Diario della caduta di un regime.
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Re: Diario della caduta di un regime.
QUESTA FASE FINALE DELL'ESPERIENZA REPUBBLICANA LA RACCONTERETE AI VOSTRI NIPOTI.
Sulla prima pagina de Il Fatto Quotidiano tra poche ore in edicola, potrete leggere in bella evidenza:
TUTTI CONTRO UNO Il Pd non c’è più, la vecchia guardia ingabbia l’ex premier
A r re n d i t i
Matteo, sei
circondato
Scissione di D’Alema, ultimatum di Bersani,
melina di Napolitano, nuovo Ulivo di Prodi
CALAPÀ, D’ESPOSITO, MARRA E ZANCA A PAG. 4 - 5
Sulla prima pagina de Il Fatto Quotidiano tra poche ore in edicola, potrete leggere in bella evidenza:
TUTTI CONTRO UNO Il Pd non c’è più, la vecchia guardia ingabbia l’ex premier
A r re n d i t i
Matteo, sei
circondato
Scissione di D’Alema, ultimatum di Bersani,
melina di Napolitano, nuovo Ulivo di Prodi
CALAPÀ, D’ESPOSITO, MARRA E ZANCA A PAG. 4 - 5
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Re: Diario della caduta di un regime.
Nuntereggae più
» MARCO TRAVAGLIO
Basta, pietà, ci arrendiamo.
Dinanzi all’ulti mo
monito di giornata di
Giorgio Napolitano (“Nei paesi
civili alle elezioni si va alla scadenza
naturale”), che rischia di
farci tornare simpatico persino
Renzi, siamo colti da un misto di
impotenza e spossatezza. Qui ci
vorrebbe Rino Gaetano con una
riedizione di Nuntereggaepiù, o
Enzo Jannacci con una rivisitazione
di Quelli che.... Noi alziamo
le mani. Anche perché, appena
sentiamo evocare un “p a ese
civile”da Re Giorgio, subito ci
assale il pensiero multiplo di
tutto quello che accadrebbe, e
soprattutto non accadrebbe, se
l’Italia fosse un paese civile.
Nei paesi civili la data delle elezioni
la decide il presidente
della Repubblica che forse Napolitano
non se n’è accorto, ma
non si chiama Napolitano: si
chiama Mattarella.
Nei paesi civili un presidente
della Repubblica che giura per
mesi di rifiutare la rielezione
non si farebbe rieleggere in un
quarto d’ora.
Nei paesi civili i governi li
scelgono gli elettori, dando la
maggioranza a un partito o a una
coalizione in base al loro programma,
e non il capo dello Stato
estraendo nomi a caso dal suo
cilindro per ribaltare il risultato
del voto mettendo insieme partiti
e pezzi di partiti avversari
che voltano gabbana, come fece
Napolitano nel 2011 con Monti,
nel 2013 con Letta, nel 2014 con
Renzi e come ha rifatto Mattarella
con Gentiloni nel 2016.
Nei paesi civili il presidente
della Repubblica giura di difendere
la Costituzione e poi non
lavora per demolirla, né impone
al Parlamento né tantomeno al
governo di riscriverla a suo gusto.
Nei paesi civili il presidente
della Repubblica non avalla una
legge elettorale come l’I t al icum,
palesemente incostituzionale
e monca (cioè valevole solo
per la Camera), ma la respinge
alle Camere prima che cada sotto
la tardiva mannaia della Consulta.
Nei paesi civili il presidente
della Repubblica non telefona a
un vecchio politico indagato per
aver mentito ai giudici sulla
trattativa Stato-mafia, non si attiva
per spostare l’indagine dalla
sua sede naturale o per punire
i magistrati che la conducono e,
scoperte le sue telefonate, non
chiede alla Corte costituzionale
di farle distruggere per nasconderle
ai cittadini.
Nei paesi civili il presidente
della Repubblica non interferisce
continuamente nelle campagne
elettorali, raccomandando
agli elettori per chi votare e
per chi no.
Nei paesi civili sarebbe impensabile
quanto rivela P a n o r ama,
citando intercettazioni
de ll’inchiesta a Bergamo sul
banchiere Giovanni Bazoli.
SEGUE A PAGINA 20
CONTINUA
» MARCO TRAVAGLIO
Basta, pietà, ci arrendiamo.
Dinanzi all’ulti mo
monito di giornata di
Giorgio Napolitano (“Nei paesi
civili alle elezioni si va alla scadenza
naturale”), che rischia di
farci tornare simpatico persino
Renzi, siamo colti da un misto di
impotenza e spossatezza. Qui ci
vorrebbe Rino Gaetano con una
riedizione di Nuntereggaepiù, o
Enzo Jannacci con una rivisitazione
di Quelli che.... Noi alziamo
le mani. Anche perché, appena
sentiamo evocare un “p a ese
civile”da Re Giorgio, subito ci
assale il pensiero multiplo di
tutto quello che accadrebbe, e
soprattutto non accadrebbe, se
l’Italia fosse un paese civile.
Nei paesi civili la data delle elezioni
la decide il presidente
della Repubblica che forse Napolitano
non se n’è accorto, ma
non si chiama Napolitano: si
chiama Mattarella.
Nei paesi civili un presidente
della Repubblica che giura per
mesi di rifiutare la rielezione
non si farebbe rieleggere in un
quarto d’ora.
Nei paesi civili i governi li
scelgono gli elettori, dando la
maggioranza a un partito o a una
coalizione in base al loro programma,
e non il capo dello Stato
estraendo nomi a caso dal suo
cilindro per ribaltare il risultato
del voto mettendo insieme partiti
e pezzi di partiti avversari
che voltano gabbana, come fece
Napolitano nel 2011 con Monti,
nel 2013 con Letta, nel 2014 con
Renzi e come ha rifatto Mattarella
con Gentiloni nel 2016.
Nei paesi civili il presidente
della Repubblica giura di difendere
la Costituzione e poi non
lavora per demolirla, né impone
al Parlamento né tantomeno al
governo di riscriverla a suo gusto.
Nei paesi civili il presidente
della Repubblica non avalla una
legge elettorale come l’I t al icum,
palesemente incostituzionale
e monca (cioè valevole solo
per la Camera), ma la respinge
alle Camere prima che cada sotto
la tardiva mannaia della Consulta.
Nei paesi civili il presidente
della Repubblica non telefona a
un vecchio politico indagato per
aver mentito ai giudici sulla
trattativa Stato-mafia, non si attiva
per spostare l’indagine dalla
sua sede naturale o per punire
i magistrati che la conducono e,
scoperte le sue telefonate, non
chiede alla Corte costituzionale
di farle distruggere per nasconderle
ai cittadini.
Nei paesi civili il presidente
della Repubblica non interferisce
continuamente nelle campagne
elettorali, raccomandando
agli elettori per chi votare e
per chi no.
Nei paesi civili sarebbe impensabile
quanto rivela P a n o r ama,
citando intercettazioni
de ll’inchiesta a Bergamo sul
banchiere Giovanni Bazoli.
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Re: Diario della caduta di un regime.
