Forum per un "Congresso della Sinistra" ... sempre aperto
La libertà è il diritto dell’anima a respirare. E noi, partecipando malgrado tutto, vogliamo continuare a respirare.Lo facciamo nel modo più opportuno possibile all’interno di questo forum che offre spazio a tutti coloro che credono nella democrazia
cielo 70 ha scritto:
Se parli degli scissionisti che altro dovevano fare?
Mi riferisco al fatto che molti di Sinistra Italiana e "quelli di Pisapia" ancora credono nella redenzione del PD e quindi di fare una alleanza con questo per una "nuova" forza progressista ... ma questo non è già stato detto da vent'anni?
Sveglia!
Il PD è una forza liberista e quindi di destra e fa politiche da cinque anni anti socialiste
A questo punto dobbiamo credere nelle nostre idee, in modo chiaro, limpido, no risiko politico e portare delle proposte socialiste.
Lo sta facendo Sanders negli USA e nella "tana del lupo" il socialismo democratico sta prendendo sempre più forma e consenso.
Noi in Italia abbiamo paura ... ma paura di che?
Il M5S ha dimostrato che crederci alla fine paga, c'è un mondo di delusi, arrabbiati ed esclusi dalla rappresentanza politica, è li dobbiamo crescere, è li che dobbiamo coinvolgere per poter riprendere in mano questo Paese.
Questa è l'unica speranza che vedo in questo deserto ...
da www.possibile.com
(l'intervento di Civati al Congresso di Sinistra Italiana) Una sinistra che si candidi a fare grandi cose
di Giuseppe Civati
Dicono che siamo strani noi, che abbiamo un progetto e un profilo.
Eppure vedo che ci si scinde dal PdR ‘minacciando’ di allearsi con il PdR.
Vedo chi ha votato sì proporsi come organizzatore di chi ha votato no.
Vedo chi denunciava che il governo fosse la fotocopia senza toner del precedente chiedere che vada avanti fino al 2018 come condizione necessaria.
Vedo che si vuole rifare il centro-sinistra dove il trattino è puntualmente un meno, perché l’importante è tenersi le mani libere per allearsi con la destra.
Vedo l’Ulivo citato come se fosse l’Arbre Magique che profuma l’aria comunque irrespirabile di un veicolo che sbanda verso destra.
Vedo il campo progressista quando nemmeno si riescono a fare le telefonate. Come dire, non c’è campo.
Vedo qualcuno preoccupato per Alfano che ora deve preoccuparsi ancora di più perché Minniti è più a destra di lui.
Non è il discorso ironico e paradossale di Marco, lo studente del Politecnico di Torino, ma è la cronaca delle ultime settimane. E per sineddoche degli ultimi anni.
Voglio essere chiaro: non mi fido di quelli che non parlano mai di niente, perché potrebbero essere capaci di tutto. Quelli che parlano solo di partito, di posizionamento, di politicismi e mai delle cose da fare, e che poi nella situazione giusta voterebbero qualsiasi cosa. L’ho visto fare, ogni giorno, in questa legislatura. E ci hanno spiegato che la politica è esclusivamente compromesso tra politici, e no, non è così, diciamolo ogni volta che possiamo. Politica non è potere da condividere tra potenti, ma potere da distribuire ai cittadini.
Ho l’antidoto: manderei l’intervento di Marco Grimaldi in loop, obbligando alla visione tutti quanti.
Prima cosa: autonomia, anche dal dibattito degli altri. L’Italia ha bisogno di una sinistra con agenda politica propria. A noi serve un taccuino, preciso negli obiettivi e con i numeri a fianco di ogni voce.
Sanders e Hamon che tutti citano non sono la sinistra radicale, sono la sinistra normale: la normale sinistra di chi vuole cambiare le cose, non mantenerle come sono, con falsi movimenti e trucchi da quattro soldi. Orgoglio, ci vuole. Non la nostalgia dei tempi che furono. Ci vuole l’idea di competere come se fossimo alla pari. Gli altri sono al 30% e noi sotto il 5? Chi l’ha detto che finirà così? Si azzererà tutto alle prossime elezioni, lo abbiamo capito, oppure no? Bisogna avere la stessa follia del M5s, che poi nella follia ha ecceduto e che per mille ragioni non ci ha convinto né ci convince, ma che nel 2013 ha lanciato una sfida su questioni di cui nessuno si faceva carico. Abbiamo la stessa forza e la stessa determinazione? Per questo non ci vuole un leader, che maturerà in questo percorso, ma 100 leader, 100 competenze, 100 candidature che sbaraglino gli avversari. Competitivi con tutti gli altri attori politici, altro che minoritari.
Avviamo un esperimento mentale: fottersene dell’ultima dichiarazione, fare le cose che contano, precisare le proposte per il futuro. Cambiamenti climatici, migrazioni, robotica, paradisi fiscali. Altro che provincialismi.
Una sinistra che produca competenze per risolvere problemi, con grande umiltà.
Non Polinesia, come ha detto Mussi, metafora che ha dato il via a una riflessione sui ponti (tranne che sul ponte sullo Stretto), ma una costellazione.
Ve lo ricordate Giordano Bruno, il cui anniversario ricorre in queste ore? Lo Spaccio de la bestia trionfante: mandiamo via le costellazioni del passato, la costellazione della precarietà, il centauro – figura mitologica mezzo di sinistra e mezzo di destra – , disegniamone di altre.
Come Giove «ch’avea colmo di tante bestie, come di tanti vizii, il cielo, secondo la forma di quarant’otto famose imagini», decide di cancellare questi animali fantastici per sostituirli con «disperse virtù».
È il disegno che conta. Ed è planetario, altro che minoritario.
Un unico soggetto elettorale della sinistra che si apre alla società, che parta da noi, che si candidi a fare grandi cose e a dare rappresentanza a chi non ne ha. Per far ‘scendere’ quel disegno sulla terra, senza aspettare ancora.
Con una campagna che sia prima culturale ed essenzialmente politica, piuttosto che meramente elettorale.
Tocca a noi promuoverlo.
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«Non si discute per aver ragione, ma per capire» (Peanuts)
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lucfig ha scritto:Mossa sciocca quella di Orlando, quinta colonna di Renzi, a presentarsi alle Primarie.
Spaccando il fronte anti-Renzi rende le Primarie noiose come giornata di shopping di tua moglie, con il risultato che già si sa chi vince (Renzi) e quindi ci si chiede: Perché spendere 2 euro per votare?
La mia speranza è del basso flusso ai Gazebo (meno di 1 milione), questo sarebbe un campanellino d'allarme per i Razzi del PD che vedono la loro poltrona scivolare dal proprio deretano e rimanere al palo.
La sinistra guarda come sempre all'indietro ed inciampa non comprendendo e non credendo in se. Mitico è stato il discorso di Civati all'assemblea del SI, ma egli è come Cassandra, dice cose giuste ma troppo giuste ed intelligenti che il popolo Italico li segua.
Non c'è speranza in questa catastrofe, arriveremo ad uno stallo, senza governo e senza possibilità vedere la luce.
E di solito in queste occasioni arrivano gli Unni a saccheggiare quel poco che è rimasto.
Mossa sciocca quella di Orlando, quinta colonna di Renzi, a presentarsi alle Primarie.
