chimiche dell’Isis.
Messo sotto torchio, l’uomo ammette che il suo gruppo intendeva utilizzare gas mostarda per attacchi futuri.
E spiega come. La soddisfazione di Washington è evidente.
Venerdì 9 febbraio James Clapper, coordinatore dei servizi d’intelligence Usa, e, tre giorni dopo, venerdì 12 febbraio (via Twitter) John Brennan, direttore della Cia, accusano per la prima volta apertamente l’Isis di utilizzare armi chimiche, così come di fabbricare piccole quantità di cloro e di gas mostarda in Siria e in Iraq.
Già nell’agosto del 2013 gli ispettori dell’Onu, capitanati dal professore svedese Ake Sellstrom, avevano denunciato che inSiria c’erano stati attacchi con bombe tossiche alla periferia di Damasco. Azioni ripetute più volte nei successivi anni di guerra. Le informazioni strappate ad al-Afari permettono incursioni
aeree su dei bersagli considerati cruciali per il programma di armi chimiche dell’Isi s. Dall’OIAC (l’o r g a n iz z a z i one per il divieto delle armi chimiche) si conferma che n el l’agosto del 2015 e nel febbraio del 2016 si è utilizzato yperite nei combattimenti al nord dell’Iraq (però non si dice da parte di chi).
L’attacco studiato su quattro città
E tuttavia, nonostante l’offensiva delle forze che contrastano l’Isis, lo scenario muta.
CONTINUA
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E mutano pure le prospettive della guerra “ibrida”condotta dal Califfato.
Bisogna spostarsi di tremila chilometri, sino al Nordafrica magrebino.
In Marocco. Dove, nel febbraio 2016, gli uomini della DGSN (Direzione generale della sicurezza nazionale) neutralizzano una cellula jihadista affiliata all’Isis.
I suoi membri stavano per sferrare attacchi chimici in quattro città e avevano programmato un attentato suicida.
Disponevano di gas mostarda contrabbandato dalla Libia.
L’arsenale dei terroristi, inoltre, comprendeva altre sostanze chimiche e biologiche tossiche e una grande quantità di fertilizzante.
Le sostanze potevano essere usate per produrre esplosivi artigianali ed essere trasformate in tossine mortali.
È la conferma che la strategia dell’Isis sta cambiando.
Che si cerca di alzare il livello offensivo.
Soprattutto dopo le sconfitte militari sul terreno, sia in Siria che in Iraq.
Tanto per non farci mancare niente, ecco che il 25 marzo 2016, qualche giorno dopo gli attacchi all’aeroporto e alla metropolitana di Bruxelles, si delinea un nuovo e ancor più spaventoso fronte: Yukiya Amano, direttore dell’AIEA, l’Agenzia internazionale dell’energia atomica, invita gli Stati a rafforzare la sicurezza dinanzi al rischio sempre più elevato del “terrorismo nucleare”.
Lo fa tramite l’autorevole Afp , l’agence France press.
Secondo Amano, “la possibilità che materiali nucleari siano impiegati dai terroristi non può essere escluso. Basta un’infima quantità di plutonio per confezionare una bomba atomica rudimentale.
Ormai, oggi come oggi, i terroristi hanno le conoscenze e le informazioni per farle”. A preoccupare ancor di più è l’analisi di un gruppo di esperti che lavorano in seno all’IPFM (International Panel on Fissile Materials), un gruppo indipendente fondato nel2006 chesi occupa di controllo e della non proliferazione delle armi nucleari: nel mondo circolerebbe una quantità tale di plutonio e uranio arricchito per fabbricare20mila bombe d’Hiroshima.
Attenzione a ospedali e università
Amano è ancor più pessimista: per lui basterebbero i materiali nucleari utilizzati in luoghi facilmente accessibili, come gli ospedali e le università.
Fatto sta che la risposta al suo appello è immediata: viene convocato a Washington un summit il 31 marzo e il primo aprile per affrontare l’emergenza, vi partecipano i rappresentanti di una cinquantina di nazioni.
Tutti sono d’accordo nell’aumentare le misure di sicurezza attorno alle centrali nucleari, bersagli potenzialmente “sensibili”del terrorismo jihadista, come emerso nelle indagini in Belgio sulla filiera dei terroristi che hanno attaccato Parigi il 13 novembre del 2015.
La sorveglianza è incrementata anche nelle aziende del settore industriale atomico.
Trapelano misteriosi episodi.
Per esempio, parecchie centrali nucleari francesi sarebbero state sorvolate più volte da droni non identificati, tra l’estate del 2015 e la primavera del 2016.
Il problema: ora è molto semplice prepararle
La conferma che in Marocco l’Isis voleva sperimentare attacchi chimici arriva il 4 Aprile 2016.
Abdelhak Khiame, direttore del BCIJ (Bureau central d’investigation judiciares), rompe gli indugi e mette in guardia l’Occidente: “È possibile che l’Isis utilizzi le armi chimiche per colpire la Gran Bretagna e altri Paesi europei.
Purtroppo, abbiamo potuto constatare quanto sia facile prepararle.
Infatti le sostanze usate nell’attacco sventato lo scorso febbraio dalla nostra a genzia sono in commercio ovunque,in Europa”.
Del resto, anche il ministro russo degli esteri, Sergej Lavrov, aveva detto che l’uso delle armi chimiche da parte dei terroristi “è ormai una realtà.
Non abbiamo più alcun dubbio che il terrorismo chimico sia passato oggi da una minaccia astratta a una dura realtà, che si può e si deve fermare intensificando il lavoro a livello internazionale”.
Come ha fatto l’Europol . Nel rapporto Changes in Modus Operandi of Islamic State revisited del novembre 2016 c’è un capitolo, il sesto, assai eloquente, ahinoi: s’intitola Choice of weapons, la scelta delle armi.
È strutturato in tre punti. Il vecchio manuale d e l l’Unione Sovietica Nel terzo, si scrive che “è evidente che l’Isis ha manifestato un interesse nell’uso di armi chimiche e/o biologiche”.
Siamo fritti. Occhio ai rubinetti. In un vecchio manuale dell’Unione Sovietica, dove si spiegava cosa fare quando si assedia una città, si suggeriva di inquinare gli acquedotti.
E di obbligare a bere solo acqua in bottiglie sigillate.
In America, esistono migliaia di aziende chimiche suscettibili d’essere bersaglio del terrorismo.
Un ’esplosione può trasformarle in un’arma devastante: ricordate Seveso o Bhopal?
Per questo sarebbero tenute a rispettare particolari (e costosi) protocolli di sicurezza, imposti dal Chemical Facility Anti-Terrorism Standards, ma funestati da una burocrazia soffocante.
