La Terza Guerra Mondiale
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Re: La Terza Guerra Mondiale
UN PUNTO DI VISTA DIFFERENTE SULL'ATTENTATO DI LONDRA.
Eurocrati a Roma, Isis a Londra: tutto in famiglia
Scritto il 25/3/17 • nella Categoria: idee Condividi
Un attentato proprio a Londra, in pieno calendario Brexit, alla vigilia del summit romano per celebrare l’Ue, da cui la Gran Bretagna sta scappando.
«La gente in Occidente deve capire che se l’informazione che riceve tocca gli interessi del complesso militar-securitario, quell’informazione è dettata dalla Cia.
La Cia serve quegli interessi, non gli interessi del popolo o della pace», dice Paul Craig Roberts, già sottosegretario al Tesoro Usa.
«E’ snervante scrivere per anni le stesse cose», fa eco Fulvio Grimaldi sul suo blog, mettendo in parallelo l’ennesimo euro-attentato targato Isis (a Londra, stavolta) e l’euro-meeting di Roma.
Come dire: il terrorismo “a orologeria” è spesso l’alibi perfetto per qualcosa di ancora peggiore, una guerra di sterminio o – come in questo caso – la celebrazione della burocrazia Ue, mostruosa macchina (istituzionale) di spoliazione e trasferimento di ricchezza, dal basso verso l’alto, come vogliono le multinazionali finanziarie cui risponde Bruxelles.
Una storia infinita, per Grimaldi, che risale addirittura a Pearl Harbour, «dove Roosevelt sollecitò i giapponesi a bombardare la sua flotta», per poi arrivare alla “Pearl Harbour 2.0”, cioè il Golfo del Tonchino, dove «inesistenti barchini nordvietnamiti hanno permesso agli Usa di bruciare viva mezza Indocina», fino alla recente «tragicommedia dell’11/9, quando missili Cia e Mossad travestiti da aerei di linea hanno bucato torri a suo tempo dinamitate dall’interno».
Il giornalista cita anche «la farsa di Londra 2005, in cui a uno zainetto lasciato nella carrozza del Tube è stato attribuita la voragine causata da un ordigno posto sotto la carrozza», quindi il triplice attentato di Amman, sempre nel 2005, «preceduto dall’evacuazione dei cittadini israeliani e coronato dall’uccisione di dirigenti palestinesi riuniti con militari cinesi».
E poi «Bali, Mumbai, Madrid, Charlie Hebdo, dove certi terroristi camuffati ma identificati grazie all’esibizione ex-post dei documenti in macchina, hanno operato liberamente sotto lo sguardo di pattuglie di polizia».
E poi Bruxelles, dove l’attentato all’aeroporto «è stato mostrato utilizzando un vecchio video di Mosca».
E Monaco, dove «il più sofisticato armamentario antiterrorista germanico ha lasciato un tizio passeggiare e sparacchiare in un centro commerciale per quattro ore, prima di rinvenirlo e seccarlo mentre se la filava lontano dal luogo».
E Nizza, dove «il giro della morte del Tir non lascia un’ammaccatura sulla carrozzeria e un’immagine nelle venti telecamere lungo il percorso (o meglio le ha lasciate tutte, ma il governo ha deciso che non servivano e andavano distrutte).
E’ successo anche con quelle del Bataclan».
Incongruenze che, per Grimaldi, diventano «lacerazioni smisurate nel tessuto dello storytelling delle stragi», subito «rammendate da tutti i cerimonieri mediatici turibolanti ai piedi degli Alti Sacerdoti, mentre sull’altare dei sacrifici umani celebrano il trionfo dell’arma finale contro classi e popoli subalterni e potenzialmente sovversivi».
Ogni giorno, sui media, «viene fatta sparire la verità», tra chiacchiere assortite sulla ipotetica “guerra all’Occidente”, «ora transitata dalla trincee ai ponti di Londra e domani a piazza San Pietro».
Facili profezie?
«L’avevano già detto, ripetuto, ribadito: “Ci saranno attentati del terrorismo islamico.
La questione è solo il quando e il dove”.
Veggenti».
I talk-show sono assordati da «latrati antislamici di energumeni di una Weltanschauung decerebrata dove, dopo i comunisti che mangiano i bambini, siamo ai musulmani che mangiano le donne».
Ricompaiono anche «fossili» come Daniela Santanchè, Maria Giovanna Maglie, Antonio Caprarica, Alessandro Meluzzi.
Guerra all’Occidente?
Suvvia: «La Nsa, ci è stato rivelato da Snowden e Assange e confermato da Trump, e le altre sorelle depravate dedite al voyeurismo, ascoltano tutto, vedono tutto, ti spiano dallo smartphone, dallo schermo di tv e computer, dal citofono, dall’asciugacapelli. Incamerano un miliardo di dati al minuto». Possono davvero non sapere ciò che si andrebbe preparando?
Ora Renzi, «per interposto Gentiloni, gli vende pure (all’Ibm) tutti i nostri dati sanitari.
Non ne hanno scampo né la cancelliera tedesca, né la presidente brasiliana, né gli ultimi ruotini del carro, che siamo tutti noi».
Eppure, «vigliacco se gli capitasse una volta di intercettare il malvivente che si fa mandare da Al Baghdadi a massacrare gente, proprio là dove non c’è comunicazione, o apparizione, che non siano controllate dal più sofisticato apparato tecnologico mai visto, neppure da quelli di StarTrek».
Evidentemente abbiamo a che fare con autrentici supereroi oscuri, «in grado, a distanza, di prendere i comandi di un aereo, come quelli dell’11 Settembre decollati e scomparsi per sempre, l’altro tedesco sui Pirenei, o di un camion, come quello di Nizza, o di un Suv, come quello di Westminster, e fargli fare quello che gli pare».
Supereroi neri e «disturbati, manipolati, fuori di testa, che pensano di assaltare il Parlamento britannico con forchetta e coltello, tanto poi tutti quanti muoiono: capitasse mai che ne esca vivo uno che ci racconti, magari senza waterboarding, chi lo manda».
Ma a noi, a quanto, pare, non interessa: ormai «ci accontentiamo della firma».
E così, «anche la scorribanda del presunto Imam radicale di nome Brooks, dopo un po’ di suspence per un migliore ascolto, ha avuto la sua rivendicazione tradizionale». Scotland Yard, la migliore polizia antiterrorismo del mondo, «s’era scordata che quell’Imam era ancora in galera (che ridere:
Caprarica, a “La Gabbia”, aveva giurato di riconoscerlo!) e quindi ha dovuto degradare l’attentatore a milite ignoto del terrorismo, pur sempre islamico».
Tale Massud, «come sempre noto delinquente, dunque ricattabile, dunque soggetto debole», come quello, «cocainomane etilizzato, dell’aeroporto parigino». L’uomo perfetto per “indossare” la firma dell’Isis.
«Uno col coltello a Parigi, un altro che a Londra assalta con due coltelli il più poderoso schieramento di sicurezza del paese, quello attorno alle massime istituzioni. Due abbattuti senza pensarci su mezza volta. Senza pensare quanto sarebbe stato facile e utile bloccarlo, magari con uno spruzzo al peperoncino, e arrivare tramite lui alla centrale operativa alla tana del mostro», aggiunge Grimaldi.
Noi però continuiamo a non vedere che «l’Isis, come la carta di ricambio Al Qaida e tutti i terroristini aggregati, sono addestrati, armati, finanziati, riforniti, vestiti e nutriti, medicati (in Israele), da Usa, Nato, Israele e relativi azionisti, affittuari e sicari tra Turchia e Golfo». Ma visto che Barack Obama «soleva mandare un McCain a lisciargli il pelo, a rinnovargli l’affetto», allora «quando l’Isis dice “siamo stati noi”, è logica stringente, e ragion pura anche per Kant, che sono stati loro: gli sponsor, i padrini, i committenti».
Troppo facile? «I nostri “esperti” da cento euro al grammo di islamofobia, queste ovvietà banali non le prendono neanche in considerazione», continua Grimaldi.
«Interessante l’evoluzione del terrorismo a uso domestico», comunque. «Finite, nella fase, le grandi operazioni da laboriose pianificazioni e con risultati epocali, coinvolgenti apparati di Stato e complesse e numerose componenti professionali, con relativi rischi di gole profonde, errori, sovrapposizioni e trascuratezze, come quelle grandiose dell’11 Settembre, si è passati a progetti realizzabili con mezzi e numeri più modesti».
I colpi grandi, «tipo aerei tirati giù o palazzi fatti saltare», ormai «si sono lasciati ai paesi “arretrati”, dove non si fa tanto caso alle toppate».
Da noi «si è passati alle coppie di terroristi e ai minigruppi, rigorosamente islamici, visti a Parigi e Bruxelles e, con Wuerzburg, Nizza, Monaco, fino a Londra oggi, ai terribilissimi “lupi solitari”».
Ovvero: «Poca spesa, impegno minimo, soggetti adulterati e manovrabili ed effetti anche migliori, più diffusi, capillari, terrificanti. Il panico del vicino, del passante, della vettura qualsiasi, dello sconosciuto, o conosciuto, della porta accanto.
Meravigliosa invenzione: insicurezza totale, irrimediabile e, di contro, Stato di polizia, società securitaria, lotta di classe o di liberazione annientate».
E pazienza se la privacy non c’è più: tanto, ad archiviarla, «ci hanno già pensato i sicari principi della Cupola, i terrroristi soft: i Tim Cook, Steve Jobs, Bill Gates, Mark Zuckerberg».
Tra «Grande Fratello, ciarle private strepitate al telefonino, selfie in Facebook, ti hanno ridotto a un demolitore pubblico della tua identità, alla mercè di tutti», e soprattutto «dello Stato spione e gendarme e del suo golpe strisciante».
Sicché, data «l’enormità della mazzata Brexit» inflitta «alla cosca atlantica fin dagli anni ‘50 installata dalla Cia in Europa, per conto Rockefeller e Rothschild, utilizzando fiduciari come Davignon e Monnet, per fare a pezzi nazioni sovrane e costituzionalmente antifasciste», oggi «a Londra, che aveva appena fissata la data per lo scioglimento degli ormeggi, andava mandato un segnalino».
Beninteso: «Poca roba, rispetto al potenziale e all’arsenale di Isis».
Un Suv e due coltelli: «Un primo avviso».
Osserva Grimaldi: «A Westminster è successo, mica a Canterbury.
Al Parlamento dove stanno quelli che brexitano.
E sul ponte di Westminster, immancabile per ogni turista eurifero e dollaroso.
Come quelli di Sharm el Sheik e di Luxor, che non ci vanno più da quando, nel fedifrago Egitto di Al Sisi che ha fregato i cari Fratelli Musulmani, l’Isis (si fa per dire) fa saltare in aria la gente».
Grimaldi teme «quei necrofori che, sabato e domenica a Roma, contro Brexit e altri Exit che girovagano per l’aere europeo, cercheranno di insufflare nel corpaccio in putrefazione dell’Ue quanto basta per fargli fare un po’ di scatti mesmerici».
Il pericolo è che, «nel nome dell’Europa ricucita da sarte di palazzo come Laura Boldrini», noi popolo «ci si lasci fregare ancora una volta: prima, prendendo le mazzate perché osiamo ancora andare in piazza, e poi accettando che, anche solo a sollevare le sopracciglia sull’onnicomprensivo e onnipotente tasso di criminalità della classe dirigente, si finisca fuori.
O piuttosto dentro.
Come amici dei terroristi».
E conclude: «Visto cosa si può combinare con una macchina e due coltellini svizzeri?».
Eurocrati a Roma, Isis a Londra: tutto in famiglia
Scritto il 25/3/17 • nella Categoria: idee Condividi
Un attentato proprio a Londra, in pieno calendario Brexit, alla vigilia del summit romano per celebrare l’Ue, da cui la Gran Bretagna sta scappando.
«La gente in Occidente deve capire che se l’informazione che riceve tocca gli interessi del complesso militar-securitario, quell’informazione è dettata dalla Cia.