UncleTom ha scritto:Nuntereggae più
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Giorgio Napolitano (“Nei paesi
civili alle elezioni si va alla scadenza
naturale”), che rischia di
farci tornare simpatico persino
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impotenza e spossatezza. Qui ci
vorrebbe Rino Gaetano con una
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Enzo Jannacci con una rivisitazione
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le mani. Anche perché, appena
sentiamo evocare un “p a ese
civile”da Re Giorgio, subito ci
assale il pensiero multiplo di
tutto quello che accadrebbe, e
soprattutto non accadrebbe, se
l’Italia fosse un paese civile.
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la decide il presidente
della Repubblica che forse Napolitano
non se n’è accorto, ma
non si chiama Napolitano: si
chiama Mattarella.
Nei paesi civili un presidente
della Repubblica che giura per
mesi di rifiutare la rielezione
non si farebbe rieleggere in un
quarto d’ora.
Nei paesi civili i governi li
scelgono gli elettori, dando la
maggioranza a un partito o a una
coalizione in base al loro programma,
e non il capo dello Stato
estraendo nomi a caso dal suo
cilindro per ribaltare il risultato
del voto mettendo insieme partiti
e pezzi di partiti avversari
che voltano gabbana, come fece
Napolitano nel 2011 con Monti,
nel 2013 con Letta, nel 2014 con
Renzi e come ha rifatto Mattarella
con Gentiloni nel 2016.
Nei paesi civili il presidente
della Repubblica giura di difendere
la Costituzione e poi non
lavora per demolirla, né impone
al Parlamento né tantomeno al
governo di riscriverla a suo gusto.
Nei paesi civili il presidente
della Repubblica non avalla una
legge elettorale come l’I t al icum,
palesemente incostituzionale
e monca (cioè valevole solo
per la Camera), ma la respinge
alle Camere prima che cada sotto
la tardiva mannaia della Consulta.
Nei paesi civili il presidente
della Repubblica non telefona a
un vecchio politico indagato per
aver mentito ai giudici sulla
trattativa Stato-mafia, non si attiva
per spostare l’indagine dalla
sua sede naturale o per punire
i magistrati che la conducono e,
scoperte le sue telefonate, non
chiede alla Corte costituzionale
di farle distruggere per nasconderle
ai cittadini.
Nei paesi civili il presidente
della Repubblica non interferisce
continuamente nelle campagne
elettorali, raccomandando
agli elettori per chi votare e
per chi no.
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banchiere Giovanni Bazoli.
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CONTINUA
» MARCO TRAVAGLIO
E
cioè che Napolitano telefonò
(per giunta da un’utenza
del Quirinale, due mesi dopo le
sue dimissioni da presidente)
all’anziano patron di Banca Intesa,
indagato per associazione
per delinquere, per impicciarsi
nella battaglia finanziaria per il
controllo di Rcs-Corriere della
Sera, mettendolo in guardia
dall’appoggiare “un nome folle,
ovvero di quel signore che si occupa
o meglio è il factotum di
La7”, cioè Urbano Cairo.
Nei paesi civili un ex presidente
della Repubblica si guarda
bene dal denunciare il presunto
“abuso del ricorso alle elezioni
anticipate”, visto che
l’ultimo capo dello Stato a sciogliere
anzitempo le Camere fu
proprio lui nel 2008, alla caduta
del governo Prodi-2 dopo due
anni di logoramento a cui aveva
contribuito – come racconta
l’allora ministro dell’E conomia
Tommaso Padoa Schioppa
nel suo diario – anche l’uomo
del Colle, già allora innamorato
delle larghe intese con Berlusconi.
Nei paesi civili – ma questo
esula dalle responsabilità dirette
del deposto Re Giorgio –
un manager pubblico come
Mauro Moretti non viene promosso
da Fs a Finmeccanica
dopo aver definito la strage di
Viareggio (32 morti) “uno spiacevolissimo
episodio” ed essere
stato rinviato a giudizio per
disastro ferroviario, omicidio
colposo plurimo e altri reati. E
non resta al suo posto dopo che
il Tribunale di Lucca l’ha condannato
a 7 anni per quei gravissimi
delitti e i suoi avvocati
(pagati da chi?) hanno insultato
i giudici e le vittime, definendo
“scandaloso” il processo e “p opulista”
la sentenza.
Nei paesi civili il ministro dei
Trasporti non interferisce nel
processo al capo di Finmeccanica,
definendo “s p r o p o r z i onate”
le richieste di pena della
Procura di Lucca per l’i m p u t ato
Moretti, come fece nel settembre
scorso Graziano Delrio
a Otto e mezzo, e il governo non
esenta colossi pubblici come Eni
e Finmeccanica dalle clausole
di onorabilità per salvarne i
dirigenti imputati per reati gravissimi.
Nei paesi civili la prescrizione
si interrompe al momento
del rinvio a giudizio e non continua
a decorrere fino alla sentenza
di Cassazione, mandando
liberi e impuniti fior di criminali,
come invece accade solo
in Italia (e come purtroppo
presto accadrà, almeno in parte,
per il processo sulla strage di
Viareggio, ed è già accaduto per
le stragi impunite di Moby
Prince, Eternit e San Giuliano
di Puglia). Questo scandalo avrebbe
dovuto occupare almeno
uno degl’innumerevoli moniti
di Napolitano per ottenere
dal Parlamento una riforma urgente
e doverosa. Invece è praticamente
l’unico tema dello
scibile umano mai sfiorato
d al l ’incessante incontinenza
verbale di Re Giorgio, forse
perché l’Ancien Regime di cui è
il santo patrono si regge sulla
prescrizione.
Quindi, ex Sire, si dia pace: se
l’Italia fosse un paese civile lei
non avrebbe potuto dire né fare
quasi nulla di ciò che ha fatto e
ha detto. Se proprio non sa come
impegnare il tempo libero,
dia retta all’ultimo monito di Osho:
“Ma perché ‘n te trovi ‘n bel
cantiere stradale come tutti
l’anziani normali?”.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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Re: Diario della caduta di un regime.
UncleTom ha scritto:UncleTom ha scritto:Nuntereggae più
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Basta, pietà, ci arrendiamo.
Dinanzi all’ulti mo
monito di giornata di
Giorgio Napolitano (“Nei paesi
civili alle elezioni si va alla scadenza
naturale”), che rischia di
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Renzi, siamo colti da un misto di
impotenza e spossatezza. Qui ci
vorrebbe Rino Gaetano con una
riedizione di Nuntereggaepiù, o
Enzo Jannacci con una rivisitazione
di Quelli che.... Noi alziamo
le mani. Anche perché, appena
sentiamo evocare un “p a ese
civile”da Re Giorgio, subito ci
assale il pensiero multiplo di
tutto quello che accadrebbe, e
soprattutto non accadrebbe, se
l’Italia fosse un paese civile.
Nei paesi civili la data delle elezioni
la decide il presidente
della Repubblica che forse Napolitano
non se n’è accorto, ma
non si chiama Napolitano: si
chiama Mattarella.
Nei paesi civili un presidente
della Repubblica che giura per
mesi di rifiutare la rielezione
non si farebbe rieleggere in un
quarto d’ora.