Ebbene, vi fu una sconcertante scoperta: solo 39 delle 4011 infrastrutture “critiche”avevano migliorato la propria sicurezza. No comment.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Libia, Al Arabiya: “Milizie assaltano 3 ministeri del governo a Tripoli”. Ghwell annuncia golpe: “Torna nostro governo”
Mondo
Giuseppe Perrone, ambasciatore d'Italia, interpellato dall'Ansa, ha riferito che non "risulta alcun golpe in atto, le sedi istituzionali nelle quali opera il governo di accordo nazionale sotto la guida di Sarraj continuano a lavorare"
di F. Q. | 12 gennaio 2017
commenti (32)
101
Più informazioni su: Libia
“Torna il nostro governo”. Khalifa Ghwell, l’ex premier del dissolto governo libico islamista di salvezza nazionale, ha annunciato un golpe a Tripoli assicurando il ritorno del suo governo e precisando che le sue forze hanno preso il controllo di tre ministeri sottraendoli alle forze governative di Sarraj. La situazione a Tripoli è andata “di male in peggio”, ha proseguito l’ex primo ministro, nell’anno in cui “Sarraj è diventato capo di un governo sostenuto dall’Onu che è stato un fallimento”. Il sito Russia Today, citata dall’agenzia russa Ria Novosti, scrive che “le forze speciali libiche hanno ripreso il controllo degli edifici ministeriali a Tripoli”. In un’intervista a Sputnik, sito internet vicino al Cremlino, il portavoce delle forze speciali libiche, Ashraf as-Sulsi ha confermato: “abbiamo il controllo di tutti gli edifici che i jihadisti avevano provato a prendere”. Mentre Giuseppe Perrone, ambasciatore d’Italia a Tripoli, interpellato dall’Ansa, ha riferito che non “risulta alcun golpe in atto, le sedi istituzionali nelle quali opera il governo di accordo nazionale sotto la guida di Sarraj continuano a lavorare”.
Poche ore fa “gruppi libici armati hanno assaltato e preso il controllo dei ministeri della Difesa, Giustizia ed Economia a Tripoli“. La notizia era stata riporta al Arabiya su Twitter. Il governo di Tripoli è presieduto da Fayez Al Sarraj ed è sostenuto dall’Onu e dalla comunità internazionale che lo ha riconosciuto il 23 dicembre 2015 come solo governo legittimo della Libia. Fonti diplomatiche di alto livello, citate dal sito Afrigatenews, avevano confermato che le forze che hanno occupato i ministeri erano fedeli all’ex primo ministro, precisando che nelle prossime ore “Ghwell avrebbe letto un comunicato dal quartier generale del ministero della Difesa”.
Non è la prima volta che si verificano scontri, a confermare il protrarsi di una situazione instabile. Nell’ottobre scorso, gli uomini di Ghwell avevano provato a portare a termine un golpo per deporre il governo di al Sarraj. Il leader islamista era apparso alla televisione dichiarando che i suoi miliziani “avevano il 100% del controllo della località”. Alcuni analisti avevano parlato di un tentativo di “golpe” ai danni del consiglio presidenziale guidato dal premier designato Sarraj, ma la situazione era poi tornata rapidamente alla normalità. Nell’aprile scorso, invece, un gruppo armato hava attaccato l’abitazione di un componente del Consiglio presidenziale libico, Ahmed Maetig, uccidendo diverse guardie.
A Tripoli sono presenti numerose fazioni armate, alcune legate a Sarraj, mentre altre ostili al governo. Perde corpo l’ipotesi che i gruppi armati in questione possano anche essere vicini alle autorità della Cirenaica, cioè alle forze del generale Khalifa Haftar nemico giurato dei Fratelli Musulmani e dei gruppi islamisti che si ispirano alla Fratellanza.
Settimana scorsa, aerei militari sotto il comando del generale Haftar hanno bombardato una base aerea di Al Jufra, controllata dalle forze fedeli al governo di unità nazionale di Tripoli del premier al Sarraj, secondo quanto riferiscono fonti ufficiali, che parlano anche del ferimento di alcuni miliziani. Secondo l’Esercito nazionale libico, la fazione guidata da Haftar, nel raid è stato colpito un C-130 che – si afferma – trasportava armi e munizioni per la milizia di Misurata, che combatte a fianco del governo di Tripoli. Seza fare esplicito riferimento a quell’episodio, l’inviato speciale dell’’Onu Martin Kobler aveva affermato che tutte le parti in Libia dovrebbero esercitare l’autocontrollo e “affidarsi al dialogo” contro l’escalation della violenza.
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Giuseppe Perrone, ambasciatore d'Italia, interpellato dall'Ansa, ha riferito che non "risulta alcun golpe in atto, le sedi istituzionali nelle quali opera il governo di accordo nazionale sotto la guida di Sarraj continuano a lavorare"
di F. Q. | 12 gennaio 2017
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“Torna il nostro governo”. Khalifa Ghwell, l’ex premier del dissolto governo libico islamista di salvezza nazionale, ha annunciato un golpe a Tripoli assicurando il ritorno del suo governo e precisando che le sue forze hanno preso il controllo di tre ministeri sottraendoli alle forze governative di Sarraj. La situazione a Tripoli è andata “di male in peggio”, ha proseguito l’ex primo ministro, nell’anno in cui “Sarraj è diventato capo di un governo sostenuto dall’Onu che è stato un fallimento”. Il sito Russia Today, citata dall’agenzia russa Ria Novosti, scrive che “le forze speciali libiche hanno ripreso il controllo degli edifici ministeriali a Tripoli”. In un’intervista a Sputnik, sito internet vicino al Cremlino, il portavoce delle forze speciali libiche, Ashraf as-Sulsi ha confermato: “abbiamo il controllo di tutti gli edifici che i jihadisti avevano provato a prendere”. Mentre Giuseppe Perrone, ambasciatore d’Italia a Tripoli, interpellato dall’Ansa, ha riferito che non “risulta alcun golpe in atto, le sedi istituzionali nelle quali opera il governo di accordo nazionale sotto la guida di Sarraj continuano a lavorare”.
Poche ore fa “gruppi libici armati hanno assaltato e preso il controllo dei ministeri della Difesa, Giustizia ed Economia a Tripoli“. La notizia era stata riporta al Arabiya su Twitter. Il governo di Tripoli è presieduto da Fayez Al Sarraj ed è sostenuto dall’Onu e dalla comunità internazionale che lo ha riconosciuto il 23 dicembre 2015 come solo governo legittimo della Libia. Fonti diplomatiche di alto livello, citate dal sito Afrigatenews, avevano confermato che le forze che hanno occupato i ministeri erano fedeli all’ex primo ministro, precisando che nelle prossime ore “Ghwell avrebbe letto un comunicato dal quartier generale del ministero della Difesa”.
Non è la prima volta che si verificano scontri, a confermare il protrarsi di una situazione instabile. Nell’ottobre scorso, gli uomini di Ghwell avevano provato a portare a termine un golpo per deporre il governo di al Sarraj. Il leader islamista era apparso alla televisione dichiarando che i suoi miliziani “avevano il 100% del controllo della località”. Alcuni analisti avevano parlato di un tentativo di “golpe” ai danni del consiglio presidenziale guidato dal premier designato Sarraj, ma la situazione era poi tornata rapidamente alla normalità. Nell’aprile scorso, invece, un gruppo armato hava attaccato l’abitazione di un componente del Consiglio presidenziale libico, Ahmed Maetig, uccidendo diverse guardie.
A Tripoli sono presenti numerose fazioni armate, alcune legate a Sarraj, mentre altre ostili al governo. Perde corpo l’ipotesi che i gruppi armati in questione possano anche essere vicini alle autorità della Cirenaica, cioè alle forze del generale Khalifa Haftar nemico giurato dei Fratelli Musulmani e dei gruppi islamisti che si ispirano alla Fratellanza.