Pd, Civati: “Orlando si candida a segretario? Nessuna novità: lui e Renzi sono sempre stati dalla stessa parte”
di F. Q. | 24 febbraio 2017
“Orlando pensasse allo ‘Ius Soli’ e a tenere unito il governo, non il Pd. Lui contro Renzi? Mah, sono stati dalla stessa parte per diversi anni. Noi proveremo a fare altro”. Così Pippo Civati, leader di Possibile, ha commentato la candidatura del ministro della Giustizia alla segreteria del Pd. Civati ha parlato con i cronisti a margine di un dibattito nella sede Cgil di via Buonarroti a Roma, dove era stato invitato anche Michele Emiliano.
Può finire il Pd, non il romanzo criminale che sabota l’Italia
Scritto il 22/2/17 • nella Categoria: idee Condividi
In “Romanzo criminale”, la saga della Banda della Magliana ripercorsa da Giancarlo De Cataldo, nessuno riesce mai neppure a sfiorare il supremo potere del Grande Vecchio, il burattinaio che agisce nell’ombra e, dal Palazzo, manovra i fili che tengono insieme una sceneggiatura anche atroce, in cui si muovono guardie e ladri, terroristi e affaristi, servizi segreti e malavita imprenditrice. Nel saggio “Il più grande crimine”, il giornalista Paolo Barnard ricostruisce in chiave criminologica quello che chiama “economicidio” dell’Italia, in tre mosse: divorzio tra governo e Bankitalia, adesione all’Unione Europea, ingresso nell’Eurozona. Matematico: crisi, disoccupazione, super-tasse, taglio del welfare e dei salari, crollo dei consumi, sofferenze bancarie ed esplosione del debito pubblico, che diviene improvvisamente “tossico” perché non più ripagabile, non più denominato in moneta sovrana liberamente disponibile. A monte: il Memorandum Powell, la guerra storica contro la sinistra dei diritti del lavoro (dalla legge Biagi al Jobs Act), la “crisi della democrazia” evocata dai cantori della Trilaterale, fino alla spazzatura terminale dell’Ue, il Fiscal Compact, la morte clinica del bilancio pubblico degli Stati, ridotti a esattori per la più colossale operazione di money-transfer della storia moderna, dal basso verso l’alto, attraverso la privatizzazione universale neoliberista.
Nella sua visione da criminologo, Barnard fa i nomi: Beniamino Andreatta e Carlo Azeglio Ciampi vietarono alla Banca d’Italia di continuare a fare da “bancomat del governo” a costo zero, imponendo allo Stato, da quel momento, di finanziarsi diversamente: ricorrendo cioè alla finanza privata attraverso l’emissione di bond, a beneficio della grande finanza, cui da allora lo Stato avrebbe riconosciuto lauti interessi, facendo esplodere il debito pubblico. Poi l’euro, cioè l’istituzionalizzazione definitiva della “trappola finanziaria”: lo Stato non può più fare retromarcia, deve “prendere in prestito” la moneta emessa da un soggetto esterno, la Bce, i cui azionisti sono le banche centrali non più pubbliche, ma controllate da cartelli bancari privati. A quel punto è l’euro a imporre la sua legge, attraverso la Commissione Europea, cioè il governo non-eletto dell’Europa. E la Commissione Europea vara la norma finale, esiziale, per qualsiasi governo democratico: il pareggio di bilancio, che equivale al decesso finanziario dello Stato. In regime di sovranità (Usa, Giappone, resto del mondo) il debito pubblico misura la salute del paese: più il deficit è alto, più l’economia è prospera. L’Unione Europea inverte i termini del paradigma: taglia la spesa pubblica, e ottiene crisi. L’Italia, addirittura, ha inserito il pareggio di bilancio in Costituzione. E, peggio ancora, da anni il bilancio italiano è in “avanzo primario”: per i cittadini, lo Stato spende meno di quanto i contribuenti versino in tasse.
Come si è arrivati a questo? Smantellando la sinistra, risponde Barnard, citando l’avvocato Lewis Powell, uno stratega di Wall Street incaricato dalla Camera di Commercio Usa, all’inizio degli anni ‘70, di redigere un vademecum per guidare l’élite, spodestata dalla democrazia sociale nel dopoguerra, verso la riconquista dell’atavico potere perduto. Detto fatto, come da manuale: leader radicali stroncati, leader riformisti “comprati” per annacquare i loro partiti e sindacati, rendendoli docili e spingendoli a convincere i loro elettori ad accettare “riforme” concepite per “smontare” le tutele sociali, privatizzando progressivamente l’economia. Campioni assoluti, in Italia: personaggi come Romano Prodi, Giuliano Amato e Massimo D’Alema. Berlusconi? Irrilevante: si è limitato a proteggere i suoi interessi. Gli artefici delle “riforme strutturali” provengono tutti dalla sinistra storica: la più adatta, come insegna Lewis Powell, a convincere la società ad affrontare dolorosi “sacrifici”, magari imposti sulla base di norme senza alcun fondamentio economico, come il famigerato limite alla spesa pubblica, non oltre il 3% del Pil. Una invenzione di François Mitterrand, come ricorda l’economista Alain Parguez, allora consulente del presidente francese. Mitterrand? «Un monarchico, travestito da socialista». L’ennesima maschera della sinistra messasi al servizio del supremo potere oligarchico, neo-feudale, ansioso di sbarazzarsi dell’ingombro della democrazia per tornare all’antico splendore.
La “mente” di Mitterrand? Jacques Attali, che Barnard definisce “il maestro” di D’Alema, l’ex comunista italiano che, da Palazzo Chigi, vantò il record europeo delle privatizzazioni. Nel suo libro “Massoni, società a responsabilità illimitata”, Gioele Magaldi aggiunge un ulteriore filtro alla lettura di Barnard, quello super-massonico, derivate dal potere di 36 organizzazioni segrete, denominate Ur-Lodges, in cui gli uomini del massimo vertice mondiale – finanziario, industriale, militare, politico – disegnano le loro trame, per condizionare governi e paesi. Di Jacques Attali, Magaldi e Barnard offrono un ritratto preciso: l’ennesimo uomo di sinistra, “convertitosi” alla causa dell’oligarchia. E’ uno smottamento che investe l’intero Occidente: i Clinton e poi Obama negli Usa, Tony Blair in Gran Bretagna, Mitterrand in Francia, Gerhard Schröder in Germania con la riforma Hartz che introduce la flessibilità nel lavoro dipendente e i mini-salari dei minijob. Poi arrivano le Merkel e i Trump, ma il “lavoro sporco” l’hanno già fatto gli “amici del popolo”, quelli che ancora oggi in Italia cantano Bandiera Rossa e Bella Ciao, dopo aver votato la legge Fornero e le finanziarie-suicidio di Mario Monti, che per Magaldi milita, insieme a Giorgio Napolitano, nella Ur-Lodge “Three Eyes”, la stessa di Attali, storicamente guidata da personalità come quelle di David Rockefeller ed Henry Kissinger, fondatori della Trilaterale.