La Cia serve quegli interessi, non gli interessi del popolo o della pace», dice Paul Craig Roberts, già sottosegretario al Tesoro Usa.
«E’ snervante scrivere per anni le stesse cose», fa eco Fulvio Grimaldi sul suo blog, mettendo in parallelo l’ennesimo euro-attentato targato Isis (a Londra, stavolta) e l’euro-meeting di Roma.
Come dire: il terrorismo “a orologeria” è spesso l’alibi perfetto per qualcosa di ancora peggiore, una guerra di sterminio o – come in questo caso – la celebrazione della burocrazia Ue, mostruosa macchina (istituzionale) di spoliazione e trasferimento di ricchezza, dal basso verso l’alto, come vogliono le multinazionali finanziarie cui risponde Bruxelles.
Una storia infinita, per Grimaldi, che risale addirittura a Pearl Harbour, «dove Roosevelt sollecitò i giapponesi a bombardare la sua flotta», per poi arrivare alla “Pearl Harbour 2.0”, cioè il Golfo del Tonchino, dove «inesistenti barchini nordvietnamiti hanno permesso agli Usa di bruciare viva mezza Indocina», fino alla recente «tragicommedia dell’11/9, quando missili Cia e Mossad travestiti da aerei di linea hanno bucato torri a suo tempo dinamitate dall’interno».
Il giornalista cita anche «la farsa di Londra 2005, in cui a uno zainetto lasciato nella carrozza del Tube è stato attribuita la voragine causata da un ordigno posto sotto la carrozza», quindi il triplice attentato di Amman, sempre nel 2005, «preceduto dall’evacuazione dei cittadini israeliani e coronato dall’uccisione di dirigenti palestinesi riuniti con militari cinesi».
E poi «Bali, Mumbai, Madrid, Charlie Hebdo, dove certi terroristi camuffati ma identificati grazie all’esibizione ex-post dei documenti in macchina, hanno operato liberamente sotto lo sguardo di pattuglie di polizia».
E poi Bruxelles, dove l’attentato all’aeroporto «è stato mostrato utilizzando un vecchio video di Mosca».
E Monaco, dove «il più sofisticato armamentario antiterrorista germanico ha lasciato un tizio passeggiare e sparacchiare in un centro commerciale per quattro ore, prima di rinvenirlo e seccarlo mentre se la filava lontano dal luogo».
E Nizza, dove «il giro della morte del Tir non lascia un’ammaccatura sulla carrozzeria e un’immagine nelle venti telecamere lungo il percorso (o meglio le ha lasciate tutte, ma il governo ha deciso che non servivano e andavano distrutte).
E’ successo anche con quelle del Bataclan».
Incongruenze che, per Grimaldi, diventano «lacerazioni smisurate nel tessuto dello storytelling delle stragi», subito «rammendate da tutti i cerimonieri mediatici turibolanti ai piedi degli Alti Sacerdoti, mentre sull’altare dei sacrifici umani celebrano il trionfo dell’arma finale contro classi e popoli subalterni e potenzialmente sovversivi».
Ogni giorno, sui media, «viene fatta sparire la verità», tra chiacchiere assortite sulla ipotetica “guerra all’Occidente”, «ora transitata dalla trincee ai ponti di Londra e domani a piazza San Pietro».
Facili profezie?
«L’avevano già detto, ripetuto, ribadito: “Ci saranno attentati del terrorismo islamico.
La questione è solo il quando e il dove”.
Veggenti».
I talk-show sono assordati da «latrati antislamici di energumeni di una Weltanschauung decerebrata dove, dopo i comunisti che mangiano i bambini, siamo ai musulmani che mangiano le donne».
Ricompaiono anche «fossili» come Daniela Santanchè, Maria Giovanna Maglie, Antonio Caprarica, Alessandro Meluzzi.
Guerra all’Occidente?
Suvvia: «La Nsa, ci è stato rivelato da Snowden e Assange e confermato da Trump, e le altre sorelle depravate dedite al voyeurismo, ascoltano tutto, vedono tutto, ti spiano dallo smartphone, dallo schermo di tv e computer, dal citofono, dall’asciugacapelli. Incamerano un miliardo di dati al minuto». Possono davvero non sapere ciò che si andrebbe preparando?
Ora Renzi, «per interposto Gentiloni, gli vende pure (all’Ibm) tutti i nostri dati sanitari.
Non ne hanno scampo né la cancelliera tedesca, né la presidente brasiliana, né gli ultimi ruotini del carro, che siamo tutti noi».
Eppure, «vigliacco se gli capitasse una volta di intercettare il malvivente che si fa mandare da Al Baghdadi a massacrare gente, proprio là dove non c’è comunicazione, o apparizione, che non siano controllate dal più sofisticato apparato tecnologico mai visto, neppure da quelli di StarTrek».
Evidentemente abbiamo a che fare con autrentici supereroi oscuri, «in grado, a distanza, di prendere i comandi di un aereo, come quelli dell’11 Settembre decollati e scomparsi per sempre, l’altro tedesco sui Pirenei, o di un camion, come quello di Nizza, o di un Suv, come quello di Westminster, e fargli fare quello che gli pare».
Supereroi neri e «disturbati, manipolati, fuori di testa, che pensano di assaltare il Parlamento britannico con forchetta e coltello, tanto poi tutti quanti muoiono: capitasse mai che ne esca vivo uno che ci racconti, magari senza waterboarding, chi lo manda».
Ma a noi, a quanto, pare, non interessa: ormai «ci accontentiamo della firma».
E così, «anche la scorribanda del presunto Imam radicale di nome Brooks, dopo un po’ di suspence per un migliore ascolto, ha avuto la sua rivendicazione tradizionale». Scotland Yard, la migliore polizia antiterrorismo del mondo, «s’era scordata che quell’Imam era ancora in galera (che ridere:
Caprarica, a “La Gabbia”, aveva giurato di riconoscerlo!) e quindi ha dovuto degradare l’attentatore a milite ignoto del terrorismo, pur sempre islamico».
Tale Massud, «come sempre noto delinquente, dunque ricattabile, dunque soggetto debole», come quello, «cocainomane etilizzato, dell’aeroporto parigino». L’uomo perfetto per “indossare” la firma dell’Isis.
«Uno col coltello a Parigi, un altro che a Londra assalta con due coltelli il più poderoso schieramento di sicurezza del paese, quello attorno alle massime istituzioni. Due abbattuti senza pensarci su mezza volta. Senza pensare quanto sarebbe stato facile e utile bloccarlo, magari con uno spruzzo al peperoncino, e arrivare tramite lui alla centrale operativa alla tana del mostro», aggiunge Grimaldi.
Noi però continuiamo a non vedere che «l’Isis, come la carta di ricambio Al Qaida e tutti i terroristini aggregati, sono addestrati, armati, finanziati, riforniti, vestiti e nutriti, medicati (in Israele), da Usa, Nato, Israele e relativi azionisti, affittuari e sicari tra Turchia e Golfo». Ma visto che Barack Obama «soleva mandare un McCain a lisciargli il pelo, a rinnovargli l’affetto», allora «quando l’Isis dice “siamo stati noi”, è logica stringente, e ragion pura anche per Kant, che sono stati loro: gli sponsor, i padrini, i committenti».
Troppo facile? «I nostri “esperti” da cento euro al grammo di islamofobia, queste ovvietà banali non le prendono neanche in considerazione», continua Grimaldi.
«Interessante l’evoluzione del terrorismo a uso domestico», comunque. «Finite, nella fase, le grandi operazioni da laboriose pianificazioni e con risultati epocali, coinvolgenti apparati di Stato e complesse e numerose componenti professionali, con relativi rischi di gole profonde, errori, sovrapposizioni e trascuratezze, come quelle grandiose dell’11 Settembre, si è passati a progetti realizzabili con mezzi e numeri più modesti».
I colpi grandi, «tipo aerei tirati giù o palazzi fatti saltare», ormai «si sono lasciati ai paesi “arretrati”, dove non si fa tanto caso alle toppate».
Da noi «si è passati alle coppie di terroristi e ai minigruppi, rigorosamente islamici, visti a Parigi e Bruxelles e, con Wuerzburg, Nizza, Monaco, fino a Londra oggi, ai terribilissimi “lupi solitari”».
Ovvero: «Poca spesa, impegno minimo, soggetti adulterati e manovrabili ed effetti anche migliori, più diffusi, capillari, terrificanti. Il panico del vicino, del passante, della vettura qualsiasi, dello sconosciuto, o conosciuto, della porta accanto.
Meravigliosa invenzione: insicurezza totale, irrimediabile e, di contro, Stato di polizia, società securitaria, lotta di classe o di liberazione annientate».
E pazienza se la privacy non c’è più: tanto, ad archiviarla, «ci hanno già pensato i sicari principi della Cupola, i terrroristi soft: i Tim Cook, Steve Jobs, Bill Gates, Mark Zuckerberg».
Tra «Grande Fratello, ciarle private strepitate al telefonino, selfie in Facebook, ti hanno ridotto a un demolitore pubblico della tua identità, alla mercè di tutti», e soprattutto «dello Stato spione e gendarme e del suo golpe strisciante».
Sicché, data «l’enormità della mazzata Brexit» inflitta «alla cosca atlantica fin dagli anni ‘50 installata dalla Cia in Europa, per conto Rockefeller e Rothschild, utilizzando fiduciari come Davignon e Monnet, per fare a pezzi nazioni sovrane e costituzionalmente antifasciste», oggi «a Londra, che aveva appena fissata la data per lo scioglimento degli ormeggi, andava mandato un segnalino».
Beninteso: «Poca roba, rispetto al potenziale e all’arsenale di Isis».
Un Suv e due coltelli: «Un primo avviso».
Osserva Grimaldi: «A Westminster è successo, mica a Canterbury.
Al Parlamento dove stanno quelli che brexitano.
E sul ponte di Westminster, immancabile per ogni turista eurifero e dollaroso.
Come quelli di Sharm el Sheik e di Luxor, che non ci vanno più da quando, nel fedifrago Egitto di Al Sisi che ha fregato i cari Fratelli Musulmani, l’Isis (si fa per dire) fa saltare in aria la gente».
Grimaldi teme «quei necrofori che, sabato e domenica a Roma, contro Brexit e altri Exit che girovagano per l’aere europeo, cercheranno di insufflare nel corpaccio in putrefazione dell’Ue quanto basta per fargli fare un po’ di scatti mesmerici».
Il pericolo è che, «nel nome dell’Europa ricucita da sarte di palazzo come Laura Boldrini», noi popolo «ci si lasci fregare ancora una volta: prima, prendendo le mazzate perché osiamo ancora andare in piazza, e poi accettando che, anche solo a sollevare le sopracciglia sull’onnicomprensivo e onnipotente tasso di criminalità della classe dirigente, si finisca fuori.
O piuttosto dentro.
Come amici dei terroristi».
E conclude: «Visto cosa si può combinare con una macchina e due coltellini svizzeri?».
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Re: La Terza Guerra Mondiale
I BARBARI DEL TERZO MILLENNIO
Una corrente di pensiero divide gli esseri viventi appartenenti alla categoria uomo, in due grandi categorie. Iene o tigri e agnelli.
A me sembra che nell’epoca moderna possono essere anche classificati come appartenenti alla famiglia del Marchese del Grillo, e tutti gli altri.
Comunque sia, c’è sempre chi desidera prevalere e sottomettere gli altri e chi subisce la loro sottomissione.
Perché l’umanità è così composta, non sono mai riusciti a spiegarlo.
I credenti, appartenenti alle varie religioni sostengono il creazionismo. Tutto dipende dalla volontà di Dio.
Gli atei, sostengono che l’uomo appartenga ad un’evoluzione di cellule primordiali.
Ma tutto questo basta per giustificare lo spettacolo continuo della famiglia dei Marchese del Grillo e gli altri?
•
• LIBRE news
• Recensioni
• segnalazioni
L’impero del terrore fatto in casa, il lungo sonno della verità
Scritto il 26/3/17 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
Un vecchio gioco sporco, sempre uguale.