Settimana scorsa, aerei militari sotto il comando del generale Haftar hanno bombardato una base aerea di Al Jufra, controllata dalle forze fedeli al governo di unità nazionale di Tripoli del premier al Sarraj, secondo quanto riferiscono fonti ufficiali, che parlano anche del ferimento di alcuni miliziani. Secondo l’Esercito nazionale libico, la fazione guidata da Haftar, nel raid è stato colpito un C-130 che – si afferma – trasportava armi e munizioni per la milizia di Misurata, che combatte a fianco del governo di Tripoli. Seza fare esplicito riferimento a quell’episodio, l’inviato speciale dell’’Onu Martin Kobler aveva affermato che tutte le parti in Libia dovrebbero esercitare l’autocontrollo e “affidarsi al dialogo” contro l’escalation della violenza.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
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Oliver Stone: prego che questa America non attacchi Mosca
Scritto il 12/1/17 • nella Categoria: idee Condividi
«Non avrei mai pensato che mi sarei trovato a pregare per il livello ragionevolezza di un Donald Trump. Ricordate “L’Iliade”? Secondo Omero gli dèi si libravano sopra le battaglie di ogni giorno e ne decidevano il risultato. Chi sarebbe morto e chi sarebbe vissuto. Gli dèi sono ancora in ascolto?». Così il regista Oliver Stone, letteralmente terrorizzato dall’escalation militare in corso contro la Russia, «un paese che crede che in questo momento gli Stati Uniti, con il più grande schieramento della Nato ai suoi confini dalla Seconda Guerra Mondiale di Hitler, siano abbastanza folli da preparare un attacco preventivo». Nessuno ne parla, sui grandi media, ma è così: pur già con le valigie in mano, Obama ha dato il via libera alla colossale operazione “Atlantic Resolve”, con oltre 5.000 mezzi corazzati in azione per 9 mesi sul confine russo-lituano. Silenzio assoluto anche in Italia: se Mentana denuncia Grillo per l’accusa di alimentare “fake news”, Giulietto Chiesa li rimbecca, su “Megachip”: «Questa dovrebbe essere una notizia di apertura anche per il telegiornale di Mentana. E anche per il blog di Grillo. Tacciono invece entrambi».
Dagli Usa, Oliver Stone riversa su Facebook la sua angoscia: l’ormai decadente “New York Times” degenera nell’impostazione del “Washington Post” «con la sua ristagnante visione da Guerra Fredda di un mondo degli anni ’50 dove ai russsi viene data la colpa di tutto – la sconfitta di Hillary, la maggior parte delle aggressioni e dei disordini nel mondo, la volontà di destabilizzare l’Europa». In più, il “Times” «ha aggiunto la questione delle “fake news” per riaffermare il suo discutibile ruolo di voce dominante dell’establishment di Washington», cavalcando la polemica sull’ipotetico hackeraggio da parte della Russia nelle elezioni presidenziali vinte da Trump. Nel post, tradotto da “Come Don Chisciotte”, il regista cita la Cia e l’Fbi, la Nsa e il direttore della National Intelligence, James Clapper, un uomo che «come si sa, mentì al Congresso a riguardo dell’affare Snowden». Tutti in coro: Obama e la Dnc, Hillary Clinton e il Parlamento: colpa di Putin. E a fianco di questi «patrioti», aggiunge Stone, spicca in particolare il senatore John McCain, «psicotico, amante della guerra», che definisce Putin come «un delinquente, un bullo e un assassino», finendo sulla prima pagina del “Times”.
«Non ricordo che i presidenti Eisenhower, Nixon o Reagan, nei periodi più neri degli anni 50/80, si siano mai riferiti ad un presidente russo in questo modo», scrive Stone. «Le invettive venivano rivolte al regime sovietico ma non erano mai Khrushchev o Brezhnev il bersaglio della loro bile. La mia ipotesi è che questa sia una nuova forma di diplomazia da parte dell’America. Se un giovane nero viene ucciso nelle nostre città od i partecipanti ad un banchetto di nozze in Pakistan vengono sterminati dai nostri droni Obama viene additato come assassino, bullo, delinquente?». I grandi giornali che ora crocifiggono Putin sono gli stessi che hanno taciuto sulle scandalose irregolarità emerse sulla Clinton, grazie all’ex ambasciatore Craig Murray, ora portavoce di Wikileaks. «Se su questo si fosse indagato correttamente si sarebbe benissimo potuti arrivare a scoprire che per Hillary Clinton questo era il “Nixon moment”». Sembra di essere tornati negli anni ‘50, «quando si supponeva che i russi fossero nelle nostre scuole, al Congresso, al Dipartimento di Stato – in sintonia con molti supporter di Eisenower/Nixon – per impadronirsi del nostro paese senza incontrare una seria opposizione». Salvo poi «sostenere la nostra necessità di andare in Vietnam per difendere la nostra libertà contro i comunisti, a 10.000 chilometri di distanza».
E dopo che il Terrore Rosso finalmente se ne fu andato una volta per tutte nel 1991, continua Stone, vediamo che non è mai finita: «Il Terrore è diventato Saddam Hussein in Iraq con i suoi missili di distruzione di massa, il “fungo atomico”. E’ diventato il Demone, reale tanto quanto ogni Processo alle Streghe di Salem. E’ stato Gheddafi in Libia e poi è stato Assad in Siria. In altre parole, come in una profezia orwelliana, non è mai finita. E vi posso garantire che non si riderà mai loro in faccia – a meno che noi cittadini, ancora capaci di un pensiero autonomo nelle faccende esistenziali, diciamo “basta” a questo agire demoniaco: “Ne abbiamo abbastanza, fuori dai piedi”». Inutile sperare nel riveglio dei media. «Mio Dio, il fantasma di Izzy Stone è tornato dagli anni ’50! D’altronde lo è anche Tom Clancy dagli anni ’80. Falsi thriller verranno scritti sull’hackeraggio dei russi nelle elezioni americane. Si faranno soldi e serial Tv. Non avevo mai letto simile spazzatura isterica sul “New York Times” (chiamiamola per quello che è, “fake news”) in cui gli editoriali sono diventati diatribe oltraggiose sui presunti crimini da parte della Russia, la maggior parte dei quali presumibilmente scritti da Serge Schmemann, uno di quegli ideologi che ancora la notte guarda se ci sono russi sotto il suo letto; erano chiamati ai vecchi tempi “russi bianchi” e, come i cubani di destra a Miami, non sono capaci di accantonare il passato».
Questo tipo di pensiero, agiunge Stone, ha chiaramente influenzato il Pentagono e molte delle affermazioni di generali Usa, e ha pervaso i report di quello che che il regista chiama “Msm”, sistema del mainstream media. «Quando un gruppo di pensiero controlla la nostra comunicazione nazionale, diventa veramente pericoloso. In questo spirito, io sto linkando numerosi saggi cruciali della nuova annata, sottolineando la vergogna che è diventato il Msm». Oliver Stone non ama Trump e vede che è bersaglio numero uno, insieme a Putin, del sistema mainstream. E teme che lo resterà «fino a quando non salterà sul binario anti-Cremlino grazie a qualche tipo di falsa informazione o incomprensione cucinate dalla Cia». A quel punto, «col suo modo impulsivo di fare, inizierà a combattere con i russi, e non passerà molto tempo prima che venga dichiarato lo stato di guerra contro la Russia». Basterebbe leggere Robert Parry, secondo cui i neocon hanno fabbricato il nuovo “nemico” a partire dal 1980, con lo spettro del terrorismo “islamico” attribuito all’Iran. «Come questo abbia portato al nostro disordine attuale è una brillante analisi che è sconosciuta al pubblico americano». A parte gli dèi dell’Olimpo, per trovare appigli, Oliver Stone non ha che il Dalai Lama: «Ognuno di noi, anche attraverso le nostre preghiere, può contribuire al miglioramento di questo mondo». Troppi missili, in giro: non ci resta che pregare?