Nei paesi civili i governi li
scelgono gli elettori, dando la
maggioranza a un partito o a una
coalizione in base al loro programma,
e non il capo dello Stato
estraendo nomi a caso dal suo
cilindro per ribaltare il risultato
del voto mettendo insieme partiti
e pezzi di partiti avversari
che voltano gabbana, come fece
Napolitano nel 2011 con Monti,
nel 2013 con Letta, nel 2014 con
Renzi e come ha rifatto Mattarella
con Gentiloni nel 2016.
Nei paesi civili il presidente
della Repubblica giura di difendere
la Costituzione e poi non
lavora per demolirla, né impone
al Parlamento né tantomeno al
governo di riscriverla a suo gusto.
Nei paesi civili il presidente
della Repubblica non avalla una
legge elettorale come l’I t al icum,
palesemente incostituzionale
e monca (cioè valevole solo
per la Camera), ma la respinge
alle Camere prima che cada sotto
la tardiva mannaia della Consulta.
Nei paesi civili il presidente
della Repubblica non telefona a
un vecchio politico indagato per
aver mentito ai giudici sulla
trattativa Stato-mafia, non si attiva
per spostare l’indagine dalla
sua sede naturale o per punire
i magistrati che la conducono e,
scoperte le sue telefonate, non
chiede alla Corte costituzionale
di farle distruggere per nasconderle
ai cittadini.
Nei paesi civili il presidente
della Repubblica non interferisce
continuamente nelle campagne
elettorali, raccomandando
agli elettori per chi votare e
per chi no.
Nei paesi civili sarebbe impensabile
quanto rivela P a n o r ama,
citando intercettazioni
de ll’inchiesta a Bergamo sul
banchiere Giovanni Bazoli.
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E cioè che Napolitano telefonò
(per giunta da un’utenza
del Quirinale, due mesi dopo le
sue dimissioni da presidente)
all’anziano patron di Banca Intesa,
indagato per associazione
per delinquere, per impicciarsi
nella battaglia finanziaria per il
controllo di Rcs-Corriere della
Sera, mettendolo in guardia
dall’appoggiare “un nome folle,
ovvero di quel signore che si occupa
o meglio è il factotum di
La7”, cioè Urbano Cairo.
Nei paesi civili un ex presidente
della Repubblica si guarda
bene dal denunciare il presunto
“abuso del ricorso alle elezioni
anticipate”, visto che
l’ultimo capo dello Stato a sciogliere
anzitempo le Camere fu
proprio lui nel 2008, alla caduta
del governo Prodi-2 dopo due
anni di logoramento a cui aveva
contribuito – come racconta
l’allora ministro dell’E conomia
Tommaso Padoa Schioppa
nel suo diario – anche l’uomo
del Colle, già allora innamorato
delle larghe intese con Berlusconi.
Nei paesi civili – ma questo
esula dalle responsabilità dirette
del deposto Re Giorgio –
un manager pubblico come
Mauro Moretti non viene promosso
da Fs a Finmeccanica
dopo aver definito la strage di
Viareggio (32 morti) “uno spiacevolissimo
episodio” ed essere
stato rinviato a giudizio per
disastro ferroviario, omicidio
colposo plurimo e altri reati. E
non resta al suo posto dopo che
il Tribunale di Lucca l’ha condannato
a 7 anni per quei gravissimi
delitti e i suoi avvocati
(pagati da chi?) hanno insultato
i giudici e le vittime, definendo
“scandaloso” il processo e “p opulista”
la sentenza.
Nei paesi civili il ministro dei
Trasporti non interferisce nel
processo al capo di Finmeccanica,
definendo “s p r o p o r z i onate”
le richieste di pena della
Procura di Lucca per l’i m p u t ato
Moretti, come fece nel settembre
scorso Graziano Delrio
a Otto e mezzo, e il governo non
esenta colossi pubblici come Eni
e Finmeccanica dalle clausole
di onorabilità per salvarne i
dirigenti imputati per reati gravissimi.
Nei paesi civili la prescrizione
si interrompe al momento
del rinvio a giudizio e non continua
a decorrere fino alla sentenza
di Cassazione, mandando
liberi e impuniti fior di criminali,
come invece accade solo
in Italia (e come purtroppo
presto accadrà, almeno in parte,
per il processo sulla strage di
Viareggio, ed è già accaduto per
le stragi impunite di Moby
Prince, Eternit e San Giuliano
di Puglia). Questo scandalo avrebbe
dovuto occupare almeno
uno degl’innumerevoli moniti
di Napolitano per ottenere
dal Parlamento una riforma urgente
e doverosa. Invece è praticamente
l’unico tema dello
scibile umano mai sfiorato
d al l ’incessante incontinenza
verbale di Re Giorgio, forse
perché l’Ancien Regime di cui è
il santo patrono si regge sulla
prescrizione.
Quindi, ex Sire, si dia pace: se
l’Italia fosse un paese civile lei
non avrebbe potuto dire né fare
quasi nulla di ciò che ha fatto e
ha detto. Se proprio non sa come
impegnare il tempo libero,
dia retta all’ultimo monito di Osho:
“Ma perché ‘n te trovi ‘n bel
cantiere stradale come tutti
l’anziani normali?”.
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Re: Diario della caduta di un regime.
DOPO LE PAROLE DI SALVINI IL CLIMA SI SURRISCALDA
LIbero sbatte in prima pagina:
Dopo il voto ci aspetta il caos
CI MANCA UN DUCETTO
L’80% degliitaliani sogna un uomo forte al comando. Salvini: «Leader deboli, capisco chi cerca un Mussolini» Nel Pd aumentanole truppe anti-Renzi.Anchei fedelissimilo criticano.Voglionoil congresso per silurarlo
LIbero sbatte in prima pagina:
Dopo il voto ci aspetta il caos
CI MANCA UN DUCETTO
L’80% degliitaliani sogna un uomo forte al comando. Salvini: «Leader deboli, capisco chi cerca un Mussolini» Nel Pd aumentanole truppe anti-Renzi.Anchei fedelissimilo criticano.Voglionoil congresso per silurarlo
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Re: Diario della caduta di un regime.
UNO DEI MOTIVI PER CUI SIAMO ALLA FINE DELLA SECONDA REPUBBLICA, E ALLA FINE DELLA REPUBBLICA E' ANCHE QUESTO
2 feb 2017 15:08
TIRA ARIA DI “NUOVO ULIVO”? CI PENSA RONDOLINO A FARE CHIAREZZA: “D'ALEMA GUIDÒ I 101 CONTRO PRODI PERCHÉ BERSANI GLI AVEVA IMPEDITO DI CANDIDARSI AL QUIRINALE. EMILIANO PM INDAGÒ INTORNO A D'ALEMA, EMILIANO SINDACO SI FECE ELEGGERE DA D'ALEMA (E POI DIVENTÒ RENZIANO). VENDOLA FECE UN ACCORDO CON BERSANI NEL 2013 E LO RUPPE IL GIORNO DOPO IL VOTO"
Dalla bacheca facebook di Fabrizio Rondolino
D'Alema guidò i 101 contro Prodi perché Bersani gli aveva impedito di candidarsi al Quirinale. Emiliano pm indagò intorno a D'Alema, Emiliano sindaco si fece eleggere da D'Alema (e poi diventò renziano). Vendola fece un accordo con Bersani nel 2013 e lo ruppe il giorno dopo il voto. Giusto per avere un'idea di come sarà il "nuovo Ulivo"
Siamo entrati in una stagione avvelenata, in cui non ci sono antidoti.