Guerra, o surrogati: crisi, esodi, dittature amiche, terrorismo.
Cambia l’identità delle vittime – ieri militari, oggi civili – nonché la scala di grandezza dei danni collaterali, la quantità di morte e di paura, una capitale europea militarizzata o città come Gaza, come Fallujah, rase al suolo insieme ai loro abitanti, donne e bambini, bruciati vivi con il fosforo bianco.
L’importante, poi, è dimenticare tutto.
Alla fine, la colpa deve ricadere sul terrorista, ormai esclusivamente islamico, “radicalizzato”, immancabilmente sfuggito all’occhiuta sorveglianza della Cia, dell’Fbi, del Mossad, dell’Mi6 inglese, della Dgse francese.
Il mostro è l’ex delinquente “coltivato” perché ricattabile, o addirittura spedito al fronte, armi in pugno.
Non importa se poi si impone il segreto militare (Charlie Hebdo) bloccando le indagini dopo la scoperta del legame tra il commando, l’armaiolo e i servizi segreti.
Non importa se salta in aria un ambasciatore americano (Bengasi) insieme alle ombre imbarazzanti sul trasferimento in Siria di guerriglieri e armi chimiche, all’epoca in cui gli ordini partivano da Hillary Clinton, che poi cancellò migliaia di email.
Non importa, ai media mainstream, ricordare quello che è appena successo: il pubblico, semplicemente, non deve ricordare, non deve fare collegamenti.
Non deve ricordare, il pubblico, che l’abominevole Isis nasce nell’Iraq spianato dalle bombe e interamente controllato dagli Usa.
Non si deve ricordare che il fantomatico “califfo” Al-Baghdadi venne stranamente scarcerato nel 2009 dal centro di detenzione di Camp Bucca, per ordini superiori, tra lo sconcerto dei carcerieri.
Né si devono riproporre le foto che, qualche anno dopo, lo ritraggono in Siria in compagnia del senatore John McCain, inviato speciale di Obama per sostenere la “resistenza democratica” contro il brutale regime di Assad, resistenza affidata ai “moderati” tagliagole libici, sauditi, giordani, iracheni e anche caucasici, ceceni, cioè quasi mai siriani, tutti terroristi di professione, fraternamente accuditi, armati e protetti dalla Nato, attraverso la Turchia e Israele, nonché le petro-dittature del Golfo.
No, il pubblico non deve ricordare chi ha fabbricato l’Isis, come e quando, sulla base di quali macerie, con quali soldi, con quale logistica, con quali armamenti, dopo quali rivoluzioni colorate.
Il pubblico occidentale deve solo tremare di paura davanti al fantasma del commando kamikaze con passaporto al seguito da lasciare in bella vista, deve tremare davanti al pericolo incombente del lupo solitario che colpisce con il Tir, il camion, il Suv, per poi essere immediatamente ucciso e quindi messo a tacere, in attesa del killer seguente, già in agguato, pronto a colpire ancora, alla cieca, la folla inerme – mai un obiettivo “nemico”, solo e sempre la folla inerme, cioè noi.
La cattiva notizia, tra le tante, è che il mondo ormai «è in mano a cinquanta pazzi, che continuano a giocare col fuoco, fabbricando nemici di comodo telecomandati, senza più capire che il gioco si va facendo pericoloso, fuori controllo, perché gli altri – tutti gli altri, a cominciare da Russia e Cina – non consentiranno più che il gioco duri all’infinito, sulla nostra pelle».
Lo ha ripetuto Giulietto Chiesa a Londra, in un dibattito con Gioele Magaldi sulla natura eversiva del potere oligarchico che domina il pianeta ormai da decenni, spingendo sette miliardi di persone in un vicolo cieco – militare, energetico, economico, finanziario, ecologico, climatico.
Uno scenario che è tragicamente sotto gli occhi di chi vuol vederlo: dove non cadono bombe, piovono i missili di una crisi senza fine, la finanza impazzita e l’economia in pezzi, l’Europa devastata dall’euro e presa d’assalto da milioni di disperati, sotto la regia di un pugno di banchieri e multinazionali.
Mentre Magaldi scommette su una riscossa democratica dell’Occidente fondata sulla riconquista della sovranità impugnando le armi del socialismo liberale roosveltiano, Chiesa fa un’altra proposta, preliminare: costruire un think-tank internazionale, un trust di cervelli, che metta insieme le migliori menti del mondo, non solo americane ed europee ma anche russe, cinesi, indiane, africane, per avere una fotografia diversa da quella, unilaterale e integralmente falsa, proposta dal mainstream occidentale.
Una lettura diversa della crisi, un’ottica multipolare, come unica possibilità per poi trovare, domani, soluzioni praticabili, lontano dalla “guerra infinita” che Giulietto Chiesa vide arrivare all’indomani del «colpo di Stato mondiale chiamato 11 Settembre».
Uno spartiacque fatale, quello dell’attacco alle Torri: da allora, l’élite neocon ha imboccato la via della strategia della tensione, senza più abbandonarla. Iraq, Afghanistan, Yemen e Sudan, Somalia, Georgia, Egitto, Libia, Siria. Una strategia sanguinosa, stragista, preparata dalle “fake news” di regime: le bugie sulle Torri Gemelle, le favole sulle armi di distruzione di Saddam, le stragi inesistenti attribuite a Gheddafi, l’attacco coi gas attribuito ad Assad.
Una strategia feroce, fondata sulla grande menzogna del terrorismo “false flag”, sotto falsa bandiera, da Al-Qaeda all’Isis, per innescare campagne militari destinate a mettere le mani sull’intero pianeta, abrogando diritti in Occidente e scatenando una guerra dopo l’altra nel resto del mondo.
Ora siamo all’epilogo evocato dal Pnac, il piano per il Nuovo Secolo Americano, che prima ancora del Duemila annunciò che nel 2017 il nemico strategico degli Usa sarebbe stata la Cina.
Quando cadde il Muro di Berlino, Gorbaciov sognava ad occhi aperti un mondo diverso, finalmente pacificato.
Oggi siamo all’autismo del terrore fabbricato in casa, da un’élite che occulta le notizie e fa spiare miliardi di persone tramite Google, Facebook e le app dello smartphone.
Un’oligarchia globale decisa a tutto, pronta a investire ormai solo sull’arma più antica, quella della paura, che nasce dalla manipolazione delle notizie, dal sonno della verità.
Una corrente di pensiero divide gli esseri viventi appartenenti alla categoria uomo, in due grandi categorie. Iene o tigri e agnelli.
A me sembra che nell’epoca moderna possono essere anche classificati come appartenenti alla famiglia del Marchese del Grillo, e tutti gli altri.
Comunque sia, c’è sempre chi desidera prevalere e sottomettere gli altri e chi subisce la loro sottomissione.
Perché l’umanità è così composta, non sono mai riusciti a spiegarlo.
I credenti, appartenenti alle varie religioni sostengono il creazionismo. Tutto dipende dalla volontà di Dio.
Gli atei, sostengono che l’uomo appartenga ad un’evoluzione di cellule primordiali.
Ma tutto questo basta per giustificare lo spettacolo continuo della famiglia dei Marchese del Grillo e gli altri?
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L’impero del terrore fatto in casa, il lungo sonno della verità
Scritto il 26/3/17 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
Un vecchio gioco sporco, sempre uguale.
Guerra, o surrogati: crisi, esodi, dittature amiche, terrorismo.
Cambia l’identità delle vittime – ieri militari, oggi civili – nonché la scala di grandezza dei danni collaterali, la quantità di morte e di paura, una capitale europea militarizzata o città come Gaza, come Fallujah, rase al suolo insieme ai loro abitanti, donne e bambini, bruciati vivi con il fosforo bianco.
L’importante, poi, è dimenticare tutto.
Alla fine, la colpa deve ricadere sul terrorista, ormai esclusivamente islamico, “radicalizzato”, immancabilmente sfuggito all’occhiuta sorveglianza della Cia, dell’Fbi, del Mossad, dell’Mi6 inglese, della Dgse francese.
Il mostro è l’ex delinquente “coltivato” perché ricattabile, o addirittura spedito al fronte, armi in pugno.
Non importa se poi si impone il segreto militare (Charlie Hebdo) bloccando le indagini dopo la scoperta del legame tra il commando, l’armaiolo e i servizi segreti.
Non importa se salta in aria un ambasciatore americano (Bengasi) insieme alle ombre imbarazzanti sul trasferimento in Siria di guerriglieri e armi chimiche, all’epoca in cui gli ordini partivano da Hillary Clinton, che poi cancellò migliaia di email.
Non importa, ai media mainstream, ricordare quello che è appena successo: il pubblico, semplicemente, non deve ricordare, non deve fare collegamenti.
Non deve ricordare, il pubblico, che l’abominevole Isis nasce nell’Iraq spianato dalle bombe e interamente controllato dagli Usa.
Non si deve ricordare che il fantomatico “califfo” Al-Baghdadi venne stranamente scarcerato nel 2009 dal centro di detenzione di Camp Bucca, per ordini superiori, tra lo sconcerto dei carcerieri.
Né si devono riproporre le foto che, qualche anno dopo, lo ritraggono in Siria in compagnia del senatore John McCain, inviato speciale di Obama per sostenere la “resistenza democratica” contro il brutale regime di Assad, resistenza affidata ai “moderati” tagliagole libici, sauditi, giordani, iracheni e anche caucasici, ceceni, cioè quasi mai siriani, tutti terroristi di professione, fraternamente accuditi, armati e protetti dalla Nato, attraverso la Turchia e Israele, nonché le petro-dittature del Golfo.
No, il pubblico non deve ricordare chi ha fabbricato l’Isis, come e quando, sulla base di quali macerie, con quali soldi, con quale logistica, con quali armamenti, dopo quali rivoluzioni colorate.
Il pubblico occidentale deve solo tremare di paura davanti al fantasma del commando kamikaze con passaporto al seguito da lasciare in bella vista, deve tremare davanti al pericolo incombente del lupo solitario che colpisce con il Tir, il camion, il Suv, per poi essere immediatamente ucciso e quindi messo a tacere, in attesa del killer seguente, già in agguato, pronto a colpire ancora, alla cieca, la folla inerme – mai un obiettivo “nemico”, solo e sempre la folla inerme, cioè noi.
La cattiva notizia, tra le tante, è che il mondo ormai «è in mano a cinquanta pazzi, che continuano a giocare col fuoco, fabbricando nemici di comodo telecomandati, senza più capire che il gioco si va facendo pericoloso, fuori controllo, perché gli altri – tutti gli altri, a cominciare da Russia e Cina – non consentiranno più che il gioco duri all’infinito, sulla nostra pelle».
Lo ha ripetuto Giulietto Chiesa a Londra, in un dibattito con Gioele Magaldi sulla natura eversiva del potere oligarchico che domina il pianeta ormai da decenni, spingendo sette miliardi di persone in un vicolo cieco – militare, energetico, economico, finanziario, ecologico, climatico.
Uno scenario che è tragicamente sotto gli occhi di chi vuol vederlo: dove non cadono bombe, piovono i missili di una crisi senza fine, la finanza impazzita e l’economia in pezzi, l’Europa devastata dall’euro e presa d’assalto da milioni di disperati, sotto la regia di un pugno di banchieri e multinazionali.
Mentre Magaldi scommette su una riscossa democratica dell’Occidente fondata sulla riconquista della sovranità impugnando le armi del socialismo liberale roosveltiano, Chiesa fa un’altra proposta, preliminare: costruire un think-tank internazionale, un trust di cervelli, che metta insieme le migliori menti del mondo, non solo americane ed europee ma anche russe, cinesi, indiane, africane, per avere una fotografia diversa da quella, unilaterale e integralmente falsa, proposta dal mainstream occidentale.