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Oliver Stone: prego che questa America non attacchi Mosca
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«Non avrei mai pensato che mi sarei trovato a pregare per il livello ragionevolezza di un Donald Trump. Ricordate “L’Iliade”? Secondo Omero gli dèi si libravano sopra le battaglie di ogni giorno e ne decidevano il risultato. Chi sarebbe morto e chi sarebbe vissuto. Gli dèi sono ancora in ascolto?». Così il regista Oliver Stone, letteralmente terrorizzato dall’escalation militare in corso contro la Russia, «un paese che crede che in questo momento gli Stati Uniti, con il più grande schieramento della Nato ai suoi confini dalla Seconda Guerra Mondiale di Hitler, siano abbastanza folli da preparare un attacco preventivo». Nessuno ne parla, sui grandi media, ma è così: pur già con le valigie in mano, Obama ha dato il via libera alla colossale operazione “Atlantic Resolve”, con oltre 5.000 mezzi corazzati in azione per 9 mesi sul confine russo-lituano. Silenzio assoluto anche in Italia: se Mentana denuncia Grillo per l’accusa di alimentare “fake news”, Giulietto Chiesa li rimbecca, su “Megachip”: «Questa dovrebbe essere una notizia di apertura anche per il telegiornale di Mentana. E anche per il blog di Grillo. Tacciono invece entrambi».
Dagli Usa, Oliver Stone riversa su Facebook la sua angoscia: l’ormai decadente “New York Times” degenera nell’impostazione del “Washington Post” «con la sua ristagnante visione da Guerra Fredda di un mondo degli anni ’50 dove ai russsi viene data la colpa di tutto – la sconfitta di Hillary, la maggior parte delle aggressioni e dei disordini nel mondo, la volontà di destabilizzare l’Europa». In più, il “Times” «ha aggiunto la questione delle “fake news” per riaffermare il suo discutibile ruolo di voce dominante dell’establishment di Washington», cavalcando la polemica sull’ipotetico hackeraggio da parte della Russia nelle elezioni presidenziali vinte da Trump. Nel post, tradotto da “Come Don Chisciotte”, il regista cita la Cia e l’Fbi, la Nsa e il direttore della National Intelligence, James Clapper, un uomo che «come si sa, mentì al Congresso a riguardo dell’affare Snowden». Tutti in coro: Obama e la Dnc, Hillary Clinton e il Parlamento: colpa di Putin. E a fianco di questi «patrioti», aggiunge Stone, spicca in particolare il senatore John McCain, «psicotico, amante della guerra», che definisce Putin come «un delinquente, un bullo e un assassino», finendo sulla prima pagina del “Times”.
«Non ricordo che i presidenti Eisenhower, Nixon o Reagan, nei periodi più neri degli anni 50/80, si siano mai riferiti ad un presidente russo in questo modo», scrive Stone. «Le invettive venivano rivolte al regime sovietico ma non erano mai Khrushchev o Brezhnev il bersaglio della loro bile. La mia ipotesi è che questa sia una nuova forma di diplomazia da parte dell’America. Se un giovane nero viene ucciso nelle nostre città od i partecipanti ad un banchetto di nozze in Pakistan vengono sterminati dai nostri droni Obama viene additato come assassino, bullo, delinquente?». I grandi giornali che ora crocifiggono Putin sono gli stessi che hanno taciuto sulle scandalose irregolarità emerse sulla Clinton, grazie all’ex ambasciatore Craig Murray, ora portavoce di Wikileaks. «Se su questo si fosse indagato correttamente si sarebbe benissimo potuti arrivare a scoprire che per Hillary Clinton questo era il “Nixon moment”». Sembra di essere tornati negli anni ‘50, «quando si supponeva che i russi fossero nelle nostre scuole, al Congresso, al Dipartimento di Stato – in sintonia con molti supporter di Eisenower/Nixon – per impadronirsi del nostro paese senza incontrare una seria opposizione». Salvo poi «sostenere la nostra necessità di andare in Vietnam per difendere la nostra libertà contro i comunisti, a 10.000 chilometri di distanza».
E dopo che il Terrore Rosso finalmente se ne fu andato una volta per tutte nel 1991, continua Stone, vediamo che non è mai finita: «Il Terrore è diventato Saddam Hussein in Iraq con i suoi missili di distruzione di massa, il “fungo atomico”. E’ diventato il Demone, reale tanto quanto ogni Processo alle Streghe di Salem. E’ stato Gheddafi in Libia e poi è stato Assad in Siria. In altre parole, come in una profezia orwelliana, non è mai finita. E vi posso garantire che non si riderà mai loro in faccia – a meno che noi cittadini, ancora capaci di un pensiero autonomo nelle faccende esistenziali, diciamo “basta” a questo agire demoniaco: “Ne abbiamo abbastanza, fuori dai piedi”». Inutile sperare nel riveglio dei media. «Mio Dio, il fantasma di Izzy Stone è tornato dagli anni ’50! D’altronde lo è anche Tom Clancy dagli anni ’80. Falsi thriller verranno scritti sull’hackeraggio dei russi nelle elezioni americane. Si faranno soldi e serial Tv. Non avevo mai letto simile spazzatura isterica sul “New York Times” (chiamiamola per quello che è, “fake news”) in cui gli editoriali sono diventati diatribe oltraggiose sui presunti crimini da parte della Russia, la maggior parte dei quali presumibilmente scritti da Serge Schmemann, uno di quegli ideologi che ancora la notte guarda se ci sono russi sotto il suo letto; erano chiamati ai vecchi tempi “russi bianchi” e, come i cubani di destra a Miami, non sono capaci di accantonare il passato».
Questo tipo di pensiero, agiunge Stone, ha chiaramente influenzato il Pentagono e molte delle affermazioni di generali Usa, e ha pervaso i report di quello che che il regista chiama “Msm”, sistema del mainstream media. «Quando un gruppo di pensiero controlla la nostra comunicazione nazionale, diventa veramente pericoloso. In questo spirito, io sto linkando numerosi saggi cruciali della nuova annata, sottolineando la vergogna che è diventato il Msm». Oliver Stone non ama Trump e vede che è bersaglio numero uno, insieme a Putin, del sistema mainstream. E teme che lo resterà «fino a quando non salterà sul binario anti-Cremlino grazie a qualche tipo di falsa informazione o incomprensione cucinate dalla Cia». A quel punto, «col suo modo impulsivo di fare, inizierà a combattere con i russi, e non passerà molto tempo prima che venga dichiarato lo stato di guerra contro la Russia». Basterebbe leggere Robert Parry, secondo cui i neocon hanno fabbricato il nuovo “nemico” a partire dal 1980, con lo spettro del terrorismo “islamico” attribuito all’Iran. «Come questo abbia portato al nostro disordine attuale è una brillante analisi che è sconosciuta al pubblico americano». A parte gli dèi dell’Olimpo, per trovare appigli, Oliver Stone non ha che il Dalai Lama: «Ognuno di noi, anche attraverso le nostre preghiere, può contribuire al miglioramento di questo mondo». Troppi missili, in giro: non ci resta che pregare?
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Re: La Terza Guerra Mondiale
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Kerry confessa: noi con l’Isis in Siria, dalla base di Smirne
Scritto il 21/1/17 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
La guerra contro la Siria è il primo conflitto dell’epoca informatica a durare oltre sei anni. Numerosissimi documenti che sarebbero dovuti rimanere a lungo segreti sono già stati pubblicati. Benché siano stati divulgati, in misura diversa, in paesi diversi e l’opinione pubblica non abbia così potuto prenderne piena consapevolezza, essi consentono sin da ora una ricostruzione degli avvenimenti. La pubblicazione della registrazione di quanto dichiarato da John Kerry in privato, a settembre scorso, rivela la politica del Dipartimento di Stato americano e costringe tutti gli osservatori, noi compresi, a rivedere le proprie analisi. La registrazione integrale dell’incontro del segretario di Stato John Kerry con membri della Coalizione nazionale siriana delle forze dell’opposizione e della rivoluzione, avvenuta il 22 settembre nei locali della delegazione olandese alle Nazioni Unite, pubblicata da “The Last Refuge”, rimette in causa la nostra analisi della posizione Usa nei confronti della Siria.