Anche in Italia, il cortocircuito finanziario introdotto con l’euro (lo Stato improvvisamente in bolletta) si è trasformato in crisi economica, quindi sociale. Ma, ovviamente, il “più grande crimine”, il sabotaggio della sovranità e quindi della democrazia, non è mai stato neppure lontanamente sfiorato dalla cosiddetta sinistra radicale dei Bertinotti e dei Vendola, né tantomeno dalla Cgil. Era tanto comodo il “demonio” Berlusconi, per catalizzare i mali del Balpaese, fino a insediare a Palazzo Chigi direttamente la Trojka, il commissario Monti (Trilaterale, Bilderberg, Goldman Sachs) tra gli applausi di tutti i Bersani di Montecitorio. Poi è arrivato Grillo, poi Renzi: come se il Grande Vecchio, lassù, si divertisse un mondo con il suo giocattolo preferito, l’Italia, cioè il paese in cui nessuno denuncia mai il vero problema, e dunque non può trovare soluzioni. Oggi si sbriciola il Pd, ma nulla lascia supporre che finisca il “romanzo criminale”, con i suoi personaggi-marionetta e le loro piccole partite, fatte di primarie e poltrone, correnti e sigle, bullismi, rancori, rivincite e vendette. Vacilla persino l’Unione Europea, sono in atto rivolgimenti di portata mondiale che mettono in discussione i caposaldi della globalizzazione neoliberista. E in Italia sono in campo Renzi ed Emiliano, Di Maio e la Raggi, Salvini e D’Alema, Prodi e Berlusconi, Pisapia e la Boldrini. Ancora una volta, gli amici del Grande Vecchio potranno dormire sonni tranquilli: l’Europa sta per franare, a cominciare dalla Francia, ma non sarà certo l’Italia a impensierire i grandi architetti della crisi.
“Mani pulite-25 anni dopo”, il libro. Dai pm “manettari” ai “comunisti salvati”, ecco le post verità su Tangentopoli
Giustizia & Impunità
In edicola e in libreria l'edizione rivista e aggiornata del volume di Barbacetto, Gomez e Travaglio che racconta la storia completa dell'indagine che travolse la Prima repubblica. E smonta i luoghi comuni emersi negli anni successivi, dal "carcere per far confessare" ai complotti politici o addirittura occulti. Fino a Craxi "grande statista" a cui oggi qualcuno vorrebbe dedicare una via di Milano
di F. Q. | 24 febbraio 2017
commenti (50)
Più informazioni su: Bettino Craxi, Gianni Barbacetto, Mani Pulite, Marco Travaglio, Peter Gomez, Tangentopoli
mani-pulite-cover-150E’ in edicola e in libreria da sabato 25 febbraio “Mani pulite-25 anni dopo”, di Gianni Barbacetto, Peter Gomez e Marco Travaglio, edizione rivista e aggiornata del volume che propone la storia completa dell’inchiesta giudiziaria che travolse la prima repubblica. Il volume è pubblicato da “Paper First” (448 pagine, 12 euro). Ecco un ampio brano dell’introduzione, dedicato allo smontaggio delle “post verità” su Tangentopoli messe in circolo in questi anni nello scontro su politica e malaffare. Che, un quarto di secolo dopo, è ancora aperto.
Le sette post-verità
1. Mani pulite fu un’operazione politica che eliminò per via giudiziaria un intero sistema che aveva garantito 50 anni di democrazia in Italia.
È stata una grande, ma ordinaria indagine giudiziaria, Mani pulite, non un’operazione politica. Partì da una piccola inchiesta su una tangente da 7 milioni di lire che poi, come nel gioco del domino, si allargò mazzetta dopo mazzetta e portò alla luce un gigantesco sistema della corruzione. E potè svilupparsi grazie a un insieme di concause. L’abilità investigativa dell’ex poliziotto Antonio Di Pietro e degli altri pm a cui il nuovo Codice di procedura penale del 1989 aveva passato la direzione delle indagini e il coordinamento della polizia giudiziaria. La crisi economica, che aveva assottigliato il denaro pubblico da destinare agli appalti e dunque i margini per le mazzette, il che rese gli imprenditori più disponibili a denunciare i politici che chiedevano loro mazzette in cambio di vantaggi sempre meno lucrosi. La stanchezza per lo strapotere dei partiti e l’insofferenza verso una corruzione sempre più famelica, sfacciata e plateale (le barzellette sui socialisti ladri erano diventate fenomeno di costume, come quelle sui democristiani mafiosi). La caduta del muro di Berlino, con la conseguente fine della guerra fredda e del mondo diviso in due blocchi: tutti fattori geopolitici che fino al 1990 avevano reso impossibile il ricambio al governo e improcessabili i partiti della maggioranza anticomunista.
Nella nuova situazione – giudiziaria, economica, politica, sociale, geopolitica – dei primi anni 90, le indagini sulla corruzione, che una parte della magistratura aveva già tentato in precedenza (fermandosi però sempre ai singoli episodi, o addirittura infrangendosi dinanzi ai sistemi di insabbiamento dei vari “porti delle nebbie”), poterono allargarsi e risalire ai livelli superiori e scoperchiare quello che era non un insieme di casi isolati e slegati fra loro, ma un sistema organico e organizzato di regolazione dei rapporti tra imprese e politica. Poi furono non i giudici nei processi, ma gli elettori nelle urne, a far saltare il sistema dei partiti della Prima Repubblica, ormai screditati, e a costringere la stessa classe dirigente a cambiare (almeno in apparenza) il quadro politico. Tant’è che il primo a beneficiarne fu il più abile figlio dell’Ancien Regime corrotto, Silvio Berlusocni, grazie alle sue capacità mimetiche e trasformistiche, agevolate dal suo strapotere mediatico e pubblicitario.
2. Mani pulite ha salvato i “comunisti” e ha annientato gli anticomunisti, cioè i democristiani e soprattutto i socialisti.
A guardare i fatti, i “comunisti” non sono stati affatto salvati: il primo politico arrestato da Mani pulite non fu il socialista Mario Chiesa (amministratore di un ospizio comunale), ma il pidiessino ex comunista Epifanio Li Calzi, assessore comunale?? all’Edilizia. Dopo di lui, finì in carcere o sotto indagine l’intera dirigenza del Pds milanese: i “cassieri” occulti Luigi Carnevale e Sergio Soave, il segretario provinciale Roberto Cappellini, l’ex vicesindaco Roberto Camagni, l’assessore Massimo Ferlini, il segretario provinciale Barbara Pollastrini e il parlamentare Gianni Cervetti (gli ultimi due??? poi assolti). A Roma, le indagini giunsero fino al tesoriere nazionale Marcello Stefanini e al responsabile del patrimonio immobiliare Marco Fredda. Furono arrestati e condannati il funzionario Primo Greganti e il responsabile del settore energia Giovanni Battista Zorzoli. Il pool indagò anche sulle coop rosse, sugli appalti dell’Enel e dell’Alta velocità e anche su una misteriosa valigia piena di soldi che Raul Gardini portò nella storica sede del Pci di Botteghe Oscure, di cui però non si riuscì a individuare il destinatario (anche per la morte dei principali protagonisti della vicenda).
Le indagini ricostruirono un sistema in cui i partiti di governo partecipavano direttamente alla spartizione delle tangenti, mentre il Pci-Pds era finanziato attraverso una quota degli appalti pubblici assegnati alle cooperative rosse che poi finanziavano, perlopiù legalmente, il partito. Tranne a Milano, dove la corrente “migliorista” del Pci-Pds era entrata a pieno titolo nel sistema delle mazzette con i “cassieri” Carnevale e Soave; e in alcuni sistemi nazionali come quello dell’energia e dell’Alta velocità. Il Psi apparve più colpito da Mani pulite perché il suo padre-padrone Bettino Craxi risiedeva e operava a Milano (sotto la competenza diretta di quella procura, diversamente dai segretari degli altri partiti, con base perlopiù a Roma) e perché gl’imprenditori e i cassieri di area socialista si rivelarono i più disponibili a confessare, rendendo più facili le indagini. Inoltre il Psi aveva la “panchina corta”: rispetto a Pci e Dc era meno compartimentato, privo di filtri organizzativi tra i cassieri delle mazzette e il segretario nazionale. Infine, Craxi si rivelò l’unico segretario di partito che rubava anche per sé e senza alcuna precauzione: come raccontano alcuni testimoni, i soldi gli venivano consegnati in grandi buste gialle direttamente nel suo ufficio milanese, in piazza Duomo 19.