Una lettura diversa della crisi, un’ottica multipolare, come unica possibilità per poi trovare, domani, soluzioni praticabili, lontano dalla “guerra infinita” che Giulietto Chiesa vide arrivare all’indomani del «colpo di Stato mondiale chiamato 11 Settembre».
Uno spartiacque fatale, quello dell’attacco alle Torri: da allora, l’élite neocon ha imboccato la via della strategia della tensione, senza più abbandonarla. Iraq, Afghanistan, Yemen e Sudan, Somalia, Georgia, Egitto, Libia, Siria. Una strategia sanguinosa, stragista, preparata dalle “fake news” di regime: le bugie sulle Torri Gemelle, le favole sulle armi di distruzione di Saddam, le stragi inesistenti attribuite a Gheddafi, l’attacco coi gas attribuito ad Assad.
Una strategia feroce, fondata sulla grande menzogna del terrorismo “false flag”, sotto falsa bandiera, da Al-Qaeda all’Isis, per innescare campagne militari destinate a mettere le mani sull’intero pianeta, abrogando diritti in Occidente e scatenando una guerra dopo l’altra nel resto del mondo.
Ora siamo all’epilogo evocato dal Pnac, il piano per il Nuovo Secolo Americano, che prima ancora del Duemila annunciò che nel 2017 il nemico strategico degli Usa sarebbe stata la Cina.
Quando cadde il Muro di Berlino, Gorbaciov sognava ad occhi aperti un mondo diverso, finalmente pacificato.
Oggi siamo all’autismo del terrore fabbricato in casa, da un’élite che occulta le notizie e fa spiare miliardi di persone tramite Google, Facebook e le app dello smartphone.
Un’oligarchia globale decisa a tutto, pronta a investire ormai solo sull’arma più antica, quella della paura, che nasce dalla manipolazione delle notizie, dal sonno della verità.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Mondo
L’Isis abbandona l’idea del Califfato: la nuova narrativa è la classica lotta armata
di Loretta Napoleoni | 26 marzo 2017
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Più informazioni su: Attentato, Individualismo, Integralismo Islamico, Isis, Nazionalismo, Terrorismo
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Loretta Napoleoni
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La bandiera nera dello Stato islamico non sventola più sulle città del Califfato e infatti il numero di roccaforti ancora nelle mani dell’Isis è pressoché nullo: persino la Capitale, Raqqa, è sotto attacco. Non possiamo più parlare di un progetto nazionalista perché l’idea di costruire un nuovo Stato, la versione moderna del vecchio Califfato, sta sfumando e con lei anche il messaggio propagandistico dell’Isis che tanta presa ha avuto sui giovani musulmani. Una vittoria? No, un passo in avanti, siamo ancora lontanissimi dalla risoluzione del problema e ancora più lontani dal neutralizzare la minaccia dell’Isis a casa nostra. Per farlo bisogna analizzare e capire chi sono i nuovi nemici.
Il terrorismo è un atto che viene commesso dagli uomini, come la guerra: è quindi fondamentale conoscere le motivazioni che spingono gli individui a commettere atti di terrorismo. Nel gergo degli esperti si descrive questo fenomeno con la parola ‘radicalizzazione’, ma come vedremo più avanti questo è un termine fuorviante perché presuppone un’ideologia politica.
Partiamo dal messaggio originario dell’Isis nel lontano 2012: era una chiamata alle armi per chiunque volesse far parte di un’avventura patriottica, una battaglia sanguinosa per creare un nuovo Stato. Se analizziamo le modalità di indottrinamento – in questo casi si può parlare di radicalizzazione – e i soggetti prescelti ci rendiamo conto che i secondi sono giovani, tra il 17 e i 35 anni e le prime poggiano su un’ideologia fortemente nazionalista. Questa formula ha funzionato fino a quando il Califfato era una realtà. Ma è chiaro che nel momento in cui questo svanisce sotto le macerie della campagna aerea o per mano degli eserciti nemici – dalle milizie sciite fino ai soldati iracheni – questa narrativa non funziona più, ce ne vuole un’altra. Nessun giovane musulmano infatti è disposto oggi a intraprendere il viaggio verso un Califfato ormai prossimo alla sconfitta militare.
La nuova narrativa, quella che da quasi due anni è stata abbracciata dall’Isis e dai suoi seguaci è la classica lotta armata. Ribaltando completamente la propaganda, il Califfo non incoraggia più i suoi seguaci a entrare nelle file dei combattenti in Siria o Iraq, ma al contrario, suggerisce loro di rimanere a casa e fare quello che possono.
Gli inglesi hanno definito questo tipo di individui “militanti Nike”, dalla celeberrima pubblicità della Nike che usa lo sloga “just do it”, che tradotto in italiano significa “fallo senza pensarci troppo”. Non importa come, non importa quando né, tantomeno, interessa il risultato, e cioè quanta gente si riesce a far fuori, quanto baccano mediatico si ottiene: l’importante è portare a termine un attentato. Così negli ultimi due anni abbiamo assistito a una pioggia di attacchi in Europa e nel mondo, non collegati tra di loro ma posti in essere dai cosiddetti “lupi solitari” o da microscopici branchi.
E’ pero sbagliato credere che costoro abbiano le stesse caratteristiche di chi nel 2012 ha risposto alla chiamata del Califfo imbracciando le armi in difesa dell’idea del Califfato. In altre parole, il messaggio di propaganda è diretto a un altro gruppo di individui. E questo è un elemento importantissimo.
In primis perché ci dice che l’Isis, almeno per ora, ha abbandonato il progetto nazionalista e così facendo è tornato a essere un gruppo terrorista. In secondo luogo è molto più difficile reclutare semplici terroristi che combattenti nazionalisti: i primi assomigliano troppo ai comuni delinquenti mentre i secondi fanno pensare ai patrioti. In terzo luogo l’obiettivo del terrorismo europeo è terrorizzare la popolazione mentre a quello del progetto del Califfato era creare una nuova nazione: il primo è di natura negativa, il secondo trabocca di speranza.
Più che radicalizzare i potenziali attentatori si cerca di stimolarli a liberare sentimenti negativi quali rabbia e odio nei confronti della società in cui vivono. Se analizziamo le vite degli attentatori occidentali ci accorgiamo che hanno avuto problemi con la legge, molti sono dei disadattati, alcuni sono convertiti e pochi sono giovanissimi. Altro elemento importante non esiste tra di loro uno spirito di corpo, vivono e agiscono da soli. Da qui la terminologia “lupo solitario”.
L’assenza di un nucleo presuppone l’assenza di uno scambio di idee e dell’identità di gruppo frutto della radicalizzazione. In altre parole la motivazione ad agire non è ideologica, ma personale. E qui viene spontaneo domandarsi se l’atto terrorista non sia completamente sganciato dalla rivendicazione. E’ possibile che l’attentatore agisca di sua spontanea volontà, per motivi personali – frustrazione, depressione, rabbia e così via – e lo faccia usando le modalità del terrorismo moderno, prendendo in prestito l’ombrello ideologico anti-occidentale dell’Isis? Ed è altrettanto possibile che l’Isis incoraggi e rivendichi queste azioni senza esserne al corrente, senza esercitare su di esse alcun controllo né coordinamento, che come noi ne legga la dinamica sui media? Un terrorismo, questo, talmente fatto in casa da diventare ‘personale’, sintomo di un malessere esistenziale generale della società moderna che però l’Isis ha capito che esiste e sa sfruttare.
Un’analisi, questa, inquietante che delinea scenari completamente nuovi nei quali, piuttosto della pista del denaro, bisogna iniziare a percorrere quella esistenziale.
di Loretta Napoleoni | 26 marzo 2017
L’Isis abbandona l’idea del Califfato: la nuova narrativa è la classica lotta armata
di Loretta Napoleoni | 26 marzo 2017
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La bandiera nera dello Stato islamico non sventola più sulle città del Califfato e infatti il numero di roccaforti ancora nelle mani dell’Isis è pressoché nullo: persino la Capitale, Raqqa, è sotto attacco. Non possiamo più parlare di un progetto nazionalista perché l’idea di costruire un nuovo Stato, la versione moderna del vecchio Califfato, sta sfumando e con lei anche il messaggio propagandistico dell’Isis che tanta presa ha avuto sui giovani musulmani. Una vittoria? No, un passo in avanti, siamo ancora lontanissimi dalla risoluzione del problema e ancora più lontani dal neutralizzare la minaccia dell’Isis a casa nostra. Per farlo bisogna analizzare e capire chi sono i nuovi nemici.
Il terrorismo è un atto che viene commesso dagli uomini, come la guerra: è quindi fondamentale conoscere le motivazioni che spingono gli individui a commettere atti di terrorismo. Nel gergo degli esperti si descrive questo fenomeno con la parola ‘radicalizzazione’, ma come vedremo più avanti questo è un termine fuorviante perché presuppone un’ideologia politica.
Partiamo dal messaggio originario dell’Isis nel lontano 2012: era una chiamata alle armi per chiunque volesse far parte di un’avventura patriottica, una battaglia sanguinosa per creare un nuovo Stato. Se analizziamo le modalità di indottrinamento – in questo casi si può parlare di radicalizzazione – e i soggetti prescelti ci rendiamo conto che i secondi sono giovani, tra il 17 e i 35 anni e le prime poggiano su un’ideologia fortemente nazionalista. Questa formula ha funzionato fino a quando il Califfato era una realtà. Ma è chiaro che nel momento in cui questo svanisce sotto le macerie della campagna aerea o per mano degli eserciti nemici – dalle milizie sciite fino ai soldati iracheni – questa narrativa non funziona più, ce ne vuole un’altra. Nessun giovane musulmano infatti è disposto oggi a intraprendere il viaggio verso un Califfato ormai prossimo alla sconfitta militare.
La nuova narrativa, quella che da quasi due anni è stata abbracciata dall’Isis e dai suoi seguaci è la classica lotta armata. Ribaltando completamente la propaganda, il Califfo non incoraggia più i suoi seguaci a entrare nelle file dei combattenti in Siria o Iraq, ma al contrario, suggerisce loro di rimanere a casa e fare quello che possono.
Gli inglesi hanno definito questo tipo di individui “militanti Nike”, dalla celeberrima pubblicità della Nike che usa lo sloga “just do it”, che tradotto in italiano significa “fallo senza pensarci troppo”. Non importa come, non importa quando né, tantomeno, interessa il risultato, e cioè quanta gente si riesce a far fuori, quanto baccano mediatico si ottiene: l’importante è portare a termine un attentato. Così negli ultimi due anni abbiamo assistito a una pioggia di attacchi in Europa e nel mondo, non collegati tra di loro ma posti in essere dai cosiddetti “lupi solitari” o da microscopici branchi.
E’ pero sbagliato credere che costoro abbiano le stesse caratteristiche di chi nel 2012 ha risposto alla chiamata del Califfo imbracciando le armi in difesa dell’idea del Califfato. In altre parole, il messaggio di propaganda è diretto a un altro gruppo di individui. E questo è un elemento importantissimo.
In primis perché ci dice che l’Isis, almeno per ora, ha abbandonato il progetto nazionalista e così facendo è tornato a essere un gruppo terrorista. In secondo luogo è molto più difficile reclutare semplici terroristi che combattenti nazionalisti: i primi assomigliano troppo ai comuni delinquenti mentre i secondi fanno pensare ai patrioti. In terzo luogo l’obiettivo del terrorismo europeo è terrorizzare la popolazione mentre a quello del progetto del Califfato era creare una nuova nazione: il primo è di natura negativa, il secondo trabocca di speranza.
Più che radicalizzare i potenziali attentatori si cerca di stimolarli a liberare sentimenti negativi quali rabbia e odio nei confronti della società in cui vivono. Se analizziamo le vite degli attentatori occidentali ci accorgiamo che hanno avuto problemi con la legge, molti sono dei disadattati, alcuni sono convertiti e pochi sono giovanissimi. Altro elemento importante non esiste tra di loro uno spirito di corpo, vivono e agiscono da soli. Da qui la terminologia “lupo solitario”.