In primo luogo, avevamo creduto che Washington, dopo aver dato inizio all’operazione chiamata “Primavera araba”, finalizzata a rovesciare i regimi laici a beneficio dei Fratelli Musulmani, avesse lasciato i propri alleati da soli a dare l’avvio alla seconda guerra contro la Siria, iniziata a luglio 2012. E avevamo creduto che, perseguendo questi alleati obiettivi propri (ricolonizzazione per Francia e Regno Unito; conquista del gas per il Qatar; espansione del wahabismo e vendetta della guerra civile libanese per l’Arabia Saudita; annessione della Siria del nord per la Turchia, secondo il modello cipriota, ecc.), l’obiettivo iniziale fosse stato abbandonato. Invece, nella registrazione si sente John Kerry affermare che Washington non ha mai rinunciato ai tentativi di rovesciamento della repubblica araba siriana. Ciò significa che gli Usa hanno seguito passo per passo l’operato degli alleati. Di fatto, negli ultimi quattro anni gli jihadisti sono stati comandati, armati e coordinati dall’AlliedLandCom (Comando delle forze terrestri) della Nato, basato a Smirne (Turchia).
In secondo luogo, John Kerry riconosce che Washington non poteva esporsi maggiormente per due ragioni: il diritto internazionale e la posizione della Russia. Sia chiaro, gli Stati Uniti non hanno mai avuto scrupoli a violare il diritto internazionale: hanno distrutto le strutture nodali della rete petrolifera e del gas della Siria, con il pretesto di combattere gli jihadisti (ciò che è conforme al diritto internazionale), senza però che il presidente al-Assad glielo avesse chiesto (quindi, in violazione del diritto internazionale). Non hanno invece osato mandare truppe terrestri per combattere in campo aperto la repubblica siriana, come viceversa avevano fatto in Corea, in Vietnam e in Iraq. E hanno scelto di mandare in prima linea i loro alleati (secondo la strategia della “leadership from behind” – leadership occulta) e di sostenere, senza peraltro grande discrezione, i mercenari, come avvenne in Nicaragua, rischiando di venire condannati dalla Corte internazionale di Giustizia (il tribunale dell’Onu).
In realtà, Washington non vuole imbarcarsi in una guerra contro la Russia. E, dal canto suo, la Russia, che non si era opposta alla distruzione della Jugoslavia e della Libia, ora ha rialzato la testa e spinto più in là il limite da non oltrepassare. Mosca è in condizione di difendere il diritto con la forza, qualora Washington ingaggiasse apertamente una nuova guerra di conquista. In terzo luogo, quanto detto da John Kerry dimostra che Washington sperava in una vittoria di Daesh sulla repubblica siriana. Fino a oggi, basandoci sul rapporto del generale Michael Flynn del 12 agosto 2012 e dell’articolo di Robert Wright sul “New York Times” del 28 settembre 2013, avevamo ritenuto che il Pentagono volesse creare un “Sunnistan” a cavallo tra Siria e Iraq, per tagliare la via della seta. Nella registrazione Kerry confessa che il piano andava ben oltre. Probabilmente, Daesh avrebbe dovuto prendere Damasco per poi venirne cacciato da Tel Aviv (ossia, ripiegare sul “Sunnistan”, appositamente creato). La Siria avrebbe potuto così essere spartita: il sud a Israele, l’est a Daesh, il nord alla Turchia.
Ciò fa capire perché Washington abbia dato l’impressione di non controllare nulla, di “lasciar fare” gli alleati: gli Stati Uniti hanno indotto Francia e Regno Unito a impegnarsi nel conflitto, facendo loro credere che avrebbero potuto ricolonizzare il Levante, mentre, al contrario, avevano già deciso che sarebbero stati esclusi dalla spartizione della Siria. In quarto luogo, John Kerry, ammettendo di aver “sostenuto” Daesh, riconosce di averlo armato. La retorica della “guerra contro il terrorismo” si riduce perciò a nulla. Dall’attentato del 22 febbraio 2006 alla moschea al-Askari di Samarra, Iraq, sapevamo che Daesh (che inizialmente si chiamava “Emirato islamico dell’Iraq”) era stato creato dal direttore nazionale dell’intelligence Usa, John Negroponte, e dal colonnello James Steele per stroncare la resistenza irachena e provocare una guerra civile, sul modello di quanto fatto in Honduras. Dopo la pubblicazione sul quotidiano del Pkk, Partito dei lavoratori del Kurdistan, “Özgür Gündem”, del processo verbale della riunione di pianificazione, tenutasi ad Amman il 1° giugno 2014, sapevamo che gli Stati Uniti avevano organizzato un’offensiva congiunta di Daesh su Mosul, e del governo regionale del Kurdistan iracheno su Kirkuk.
In quinto luogo, abbiamo ritenuto che il conflitto tra il clan Allen/Clinton/Feltman/Petraeus da un lato, e l’amministrazione Obama/Kerry dall’altro vertesse sul sostegno o no a Daesh. Non è affatto così. Entrambi i campi non hanno avuto scrupoli a organizzare e sostenere gli jihadisti più fanatici. Il loro disaccordo attiene esclusivamente al ricorso alla guerra aperta – e al rischio di un conflitto con la Russia – o alla scelta di manovrare dietro le quinte. Solo Flynn, attuale consigliere per la sicurezza di Trump – si è opposto allo jihadismo. Se accadesse che, fra qualche anno, gli Stati Uniti crollassero, com’è accaduto per l’Urss, la registrazione di John Kerry potrebbe essere utilizzata contro di lui e contro Obama davanti a una giurisdizione internazionale – ma non davanti alla Corte penale internazionale dell’Onu, ormai screditata. Avendo riconosciuto la veridicità degli estratti pubblicati dal “New York Times”, Kerry non potrebbe contestare l’autenticità del documento sonoro integrale. Il sostegno a Daesh che Kerry esibisce vìola parecchie risoluzioni delle Nazioni Unite e costituisce una prova della responsabilità sua e di Obama nei crimini contro l’umanità commessi dall’organizzazione terrorista.
(Thierry Meyssan, “Le confessioni del criminale John Kerry”, da “Megachip” del 19 gennaio 2017).
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Kerry confessa: noi con l’Isis in Siria, dalla base di Smirne
Scritto il 21/1/17 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
La guerra contro la Siria è il primo conflitto dell’epoca informatica a durare oltre sei anni. Numerosissimi documenti che sarebbero dovuti rimanere a lungo segreti sono già stati pubblicati. Benché siano stati divulgati, in misura diversa, in paesi diversi e l’opinione pubblica non abbia così potuto prenderne piena consapevolezza, essi consentono sin da ora una ricostruzione degli avvenimenti. La pubblicazione della registrazione di quanto dichiarato da John Kerry in privato, a settembre scorso, rivela la politica del Dipartimento di Stato americano e costringe tutti gli osservatori, noi compresi, a rivedere le proprie analisi. La registrazione integrale dell’incontro del segretario di Stato John Kerry con membri della Coalizione nazionale siriana delle forze dell’opposizione e della rivoluzione, avvenuta il 22 settembre nei locali della delegazione olandese alle Nazioni Unite, pubblicata da “The Last Refuge”, rimette in causa la nostra analisi della posizione Usa nei confronti della Siria.