3. Mani pulite usò il carcere come forma di tortura e le manette per estorcere confessioni.
La decisione di mandare in carcere gli indagati veniva presa non dal pool di Mani pulite, ma dai giudici delle indagini preliminari (i gip), come previsto dalla legge. Quanto alle confessioni, molti degli indagati le rendevano senza essere arrestati o ancora prima che scattassero le manette ai loro polsi (“Cominciavano a parlare già al citofono”, ricorda ironico Davigo). Se una percentuale minima di indagati finivano in carcere, era per impedire – sempre nel rispetto scrupoloso della legge – che potesse fuggire, o reiterare il reato o inquinare le prove, intimidendo testimoni o concordando versioni di comodo o distruggendo documenti. Chi confessava veniva rimesso in libertà perché erano cadute le esigenze cautelari: non poteva più né ripetere il reato, né inquinare le prove, avendo reciso il vincolo di omertà che lo legava all’organizzazione criminale, rendendosi inaffidabile agli occhi dei complici. “Il ragionamento va dunque rovesciato”, spiega Davigo: “non li mettevamo dentro per farli parlare, ma li mettevamo fuori dopo che avevano parlato”.
4. Mani pulite ha indotto al suicidio molti arrestati.
È un argomento drammatico e ricattatorio, questo dei suicidi, perché quella del suicidio è una scelta estrema che soltanto lui potrebbe spiegare. In ogni caso, checchè se ne dica, nessun indagato di Mani pulite si è tolto la vita in carcere. Erano indagati, ma a piede libero, il segretario del Psi di Lodi Renato Amorese e il deputato socialista Sergio Moroni, entrambi morti suicidi. Era libero anche Raul Gardini, che non sopportò il peso delle accuse che avrebbe dovuto confessare di lì a qualche giorno nell’interrogatorio già fissato in Procura. Morì in carcere, invece, il presidente dell’Eni Gabriele Cagliari, ma il pool Mani Pulite l’aveva già fatto scarcerare: era trattenuto in cella da altri magistrati per una diversa indagine, quella sulla tangente Eni-Sai (in cui, post mortem, risultò poi colpevole), e non per strorcergli confessioni, ma perché stava cercando di inquinare le prove, mandando a dire ai coimputati di non raccontare quanto sapevano.
Amorese, in una lettera ai familiari, spiegò la sua drammatica scelta con il fatto di non riuscire a reggere la vergogna di leggere il suo nome nelle cronache di Tangentopoli. Ne scrisse una anche a Di Pietro: “La ringrazio per la sensibilità, pur nella rigorosità giusta delle sue funzioni”. Anche Moroni lasciò una lettera, in cui non se la prendeva con i magistrati, ma con i compagni del Psi che l’avevano emarginato e isolato. Uno di loro, Loris Zaffra, raccontò: “Con Moroni ne avevamo discusso la scorsa estate. Aveva molto sofferto per il cordone sanitario che gli era stato fatto attorno. Tangentopoli ha messo a nudo, oltre al giro delle tangenti, la slealtà dei rapporti politici. Sei stato arrestato? Peccato per te, entri nel cesto delle mele marce. Gli altri, che con te hanno diviso errori e responsabilità, si girano dall’altra parte. Inaccettabile”.
Dopo la morte di Moroni, Craxi commentò: “Hanno creato un clima infame”. Il coordinatore del pool Gerardo D’Ambrosio, addolorato ma duro, replicò: “Il clima infame l’hanno creato loro. Noi ci siamo limitati a scoprire e perseguire fatti previsti dalla legge come reati. Poi c’è ancora qualcuno che si vergogna e si suicida”. E Davigo: “Le conseguenze dei delitti devono ricadere su chi li ha commessi, non su chi li ha scoperti”.
5. Mani Pulite fu ispirata o manovrata da poteri occulti (la Trilateral, i poteri forti, gli americani, la Cia…) che volevano mettere fine alla Prima Repubblica e impossessarsi delle aziende di Stato italiane.
Anche qui, la verità storica è molto più prosaica e banale. Nel biennio 1992-’93 l’Italia vive una grande trasformazione politica ed economica, nel contesto della profonda mutazione geopolitica internazionale (la fine della guerra fredda). Molti poteri, italiani e non, cercano di incunearsi in questa svolta storica e provano a pilotarla per i propri interessi: la massoneria tenta di sostituirsi ai partiti morenti; Cosa nostra va a caccia di nuovi referenti e tratta nuovi equilibri con lo Stato; le centrali economiche internazionali provano a influire sulla metamorfosi del sistema italiano; alcuni imprenditori portano a casa a prezzi di saldo pezzi dell’industria di Stato. Ma non c’è alcun complotto. Gli Stati Uniti, molto attenti a ciò che accade in casa nostra fin dal dopoguerra, tengono sotto osservazione l’evoluzione italiana, ma con maggiore distacco rispetto a prima, quando il nostro Paese era terra di confine tra i due blocchi e la Dc era blindata al governo e improcessabile. Dopo l’implosione dell’impero sovietico, gli americani lasciano che l’Italia segua il suo destino. E le indagini di Mani Pulite possono decollare.
6. Il protagonista di Mani pulite, Antonio Di Pietro, era un personaggio spregiudicato e corrotto.
“Da che pulpito viene la predica”, verrebbe da dire, citando Davigo: a dare lezioni di etica a Di Pietro e agli altri magistrati del Pool hanno provato personaggi pesantemente coinvolti nel sistema di Tangentopoli, attaccando i loro accusatori per tentare di riabilitare se stessi. Quanto a Di Pietro, è stato indagato in lungo e in largo, decine di volte, senza che sia stato trovato un solo elemento di rilievo penale a suo carico. La Procura di Brescia, imbeccata dalle denunce di fior di inquisiti, ha aperto un’infinità di procedimenti sul suo conto, a cui Di Pietro si è disciplinatamente sottoposto, dopo essersi dimesso prima dalla magistratura e poi da ministro dei Lavori Pubblici. Da tutti i procedimenti è uscito prosciolto con formula piena.
Quello che resta è il fango che è stato messo in circolo in una campagna politica e mediatica durata anni e che alla fine è riuscita a raggiungere l’obiettivo di appannare l’immagine dell’uomo che nel 1992-93 era considerato “l’eroe di Mani pulite”, beatificato da gran parte della stampa e della tv con toni enfatici e agiografici oltre ogni limite di decenza e di pudore: quasi fosse santo, veniva chiamato “la Madonna” e perfino il suo linguaggio popolano, pieno di anacoluti e privo di congiuntivi, era lodato come “dipietrese”. Poi, quando il vento cambiò, Di Pietro divenne un villico illetterato, arruffone e spregiudicato. Tutti particolari che non inficiano minimamente il suo meritorio lavoro di magistrato né riducono di un centesimo la colpevolezza degli inquisiti che Di Pietro ha scoperto e fatto condannare. Come osserva spesso Davigo, attingendo dal catechismo della Chiesa cattolica, “la validità del sacramento prescinde dalla moralità di chi lo celebra: la messa è valida anche se il prete ha la fidanzata”.