L’assenza di un nucleo presuppone l’assenza di uno scambio di idee e dell’identità di gruppo frutto della radicalizzazione. In altre parole la motivazione ad agire non è ideologica, ma personale. E qui viene spontaneo domandarsi se l’atto terrorista non sia completamente sganciato dalla rivendicazione. E’ possibile che l’attentatore agisca di sua spontanea volontà, per motivi personali – frustrazione, depressione, rabbia e così via – e lo faccia usando le modalità del terrorismo moderno, prendendo in prestito l’ombrello ideologico anti-occidentale dell’Isis? Ed è altrettanto possibile che l’Isis incoraggi e rivendichi queste azioni senza esserne al corrente, senza esercitare su di esse alcun controllo né coordinamento, che come noi ne legga la dinamica sui media? Un terrorismo, questo, talmente fatto in casa da diventare ‘personale’, sintomo di un malessere esistenziale generale della società moderna che però l’Isis ha capito che esiste e sa sfruttare.
Un’analisi, questa, inquietante che delinea scenari completamente nuovi nei quali, piuttosto della pista del denaro, bisogna iniziare a percorrere quella esistenziale.
di Loretta Napoleoni | 26 marzo 2017
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Attacco con pc 'zombie' costa 25 dlr
ANSA
14 ore fa
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Attacco con pc 'zombie' costa 25 dlr© ANSA Attacco con pc 'zombie' costa 25 dlr
(ANSA) - ROMA, 27 MAR - Sferrare un attacco informatico a un sito, bloccandolo con una overdose di traffico online generato da una rete di computer 'zombie' (botnet), non richiede particolari abilità informatiche: basta la carta di credito e la possibilità di sborsare almeno 25 dollari all'ora. Tanto costa, secondo le stime di Kaspersky, rendere inaccessibile un sito con un attacco Ddos (Distributed denial of service) acquistato sul mercato nero del web. La società di sicurezza mette in guardia da un aumento di questo business illegale e della sua profittabilità per gli hacker. Gli attacchi a siti del governo e a risorse ben protette sono i più cari. Secondo Kaspersky Lab un attacco DDoS può variare da 5 dollari per un attacco di 300 secondi, a 400 dollari per 24 ore. Il costo medio di un attacco, per i clienti, è sui 25 dollari all'ora. Agli hacker-provider costa invece solo 7 dollari l'ora, quindi i criminali intascano ben 18 dollari l'ora.
ANSA
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Attacco con pc 'zombie' costa 25 dlr© ANSA Attacco con pc 'zombie' costa 25 dlr
(ANSA) - ROMA, 27 MAR - Sferrare un attacco informatico a un sito, bloccandolo con una overdose di traffico online generato da una rete di computer 'zombie' (botnet), non richiede particolari abilità informatiche: basta la carta di credito e la possibilità di sborsare almeno 25 dollari all'ora. Tanto costa, secondo le stime di Kaspersky, rendere inaccessibile un sito con un attacco Ddos (Distributed denial of service) acquistato sul mercato nero del web. La società di sicurezza mette in guardia da un aumento di questo business illegale e della sua profittabilità per gli hacker. Gli attacchi a siti del governo e a risorse ben protette sono i più cari. Secondo Kaspersky Lab un attacco DDoS può variare da 5 dollari per un attacco di 300 secondi, a 400 dollari per 24 ore. Il costo medio di un attacco, per i clienti, è sui 25 dollari all'ora. Agli hacker-provider costa invece solo 7 dollari l'ora, quindi i criminali intascano ben 18 dollari l'ora.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
A CHE GIOCO STANNO GIOCANDO I CAMERATI DELLE STRUMPTRUPPEN????????????''
LA 'NDRAGHETA STA PROTEGGENDO L'ISIS NELLE CAMPAGNE CALABRESI.
MA LORO FANNO FINTA DI NON SAPERLO.
PER CHI LAVORANO???????????
E COSA VOGLIONO OTTENERE CON UNA CAMPAGNA DEL TERRORE ??????????
I nemici sono in casa nostra
Dal macellaio con la fama da duro all'imam che rifiuta di diventare italiano. Così il Paese coccola gli estremisti islamici
di Gian Micalessin
47 minuti fa
LA 'NDRAGHETA STA PROTEGGENDO L'ISIS NELLE CAMPAGNE CALABRESI.
MA LORO FANNO FINTA DI NON SAPERLO.
PER CHI LAVORANO???????????
E COSA VOGLIONO OTTENERE CON UNA CAMPAGNA DEL TERRORE ??????????
I nemici sono in casa nostra
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di Gian Micalessin
47 minuti fa
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Re: La Terza Guerra Mondiale
QUALI IPOTESI POSSIAMO AVANZARE?????
1) IL PATTO 'NDRANGHETA - ISIS, SI E' ROTTO
2) L'ISIS NON RIESCE A CONTROLLARE LE CELLULE ISOLATE
3) LA 'NDRANGHETA NON RIESCE A CONTROLLARE IL TERRITORIO ITALIANO
4) SE AVETE ALTRE IPOTESI RENDETELE NOTE
Venezia, 3 arresti e un fermo: “Cellula jihadista”
“Metti la bomba a Rialto, ti guadagni il paradiso”
Sono tutti cittadini originari del Kosovo e residenti in Italia: “Radicalizzazione religiosa. Erano attivi in
centro città”. Fermato un minorenne. Le intercettazioni in cui si parla del possibile obiettivo da colpire
Cronaca
Tre arresti e dodici perquisizioni sono state eseguite nella notte nell’ambito di un’operazione antiterrorismo nel centro storico di Venezia. Fermato anche un ragazzo minorenne. Il blitz congiunto di polizia e carabinieri, coordinati dalla Procura distrettuale antimafia e antiterrorismo, era diretto verso cittadini originari del Kosovo e tutti in Italia con regolare permesso di soggiorno. Secondo gli investigatori è stata colpita una cellula terroristica jihadista operante nel centro storico veneziano
di F. Q.
1) IL PATTO 'NDRANGHETA - ISIS, SI E' ROTTO
2) L'ISIS NON RIESCE A CONTROLLARE LE CELLULE ISOLATE
3) LA 'NDRANGHETA NON RIESCE A CONTROLLARE IL TERRITORIO ITALIANO
4) SE AVETE ALTRE IPOTESI RENDETELE NOTE
Venezia, 3 arresti e un fermo: “Cellula jihadista”
“Metti la bomba a Rialto, ti guadagni il paradiso”
Sono tutti cittadini originari del Kosovo e residenti in Italia: “Radicalizzazione religiosa. Erano attivi in
centro città”. Fermato un minorenne. Le intercettazioni in cui si parla del possibile obiettivo da colpire
Cronaca
Tre arresti e dodici perquisizioni sono state eseguite nella notte nell’ambito di un’operazione antiterrorismo nel centro storico di Venezia. Fermato anche un ragazzo minorenne. Il blitz congiunto di polizia e carabinieri, coordinati dalla Procura distrettuale antimafia e antiterrorismo, era diretto verso cittadini originari del Kosovo e tutti in Italia con regolare permesso di soggiorno. Secondo gli investigatori è stata colpita una cellula terroristica jihadista operante nel centro storico veneziano
di F. Q.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
LA GUERRA COMMERCIALE FA PARTE DELLA TIPOLOGIA DEL PACCHETTO DELLE GUERRE.
SI SA DOVE COMINCIA E NON SI SA DOVE PUO’ FINIRE.
COMUNQUE ,IL GENIO DELLA GUERRA A STELLE E STRISCE DOVREBBE CAPIRE CHE GLI EUROPEI, I SINGOLI, POTREBBERO AGIRE IN PROPRIO SABOTANDO GLI ACQUISTI DEI PRODOTTI DELLO ZIO SAM.
Dazi Usa, Letta: “Trump vuole guerra commerciale? Combatterla con tutte le armi: Ue unita e puntare sull’Asia”
“Se parte una guerra commerciale con gli Usa, la si deve combattere con tutte le armi possibili”. È l’opinione dell’ex premier Enrico Letta sull’ipotesi ventilata dal presidente americano Donald Trump di introdurre dazi sui prodotti europei. “Una minaccia gravissima per la nostra economia – dice Letta –. L’attacco di Trump colpisce i tedeschi in primis, e noi”. L’Europa secondo l’ex premier non può che rispondere con la massima unità (“la divisione dell’Europa è il migliore alleato di Trump”) e puntando su altri mercati: “L’arma migliore è commerciare con tutti gli altri Paesi del mondo, a partire dall’Asia. Con tutte le regole necessarie per proteggerci dalla contraffazione”
VIDEO:
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/03 ... a/3488580/
SI SA DOVE COMINCIA E NON SI SA DOVE PUO’ FINIRE.
COMUNQUE ,IL GENIO DELLA GUERRA A STELLE E STRISCE DOVREBBE CAPIRE CHE GLI EUROPEI, I SINGOLI, POTREBBERO AGIRE IN PROPRIO SABOTANDO GLI ACQUISTI DEI PRODOTTI DELLO ZIO SAM.
Dazi Usa, Letta: “Trump vuole guerra commerciale? Combatterla con tutte le armi: Ue unita e puntare sull’Asia”
“Se parte una guerra commerciale con gli Usa, la si deve combattere con tutte le armi possibili”. È l’opinione dell’ex premier Enrico Letta sull’ipotesi ventilata dal presidente americano Donald Trump di introdurre dazi sui prodotti europei. “Una minaccia gravissima per la nostra economia – dice Letta –. L’attacco di Trump colpisce i tedeschi in primis, e noi”. L’Europa secondo l’ex premier non può che rispondere con la massima unità (“la divisione dell’Europa è il migliore alleato di Trump”) e puntando su altri mercati: “L’arma migliore è commerciare con tutti gli altri Paesi del mondo, a partire dall’Asia. Con tutte le regole necessarie per proteggerci dalla contraffazione”
VIDEO:
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/03 ... a/3488580/
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Trump avverte la Corea: "O ci pensa la Cina o ci pensiamo noi"
Nell'intervista al Financial Times, il presidente Usa mette in guardia Pyongyang
Lucio Di Marzo - Lun, 03/04/2017 - 08:15
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C'è la speranza di un accordo con la Cina, e la convinzione di riuscire a risolvere i problemi di surplus commerciali esistenti con Pechino, in un'intervista rilasciata dal presidente americano Trump al Financial Times, in cui assicura di essere pronto a mettere fine a quello che definisce come un "accordo non equo", ma anche un'avvertimento molto preciso alla Corea del Nord.
Trump incontrerà il presidente cinese Xi Jinping il prossimo 6 aprile, nella residenza di Mar-a-Lago. E conta di avere tempo, nel suo faccia a faccia con il collega di Pechino, per trattare anche della spina nel fianco di Pyongyang.
"La Cina ha una grande influenza sulla Corea del Nord - ricorda la Casa Bianca al Financial Times - e la Cina può decire di aiutarci o di non farlo. E se lo fanno sarà un bene per la Cina, e se non lo fanno non sarà un bene per nessuno".
Non solo. "Se la Cina non risolverà il nodo Corea del Nord, lo faremo noi", mette in chiaro Trump, che tuttavia non è disposto a chiarire quale sia la sua stragegia. "Io non sono gli Stati Uniti del passato, in cui dicevamo dove avremmo colpito in Medio Oriente. Non c'è nessuna ragione di parlare".
Nell'intervista al Financial Times, il presidente Usa mette in guardia Pyongyang
Lucio Di Marzo - Lun, 03/04/2017 - 08:15
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C'è la speranza di un accordo con la Cina, e la convinzione di riuscire a risolvere i problemi di surplus commerciali esistenti con Pechino, in un'intervista rilasciata dal presidente americano Trump al Financial Times, in cui assicura di essere pronto a mettere fine a quello che definisce come un "accordo non equo", ma anche un'avvertimento molto preciso alla Corea del Nord.
Trump incontrerà il presidente cinese Xi Jinping il prossimo 6 aprile, nella residenza di Mar-a-Lago. E conta di avere tempo, nel suo faccia a faccia con il collega di Pechino, per trattare anche della spina nel fianco di Pyongyang.