Gli italiani poi, sono noti per salire velocemente sul carro del vincitore, e poi tradire.
QUESTO E' UN CASO CLASSICO DEI TANTI.
RONDOLINGUA, COME LO CHIAMA TRAVAGLIO, E' STATO UOMO DI D'ALEMA QUANDO ERA PREMIER.
ADESSO LA SUA LINGUA, E' SERVIZIO DI PINOCCHIO MUSSOLONI.
IL SUO NUOVO PADRONE.
RONDOLINGUA SPERA CHE MUSSOLONI TORNI IN SELLA.
E DA PRECARIO DE "L'UNITA'" OFFRE UNA SPONDA AL SUO PADRONE SPERANDO CHE CONTRACCAMBI QUANDO IL GIORNALE FONDATO DA GRAMSCI CHIUDERA' DEFINITIVAMENTE I BATTENTI..
2 feb 2017 15:08
TIRA ARIA DI “NUOVO ULIVO”? CI PENSA RONDOLINO A FARE CHIAREZZA: “D'ALEMA GUIDÒ I 101 CONTRO PRODI PERCHÉ BERSANI GLI AVEVA IMPEDITO DI CANDIDARSI AL QUIRINALE. EMILIANO PM INDAGÒ INTORNO A D'ALEMA, EMILIANO SINDACO SI FECE ELEGGERE DA D'ALEMA (E POI DIVENTÒ RENZIANO). VENDOLA FECE UN ACCORDO CON BERSANI NEL 2013 E LO RUPPE IL GIORNO DOPO IL VOTO"
Dalla bacheca facebook di Fabrizio Rondolino
D'Alema guidò i 101 contro Prodi perché Bersani gli aveva impedito di candidarsi al Quirinale. Emiliano pm indagò intorno a D'Alema, Emiliano sindaco si fece eleggere da D'Alema (e poi diventò renziano). Vendola fece un accordo con Bersani nel 2013 e lo ruppe il giorno dopo il voto. Giusto per avere un'idea di come sarà il "nuovo Ulivo"
Siamo entrati in una stagione avvelenata, in cui non ci sono antidoti.
Gli italiani poi, sono noti per salire velocemente sul carro del vincitore, e poi tradire.
QUESTO E' UN CASO CLASSICO DEI TANTI.
RONDOLINGUA, COME LO CHIAMA TRAVAGLIO, E' STATO UOMO DI D'ALEMA QUANDO ERA PREMIER.
ADESSO LA SUA LINGUA, E' SERVIZIO DI PINOCCHIO MUSSOLONI.
IL SUO NUOVO PADRONE.
RONDOLINGUA SPERA CHE MUSSOLONI TORNI IN SELLA.
E DA PRECARIO DE "L'UNITA'" OFFRE UNA SPONDA AL SUO PADRONE SPERANDO CHE CONTRACCAMBI QUANDO IL GIORNALE FONDATO DA GRAMSCI CHIUDERA' DEFINITIVAMENTE I BATTENTI..
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Re: Diario della caduta di un regime.
LIBRE news
Recensioni
segnalazioni.
L’Italia sogna l’uomo forte, ma ha soltanto leader deboli
Scritto il 04/2/17 • nella Categoria: idee Condividi
«Così, fra i cittadini è cresciuto il distacco dalla dimensione pubblica», scrive Diamanti su “Repubblica”. «Al “senso civico” è subentrato il “senso cinico”». Mentre, per citare Bauman, si è diffusa «la solitudine del cittadino globale». Ed è così che «la prospettiva di “un Uomo Forte al governo” è divenuta tanto popolare. Che non significa populista. Ma lo può diventare, se non trova risposta nei partiti». A quel punto, «i cittadini restano soli», davanti ai loro monitor: «Dialogano, interagiscono e reagiscono con il mondo soprattutto attraverso la rete. Mediante i Pc, i tablet e, soprattutto, gli smartphone. Basta guardarsi intorno, nei luoghi pubblici, per trovarsi circondati da persone che camminano oppure stanno ferme, ma con gli occhi fissi sullo smartphone, mentre le dita battono sui tasti». Una “folla solitaria”, per echeggiare il noto saggio di David Riesman. «“Affollata” di persone che sono sempre in comunicazione con gli altri, con il mondo, ma sono sempre sole. Meglio non stupirsi, allora, se cresce la domanda di un Uomo Forte. “Autorevole”, non “autoritario”. Un “leader”, non un “dittatore”». Già, perché «questa società è allergica ai vincoli e alle regole: figurarsi se accetterebbe figure troppo “forti”. Basta vedere che fine ha fatto Silvio Berlusconi, o le difficoltà che incontra Matteo Renzi».
Fino a pochi mesi fa, infatti, si marciava verso un bicameralismo “imperfetto”, con un Senato ridimensionato. E una legge elettorale a doppio turno, «a sostegno di una democrazia maggioritaria». Tutto a monte: prima la bocciatura imposta dal referendum, che ha confermato l’attuale Senato e dunque il bicameralismo classico. Poi la sentenza della Corte Costituzionale, che ha emendato l’Italicum, dichiarando illegittimo il ballottaggio: se per vincere bisogna ottenere il 40% dei voti, l’Italia resterà senza maggioranze né leadership precise, annota Diamanti sempre su “Repubblica”. Se Renzi è il vero sconfitto dal referendum, i vincitori sono frammentati e incompatibili tra loro. «E in una competizione proporzionale, in un Parlamento con due Camere senza maggioranze chiare e omogenee, la minoranza renziana rischia di risultare maggioritaria», dal momento che «non si vede un partito in grado, da solo, di superare il 40% dei voti al primo turno».
Un ulteriore mutamento degli ultimi mesi è determinato dall’appannarsi della prospettiva “personale”. Perché i sistemi elettorali di Camera e Senato, oggi, favoriscono semmai il ritorno dei partiti, come ha suggerito con qualche ironia Giuliano Ferrara, intervistato dall’“Unità”. «D’altra parte – aggiunge Diamanti – gli “uomini forti” oggi vengono evocati e invocati dagli italiani perché non ci sono. E perché i partiti, gli attori e i canali della rappresentanza, sono sempre più deboli, lontani dalla società e dal territorio». Il Pd, ad esempio, ha visto dimezzarsi i suoi iscritti negli ultimi tre anni: erano 76.000 nel 2013, oggi sono appena 37.000. Ma non è solo un problema italiano: la sinistra “riformista” è in grande difficoltà in tutta Europa, come ha rammentato Marc Lazar, in un’intervista su “Le Monde”. In Francia, in vista delle presidenziali, il Ps non è mai apparso tanto debole, stretto fra la sinistra di Mélenchon e il centro di Macron. Ma anche altrove: in Germania, in Spagna, in Gran Bretagna. E perché? Diamanti qui non lo spiega, ma la risposta sta emergendo in modo plateale: cooptata dall’élite neoliberista e privatizzatrice, l’ex “sinistra riformista” ha presentato ai cittadini ricette inevitabilmente “deludenti”, impopolari, che hanno gonfiato le fila dei cosiddetti “populisti”.