7. Bettino Craxi fu un grande statista morto in esilio, a cui sarebbe ora di dedicare una via o una piazza di Milano.
Non è questo il luogo per valutare le qualità politiche di Craxi, che ha sempre diviso l’Italia fra ammiratori e detrattori, dai primi considerato uno statista innovatore e coraggioso, dai secondi un traditore dei valori del socialismo. Comunque sia, è stato riconosciuto colpevole in via definitiva dalla Corte di Cassazioine, in nome di quel popolo italiano che egli aveva governato per quattro anni come presidente del Consiglio, di reati gravi come l’illecito finanziamento ai partiti e la corruzione. Aveva pienamente accettato, anzi sublimato, il sistema di Tangentopoli, cioè la scientifica spartizione tra i partiti delle tangenti imposte su ogni appalto pubblico. Aveva trasformato il Psi in un’organizzazione in cui la forza politica dei leader locali e nazionali era misurata sulla loro capacità di raccogliere finanziamenti illeciti e mazzette. Lui stesso manteneva saldamente la leadership del partito anche grazie ai soldi delle tangenti, con una grave distorsione del gioco democratico. E utilizzò una parte dei proventi delle tangenti per scopi personali. Lo documenta la sentenza del processo All Iberian (concluso in primo grado con la condanna di Craxi e del suo finanziatore occulto Berlusconi, e in appello e in Cassazione con la prescrizione dei reati accertati): almeno 50 miliardi di lire raccolti per il partito e finiti su tre conti svizzeri intestati allo stesso Craxi furono da lui destinati a finanziare il canale televisivo Gbr della sua “amica” Anja Pieroni, per comprarle l’hotel Ivanohe a Roma, per acquistare una casa a New York, per affittare una villa in Costa
Azzurra per il figlio Bobo. Ed è un altro fatto documentato giudiziariamente che la gran parte del malloppo milionario delle tangenti del Psi non fosse gestito in Italia dal segretario amministrativo del partito, ma all’estero da vari prestanome personali di Craxi: Silvano Larini, Mauro Giallombardo, Gianfranco Trojelli e Maurizio Raggio, l’ex barista di Portofino fuggito in Messico con quel che restava del bottino, per sottrarlo al sequestro dopo l’esplosione di Mani Pulite.
“Abbiamo corrotto anche la corruzione”
Nell’estate del 1998, dinanzi alle ennesime mattane di Silvio Berlusconi che tiene inchiodata e sequestrata la politica italiana ai suoi processi per conquistarsi l’impunità, Indro Montanelli propone provocatoriamente sul Corriere della sera un referendum popolare per abolire i reati del Cavaliere e anche le patrie galere, per metterlo definitivamente al sicuro. Dal centrodestra si scatena la solita canea contro il grande giornalista. Il quale, qualche giorno dopo, riceve una lettera spiritosa e affettuosa del suo amico Franco Modigliani, premio Nobel per l’Economia, che vive negli Stati Uniti dai tempi del fascismo: “Caro Montanelli, il tuo articolo del 20 luglio, nel quale proponevi provocatoriamente un referendum sui guai giudiziari di Berlusconi, era sublime. E ci ha fatto un gran bene, ridandoci un po’ di speranza per il tuo, ed ex nostro, povero Paese. Sono molte settimane che mia moglie Serena e io, leggendo i giornali italiani, ci stropicciamo gli occhi domandandoci: ‘Siamo matti noi o sono matti loro?’. Speriamo che la tua intelligente parodia svegli l’opinione pubblica!”. Montanelli, sulla prima pagina del Corriere, gli risponde così: “Caro Franco, (…) non illuderti che i tuoi consigli possano avere, come non lo hanno i miei flebili ma molto meno autorevoli richiami, qualche impatto su una pubblica opinione che non conosce, per distinguere il giusto dall’ingiusto e separare il buono dal cattivo, altro strumento che l’accetta. Convinta di trovarsi di fronte al dilemma: o la corruzione o il comunismo, essa non ha avuto, e continua a non avere, sulla scelta, alcun dubbio. Per due motivi, uno più italiano dell’altro. Primo, perché ad avere paura del comunismo, e a mostrarla, non ci vuole più il coraggio che ci voleva quando il comunismo, quello vero e mortale, incombeva realmente. Saggezza insegna che quando i lupi urlano, meglio urlare coi lupi. Secondo, perché dopo tanti secoli che la pratichiamo, dietro l’esempio e sotto il magistero di nostra Santa Madre Chiesa, ineguagliabile maestra d’indulgenze, perdoni e condoni, noi italiani siamo riusciti a corrompere anche la corruzione e a stabilire con essa il rapporto di pacifica convivenza che alcuni popoli africani hanno stabilito con la sifilide, ormai diventata nel loro sangue un’afflizioncella di ordine genetico senza più gravi controindicazioni. Ci siamo riusciti seguendo la più semplice delle terapie: quella non di spegnere i roghi, ma di mandarci, insieme alle streghe e agli untori, anche i pompieri, in modo da creare un tale viluppo di corpi, di anime e di responsabilità, che non consenta altra soluzione che l’assoluzione. Imparzialmente plenaria, si capisce. Ci si arriverà, prima o poi, anche stavolta. E, a dirti il vero, nemmeno io riesco a vedere come altrimenti si possa uscirne. Cosa si può fare in un Paese che, per curare i matti, invece di migliorare i manicomi, li sopprime? Quando ci tornerai – spero presto – ti raccomando (…) di fare una capatina a Predappio per deporre un mazzolino di fiori sulla tomba del povero Duce, che ti ha reso il grande servigio di costringerti a emigrare e a cercarti un’altra patria. Pensa un po’ come saresti diventato, se restavi tra noi. Uno come noi, saresti diventato, che non sappiamo nemmeno più da che parte stiamo, perché a mettersi dalla parte della ragione, qui in Italia, c’è sempre il rischio, anzi la certezza, di vederla amministrata in modo tale da fornirne di migliori a chi sta dalla parte del torto”.
Ecco: una ragione migliore di questa per spiegare il nostro libro non l’abbiamo trovata. E ora buona lettura. E buona memoria.
CON UN ARGOMENTO COME QUESTO, NELLA FASE STORICA CHE STIAMO ATTRAVERSANDO, NON SI PUO' FARE A MENO DI NON SENTIRE LA VOX POPULI. ANCHE SE, DOVE SCARICO I GIORNALI IN RETE, QUANDO DISPONIBILI, LA GAZZETTA DELLA SPORT FA SEMPRE LA PARTE DEL LEONE.
MA QUESTO MI RISULTA ANCHE PRESSO RIVENDITORI DI GIORNALI, ED ANCHE IN UN LUOGO DI LETTURA COME LA BIBLIOTECA CIVICA.
NON CHE NON CI DEVE INTERESSARE DELLO SVAGO, MA SE LO SVAGO PREVALE SULLA VITA SOCIALE, SIAMO FOTTUTI.
I ROMANI LO AVEVANO CAPITO DA TEMPO.
PANE E CIRCENS.
LA VOX POPULI IN PILLOLE
John • 30 minuti fa
Storicamente, il "sistema" politico mafioso ha sconfitto Mani Pulite.
Da Craxi-Andreotti, siamo passati direttamente alla Gang Berlusconi-Previti-Dell'Utri in Parlamento, compari della sinistra dei D'Alema-Rutelli-Veltroni.
Una volta spappolati questi, il "sistema" ha puntato su Matteo Renzi-Boschi-Giglio Magico.
Che peccato, cara Italia!