"La Cina ha una grande influenza sulla Corea del Nord - ricorda la Casa Bianca al Financial Times - e la Cina può decire di aiutarci o di non farlo. E se lo fanno sarà un bene per la Cina, e se non lo fanno non sarà un bene per nessuno".
Non solo. "Se la Cina non risolverà il nodo Corea del Nord, lo faremo noi", mette in chiaro Trump, che tuttavia non è disposto a chiarire quale sia la sua stragegia. "Io non sono gli Stati Uniti del passato, in cui dicevamo dove avremmo colpito in Medio Oriente. Non c'è nessuna ragione di parlare".
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Re: La Terza Guerra Mondiale
LA RICREZIONE ......E' FINITA.....
LIBRE news
Recensioni
segnalazioni.
Contro l’Eurasia, agli Usa resta solo una chance: la guerra
Scritto il 03/4/17 • nella Categoria: segnalazioni Condividi Tweet
Siamo in pericolo, perché l’America sta perdendo terreno: per questo ormai è pronta a tutto, anche alla guerra con la Russia, per impedire che Mosca coinvolga l’Europa nel piano strategico che più converrebbe a entrambe, cioè l’integrazione economica in termini di Eurasia, fino alla Cina.
Guai, quindi, se l’Europa mollasse gli Usa.
E’ la visione che Mike Whitney disegna su “Counterpunch”, con un finale già scritto – il declino della superpotenza Usa – con la possibile variante, per noi catastrofica, della (inutile) guerra mondiale scatenata dall’élite americana nel tentativo, impossibile, di invertire il corso della storia.
Ancora nel 2012, lo stesso Putin parlava della creazione di «uno spazio economico comune che vada dall’Atlantico al Pacifico», chiamato “l’Unione di tutta Europa”, con la Russia come perno di una “Nuova Asia” saldamente collegata all’Europa.
«L’inarrestabile demonizzazione di Putin – scrive Whitney – è soltanto una parte della multiforme strategia di Washington per fare arretrare il potere russo in Asia centrale e mettere la parola fine al sogno di Putin di “Una più grande Europa”».
Di qui l’incessante sforzo per liquidare il presidente russo come “bandito del Kgb”, o “dittatore”, colpevole addirittura dell’ipotetico hackeraggio per ingerire nelle presidenziali statunitensi, con la Russia presentata dai media come «un pericoloso aggressore seriale che pone una crescente minaccia alla sicurezza della Ue e degli Usa».
Un «mattatoio mediatico», intensificatosi dopo l’elezione di Donald Trump e accompagnato da «pesanti sanzioni, attacchi asimmetrici ai mercati russi e alla valuta», nonché «dall’armamento e addestramento di antagonisti della Russia in Ucraina e Siria», dalla «soppressione calcolata dei prezzi del petrolio greggio» e dal «ripetuto tentativo di sabotare le relazioni commerciali russe in Europa».
In breve, riassume Whitney in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, Washington sta facendo qualsiasi cosa in suo potere per prevenire il fatto che Europa e Russia possano «fondersi nella più grande area di libero scambio mondiale, che verrebbe inevitabilmente a rappresentare il centro della crescita e della prosperità mondiale per il prossimo secolo».
Ecco il motivo per cui il Dipartimento di Stato si è unito alla Cia per rovesciare il governo ucraino nel 2014: annettendo un ponte terrestre vitale tra Ue e Asia, i manovratori di potere Usa volevano «riuscire a controllare i gasdotti fondamentali che stanno avvicinando sempre di più i due continenti in una alleanza che escluderà gli Stati Uniti».
La prospettiva?
E’ pessima, vista dall’America, perché «la Russia soddisferà i crescenti bisogni energetici europei, mentre il sistema di ferrovie ad alta velocità cinesi farà arrivare ancora più prodotti a basso costo».
Tutto questo suggerisce l’idea che «il centro di gravità dell’economia mondiale si sta spostando rapidamente, e con esso l’irreversibile declino degli Usa». E quando il dollaro «verrà inevitabilmente cestinato come mezzo di scambio primario tra i partner commerciali in una emergente area di libero scambio Ue-Asia», a quel punto «il riciclaggio di ricchezza sotto forma di debito Usa crollerà rapidamente, precipitando i mercati Usa nell’abisso, mentre l’economia intera affonderà in una palude». Sicché, «impedire a Putin di creare una “armoniosa comunità di economie che vada da Lisbona a Vladivostok” non è un compito secondario per gli Usa, è una questione di vita o di morte». Lo diceva già uno stratega del calibro di Paul Wolfowitz: «Il nostro obbiettivo primario è prevenire l’emergere di un nuovo rivale, sia esso sul territorio della fu Unione Sovietica o in altro luogo». Imperativo categorico: «Prevenire che ogni potere ostile possa dominare una regione le cui risorse possano, sotto controllo consolidato, rivelarsi sufficienti a generare dominio globale».
«La geografia è destino», scrive Whitney. «E la geografia russa contiene vastissime riserve di petrolio e gas naturale, delle quali l’Europa ha bisogno per riscaldare le sue case e fornire energia alla sua economia». Di più: «La relazione simbiotica tra fornitore e utilizzatore finale porterà a un certo punto all’abbandono delle barriere commerciali, l’abbassamento delle barriere tariffarie e al progressivo integrarsi delle economie nazionali in un mercato comune di tutta la regione. Questo potrebbe rappresentare il peggiore incubo di Washington, ma è anche la massima priorità strategica di Putin», che ha scommesso sui grandi gasdotti – il North Stream sotto il Mar Baltico e il South Stream sotto il Mar Nero – per fornire all’Europa energia pronto uso, a basso costo. «Negli ultimi 70 anni la strategia imperiale ha funzionato senza contrattempi, ma adesso la rinascita russa e l’esplosiva crescita cinese minacciano di liberarsi dal giogo dell’abbraccio costrittivo di Washington», aggiunge Whitney. «Gli alleati asiatici hanno iniziato a puntellare l’Asia e l’Europa con gasdotti e ferrovie ad alta velocità che uniranno insieme i vari staterelli distanti dispersi nelle steppe, attirandoli nell’Unione Economica Euroasiatica, collegandoli a un superstato prospero e in espansione, epicentro del commercio e dell’industria globale».
La geografia è destino: il primo a saperlo, e a dirlo, è stato l’uomo della “grande scacchiera”, Zbigniew Brzezinski, che ha riassunto l’importanza dell’Asia centrale nel suo classico del 1997 sostendendo che «l’Eurasia è il maggiore continente del globo e la sua importanza geopolitica è assiale». E’ matematico: «Una potenza che domina l’Eurasia controllerebbe due tra le tre regioni più avanzate ed economicamente produttive. Circa il 75% della popolazione mondiale vive in Eurasia e la maggior parte della ricchezza fisica effettiva si trova anche essa in questa area, sia nelle sue imprese che nel suo suolo». L’Eurasia, scriveba Brzezinski, conta per il 60% del Pil mondiale e per circa tre quarti delle risorse energetiche del globo. «Se l’Europa vuole un socio affidabile in grado di soddisfare i suoi bisogni energetici, la Russia corrisponde alla descrizione», osserva Whitney. «Sfortunatamente, gli Usa hanno tentato ripetutamente di sabotare entrambi i gasdotti allo scopo di mettere a repentaglio i rapporti Europa-Russia. Washington preferirebbe che l’Europa riducesse drammaticamente il suo utilizzo di gas naturale o che si rivolgesse ad altre fonti più costose che non passano per la Russia. In altre parole, i bisogni naturali europei vengono sacrificati agli obiettivi geopolitici Usa, tra i quali il maggiore è prevenire la formazione di una “Più Grande Europa”».
Ne vediamo gli effetti: la guerra di Washington contro la Russia è sempre più militarizzata. Di recente il Pentagono ha stanziato più truppe da combattimento in Siria e Kuwait, vuole riarmare milizie jihadiste per rovesciare il governo siriano e ricorrere a un uso più diretto della forza per conquistare l’Est della Siria. Cresce la violenza anche in Ucraina, dal momento che il presidente Trump sembra orientato a un approccio ancora più duro di quello di Obama. Anche la Nato ha stanziato truppe e armamenti sul fianco occidentale russo, mentre gli Usa hanno disseminato basi militari in Asia centrale. La Nato non ha mai smesso di spingere verso est, dal momento in cui il Muro di Berlino cadde, nel novembre 1989. «L’accumulo di mezzi bellici ostili sul perimetro occidentale della Russia è una fonte di crescente preoccupazione a Mosca, e per ottime ragioni», scrive Whitney: «I russi conoscono la loro storia». Al tempo stesso, gli Stati Uniti «stanno costruendo un sistema terrestre di difesa missilistica antiaerea in Romania (Star Wars), che integra l’arsenale missilistico Usa in un luogo a soli 900 km da Mosca. Il sistema missilistico Usa, che è stato “certificato per le operazioni” nel maggio 2016, cancella il deterrente nucleare russo e distrugge l’equilibrio strategico di potere in Europa».
Putin ha risposto con appropriate contromisure. E spiega: «Gli americani sono ossessionati dall’idea di “assoluta invulnerabilità” per loro stessi. Ma l’assoluta invulnerabilità di una nazione significa assoluta vulnerabilità per tutti gli altri. Non possiamo assolutamente essere d’accordo». Ora, l’amministrazione Trump ha annunciato che impiegherà il sistema Terminal High Altitude Area Difense (Thaad) in Corea del Sud, citando la necessità di rispondere alle provocazioni da parte della Corea del Nord. «In realtà – obietta Whitney – gli Usa sfruttano il Nord come pretesto per poter minacciare Russia e Cina come “limiti assiali” dell’Heartland Eurasiatico, come mezzo per contenere la vasta massa di terre emerse che Sir Halford Mackinder ha chiamato “l’area fondamentale, che si estende tra il Golfo Persico e il fiume Yang Tze in Cina”. Washington spera che, controllando le rotte marine critiche, circondando la regione con basi militari e inserendosi aggressivamente dove necessario, possa riuscire a prevenire l’emergenza di un colosso economico che possa sminuire l’importanza degli Stati Uniti come superpotenza globale».
Il futuro dell’America «dipende dalla sua capacità di far deragliare l’integrazione economica del centro del mondo e riuscire nel “grande gioco” nel quale tutti gli altri hanno fallito». Un estratto da un articolo di Alfred McCoy, “La geopolitica del declino globale americano”, aiuta a illuminare la natura della contesa in corso per il controllo della cosiddetta “Isola-Mondo”. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli Usa si sono ritrovati «prima potenza nella storia a controllare i punti strategici assiali di entrambe le estremità dell’Eurasia». Con la paura dell’espansione russa e cinese come “catalizzatore della collaborazione”, Washington hanno guadagnato bastioni strategici sia in Europa occidentale che in Giappone. Con questi punti assiali come ancoraggio, ha creato «un arco di basi militari basate sul modello marittimo precedente», quello della Gran Bretagna, «visibilmente concepite per circondare l’“Isola-Mondo”». Spogliata del suo rivestimento ideologico, osserva McCoy, la grande strategia di Washington del contenimento anti-comunista nella guerra fredda «non è stato molto altro che un processo di successione imperiale». Alla fine della guerra fredda, nel 1990, «l’accerchiamento della Cina comunista e della Russia richiedeva 700 basi in territori stranieri, una potenza aerea di 1.763 jet da combattimento, un vasto arsenale nucleare, oltre 1.000 missili balistici e una potenza navale di 600 navi, tra cui 15 portaerei nucleari, tutti unificati dall’unico sistema al mondo di comunicazione globale satellitare».