In Italia, i personaggi teoricamente accreditati come uomini-contro sono Grillo e Salvini, il primo a capo di un “non-partito”, il secondo alla guida di una Lega che ieri era «il soggetto politico più simile ai tradizionali partiti di massa», mentre ora «si è a sua volta personalizzata», inseguendo con fatica «la prospettiva di una destra lepenista-nazionale», incarnata in Francia dall’unica figura “forte” sulla scena, Marine Le Pen, contraltare perfetto dell’altra lady di ferro europea, Angela Merkel: più che l’Uomo Forte, oggi, la politica europea propone la Donna Forte. E in Italia? «Dobbiamo fare i conti con partiti ipotetici e non-partiti», conclude Diamanti. Partiti «dis-organizzati e poco radicati: anzi, s-radicati nella società e sul territorio». E così, «mentre si cerca – e insegue – un Uomo Forte, incontriamo leader deboli, oppure indeboliti». Perché la forza del leader «sta nella capacità di dare volto e voce ai cittadini», che sono «in cerca di valori, ma anche di persone in cui riconoscersi: per non sentirsi deboli, e disorientati». Si guarda agli Usa? «Da noi, però, non c’è un Trump», comunque lo si valuti, «ma solo pallide imitazioni. Più che popolari: populiste». Sicchè, chiosa Diamanti, «due mesi dopo il referendum, tutto sembra cambiato. E oggi marciamo sicuri. Verso il passato».
Da Trump a Putin, l’Uomo Forte torna di moda. Niente a che vedere con i grandi leader del passato, i giganti della storia del secondo ‘900 – Mao e Fidel, i Kennedy, Gorbaciov. In Italia ogni tanto qualche intellettuale rimpiange personaggi come Adriano Olivetti ed Enrico Mattei, leader identitari come Berlinguer, statisti spericolati come Craxi. Poi vennero Bossi e Berlusconi. Dopo la meteora Renzi, oggi siamo tornati al modello Gentiloni, «un politico impopulista, abile a mediare e a negoziare, lontano dall’icona del Capo», osserva Ilvo Diamanti, che segnala quanto sia diffusa, fra i cittadini, la domanda di un “uomo forte”. Dal lontano 2004, i sondaggi Demos ricostruiscono la tendenza di questo orientamento, mai così estesa: 8 italiani su 10. «Significa, praticamente, (quasi) tutti i cittadini». Un segnale inquietante? Non proprio: «L’Uomo Forte, che ottiene tanti consensi fra gli italiani, non è un nuovo Mussolini, un Duce. Non manifesta una richiesta di “autoritarismo”. Piuttosto: di “autorità”. Cioè: di una leadership dotata di legittimità». Domanda che si è pian piano “personalizzata”, concentrata sulle singole persone, dopo che i partiti hanno perduto i legami con la società, gestendo istituzioni sempre più “lontane”, burocrazie anonime e minacciose come quella dell’Ue.
Recensioni
segnalazioni.
L’Italia sogna l’uomo forte, ma ha soltanto leader deboli
Scritto il 04/2/17 • nella Categoria: idee Condividi
«Così, fra i cittadini è cresciuto il distacco dalla dimensione pubblica», scrive Diamanti su “Repubblica”. «Al “senso civico” è subentrato il “senso cinico”». Mentre, per citare Bauman, si è diffusa «la solitudine del cittadino globale». Ed è così che «la prospettiva di “un Uomo Forte al governo” è divenuta tanto popolare. Che non significa populista. Ma lo può diventare, se non trova risposta nei partiti». A quel punto, «i cittadini restano soli», davanti ai loro monitor: «Dialogano, interagiscono e reagiscono con il mondo soprattutto attraverso la rete. Mediante i Pc, i tablet e, soprattutto, gli smartphone. Basta guardarsi intorno, nei luoghi pubblici, per trovarsi circondati da persone che camminano oppure stanno ferme, ma con gli occhi fissi sullo smartphone, mentre le dita battono sui tasti». Una “folla solitaria”, per echeggiare il noto saggio di David Riesman. «“Affollata” di persone che sono sempre in comunicazione con gli altri, con il mondo, ma sono sempre sole. Meglio non stupirsi, allora, se cresce la domanda di un Uomo Forte. “Autorevole”, non “autoritario”. Un “leader”, non un “dittatore”». Già, perché «questa società è allergica ai vincoli e alle regole: figurarsi se accetterebbe figure troppo “forti”. Basta vedere che fine ha fatto Silvio Berlusconi, o le difficoltà che incontra Matteo Renzi».
Fino a pochi mesi fa, infatti, si marciava verso un bicameralismo “imperfetto”, con un Senato ridimensionato. E una legge elettorale a doppio turno, «a sostegno di una democrazia maggioritaria». Tutto a monte: prima la bocciatura imposta dal referendum, che ha confermato l’attuale Senato e dunque il bicameralismo classico. Poi la sentenza della Corte Costituzionale, che ha emendato l’Italicum, dichiarando illegittimo il ballottaggio: se per vincere bisogna ottenere il 40% dei voti, l’Italia resterà senza maggioranze né leadership precise, annota Diamanti sempre su “Repubblica”. Se Renzi è il vero sconfitto dal referendum, i vincitori sono frammentati e incompatibili tra loro. «E in una competizione proporzionale, in un Parlamento con due Camere senza maggioranze chiare e omogenee, la minoranza renziana rischia di risultare maggioritaria», dal momento che «non si vede un partito in grado, da solo, di superare il 40% dei voti al primo turno».
Un ulteriore mutamento degli ultimi mesi è determinato dall’appannarsi della prospettiva “personale”. Perché i sistemi elettorali di Camera e Senato, oggi, favoriscono semmai il ritorno dei partiti, come ha suggerito con qualche ironia Giuliano Ferrara, intervistato dall’“Unità”. «D’altra parte – aggiunge Diamanti – gli “uomini forti” oggi vengono evocati e invocati dagli italiani perché non ci sono. E perché i partiti, gli attori e i canali della rappresentanza, sono sempre più deboli, lontani dalla società e dal territorio». Il Pd, ad esempio, ha visto dimezzarsi i suoi iscritti negli ultimi tre anni: erano 76.000 nel 2013, oggi sono appena 37.000. Ma non è solo un problema italiano: la sinistra “riformista” è in grande difficoltà in tutta Europa, come ha rammentato Marc Lazar, in un’intervista su “Le Monde”. In Francia, in vista delle presidenziali, il Ps non è mai apparso tanto debole, stretto fra la sinistra di Mélenchon e il centro di Macron. Ma anche altrove: in Germania, in Spagna, in Gran Bretagna. E perché? Diamanti qui non lo spiega, ma la risposta sta emergendo in modo plateale: cooptata dall’élite neoliberista e privatizzatrice, l’ex “sinistra riformista” ha presentato ai cittadini ricette inevitabilmente “deludenti”, impopolari, che hanno gonfiato le fila dei cosiddetti “populisti”.