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--<<---->>-- --<<---->>-- • un'ora fa
Non fu un attacco politico?
Fu un attacco a 360* al potere pubblico italiano.
La stagione di tangentopoli fu affiancata da una stagione di attentati eccellenti e stragi.
I due fenomeni vanno visti nello stesso contesto.
Gli autori, o lo ignorano o fanno gli indiani.
△ ▽
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Sumner • un'ora fa
Mani pulite.....a me sembrano più sporche di prima....
BISI E RISI - IL PIANO SEGRETO DEL CAVALIERE PER VINCERE LE ELEZIONI : UNA DOPPIA MONETA. L'EURO PER L'ESTERO E LA LIRA PER LE SPESE IN ITALIA
Perché non i Voucher?????
Ormai li usano tutti.
Dalla prima pagina del F.Q.
ECCO I NOMI Comuni, aziende, club di calcio, tutti li usano. E nessuno vuole abolirli. La Repubblica dei Voucher La lista dei grandi committenti rivela un Paese fondato sul precariato estremo.
1. "QUI IN REPARTO TUTTI SAPEVANO"-ALL’OSPEDALE LORETO MARE DI NAPOLI IL GIORNO DOPO I 55
ARRESTI DEI MEDICI ASSENTEISTI TUTTI IN FILA ALLE 8 DI MATTINA PER STRISCIARE IL BADGE
2. MA DEI FURBETTI DEL CARTELLINO CON L’OBBLIGO DI LASCIARE I DOMICILIARI PER ANDARE AL LAVORO NON C'ERA NESSUNO, UN ANESTETISTA SCHERZA: “QUALCUNO MAGARI NON SA NEMMENO COME SI STRISCIA IL BADGE, VISTO CHE C’È STATO SEMPRE CHI LO HA FATTO PER LUI”
3. INTANTO IL MEDICO TENNISTA INDAGATO ANCHE PER TRUFFA SI DIFENDE: TUTTO UN EQUIVOCO. HO ALLE SPALLE 35 ANNI DI LAVORO ONORATO, NON SONO UN ASSENTEISTA” - AL TELEFONO DICEVA CHE VOLEVA ANDARSENE “DA QUESTO OSPEDALE DI MERDA”: “ABBIAMO PROBLEMI, MA NON È DIPENDE DA NOI. SE SULLA SANITÀ PUBBLICA NON SI INVESTE, NON È MICA COLPA MIA"
1. L'ESERCITO DEI MEDICI ASSENTEISTI
Fulvio Bufi per il Corriere della Sera
Raccontano che alle 8 del mattino ci fosse la fila per strisciare i badge. Magari è vero, ma sarebbe meglio se si trattasse di una esagerazione. Dei 55 assenteisti arrestati venerdì, con l’obbligo di lasciare i domiciliari per venire al lavoro (tutti tranne cinque), ieri mattina non c’era nessuno. Quelli in servizio, quindi, non hanno nulla da dimostrare, tantomeno di avere l’abitudine alla puntualità. Nessuno gliela ha mai contestata
Però è chiaro, il giorno dopo gli arresti non è un giorno normale all’ospedale Loreto Mare. Pure se è sabato e i turni sono ridotti, gli ambulatori sono in gran parte chiusi e gli uffici amministrativi pure, tutti o quasi. Ma di che altro si potrebbe parlare se non di quei medici che si segnavano — o si facevano segnare — presenti e poi se ne andavano nei loro centri privati, di quei tecnici che facevano altrettanto o di quegli impiegati che avevano altre attività, uno addirittura lo chef in un ristorante.
La Radiologia è il reparto maggiormente coinvolto. Sono radiologi i medici indagati e quelli arrestati e ai domiciliari ci sono diversi tecnici. Adesso l’aria che tira lì è quella del «tutti sapevano ma tutti si facevano i fatti loro». Lo dicono un paio di pazienti, uno che racconta di aver atteso quaranta giorni per una radiografia e una donna che sostiene di essere andata inutilmente in ambulatorio per due volte, perché pur avendo appuntamento l’hanno rimandata indietro «per l’assenza di quelli che dovevano farmi la radiografia. Adesso capisco da che cosa dipendevano quelle assenze». L’altro, quello dei quaranta giorni di lista d’attesa, se la prende con tutti: «Come è possibile che i colleghi non sapevano niente? Sapevano ma stavano zitti, questa è la verità».
Tutti zitti, però, non sono stati, visto che l’inchiesta è nata da un esposto anonimo che denunciava proprio le assenze di tre medici. «Non so chi l’ha fatta quella denuncia ma non so nemmeno perché l’ha fatta», dice un infermiere davanti al Pronto soccorso. E fa capire che qui ci sono mille guerre interne. «A qualcuno sono andate le scarpe strette e ha denunciato. Ma se non ci ha messo la faccia vuol dire che aveva qualcosa da nascondere pure lui. Comunque almeno si è cominciato a fare pulizia. Poi staremo a vedere se finisce qui o verranno fuori altre cose. Tanto il problema è degli imbroglioni, non di chi lavora».
In realtà il problema è anche di chi lavora, perché ha lavorato pure per gli altri. E anche adesso, chi stava in licenza o aveva chiesto di andarci si è visto bloccare tutto: la direzione ha dovuto richiamare in servizio gli assenti giustificati.
«Solo danni hanno fatto», si sfoga una infermiera di Cardiologia. «Hanno mortificato i pazienti, l’ospedale e tutti i loro colleghi. Gente così non dovrebbe più mettere piede qui dentro». Invece torneranno e chissà che bel clima ci sarà già da domani, quando i 50 arrestati che hanno avuto dal giudice l’autorizzazione/obbligo a lavorare riprenderanno servizio, e saranno fianco a fianco con colleghi che non gliela perdonano. Certo quelli finiti sotto inchiesta segni di pentimento finora non ne hanno dati, almeno quelli che ieri sono stati interrogati dal gip e si sonno avvalsi della facoltà di non rispondere. Si tratta di capire con che spirito torneranno a fare il loro lavoro. «Qualcuno magari non sa nemmeno come si striscia il badge, visto che c’è stato sempre chi lo ha fatto per lui», scherza un anestesista. E chiede: «La Lorenzin che dice?». La risposta è in un lancio d’agenzia da Palermo, dove il ministro era ieri: «Mando i Nas negli ospedali», ha detto. Ma c’è chi ha fatto anche altro per evitare le furbizie degli assenteisti: all’ospedale di Salerno ai badge è associata l’impronta digitale del dipendente. E nessuno può strisciare per conto di altri.
2. IL MEDICO TENNISTA IN ORARIO DI LAVORO
Conchita Sannino per repubblica.it
"Io me ne voglio andare da questo ospedale di m... Ma ho fatto i conti, se ne me ne vado ... perdo 45mila euro". Così si sfogava al telefono, intercettato, il dottor Tommaso Ricozzi detto Tommy, nome in vista della Napoli che conta, 60enne dirigente medico della Radiologia dell'ospedale Loreto Mare, tradito dalle racchette e dalla bella vita puntualmente documentata sul suo profilo Facebook (se non fosse per il post politico condiviso con un amico "contro i tagli alla Sanità di Renzi e Lorenzin").