In primo luogo, avevamo creduto che Washington, dopo aver dato inizio all’operazione chiamata “Primavera araba”, finalizzata a rovesciare i regimi laici a beneficio dei Fratelli Musulmani, avesse lasciato i propri alleati da soli a dare l’avvio alla seconda guerra contro la Siria, iniziata a luglio 2012. E avevamo creduto che, perseguendo questi alleati obiettivi propri (ricolonizzazione per Francia e Regno Unito; conquista del gas per il Qatar; espansione del wahabismo e vendetta della guerra civile libanese per l’Arabia Saudita; annessione della Siria del nord per la Turchia, secondo il modello cipriota, ecc.), l’obiettivo iniziale fosse stato abbandonato. Invece, nella registrazione si sente John Kerry affermare che Washington non ha mai rinunciato ai tentativi di rovesciamento della repubblica araba siriana. Ciò significa che gli Usa hanno seguito passo per passo l’operato degli alleati. Di fatto, negli ultimi quattro anni gli jihadisti sono stati comandati, armati e coordinati dall’AlliedLandCom (Comando delle forze terrestri) della Nato, basato a Smirne (Turchia).
In secondo luogo, John Kerry riconosce che Washington non poteva esporsi maggiormente per due ragioni: il diritto internazionale e la posizione della Russia. Sia chiaro, gli Stati Uniti non hanno mai avuto scrupoli a violare il diritto internazionale: hanno distrutto le strutture nodali della rete petrolifera e del gas della Siria, con il pretesto di combattere gli jihadisti (ciò che è conforme al diritto internazionale), senza però che il presidente al-Assad glielo avesse chiesto (quindi, in violazione del diritto internazionale). Non hanno invece osato mandare truppe terrestri per combattere in campo aperto la repubblica siriana, come viceversa avevano fatto in Corea, in Vietnam e in Iraq. E hanno scelto di mandare in prima linea i loro alleati (secondo la strategia della “leadership from behind” – leadership occulta) e di sostenere, senza peraltro grande discrezione, i mercenari, come avvenne in Nicaragua, rischiando di venire condannati dalla Corte internazionale di Giustizia (il tribunale dell’Onu).
In realtà, Washington non vuole imbarcarsi in una guerra contro la Russia. E, dal canto suo, la Russia, che non si era opposta alla distruzione della Jugoslavia e della Libia, ora ha rialzato la testa e spinto più in là il limite da non oltrepassare. Mosca è in condizione di difendere il diritto con la forza, qualora Washington ingaggiasse apertamente una nuova guerra di conquista. In terzo luogo, quanto detto da John Kerry dimostra che Washington sperava in una vittoria di Daesh sulla repubblica siriana. Fino a oggi, basandoci sul rapporto del generale Michael Flynn del 12 agosto 2012 e dell’articolo di Robert Wright sul “New York Times” del 28 settembre 2013, avevamo ritenuto che il Pentagono volesse creare un “Sunnistan” a cavallo tra Siria e Iraq, per tagliare la via della seta. Nella registrazione Kerry confessa che il piano andava ben oltre. Probabilmente, Daesh avrebbe dovuto prendere Damasco per poi venirne cacciato da Tel Aviv (ossia, ripiegare sul “Sunnistan”, appositamente creato). La Siria avrebbe potuto così essere spartita: il sud a Israele, l’est a Daesh, il nord alla Turchia.
Ciò fa capire perché Washington abbia dato l’impressione di non controllare nulla, di “lasciar fare” gli alleati: gli Stati Uniti hanno indotto Francia e Regno Unito a impegnarsi nel conflitto, facendo loro credere che avrebbero potuto ricolonizzare il Levante, mentre, al contrario, avevano già deciso che sarebbero stati esclusi dalla spartizione della Siria. In quarto luogo, John Kerry, ammettendo di aver “sostenuto” Daesh, riconosce di averlo armato. La retorica della “guerra contro il terrorismo” si riduce perciò a nulla. Dall’attentato del 22 febbraio 2006 alla moschea al-Askari di Samarra, Iraq, sapevamo che Daesh (che inizialmente si chiamava “Emirato islamico dell’Iraq”) era stato creato dal direttore nazionale dell’intelligence Usa, John Negroponte, e dal colonnello James Steele per stroncare la resistenza irachena e provocare una guerra civile, sul modello di quanto fatto in Honduras. Dopo la pubblicazione sul quotidiano del Pkk, Partito dei lavoratori del Kurdistan, “Özgür Gündem”, del processo verbale della riunione di pianificazione, tenutasi ad Amman il 1° giugno 2014, sapevamo che gli Stati Uniti avevano organizzato un’offensiva congiunta di Daesh su Mosul, e del governo regionale del Kurdistan iracheno su Kirkuk.
In quinto luogo, abbiamo ritenuto che il conflitto tra il clan Allen/Clinton/Feltman/Petraeus da un lato, e l’amministrazione Obama/Kerry dall’altro vertesse sul sostegno o no a Daesh. Non è affatto così. Entrambi i campi non hanno avuto scrupoli a organizzare e sostenere gli jihadisti più fanatici. Il loro disaccordo attiene esclusivamente al ricorso alla guerra aperta – e al rischio di un conflitto con la Russia – o alla scelta di manovrare dietro le quinte. Solo Flynn, attuale consigliere per la sicurezza di Trump – si è opposto allo jihadismo. Se accadesse che, fra qualche anno, gli Stati Uniti crollassero, com’è accaduto per l’Urss, la registrazione di John Kerry potrebbe essere utilizzata contro di lui e contro Obama davanti a una giurisdizione internazionale – ma non davanti alla Corte penale internazionale dell’Onu, ormai screditata. Avendo riconosciuto la veridicità degli estratti pubblicati dal “New York Times”, Kerry non potrebbe contestare l’autenticità del documento sonoro integrale. Il sostegno a Daesh che Kerry esibisce vìola parecchie risoluzioni delle Nazioni Unite e costituisce una prova della responsabilità sua e di Obama nei crimini contro l’umanità commessi dall’organizzazione terrorista.
(Thierry Meyssan, “Le confessioni del criminale John Kerry”, da “Megachip” del 19 gennaio 2017).
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Libia
Autobomba vicino all'ambasciata italiana a Tripoli: 2 morti
Nessun danno alla struttura. L'ambasciata era stata riaperta tre giorni fa
di Redazione Online
shadow
Un' autobomba a Tripoli vicino all'ambasciata italiana nel quartiere di Dahra sul lungomare. Nell'esplosione sono morte le due persone a bordo della vettura. Secondo fonti diplomatiche non ci sono danni all'ambasciata. Il quotidiano libico al Wasat riferisce che l'autobomba è scoppiata tra l'ambasciata italiana e quella egiziana vicino al Lybia Palace Hotel, di fronte al ministero della Pianificazione . La struttura diplomatica era stata riaperta solo 3 giorni fa dall'ambasciatore Giuseppe Perrone, primo diplomatico occidentale a tonare nella capitale libica.
L'obiettivo
Ancora non è chiaro quale fosse il vero obiettivo dell'attentato. Secondo alcune fonti locali, tra cui il sito Libya Observer, il kamikaze voleva colpire proprio l'ambasciata italiana ma è stato costretto dal personale della sicurezza a spostare l'auto imbottita di esplosivo.