In Italia, i personaggi teoricamente accreditati come uomini-contro sono Grillo e Salvini, il primo a capo di un “non-partito”, il secondo alla guida di una Lega che ieri era «il soggetto politico più simile ai tradizionali partiti di massa», mentre ora «si è a sua volta personalizzata», inseguendo con fatica «la prospettiva di una destra lepenista-nazionale», incarnata in Francia dall’unica figura “forte” sulla scena, Marine Le Pen, contraltare perfetto dell’altra lady di ferro europea, Angela Merkel: più che l’Uomo Forte, oggi, la politica europea propone la Donna Forte. E in Italia? «Dobbiamo fare i conti con partiti ipotetici e non-partiti», conclude Diamanti. Partiti «dis-organizzati e poco radicati: anzi, s-radicati nella società e sul territorio». E così, «mentre si cerca – e insegue – un Uomo Forte, incontriamo leader deboli, oppure indeboliti». Perché la forza del leader «sta nella capacità di dare volto e voce ai cittadini», che sono «in cerca di valori, ma anche di persone in cui riconoscersi: per non sentirsi deboli, e disorientati». Si guarda agli Usa? «Da noi, però, non c’è un Trump», comunque lo si valuti, «ma solo pallide imitazioni. Più che popolari: populiste». Sicchè, chiosa Diamanti, «due mesi dopo il referendum, tutto sembra cambiato. E oggi marciamo sicuri. Verso il passato».
Da Trump a Putin, l’Uomo Forte torna di moda. Niente a che vedere con i grandi leader del passato, i giganti della storia del secondo ‘900 – Mao e Fidel, i Kennedy, Gorbaciov. In Italia ogni tanto qualche intellettuale rimpiange personaggi come Adriano Olivetti ed Enrico Mattei, leader identitari come Berlinguer, statisti spericolati come Craxi. Poi vennero Bossi e Berlusconi. Dopo la meteora Renzi, oggi siamo tornati al modello Gentiloni, «un politico impopulista, abile a mediare e a negoziare, lontano dall’icona del Capo», osserva Ilvo Diamanti, che segnala quanto sia diffusa, fra i cittadini, la domanda di un “uomo forte”. Dal lontano 2004, i sondaggi Demos ricostruiscono la tendenza di questo orientamento, mai così estesa: 8 italiani su 10. «Significa, praticamente, (quasi) tutti i cittadini». Un segnale inquietante? Non proprio: «L’Uomo Forte, che ottiene tanti consensi fra gli italiani, non è un nuovo Mussolini, un Duce. Non manifesta una richiesta di “autoritarismo”. Piuttosto: di “autorità”. Cioè: di una leadership dotata di legittimità». Domanda che si è pian piano “personalizzata”, concentrata sulle singole persone, dopo che i partiti hanno perduto i legami con la società, gestendo istituzioni sempre più “lontane”, burocrazie anonime e minacciose come quella dell’Ue.
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Re: Diario della caduta di un regime.
DAL "GIORNO DELLA CIVETTA" AL "GIORNO DELLA MUMMIA CINESE"
STORIA TRAGICOMICA DELLA FINE DELLA REPUBBLICA.
Da Il Fatto Quotidiano Premium
Politica | Di D. Vecchi
Berlusconi sogna Palazzo Chigi
“I giudici di Strasburgo tengano
conto delle scadenze elettorali”
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STORIA TRAGICOMICA DELLA FINE DELLA REPUBBLICA.
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Politica | Di D. Vecchi
Berlusconi sogna Palazzo Chigi
“I giudici di Strasburgo tengano
conto delle scadenze elettorali”
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Re: Diario della caduta di un regime.
NEPPURE LO STRESS DI UNA GUERRA MONDIALE AVEVA PROVOCATO UN MALESSERE COME STA REGISTRANDO QUESTA SOCIETA' DI FINE STAGIONE
5 feb 2017 12:48
PIEMONTESE, CINICO E CORTESE
- IN PROVINCIA IN TORINO, UNA STUDENTESSA DI 26 ANNI SI SUICIDA IN UN SUPERMERCATO, TAGLIANDOSI LA GOLA CON UNA LATTINA, E GLI ALTRI CLIENTI CONTINUANO A FARE LA SPESA SENZA BATTERE CIGLIO
- ALCUNI HANNO ANCHE SCATTATO FOTO
Giampiero Maggio per “la Stampa”
Il gesto è stato immediato, istintivo. Ha afferrato una lattina di tonno dalla borsa della spesa, l' ha aperta e poi, stringendo tra le dita il coperchio di alluminio, si è recisa la giugulare morendo in pochi istanti. Giusy Shari Morando, 26 anni, studentessa al quarto anno di Medicina, quinta di sette fratelli, a quattro esami dalla laurea, è morta così, ieri mattina, uccidendosi davanti agli occhi della madre e di altre decine di persone ferme alle casse dell' ipermercato Carrefour di Burolo. Poi i soccorsi, l' arrivo del 118, il telo nero a coprire il cadavere.
Intanto molti clienti hanno proseguito a fare la spesa, qualcuno ha addirittura scattato fotografie col cellulare, incurante di avere a due passi una ragazza che si era appena uccisa. Ci hanno pensato i sorveglianti, mossi anche da pietà, ad allontanare le persone, a chiedere rispetto.
Solo quattro ore dopo le serrande del centro commerciale, ormai vuoto, si sono abbassate in segno di lutto. Questa, però, è la fredda cronaca. Un secondo dopo arrivano le domande. Soprattutto una, perché? Nessuno, tra chi la conosce, è in grado di spiegare un gesto tanto forte quanto inspiegabile ed eclatante. Una sottile ragione, allora, la si può cercare in quel malessere nero e buio che da un po' le aveva incancrenito l' anima strappandole la serenità di un tempo.
Che avesse problemi psichici viene escluso dai genitori della ragazza, sentiti per diverse ore, ieri mattina dai carabinieri. Ma gli stessi investigatori confermano che fosse sotto stress e avesse problemi di depressione.
Gli stessi famigliari, increduli e choccati, davanti ai militari hanno spiegato che Giusy Shari fosse sotto pressione a causa dello studio. Ma nulla, ieri, lasciava ipotizzare un epilogo così. «Si era alzata tranquilla e serena, abbiamo fatto colazione assieme e poi siamo andate a fare la spesa» ha spiegato la mamma ai militari. Una mattina come tante, insomma. Insieme, poi, le due donne hanno raggiunto il centro commerciale, hanno riempito il carrello e infine si sono avvicinate alle casse.
Ed è qui che è successo tutto. La discussione A pochi passi dal rullo sul quale viene posato la spesa, deve essere accaduto qualcosa. C' è chi racconta, tra i dipendenti dell' ipermercato, di aver sentito una discussione tra la ragazza e la madre. I carabinieri smentiscono, ci sono versioni discordanti, anche durante il verbale d' interrogatorio dei genitori e dei fratelli della vittima questo particolare non sarebbe emerso. Comunque, Giusy Shari ad un certo punto allunga la mano, afferra una lattina di tonno, la apre e con un gesto secco si recide la vena che collega testa e cuore. Essendo una studentessa in medicina sapeva, evidentemente, come agire e che punto colpire.
C' è stato un fuggi fuggi generale, c' è chi racconta che la donna, immersa in una pozza di sangue, abbia tentato di chiedere aiuto, come fosse un ultimo, disperato tentativo di tornare sui propri passi: «L' abbiamo sentita dire, con un filo di voce: "Salvatemi"». Interviene anche un medico che si trova a pochi passi, ma per la ragazza non c' è nulla da fare. Il centro commerciale viene chiuso per lutto.