Un nuovo impero globale sta ora gradualmente emergendo, in Asia Centrale. E, mentre l’impatto dell’integrazione economica dell’area non si è ancora realizzato, secondo McCoy «gli sforzi da parte degli Usa per fermare questa possibile alleanza nella sua fase embrionale appaiono sempre più inefficaci e disperati». L’iperbolica propaganda sul presunto “hacking russo” dell’elezione presidenziale Usa ne solo uno tra i numerosi esempi – un altro è l’armamento dei neonazisti a Kiev. «Il punto è che sia la Russia che la Cina si stanno servendo dello sviluppo dei mercati e della semplice ingenuità per avere la meglio su Washington, mentre Washington si basa quasi esclusivamente sull’inganno, attività occulte, forza militare bruta. In parole povere gli ex comunisti stanno stracciando i capitalisti nel loro stesso gioco». Ancora McCoy: «La Cina si sta affermando in modo profondo nell’‘Isola-Mondo’ in un tentativo di dare una forma completamente nuova ai fondamentali geopolitici del dominio globale. Per fare ciò sta usando una fine strategia che fino a questo momento ha eluso la comprensione da parte delle élites al potere in Usa».
Il primo passo? E’ consistito «in un sensazionale progetto di creazione di una infrastruttura che assicuri l’integrazione economica del continente». Stendendo un elaborata e complessa rete di ferrovie ad alto volume ed alta velocità, come anche gasdotti ed oleodotti, nelle vaste distese eurasiatiche, «la Cina potrebbe rendere realtà l’intuizione di Mackinder in un modo imprevisto». Ovvero: «Per la prima volta nella storia, il rapido movimento transcontinentale di carichi di materie prime fondamentali – petrolio, minerali, prodotti – sarà possibile su una scala prima impensabile, unificando così potenzialmente la grandissima estensione di terre in questione in una unica zona economica che si estende per 6.500 miglia da Shangai a Madrid». In tal modo, conclude McCoy, «la leadership pechinese spera di spostare il baricentro del potere geopolitico via dalla periferia marittima e fin dentro all’Heartland continentale». Ma Washington, aggiunge Whitney, di certo non lascerà che il piano russo-cinese vada avanti: continuerà a combatterlo. E «se sanzioni economiche, attività occulte e sabotaggio economico non funzioneranno, i manovratori di potere Usa passeranno a strategie più letali». La peggiore delle ipotesi sta già andando in scena: lo dimostrano i recenti stanziamenti di truppe in Medio Oriente. Gli americani «ritengono che un confronto militare diretto possa essere la migliore opzione disponibile», pensando che «una guerra contro la Russia combattuta in Siria o in Ucraina non necessariamente potrebbe degenerare in una guerra nucleare a tutto campo». Ma sarebbe abbastanza per trascinare nel conflitto anche l’Europa, nel tentativo – disperato – di «abbattere definitivamente il piano russo di “integrazione economica” e immobilizzare la Russia in un lungo pantano che ne prosciugherebbe le risorse».
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Contro l’Eurasia, agli Usa resta solo una chance: la guerra
Scritto il 03/4/17 • nella Categoria: segnalazioni Condividi Tweet
Siamo in pericolo, perché l’America sta perdendo terreno: per questo ormai è pronta a tutto, anche alla guerra con la Russia, per impedire che Mosca coinvolga l’Europa nel piano strategico che più converrebbe a entrambe, cioè l’integrazione economica in termini di Eurasia, fino alla Cina.
Guai, quindi, se l’Europa mollasse gli Usa.
E’ la visione che Mike Whitney disegna su “Counterpunch”, con un finale già scritto – il declino della superpotenza Usa – con la possibile variante, per noi catastrofica, della (inutile) guerra mondiale scatenata dall’élite americana nel tentativo, impossibile, di invertire il corso della storia.
Ancora nel 2012, lo stesso Putin parlava della creazione di «uno spazio economico comune che vada dall’Atlantico al Pacifico», chiamato “l’Unione di tutta Europa”, con la Russia come perno di una “Nuova Asia” saldamente collegata all’Europa.
«L’inarrestabile demonizzazione di Putin – scrive Whitney – è soltanto una parte della multiforme strategia di Washington per fare arretrare il potere russo in Asia centrale e mettere la parola fine al sogno di Putin di “Una più grande Europa”».
Di qui l’incessante sforzo per liquidare il presidente russo come “bandito del Kgb”, o “dittatore”, colpevole addirittura dell’ipotetico hackeraggio per ingerire nelle presidenziali statunitensi, con la Russia presentata dai media come «un pericoloso aggressore seriale che pone una crescente minaccia alla sicurezza della Ue e degli Usa».
Un «mattatoio mediatico», intensificatosi dopo l’elezione di Donald Trump e accompagnato da «pesanti sanzioni, attacchi asimmetrici ai mercati russi e alla valuta», nonché «dall’armamento e addestramento di antagonisti della Russia in Ucraina e Siria», dalla «soppressione calcolata dei prezzi del petrolio greggio» e dal «ripetuto tentativo di sabotare le relazioni commerciali russe in Europa».
In breve, riassume Whitney in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, Washington sta facendo qualsiasi cosa in suo potere per prevenire il fatto che Europa e Russia possano «fondersi nella più grande area di libero scambio mondiale, che verrebbe inevitabilmente a rappresentare il centro della crescita e della prosperità mondiale per il prossimo secolo».
Ecco il motivo per cui il Dipartimento di Stato si è unito alla Cia per rovesciare il governo ucraino nel 2014: annettendo un ponte terrestre vitale tra Ue e Asia, i manovratori di potere Usa volevano «riuscire a controllare i gasdotti fondamentali che stanno avvicinando sempre di più i due continenti in una alleanza che escluderà gli Stati Uniti».
La prospettiva?
E’ pessima, vista dall’America, perché «la Russia soddisferà i crescenti bisogni energetici europei, mentre il sistema di ferrovie ad alta velocità cinesi farà arrivare ancora più prodotti a basso costo».
Tutto questo suggerisce l’idea che «il centro di gravità dell’economia mondiale si sta spostando rapidamente, e con esso l’irreversibile declino degli Usa». E quando il dollaro «verrà inevitabilmente cestinato come mezzo di scambio primario tra i partner commerciali in una emergente area di libero scambio Ue-Asia», a quel punto «il riciclaggio di ricchezza sotto forma di debito Usa crollerà rapidamente, precipitando i mercati Usa nell’abisso, mentre l’economia intera affonderà in una palude». Sicché, «impedire a Putin di creare una “armoniosa comunità di economie che vada da Lisbona a Vladivostok” non è un compito secondario per gli Usa, è una questione di vita o di morte». Lo diceva già uno stratega del calibro di Paul Wolfowitz: «Il nostro obbiettivo primario è prevenire l’emergere di un nuovo rivale, sia esso sul territorio della fu Unione Sovietica o in altro luogo». Imperativo categorico: «Prevenire che ogni potere ostile possa dominare una regione le cui risorse possano, sotto controllo consolidato, rivelarsi sufficienti a generare dominio globale».
«La geografia è destino», scrive Whitney. «E la geografia russa contiene vastissime riserve di petrolio e gas naturale, delle quali l’Europa ha bisogno per riscaldare le sue case e fornire energia alla sua economia». Di più: «La relazione simbiotica tra fornitore e utilizzatore finale porterà a un certo punto all’abbandono delle barriere commerciali, l’abbassamento delle barriere tariffarie e al progressivo integrarsi delle economie nazionali in un mercato comune di tutta la regione. Questo potrebbe rappresentare il peggiore incubo di Washington, ma è anche la massima priorità strategica di Putin», che ha scommesso sui grandi gasdotti – il North Stream sotto il Mar Baltico e il South Stream sotto il Mar Nero – per fornire all’Europa energia pronto uso, a basso costo. «Negli ultimi 70 anni la strategia imperiale ha funzionato senza contrattempi, ma adesso la rinascita russa e l’esplosiva crescita cinese minacciano di liberarsi dal giogo dell’abbraccio costrittivo di Washington», aggiunge Whitney. «Gli alleati asiatici hanno iniziato a puntellare l’Asia e l’Europa con gasdotti e ferrovie ad alta velocità che uniranno insieme i vari staterelli distanti dispersi nelle steppe, attirandoli nell’Unione Economica Euroasiatica, collegandoli a un superstato prospero e in espansione, epicentro del commercio e dell’industria globale».
La geografia è destino: il primo a saperlo, e a dirlo, è stato l’uomo della “grande scacchiera”, Zbigniew Brzezinski, che ha riassunto l’importanza dell’Asia centrale nel suo classico del 1997 sostendendo che «l’Eurasia è il maggiore continente del globo e la sua importanza geopolitica è assiale». E’ matematico: «Una potenza che domina l’Eurasia controllerebbe due tra le tre regioni più avanzate ed economicamente produttive. Circa il 75% della popolazione mondiale vive in Eurasia e la maggior parte della ricchezza fisica effettiva si trova anche essa in questa area, sia nelle sue imprese che nel suo suolo». L’Eurasia, scriveba Brzezinski, conta per il 60% del Pil mondiale e per circa tre quarti delle risorse energetiche del globo. «Se l’Europa vuole un socio affidabile in grado di soddisfare i suoi bisogni energetici, la Russia corrisponde alla descrizione», osserva Whitney. «Sfortunatamente, gli Usa hanno tentato ripetutamente di sabotare entrambi i gasdotti allo scopo di mettere a repentaglio i rapporti Europa-Russia. Washington preferirebbe che l’Europa riducesse drammaticamente il suo utilizzo di gas naturale o che si rivolgesse ad altre fonti più costose che non passano per la Russia. In altre parole, i bisogni naturali europei vengono sacrificati agli obiettivi geopolitici Usa, tra i quali il maggiore è prevenire la formazione di una “Più Grande Europa”».
Ne vediamo gli effetti: la guerra di Washington contro la Russia è sempre più militarizzata. Di recente il Pentagono ha stanziato più truppe da combattimento in Siria e Kuwait, vuole riarmare milizie jihadiste per rovesciare il governo siriano e ricorrere a un uso più diretto della forza per conquistare l’Est della Siria. Cresce la violenza anche in Ucraina, dal momento che il presidente Trump sembra orientato a un approccio ancora più duro di quello di Obama. Anche la Nato ha stanziato truppe e armamenti sul fianco occidentale russo, mentre gli Usa hanno disseminato basi militari in Asia centrale. La Nato non ha mai smesso di spingere verso est, dal momento in cui il Muro di Berlino cadde, nel novembre 1989. «L’accumulo di mezzi bellici ostili sul perimetro occidentale della Russia è una fonte di crescente preoccupazione a Mosca, e per ottime ragioni», scrive Whitney: «I russi conoscono la loro storia». Al tempo stesso, gli Stati Uniti «stanno costruendo un sistema terrestre di difesa missilistica antiaerea in Romania (Star Wars), che integra l’arsenale missilistico Usa in un luogo a soli 900 km da Mosca. Il sistema missilistico Usa, che è stato “certificato per le operazioni” nel maggio 2016, cancella il deterrente nucleare russo e distrugge l’equilibrio strategico di potere in Europa».
Putin ha risposto con appropriate contromisure. E spiega: «Gli americani sono ossessionati dall’idea di “assoluta invulnerabilità” per loro stessi. Ma l’assoluta invulnerabilità di una nazione significa assoluta vulnerabilità per tutti gli altri. Non possiamo assolutamente essere d’accordo». Ora, l’amministrazione Trump ha annunciato che impiegherà il sistema Terminal High Altitude Area Difense (Thaad) in Corea del Sud, citando la necessità di rispondere alle provocazioni da parte della Corea del Nord. «In realtà – obietta Whitney – gli Usa sfruttano il Nord come pretesto per poter minacciare Russia e Cina come “limiti assiali” dell’Heartland Eurasiatico, come mezzo per contenere la vasta massa di terre emerse che Sir Halford Mackinder ha chiamato “l’area fondamentale, che si estende tra il Golfo Persico e il fiume Yang Tze in Cina”. Washington spera che, controllando le rotte marine critiche, circondando la regione con basi militari e inserendosi aggressivamente dove necessario, possa riuscire a prevenire l’emergenza di un colosso economico che possa sminuire l’importanza degli Stati Uniti come superpotenza globale».