21 gennaio 2017 (modifica il 21 gennaio 2017 | 22:44)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Autobomba vicino all'ambasciata italiana a Tripoli: 2 morti
Nessun danno alla struttura. L'ambasciata era stata riaperta tre giorni fa
di Redazione Online
shadow
Un' autobomba a Tripoli vicino all'ambasciata italiana nel quartiere di Dahra sul lungomare. Nell'esplosione sono morte le due persone a bordo della vettura. Secondo fonti diplomatiche non ci sono danni all'ambasciata. Il quotidiano libico al Wasat riferisce che l'autobomba è scoppiata tra l'ambasciata italiana e quella egiziana vicino al Lybia Palace Hotel, di fronte al ministero della Pianificazione . La struttura diplomatica era stata riaperta solo 3 giorni fa dall'ambasciatore Giuseppe Perrone, primo diplomatico occidentale a tonare nella capitale libica.
L'obiettivo
Ancora non è chiaro quale fosse il vero obiettivo dell'attentato. Secondo alcune fonti locali, tra cui il sito Libya Observer, il kamikaze voleva colpire proprio l'ambasciata italiana ma è stato costretto dal personale della sicurezza a spostare l'auto imbottita di esplosivo.
21 gennaio 2017 (modifica il 21 gennaio 2017 | 22:44)
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Mercanti di Uomini, il libro di Loretta Napoleoni indaga sul traffico di ostaggi e migranti: “Così si autofinanzia la jihad”
Mondo
Persone, “occidentali” da sacrificare per la propaganda di gruppi terroristici, ma anche “sequestri e rapimenti a lieto fine, che proprio a lieto fine non sono” perché portano sì alla liberazione degli ostaggi, ma dietro pagamento di un riscatto che alimenterà la “guerra del terrore”. Nel nuovo saggio della giornalista ed esperta di economia e finanziamenti al terrorismo si racconta il nuovo“business sofisticato” che ha conosciuto un’impennata dopo l’11 settembre 2001
di Gianni Rosini | 21 gennaio 2017
commenti (13)
69
Più informazioni su: Jihad, Loretta Napoleoni, Terrorismo
Non esistono solo ostaggi come il giornalista americano James Foley, il viaggiatore francese Hervé Gourdel o il cooperante britannico Alan Henning. Persone, “occidentali” da sacrificare per la propaganda di gruppi terroristici. Esistono anche “sequestri e rapimenti a lieto fine, che proprio a lieto fine non sono” perché portano sì alla liberazione degli ostaggi, ma dietro pagamento di un riscatto che alimenterà la “guerra del terrore”. Nel suo nuovo libro “Mercanti di Uomini, il traffico di ostaggi e migranti che finanzia il jihadismo” (Rizzoli, 2017, 18,50€) la giornalista ed esperta di economia e finanziamenti al terrorismo, Loretta Napoleoni, racconta questo “business sofisticato” che ha conosciuto un’impennata dopo l’11 settembre 2001 e che si lega alla ben più proficua tratta di esseri umani. Un mercato, quello dei riscatti, che nel 2015 ha portato nelle tasche dei gruppi terroristici oltre 2 miliardi di dollari.
In “Mercanti di Uomini” Napoleoni individua nella caduta del Muro di Berlino, “nel silenzio delle grandi Nazioni”, l’inizio della crescita di un business che è poi esploso dopo l’attentato di al-Qaeda al World Trade Center di New York. Un mercato che, secondo le testimonianze di negoziatori, vittime, ex terroristi e trafficanti raccolte o citate nel libro, in poco più di 15 anni è diventato uno dei più fruttuosi per i movimenti jihadisti di tutto il mondo. Un mercato del XXI secolo, come lo si potrebbe definire, che ha come protagonisti pirati somali che infestano le acque del Golfo di Aden, procacciatori di ostaggi al confine meridionale turco comparsi dopo lo scoppio della guerra civile siriana, terroristi da ogni parte del pianeta, membri dei servizi segreti di tutto il mondo, trafficanti, predoni del deserto e, ovviamente, le vittime. Poi ci sono gli Stati come l’Italia che negano di pagare riscatti a gruppi terroristici ma che invece, secondo i testimoni intervistati da Napoleoni, contrattano il prezzo dei “loro” prigionieri, alimentando così una “politica demenziale” che negli ultimi dieci anni ha fatto impennare i prezzi dei riscatti e ha reso quello dei sequestri un business miliardario.
Nel suo viaggio all’interno del mercato di esseri umani, Napoleoni individua il crocevia di questo e di molti altri business illegali: Ghat, cittadina del Fezzan libico, al confine con l’Algeria. È qui che sono stati rapiti, a settembre, i due operai della Con.I.Cos, Danilo Colanego e Bruno Cacace. Un’area sotto il pieno controllo dei Tuareg che lì fanno affari con i trafficanti di uomini del Sahel, membri dei servizi segreti internazionali e gruppi terroristici come al-Qaeda nel Maghreb Islamico (Aqmi), guidata proprio da “Mr. Marlboro” Mokhtar Belmokhtar che con i traffici illeciti e i sequestri è riuscito a finanziare e a far crescere una delle branche più importanti di al-Qaeda. Qui, a Ghat, i terroristi fanno affari con i sequestratori, prima, e con i negoziatori, poi. Soldi che saranno in parte reinvestiti nel traffico di esseri umani diretti in Europa, business ancora più remunerativo. A Ghat, in pieno deserto, si può assistere a strette di mano da milioni di dollari. Come si legge in “Mercanti di Uomini”, riscatti e traffico di esseri umani sono due tra i business più redditizi per i gruppi jihadisti. La Libia è il centro mondiale di questi affari, ma è anche un Paese in cui l’Italia ha tantissimi interessi. Per questo, “in Libia gli italiani vengono rapiti e liberati grazie ai ricchi riscatti che il nostro governo paga”.
di Gianni Rosini | 21 gennaio 2017
Mondo
Persone, “occidentali” da sacrificare per la propaganda di gruppi terroristici, ma anche “sequestri e rapimenti a lieto fine, che proprio a lieto fine non sono” perché portano sì alla liberazione degli ostaggi, ma dietro pagamento di un riscatto che alimenterà la “guerra del terrore”. Nel nuovo saggio della giornalista ed esperta di economia e finanziamenti al terrorismo si racconta il nuovo“business sofisticato” che ha conosciuto un’impennata dopo l’11 settembre 2001
di Gianni Rosini | 21 gennaio 2017
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69
Più informazioni su: Jihad, Loretta Napoleoni, Terrorismo
Non esistono solo ostaggi come il giornalista americano James Foley, il viaggiatore francese Hervé Gourdel o il cooperante britannico Alan Henning. Persone, “occidentali” da sacrificare per la propaganda di gruppi terroristici. Esistono anche “sequestri e rapimenti a lieto fine, che proprio a lieto fine non sono” perché portano sì alla liberazione degli ostaggi, ma dietro pagamento di un riscatto che alimenterà la “guerra del terrore”. Nel suo nuovo libro “Mercanti di Uomini, il traffico di ostaggi e migranti che finanzia il jihadismo” (Rizzoli, 2017, 18,50€) la giornalista ed esperta di economia e finanziamenti al terrorismo, Loretta Napoleoni, racconta questo “business sofisticato” che ha conosciuto un’impennata dopo l’11 settembre 2001 e che si lega alla ben più proficua tratta di esseri umani. Un mercato, quello dei riscatti, che nel 2015 ha portato nelle tasche dei gruppi terroristici oltre 2 miliardi di dollari.