Studentessa modello Al citofono della villa in mattoni rossi in via Nigra a Bollengo, dove Giusy viveva, assieme ai genitori, non risponde nessuno. Papà stimato dentista, mamma impiegata all' Asl To4, altri 6 fratelli: la vita di questa ragazza riservata si divideva tra lo studio, l' Università, le giornate a Torino, nell' appartamento che condivideva con la sorella più grande, in settimana e questa bella casa alle porte del paese con il giardino curato e gli infissi bianchi all' inglese. «Un gesto inspiegabile e che lascia senza parole - commenta il sindaco, Luigi Ricca -, la vedevamo poco qui, ma di lei posso soltanto dire che era una bella ragazza, una brava studentessa. Davvero, non ci sono parole di fronte ad una morte così tragica e orribile al tempo stesso».
5 feb 2017 12:48
PIEMONTESE, CINICO E CORTESE
- IN PROVINCIA IN TORINO, UNA STUDENTESSA DI 26 ANNI SI SUICIDA IN UN SUPERMERCATO, TAGLIANDOSI LA GOLA CON UNA LATTINA, E GLI ALTRI CLIENTI CONTINUANO A FARE LA SPESA SENZA BATTERE CIGLIO
- ALCUNI HANNO ANCHE SCATTATO FOTO
Giampiero Maggio per “la Stampa”
Il gesto è stato immediato, istintivo. Ha afferrato una lattina di tonno dalla borsa della spesa, l' ha aperta e poi, stringendo tra le dita il coperchio di alluminio, si è recisa la giugulare morendo in pochi istanti. Giusy Shari Morando, 26 anni, studentessa al quarto anno di Medicina, quinta di sette fratelli, a quattro esami dalla laurea, è morta così, ieri mattina, uccidendosi davanti agli occhi della madre e di altre decine di persone ferme alle casse dell' ipermercato Carrefour di Burolo. Poi i soccorsi, l' arrivo del 118, il telo nero a coprire il cadavere.
Intanto molti clienti hanno proseguito a fare la spesa, qualcuno ha addirittura scattato fotografie col cellulare, incurante di avere a due passi una ragazza che si era appena uccisa. Ci hanno pensato i sorveglianti, mossi anche da pietà, ad allontanare le persone, a chiedere rispetto.
Solo quattro ore dopo le serrande del centro commerciale, ormai vuoto, si sono abbassate in segno di lutto. Questa, però, è la fredda cronaca. Un secondo dopo arrivano le domande. Soprattutto una, perché? Nessuno, tra chi la conosce, è in grado di spiegare un gesto tanto forte quanto inspiegabile ed eclatante. Una sottile ragione, allora, la si può cercare in quel malessere nero e buio che da un po' le aveva incancrenito l' anima strappandole la serenità di un tempo.
Che avesse problemi psichici viene escluso dai genitori della ragazza, sentiti per diverse ore, ieri mattina dai carabinieri. Ma gli stessi investigatori confermano che fosse sotto stress e avesse problemi di depressione.
Gli stessi famigliari, increduli e choccati, davanti ai militari hanno spiegato che Giusy Shari fosse sotto pressione a causa dello studio. Ma nulla, ieri, lasciava ipotizzare un epilogo così. «Si era alzata tranquilla e serena, abbiamo fatto colazione assieme e poi siamo andate a fare la spesa» ha spiegato la mamma ai militari. Una mattina come tante, insomma. Insieme, poi, le due donne hanno raggiunto il centro commerciale, hanno riempito il carrello e infine si sono avvicinate alle casse.
Ed è qui che è successo tutto. La discussione A pochi passi dal rullo sul quale viene posato la spesa, deve essere accaduto qualcosa. C' è chi racconta, tra i dipendenti dell' ipermercato, di aver sentito una discussione tra la ragazza e la madre. I carabinieri smentiscono, ci sono versioni discordanti, anche durante il verbale d' interrogatorio dei genitori e dei fratelli della vittima questo particolare non sarebbe emerso. Comunque, Giusy Shari ad un certo punto allunga la mano, afferra una lattina di tonno, la apre e con un gesto secco si recide la vena che collega testa e cuore. Essendo una studentessa in medicina sapeva, evidentemente, come agire e che punto colpire.
C' è stato un fuggi fuggi generale, c' è chi racconta che la donna, immersa in una pozza di sangue, abbia tentato di chiedere aiuto, come fosse un ultimo, disperato tentativo di tornare sui propri passi: «L' abbiamo sentita dire, con un filo di voce: "Salvatemi"». Interviene anche un medico che si trova a pochi passi, ma per la ragazza non c' è nulla da fare. Il centro commerciale viene chiuso per lutto.
Studentessa modello Al citofono della villa in mattoni rossi in via Nigra a Bollengo, dove Giusy viveva, assieme ai genitori, non risponde nessuno. Papà stimato dentista, mamma impiegata all' Asl To4, altri 6 fratelli: la vita di questa ragazza riservata si divideva tra lo studio, l' Università, le giornate a Torino, nell' appartamento che condivideva con la sorella più grande, in settimana e questa bella casa alle porte del paese con il giardino curato e gli infissi bianchi all' inglese. «Un gesto inspiegabile e che lascia senza parole - commenta il sindaco, Luigi Ricca -, la vedevamo poco qui, ma di lei posso soltanto dire che era una bella ragazza, una brava studentessa. Davvero, non ci sono parole di fronte ad una morte così tragica e orribile al tempo stesso».
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Re: Diario della caduta di un regime.
GIORNI BOLLENTI
LIBRE news
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L’Italia resta terra di conquista, non si vedono vie d’uscita
Scritto il 06/2/17 • nella Categoria: idee Condividi
L’Italia obbedisce, da decenni, a “padroni” stranieri: americani, inglesi, francesi. L’ultimo capitolo, quello del Britannia, tra le macerie di Mani Pulite: via libera alla grande privatizzazione del paese, smantellando quello che ne era stato il principale volano economico, l’industria pubblica. Esecutori: Prodi, Amato, D’Alema, Ciampi, Padoa Schioppa. Ma l’ordine era partito dall’alto, dai dominus internazionali che, per gli affari “regionali”, potevano puntare su affiliati di ferro come Mario Draghi e Giorgio Napolitano. Via i ladri di Tangentopoli: al loro posto, obbedienti servitori per il progetto di sottomissione denominato Unione Europea, che si avvale della politica di rigore indotta dall’euro e imposta a tutti, tranne a banche e multinazionali. Austerity che trasforma lo Stato in una periferia indigente, senza più sovranità, costretta a elemosinare tasse sempre più soffocanti, col risultato – scontato – di deprimere l’economia: meno consumi, meno lavoro, meno reddito, erosione dei risparmi, crisi e disoccupazione dilagante, tagli a pensioni e sanità, svendita del patrimonio pubblico. E soprattutto: assenza di futuro, mancanza di alternative all’agonia di un paese da cui i giovani scappano, non si sposano più, non fanno più figli.