Accusato di essere andato a fare sport nelle ore in cui risultava al lavoro, Ricozzi è indagato anche per la truffa del doppio lavoro: per l'incessante attività prestata nel polo diagnostico di famiglia, il centro Augusto, in barba a ogni vincolo e indennità dell'esclusiva prevista dal contratto con la sanità pubblica. Un habitué di Capri e Madonna di Campiglio, ospite di sfilate di Miss Italia o eventi cittadini, sponsor di un programma tv di calcio molto seguito su una rete locale, oltre che amico del senatore cosentiniano Vincenzo D'Anna e anche dei fratelli del parlamentare Fi Luigi Cesaro. Il giorno dopo lo scandalo dei cento assenteisti al Loreto, è uno dei pochi a piede libero. Ma "amareggiato e infuriato".
È lei ad essere infuriato? Dovrebbero esserlo i pazienti.
"No, non ci sto. Questo è un attacco mediatico, mi difenderò ".
Dottor Ricozzi, siamo lucidi. Negli atti si ricostruisce questa scena: lei gioca sulla terra rossa mentre il suo cartellino la dà in servizio al Loreto.
"Ma c'è un equivoco...".
C'è anche un'ordinanza di custodia con accuse precise.
"Ecco, lei scrive che io il giorno 3 novembre 2014 sarei al lavoro, stando al cartellino, dalle 8 alle 20..."
Così riscostruiscono i Nas, il pm e il gip che ha emesso la misura cautelare.
"Ma raramente un medico presta servizio dalle 8 alle 20, per cui se mi sono effettivamente allontanato, ora non ricordo, ciò può essersi verificato solo alla cessazione del mio turno di lavoro, più breve. E quindi avrò dimenticando di timbrare il cartellino".
Ha dimenticato anche in quale giorno andò a giocare a tennis, sempre col cartellino che rimaneva al suo posto? O il giorno in cui, stando in servizio formalmente, incontrò nell'hinterland Antimo Cesaro, titolare di un potente centro privato e fratello del deputato di Fi?
"Non ricordo francamente quando sarebbe successo. Ma, ripeto, deve esserci un equivoco. Io ho alle spalle 35 anni di lavoro onorato, io non amo i furbetti, l'ho detto sempre".
Lei non ricorda nemmeno di aver prestato attività nel centro Augusto di famiglia?
"Non nego di avere un interesse... ma di natura familiare, emotiva".
Ma il gip le ha inflitto un sequestro di 127mila euro per la truffa che avrebbe messo a segno, lavorando nel privato.
"Ma io ero in quel centro solo a titolo personale e non per attività retribuita. Quindi si tratta di un interesse non incompatibile con la mia funzione di medico intramoenia in una struttura pubblica, come non mancherò di dimostrare in sede giudiziaria".
Eppure lei, dirigente medico di un ospedale in agonia, si faceva vedere spesso in una trasmissione televisiva sullo sport, e sponsorizzava il suo centro privato.
"Ma ripeto, è qualcosa di familiare, di emotivo".
Sembrava poco sentimentale quando al telefono diceva che il Loreto è un ospedale di m... e avrebbe voluto andarsene per dedicarsi al privato.
"Ma lei non può capire la frustrazione, la rabbia. Perciò me ne andai per otto mesi, dal Loreto. Da marzo a novembre 2014".
Perché?
"Per stress lavorativo".
Sembra una brutta battuta.
"No, mi spiace. Bisogna vivere in un ospedale ridotto così male per capire. Venga a fare una notte da noi, una volta abbiamo fatto in una notte anche 122 esami di Radiologia e di Tac al Loreto".
Lei parla dello stesso Loreto di cui raccontiamo, da mesi e mesi, che Tac e Radiologia sono fuori uso 80 giorni su 100?
"Sì è vero, abbiamo problemi, ma questo non è colpa nostra. Se si taglia, se siamo nei guai, se sulla sanità pubblica non si investe, non è mica colpa mia".
Non può essere neanche l'alibi degli assenteisti.
"Ma io non sono un assenteista. Lo scriva. Lo dimostrerò".
Nucleare, inerzia di Stato sullo smantellamento
Ma i costi in bolletta sono puntuali: 622 milioni
Per nominare la dirigenza dell’Ispettorato nazionale sono serviti 987 giorni. E i decreti sono stati registrati
fuori tempo massimo. Mentre in 5 anni i cittadini hanno versato 1,5 miliardi per il “decommissioning”
Economia & Lobby
Da 14 anni sulla bolletta degli italiani pesa una tassa sull’eredità nucleare. Solo negli ultimi 5 è costata 1,5 miliardi di euro, 622 milioni l’anno scorso. Il post nucleare italiano ha però due velocità: quando si tratta di prelevare soldi le scadenze sono inderogabili. Se si tratta invece di dare soluzioni, tempi e costi si dilatano all’infinito, quasi non fosse questione di sicurezza nazionale. In fatto di ritardi l’ultimo caso riguarda i vertici dell’Isin. Per 987 giorni è rimasto senza una guida. E novanta giorni non sono bastati per registrare i decreti di nomina, scaduti il 13 febbraio scorso. Ora il rischio è la decadenza degli atti di Thomas Mackinson F.Q.
Se Grillo si schiera col passato e il Pd è in pezzi, non ci resta che l’astensione?
di Elisabetta Ambrosi | 25 febbraio 2017
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Più informazioni su: Beppe Grillo, Liberalizzazioni, Matteo Renzi, Movimento 5 Stelle, Roma, Scissioni, Tassisti, Venditori Ambulanti, Virginia Raggi
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Elisabetta Ambrosi
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Quello che sta accadendo sulla scena politica italiana sta assumendo i contorni di un’autentica tragedia, alla quale assiste, attonito, quell’elettorato “di sinistra”, un tempo dotato di passione civile e amore per la politica, che ormai si sposta in massa, invano, a ogni elezione, in cerca di un partito (o movimento) che lo possa rappresentare.
Prima, in tempi ormai lontanissimi, la speranza in un Renzi rottamatore, capace di archiviare i vecchi comunisti e democristiani del Pd così come di svecchiare un partito inabile a leggere il presente, oltre che il futuro. Poi, caduta ogni fiducia in un rottamatore diventato caricatura di un nuovismo privo di ogni identità politica, ideologicamente spostato a destra, promotore di politiche che hanno ulteriormente impoverito la classe media coperte con inutili mance e bonus di ogni tipo, la virata, radicale, verso il Movimento Cinque Stelle. L’unico che appariva in grado di operare una rottura definitiva col peggiore passato, l’unico che sembrava capace di azzerare veramente gli insopportabili privilegi di una casta dura a morire.
Tutto questo, però, non si è (almeno non ancora) realizzato. Il caso Roma ha mostrato, con un’evidenza che solo chi è cieco non vede, le drammatiche lacune dei Cinque Stelle. La carenza di una vera classe dirigente, l’ambiguità ideologica – dove sono realmente schierati? – la fragilità identitaria. Ambiguità e fragilità che hanno avuto la loro massima manifestazione nei giorni scorsi a Roma, con la sindaca simpatizzante sia nei confronti di tassisti che non si fanno scrupolo di paralizzare, anche con violenza, una città per i loro interessi, sia verso gli ambulanti (come quelli al soldo di Tredicine). Persone che si oppongono a politiche liberalizzatrici giuste e necessarie, chieste dall’Europa, attese dai cittadini che cercano forme di mobilità alternative e accessibili alle loro tasche.Ed altri che vogliono accedere a licenze bloccate da troppi anni nelle mani degli stessi.