In “Mercanti di Uomini” Napoleoni individua nella caduta del Muro di Berlino, “nel silenzio delle grandi Nazioni”, l’inizio della crescita di un business che è poi esploso dopo l’attentato di al-Qaeda al World Trade Center di New York. Un mercato che, secondo le testimonianze di negoziatori, vittime, ex terroristi e trafficanti raccolte o citate nel libro, in poco più di 15 anni è diventato uno dei più fruttuosi per i movimenti jihadisti di tutto il mondo. Un mercato del XXI secolo, come lo si potrebbe definire, che ha come protagonisti pirati somali che infestano le acque del Golfo di Aden, procacciatori di ostaggi al confine meridionale turco comparsi dopo lo scoppio della guerra civile siriana, terroristi da ogni parte del pianeta, membri dei servizi segreti di tutto il mondo, trafficanti, predoni del deserto e, ovviamente, le vittime. Poi ci sono gli Stati come l’Italia che negano di pagare riscatti a gruppi terroristici ma che invece, secondo i testimoni intervistati da Napoleoni, contrattano il prezzo dei “loro” prigionieri, alimentando così una “politica demenziale” che negli ultimi dieci anni ha fatto impennare i prezzi dei riscatti e ha reso quello dei sequestri un business miliardario.
Nel suo viaggio all’interno del mercato di esseri umani, Napoleoni individua il crocevia di questo e di molti altri business illegali: Ghat, cittadina del Fezzan libico, al confine con l’Algeria. È qui che sono stati rapiti, a settembre, i due operai della Con.I.Cos, Danilo Colanego e Bruno Cacace. Un’area sotto il pieno controllo dei Tuareg che lì fanno affari con i trafficanti di uomini del Sahel, membri dei servizi segreti internazionali e gruppi terroristici come al-Qaeda nel Maghreb Islamico (Aqmi), guidata proprio da “Mr. Marlboro” Mokhtar Belmokhtar che con i traffici illeciti e i sequestri è riuscito a finanziare e a far crescere una delle branche più importanti di al-Qaeda. Qui, a Ghat, i terroristi fanno affari con i sequestratori, prima, e con i negoziatori, poi. Soldi che saranno in parte reinvestiti nel traffico di esseri umani diretti in Europa, business ancora più remunerativo. A Ghat, in pieno deserto, si può assistere a strette di mano da milioni di dollari. Come si legge in “Mercanti di Uomini”, riscatti e traffico di esseri umani sono due tra i business più redditizi per i gruppi jihadisti. La Libia è il centro mondiale di questi affari, ma è anche un Paese in cui l’Italia ha tantissimi interessi. Per questo, “in Libia gli italiani vengono rapiti e liberati grazie ai ricchi riscatti che il nostro governo paga”.
di Gianni Rosini | 21 gennaio 2017
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Strage nella moschea a Quebec City, 6 morti
Strage alla moschea di Quebec City. Il terrorismo sconvolge il Canada: sei persone sono state uccise e altre otto sono rimaste ferite da alcuni uomini che hanno aperto il fuoco su decine di fedeli riuniti per la preghiera della sera in una moschea della capitale del Quebec. Lo ha reso noto il presidente del Centro culturale islamico Mohamed Yangui e subito il primo ministro Justin Trudeau ha condannato quello che ha definito un "attentato terrorista".
Come riporta Repubblica, l'attacco è avvenuto intorno alle 20 ora locale. Un testimone ha parlato di tre individui armati che hanno aperto il fuoco locale tre individui armati che hanno sparato su circa 40 fedeli. Il capo del governo del Quebec, Philippe Couillard, ha sottolineato che il suo esecutivo è "mobilitato per garantire la sicurezza della popolazione". L'attacco di Quebec City ha avuto eco immediata in tutto il mondo e, soprattutto, a New York dove è stata rafforzata la sorveglianza alle moschee e ad altri luoghi di culto. "La polizia garantisce ulteriore protezione alle moschee della città. Tutti i newyorkesi siano vigili. Se vedono qualcosa, lo dicano", ha twittato il sindaco Bill de Blasio.
Come ricorda il giornale, negli ultimi anni in Quebec gli episodi di islamofobia si sono moltiplicati, intrecciandosi al dibattito politico sul bando al niqab. Nel 2013 una moschea della regione di Sagueneay era stata imbrattata con sangue di maiale. Nella vicina provincia dell'Ontario, il giorno dopo gli attentati di Parigi era stato dato alle fiamme un altro centro di preghiera islamico.
Come riporta CBSNews-Montreal, la sparatoria è avvenuta al centro culturale islamico e le vittime erano tutti uomini, tra i 35 e i 70 anni. Sono state fermate due persone, una delle quali dopo un caccia all'uomo terminata vicino l'Ile d'Orleans. Uno sarebbe ancora in fuga. E' stato creato un perimetro di sicurezza attorno alla zona della sparatoria ma la polizia del Quebec ha reso noto che ora la situazione è sotto controllo.
Al momento degli spari, gli uomini erano nella parte bassa della moschea che pregavano, mentre donne e bambini in quella superiore. Un testimone, riporta ancora CBSNews, ha detto che i killer erano mascherati e parlavano con accento del Quebec: "Hanno cominciato a sparare e gridavano, 'Allah akbar!' - dice -. I proiettili hanno colpito le persone che pregavano.Un proiettile è passato proprio sopra la mia testa ".
@Kelsomatic @DCnyrMAGA @NYCityAlerts @CBCNews lmao no, he said allah u akbar in a french canadian accent, in quebec we think they're white
— Hafsa (@thegrlinadress) 30 gennaio 2017
Strage alla moschea di Quebec City. Il terrorismo sconvolge il Canada: sei persone sono state uccise e altre otto sono rimaste ferite da alcuni uomini che hanno aperto il fuoco su decine di fedeli riuniti per la preghiera della sera in una moschea della capitale del Quebec. Lo ha reso noto il presidente del Centro culturale islamico Mohamed Yangui e subito il primo ministro Justin Trudeau ha condannato quello che ha definito un "attentato terrorista".
Come riporta Repubblica, l'attacco è avvenuto intorno alle 20 ora locale. Un testimone ha parlato di tre individui armati che hanno aperto il fuoco locale tre individui armati che hanno sparato su circa 40 fedeli. Il capo del governo del Quebec, Philippe Couillard, ha sottolineato che il suo esecutivo è "mobilitato per garantire la sicurezza della popolazione". L'attacco di Quebec City ha avuto eco immediata in tutto il mondo e, soprattutto, a New York dove è stata rafforzata la sorveglianza alle moschee e ad altri luoghi di culto. "La polizia garantisce ulteriore protezione alle moschee della città. Tutti i newyorkesi siano vigili. Se vedono qualcosa, lo dicano", ha twittato il sindaco Bill de Blasio.
Come ricorda il giornale, negli ultimi anni in Quebec gli episodi di islamofobia si sono moltiplicati, intrecciandosi al dibattito politico sul bando al niqab. Nel 2013 una moschea della regione di Sagueneay era stata imbrattata con sangue di maiale. Nella vicina provincia dell'Ontario, il giorno dopo gli attentati di Parigi era stato dato alle fiamme un altro centro di preghiera islamico.
Come riporta CBSNews-Montreal, la sparatoria è avvenuta al centro culturale islamico e le vittime erano tutti uomini, tra i 35 e i 70 anni. Sono state fermate due persone, una delle quali dopo un caccia all'uomo terminata vicino l'Ile d'Orleans. Uno sarebbe ancora in fuga. E' stato creato un perimetro di sicurezza attorno alla zona della sparatoria ma la polizia del Quebec ha reso noto che ora la situazione è sotto controllo.
Al momento degli spari, gli uomini erano nella parte bassa della moschea che pregavano, mentre donne e bambini in quella superiore. Un testimone, riporta ancora CBSNews, ha detto che i killer erano mascherati e parlavano con accento del Quebec: "Hanno cominciato a sparare e gridavano, 'Allah akbar!' - dice -. I proiettili hanno colpito le persone che pregavano.Un proiettile è passato proprio sopra la mia testa ".
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