E’ il rimbalzo europeo dell’ondata neoliberista cavalcata da Reagan e Thatcher negli anni ‘80, cui – secondo un economista come Nino Galloni – l’Italia si allineò prontamente, staccando il “bancomat” di Bankitalia (allora retta da Ciampi) dal Tesoro, di cui era ministro Andreatta, un pioniere delle privatizzazioni. Travolti per via giudiziaria i leader della Prima Repubblica, discutibili e controversi ma arroccati sulla difesa della sovranità nazionale, fonte del loro potere, a rovinare la festa all’ex Pci – unica forza risparmiata da Mani Pulite – irruppe il Cavaliere, che però non andò oltre gli slogan (rivoluzione liberale, meno tasse) e si limitò a congelare la situazione, senza osare sfidare Bruxelles. Proprio gli interessi di bottega (Mediaset, Mondadori) resero Berlusconi vulnerabile, nel 2011, di fronte all’assalto finale della Troika, con l’imposizione del commissario Monti, sorretto anche dal Pd di Bersani fino all’inserimento nella Costituzione del pareggio di bilancio, norma esiziale che di fatto esautora definitivamente governo e Parlamento privandoli di ogni residua sovranità, rendendo le elezioni puro esercizio rituale, senza efficacia politica.
Dopo Berlusconi, Renzi: altro giro, altro abbaglio. Il suo programma: scritto, come gli altri, sotto dettatura. Consiglieri: Yoram Gutgeld, Marco Carrai, Michael Ledeen. Ispiratori: Tony Blair, e il Ceo di Jp Morgan, Jamie Dimon, con la collaborazione di Larry Fink, patron del maggior fondo d’investimenti del pianeta, BlackRock, a cui Renzi ha regalato una grossa fetta di Poste Italiane, azienda in super-attivo che all’Italia fruttava quasi mezzo miliardo all’anno. La riforma di Renzi? Il Jobs Act, su ordine dell’élite finanziaria, atlantica e tedesca, fanaticamente decisa a imporre ad ogni costo il dogma mercantilista: svalutare il lavoro in Europa per reggere la globalizzazione senza mai mettere a rischio i capitali, ma solo e sempre i lavoratori. Renzi però è caduto sul referendum: voleva una sola Camera elettiva, per un governo con più potere (più efficace, quindi, nell’eseguire direttive esterne senza “complicazioni” democratiche) ma gli italiani gli hanno detto no. Il super-potere, quelle riforme, le vuole. E continuerà a premere, sull’Italia ex-sovrana in balìa dell’euro, con l’arma del ricatto finanziario. Di fronte a elezioni anticipate, non emerge nessun Piano-B. I leader uscenti sono in crisi, gli altri sono deboli o non chiari. Nessuno pare in grado di imporre all’Europa di riscrivere, da cima a fondo, le regole che hanno devastato l’Italia, declassandola da potenza industriale a paese costretto a mendicare aiuti per il terremoto.
LIBRE news
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L’Italia resta terra di conquista, non si vedono vie d’uscita
Scritto il 06/2/17 • nella Categoria: idee Condividi
L’Italia obbedisce, da decenni, a “padroni” stranieri: americani, inglesi, francesi. L’ultimo capitolo, quello del Britannia, tra le macerie di Mani Pulite: via libera alla grande privatizzazione del paese, smantellando quello che ne era stato il principale volano economico, l’industria pubblica. Esecutori: Prodi, Amato, D’Alema, Ciampi, Padoa Schioppa. Ma l’ordine era partito dall’alto, dai dominus internazionali che, per gli affari “regionali”, potevano puntare su affiliati di ferro come Mario Draghi e Giorgio Napolitano. Via i ladri di Tangentopoli: al loro posto, obbedienti servitori per il progetto di sottomissione denominato Unione Europea, che si avvale della politica di rigore indotta dall’euro e imposta a tutti, tranne a banche e multinazionali. Austerity che trasforma lo Stato in una periferia indigente, senza più sovranità, costretta a elemosinare tasse sempre più soffocanti, col risultato – scontato – di deprimere l’economia: meno consumi, meno lavoro, meno reddito, erosione dei risparmi, crisi e disoccupazione dilagante, tagli a pensioni e sanità, svendita del patrimonio pubblico. E soprattutto: assenza di futuro, mancanza di alternative all’agonia di un paese da cui i giovani scappano, non si sposano più, non fanno più figli.
E’ il rimbalzo europeo dell’ondata neoliberista cavalcata da Reagan e Thatcher negli anni ‘80, cui – secondo un economista come Nino Galloni – l’Italia si allineò prontamente, staccando il “bancomat” di Bankitalia (allora retta da Ciampi) dal Tesoro, di cui era ministro Andreatta, un pioniere delle privatizzazioni. Travolti per via giudiziaria i leader della Prima Repubblica, discutibili e controversi ma arroccati sulla difesa della sovranità nazionale, fonte del loro potere, a rovinare la festa all’ex Pci – unica forza risparmiata da Mani Pulite – irruppe il Cavaliere, che però non andò oltre gli slogan (rivoluzione liberale, meno tasse) e si limitò a congelare la situazione, senza osare sfidare Bruxelles. Proprio gli interessi di bottega (Mediaset, Mondadori) resero Berlusconi vulnerabile, nel 2011, di fronte all’assalto finale della Troika, con l’imposizione del commissario Monti, sorretto anche dal Pd di Bersani fino all’inserimento nella Costituzione del pareggio di bilancio, norma esiziale che di fatto esautora definitivamente governo e Parlamento privandoli di ogni residua sovranità, rendendo le elezioni puro esercizio rituale, senza efficacia politica.
Dopo Berlusconi, Renzi: altro giro, altro abbaglio. Il suo programma: scritto, come gli altri, sotto dettatura. Consiglieri: Yoram Gutgeld, Marco Carrai, Michael Ledeen. Ispiratori: Tony Blair, e il Ceo di Jp Morgan, Jamie Dimon, con la collaborazione di Larry Fink, patron del maggior fondo d’investimenti del pianeta, BlackRock, a cui Renzi ha regalato una grossa fetta di Poste Italiane, azienda in super-attivo che all’Italia fruttava quasi mezzo miliardo all’anno. La riforma di Renzi? Il Jobs Act, su ordine dell’élite finanziaria, atlantica e tedesca, fanaticamente decisa a imporre ad ogni costo il dogma mercantilista: svalutare il lavoro in Europa per reggere la globalizzazione senza mai mettere a rischio i capitali, ma solo e sempre i lavoratori. Renzi però è caduto sul referendum: voleva una sola Camera elettiva, per un governo con più potere (più efficace, quindi, nell’eseguire direttive esterne senza “complicazioni” democratiche) ma gli italiani gli hanno detto no. Il super-potere, quelle riforme, le vuole. E continuerà a premere, sull’Italia ex-sovrana in balìa dell’euro, con l’arma del ricatto finanziario. Di fronte a elezioni anticipate, non emerge nessun Piano-B. I leader uscenti sono in crisi, gli altri sono deboli o non chiari. Nessuno pare in grado di imporre all’Europa di riscrivere, da cima a fondo, le regole che hanno devastato l’Italia, declassandola da potenza industriale a paese costretto a mendicare aiuti per il terremoto.
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