Vale la pena di ricordare che noi tutti lavoratori – e parlo anche dei giornalisti – siamo stati esposti ai cambiamenti della globalizzazione, e le ferite sono ben visibili. Ma nessuno ci ha difeso, né ha pensato che i nostri lavori potessero essere sottratti a mutamenti inevitabili che hanno costretto noi a cambiare, senza che nessun sindacato alzasse un dito. Invece il Movimento, o quanto meno una sua parte significativa, così vicino alla Rete e al futuro, si è messo invece a difendere il peggiore passato, senza rendersi conto che centinaia di migliaia di sguardi attoniti lo stavano osservando, chiedendosi chi fossero davvero quelli che hanno votato, coloro in cui hanno sperato.
Cosa resta per l’elettore democratico di sinistra, ammesso che la distinzione ideologica tra destra e sinistra abbia ancora un senso? Se il Movimento mostra tutti i suoi limiti, ciò che sta accadendo al Pd in questi giorni ha dell’inverosimile, anche se ampiamente prevedibile: e la colpa, non c’è dubbio, è sicuramente della fame di potere senza fine di Renzi, che per andare al governo e affermare se stesso, accettando di allearsi con politici impresentabili, ha letteralmente distrutto un partito. Del quale ora restano, appunto, solo macerie.
Cosa fare, dunque: andare con quel pezzo di sinistra che ha fatto la scissione? Per l’elettore democratico è impensabile: sarebbe come rinnegare tutto ciò in cui ha creduto, e tornare a dare la fiducia a quelle persone – come D’Alema – che avrebbe voluto vedere scomparire per sempre. Se Renzi è colpevole, comunque, chi se n’è andato non lo è di meno. Perché ha la responsabilità di aver ulteriormente lacerato un partito, invece di tentare di spingerlo nuovamente su posizioni di sinistra, facendosi forza proprio del fallimento, ormai a tutti visibile, dell’ex premier. Provando a rifondare, in qualche modo, qualcosa che assomigliasse al compromesso trovato dall’Ulivo, una stagione politica purtroppo troppo breve, della quale non si è capito il grande valore (basti pensare al trattamento ricevuto da Romano Prodi). Così, invece, si torna solo indietro, quando Pd e Margherita erano separati. Un secolo fa, mentre il mondo richiede risposte sempre più nuove e complesse.
Cosa resta dunque? Una scena politica completamente frammentata, dove nessun partito riuscirà d’ora in poi a rappresentare una parte maggioritaria del Paese. Chi poteva farlo, ha fallito. Renzi come, in parte, i Cinque Stelle, soprattutto a Roma. Certo, Pd e Movimento non possono essere messi sullo stesso piano, i Cinque Stelle non hanno mai governato sul piano nazionale, eppure simile è il risultato che hanno prodotto – ripeto, specialmente con la gestione Roma, una sola città, ma estremamente simbolica – nell’animo dell’elettore democratico: rabbia, ma anche indifferenza, sicuramente solitudine e tanto scetticismo.
Ciò che accadrà dunque alle prossime elezioni è facilmente prevedibile: un aumento drammatico del partito dell’astensione, l’unico in grado di raccogliere voti. Scioccati dalle macerie politiche che si trovano di fronte, quei cittadini un tempo di sinistra, comunque convinti che la giustizia sociale possa andare di passo con la meritocrazia, faranno l’unica cosa che mai avrebbero creduto di dover fare, violare la prima regola che si erano dati, quella di esercitare sempre l’unico diritto che abbiamo, il voto. Al contrario nelle prossime urne, invece, centinaia di migliaia di schede resteranno piegate. E la responsabilità cade sicuramente su chi ci ha governato negli ultimi tre anni. Ma anche, in misura minore, di chi siede da mesi in Campidoglio.
La bomba Emiliano sul Pd può inguaiare il clan Renzi
Si dice pronto a collaborare con i magistrati. Però è un pizzino a Matteo per metterlo in crisi verso le primarie
Anna Maria Greco - Dom, 26/02/2017 - 10:39
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Michele Emiliano-testimone nell'inchiesta Consip potrebbe servire a Michele Emiliano-candidato leader Pd per mettere almeno in grave imbarazzo il suo grande antagonista, Matteo Renzi.
Il governatore della Puglia, infatti, nell'interrogatorio di mercoledì di fronte ai pm romani potrebbe aggravare la posizione non solo dell'amico-ministro dell'ex premier, Luca Lotti, ma del suo stesso babbo Tiziano Renzi. Il primo è già indagato per rivelazione di segreto istruttorio e favoreggiamento e il secondo è indagato per traffico d'influenze con l'imprenditore di Scandicci Carlo Russo, nell'inchiesta per corruzione sul megaappalto Consip che ha al centro l'imprenditore napoletano Alfredo Romeo.
Come Emiliano ha già sapientemente anticipato a Il Fatto, mostrando una serie di sms per dimostrarlo, Russo l'avrebbe contattato nel 2014, per «sostenerlo», dicendo di essere amico di Lotti, di Maria Elena Boschi e di Tiziano Renzi. E al governatore che chiedeva conferma, Lotti avrebbe risposto «Lo conosciamo... Se lo incontri per 10 minuti non perdi il tuo tempo». Mentre Renzi senior avrebbe cercato di incontrarlo nel 2015, senza riuscirci. Proprio come Russo assicurava a Romeo, nelle conversazioni intercettate, parlando di un affare immobiliare da realizzare insieme nel Salento. Lui, l'imprenditore napoletano e il padre dell'allora premier. Tutto questo assume contorni inquietanti, soprattutto se incrociato sia con le intercettazioni ambientali della procura di Napoli che con i «pizzini» ritrovati dagli investigatori, in cui proprio Romeo scriveva «30.000 al mese per T.» (Tiziano?), «5.000 ogni due mesi per CR» (Carlo Russo?) e ancora di due incontri tenuti da «T» con «L.» ( Lotti) e «M.» (Luigi Marroni, manager Consip che sarebbe stato corrotto da Romeo?).
Insomma, Emiliano ha un'arma tra le mani e lo sa. Teme anche che potrebbe trasformarsi in boomerang e gioca in difensiva. A chi gli chiede di una possibile incompatibilità tra ruolo di candidato alla segreteria del Pd e quello di testimone nell'inchiesta Consip, replica duramente: «Farò il mio dovere se l'autorità giudiziaria mi chiederà e nessuno si deve permettere neanche di fare questo ragionamento. Anzi, qualcuno dovrebbe chiedere ai protagonisti di questa storia il suo significato. Il fatto che io sia a conoscenza di vicende che potrebbero essere rilevanti a fini di una indagine certamente non può ledere alcuno dei miei diritti».
Il magistrato diventato politico (e il Csm ancora deve pronunciarsi al riguardo) quasi insinua il sospetto di essere stato tirato nella vicenda da qualcuno che vuole nuocergli.
A Danilo Toninelli del M5S, che chiede al governatore se è coinvolto nel caso Consip, Emiliano replica su Twitter: «Capisco che, quando qualcuno è disperato, adopera ogni sistema per far fuori gli avversari. Io sinceramente credo che applicando le leggi e le norme e facendo il proprio dovere si risolva ogni cosa. Nessun coinvolgimento».
Ma nell'inchiesta Emiliano c'è finito e mercoledì dovrà giocarsi bene la sua carta. Solo pochi giorni dopo i pm interrogheranno anche papà Renzi e bisognerà capire se l'amico di famiglia Russo era solo un millantatore o un «facilitatore-faccendiere», come lo definiscono i pm napoletani. La vicenda arriverà poi alle Camere, perché Maurizio Gasparri di Fi ha preannunciato un'interrogazione parlamentare.