Il futuro dell’America «dipende dalla sua capacità di far deragliare l’integrazione economica del centro del mondo e riuscire nel “grande gioco” nel quale tutti gli altri hanno fallito». Un estratto da un articolo di Alfred McCoy, “La geopolitica del declino globale americano”, aiuta a illuminare la natura della contesa in corso per il controllo della cosiddetta “Isola-Mondo”. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli Usa si sono ritrovati «prima potenza nella storia a controllare i punti strategici assiali di entrambe le estremità dell’Eurasia». Con la paura dell’espansione russa e cinese come “catalizzatore della collaborazione”, Washington hanno guadagnato bastioni strategici sia in Europa occidentale che in Giappone. Con questi punti assiali come ancoraggio, ha creato «un arco di basi militari basate sul modello marittimo precedente», quello della Gran Bretagna, «visibilmente concepite per circondare l’“Isola-Mondo”». Spogliata del suo rivestimento ideologico, osserva McCoy, la grande strategia di Washington del contenimento anti-comunista nella guerra fredda «non è stato molto altro che un processo di successione imperiale». Alla fine della guerra fredda, nel 1990, «l’accerchiamento della Cina comunista e della Russia richiedeva 700 basi in territori stranieri, una potenza aerea di 1.763 jet da combattimento, un vasto arsenale nucleare, oltre 1.000 missili balistici e una potenza navale di 600 navi, tra cui 15 portaerei nucleari, tutti unificati dall’unico sistema al mondo di comunicazione globale satellitare».
Un nuovo impero globale sta ora gradualmente emergendo, in Asia Centrale. E, mentre l’impatto dell’integrazione economica dell’area non si è ancora realizzato, secondo McCoy «gli sforzi da parte degli Usa per fermare questa possibile alleanza nella sua fase embrionale appaiono sempre più inefficaci e disperati». L’iperbolica propaganda sul presunto “hacking russo” dell’elezione presidenziale Usa ne solo uno tra i numerosi esempi – un altro è l’armamento dei neonazisti a Kiev. «Il punto è che sia la Russia che la Cina si stanno servendo dello sviluppo dei mercati e della semplice ingenuità per avere la meglio su Washington, mentre Washington si basa quasi esclusivamente sull’inganno, attività occulte, forza militare bruta. In parole povere gli ex comunisti stanno stracciando i capitalisti nel loro stesso gioco». Ancora McCoy: «La Cina si sta affermando in modo profondo nell’‘Isola-Mondo’ in un tentativo di dare una forma completamente nuova ai fondamentali geopolitici del dominio globale. Per fare ciò sta usando una fine strategia che fino a questo momento ha eluso la comprensione da parte delle élites al potere in Usa».
Il primo passo? E’ consistito «in un sensazionale progetto di creazione di una infrastruttura che assicuri l’integrazione economica del continente». Stendendo un elaborata e complessa rete di ferrovie ad alto volume ed alta velocità, come anche gasdotti ed oleodotti, nelle vaste distese eurasiatiche, «la Cina potrebbe rendere realtà l’intuizione di Mackinder in un modo imprevisto». Ovvero: «Per la prima volta nella storia, il rapido movimento transcontinentale di carichi di materie prime fondamentali – petrolio, minerali, prodotti – sarà possibile su una scala prima impensabile, unificando così potenzialmente la grandissima estensione di terre in questione in una unica zona economica che si estende per 6.500 miglia da Shangai a Madrid». In tal modo, conclude McCoy, «la leadership pechinese spera di spostare il baricentro del potere geopolitico via dalla periferia marittima e fin dentro all’Heartland continentale». Ma Washington, aggiunge Whitney, di certo non lascerà che il piano russo-cinese vada avanti: continuerà a combatterlo. E «se sanzioni economiche, attività occulte e sabotaggio economico non funzioneranno, i manovratori di potere Usa passeranno a strategie più letali». La peggiore delle ipotesi sta già andando in scena: lo dimostrano i recenti stanziamenti di truppe in Medio Oriente. Gli americani «ritengono che un confronto militare diretto possa essere la migliore opzione disponibile», pensando che «una guerra contro la Russia combattuta in Siria o in Ucraina non necessariamente potrebbe degenerare in una guerra nucleare a tutto campo». Ma sarebbe abbastanza per trascinare nel conflitto anche l’Europa, nel tentativo – disperato – di «abbattere definitivamente il piano russo di “integrazione economica” e immobilizzare la Russia in un lungo pantano che ne prosciugherebbe le risorse».
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Pazzi al Governo ...
da www.ilpost.it
Dovremmo invadere la Corea del Nord?
Se lo chiedono in molti dopo gli ultimi test nucleari e missilistici del regime di Kim Jong-un, ma potrebbe non essere una soluzione praticabile: e quindi cosa rimane?
Il 16 marzo il segretario di stato americano Rex Tillerson era in visita a Tokyo, in Giappone, dove ha incontrato il ministro degli Esteri giapponese Fumio Kishida. I due hanno finito per parlare della Corea del Nord, com’era inevitabile, visto che il regime nordcoreano è la principale minaccia alla sicurezza nazionale del Giappone e negli ultimi anni è diventata un potenziale pericolo anche per gli Stati Uniti. Tillerson non è andato per il sottile e con un paio di frasi ha deciso di fare a pezzi l’approccio degli ultimi governi americani verso la Corea del Nord: «Penso che sia importante riconoscere che la diplomazia e gli altri sforzi degli ultimi 20 anni per portare la Corea del Nord a “denuclearizzarsi” sono falliti». Tillerson ha proposto un «nuovo approccio» che però non ha voluto spiegare e di cui si è avuta una vaga idea solo il giorno dopo, quando ha detto di essere favorevole a politiche più aggressive nei confronti della Corea del Nord e ha parlato dell’ipotesi di un “preemptive attack”, cioè un attacco che anticipi quello nemico, in risposta a una chiara minaccia (la scienza delle relazioni internazionali differenzia il concetto di “preemptive attack” da quello di “preventive attack”, che invece è un attacco che viene compiuto quando non esiste una minaccia concreta e imminente alla propria sicurezza nazionale: in italiano però non esiste un corrispettivo di “preemptive attack”, e per semplicità qui useremo le espressioni “guerra preventiva” e “attacco preventivo” – concetti più immediati e chiari – per indicare il tipo di attacco a cui voleva riferirsi Tillerson).
Tillerson, che è già stato definito il segretario di Stato americano più debole di sempre e che non ha grande dimestichezza con le questioni di politica estera, è stato molto criticato per le sue affermazioni, soprattutto perché non ha saputo presentare un approccio alternativo a quello adottato dall’amministrazione Obama. Le sue critiche, comunque, non sono state le prime di questo tipo. Da tempo diversi analisti ed esperti ritengono che qualcosa nell’approccio americano degli ultimi decenni verso la Corea del Nord non abbia funzionato, perché oggi il mondo si ritrova un paese con un regime dittatoriale dotato di armi nucleari, imprevedibile, di cui si sa pochissimo e che non sembra avere paura di essere sempre più aggressivo, nonostante il rischio di essere attaccato. Quasi nessuno ha un’idea chiara di cosa fare e ogni giorno che passa è visto come un giorno in più che il regime nordcoreano può sfruttare per sviluppare la sua tecnologia nucleare militare. E quindi? È arrivato il momento di invadere la Corea del Nord? Partiamo dall’inizio.
Punto primo: cosa sta criticando Tillerson?
Dalla fine della Guerra fredda, gli Stati Uniti hanno adottato tre approcci diversi per indurre la Corea del Nord ad abbandonare il suo programma nucleare militare. Il primo fu un insieme di tentativi per persuadere il regime nordcoreano a cambiare atteggiamento verso l’Occidente: gli Stati Uniti rimossero unilateralmente le loro testate nucleari dalla Corea del Sud (1991) e tolsero la Corea del Nord dalla lista degli stati sponsor del terrorismo (2008), tra le altre cose. Ma non funzionò. Il secondo fu l’imposizione delle sanzioni – molte sanzioni – decise sia da organizzazioni internazionali (ONU e UE) sia da singoli paesi (tra cui gli Stati Uniti) e finalizzate a fare pressioni sul regime nordcoreano per costringerlo ad abbandonare i test missilistici. Di nuovo, non ci furono grandi risultati, soprattutto perché la Corea del Nord poteva contare sulla sua alleanza con il governo comunista della Cina, riluttante a rispettare le restrizioni previste dalle sanzioni internazionali. Il terzo approccio è quello in vigore oggi e introdotto dall’amministrazione Obama, la cosiddetta “strategia della pazienza”: guardare, aspettare e anticipare il collasso della Corea del Nord. La “strategia della pazienza” si basa sulla convinzione che il regime nordcoreano prima o poi crollerà. Ma è davvero così?
Nel 2015 Obama definì la Corea del Nord «il paese più sanzionato al mondo» e ribadì il concetto centrale della “strategia della pazienza”: «nel tempo vedremo un regime come questo collassare»
Nel corso degli ultimi otto anni ci sono state molte critiche all’approccio adottato dall’amministrazione Obama, che è stato definito da più parti inefficace. Bret Stephens, opinionista del Wall Street Journal e premio Pulitzer nel 2013, ha scritto per esempio che la “strategia della pazienza” sarebbe una politica efficace «se non fosse che il tempo è contro di noi». Secondo Stephens, la capacità del regime nordcoreano di installare testate nucleari su missili balistici intercontinentali – cioè quei missili che hanno una lunghissima gittata e che potrebbero colpire il territorio americano – non è più solo un’ipotesi. Più si aspetta a fare qualcosa e più tempo si lascia alla Corea del Nord per fare altri test e migliorare la sua tecnologia.
Un altro esperto molto critico è Jong Kun Choi, docente di studi internazionali dell’Università di Yonsei, a Seul. In un articolo pubblicato poco più di un anno fa sulla rivista specializzata The Washington Quarterly (PDF), Jong ha definito l’approccio di Obama una “strategia controintuitiva”, perché si basa sull’ipotesi che succederà qualcosa che in realtà è molto difficile prevedere, vista la poca conoscenza che abbiamo del regime nordcoreano. Con la “strategia della pazienza”, ha scritto Jong, sono andate storte due cose. La prima è che l’amministrazione Obama ha ridotto in maniera significativa gli sforzi per cercare di capire come funziona il regime di Kim Jong-un: le accuse di violazioni dei diritti umani sono state continue e pressanti, ma la conoscenza dei meccanismi politici interni del regime e delle sue capacità militari è rimasta minima e superficiale; molto inferiore a quella che era riuscita a raggiungere l’amministrazione di Bill Clinton, che nel 1994 aveva firmato un ambizioso accordo con la Corea del Nord sulla limitazione del programma nucleare nordcoreano e sulla normalizzazione dei rapporti bilaterali. La seconda cosa andata storta è che questa scarsa conoscenza della Corea del Nord ha portato a una generale disinformazione sul tema. Non solo la stampa di tutto il mondo ha cominciato a riportare storie incredibili e assurde sulla Corea del Nord, ma molti leader politici occidentali si sono convinti che il crollo del regime nordcoreano prima o poi avverrà.
Il punto è che finora non è avvenuto, e di crisi la Corea del Nord ne ha passate parecchie: la terribile carestia degli anni Novanta, due successioni alla guida del paese, le moltissime sanzioni dal 2006 ad oggi. Eppure il regime ha sempre retto senza dover rinunciare allo sviluppo del suo programma nucleare, anche grazie all’appoggio della Cina, che pur mostrandosi insofferente verso la crescente aggressività nordcoreana non sembra ad oggi intenzionata a stravolgere le sue politiche. In sostanza, i critici della “strategia della pazienza” non dicono che il regime sicuramente non crollerà: sostengono però che non bisogna contarci troppo, perché ne sappiamo troppo poco e ormai il tempo a disposizione sta finendo.
Perché l’azione preventiva non può funzionare
Non è ben chiaro quale sia il piano di Tillerson e dell’amministrazione Trump verso la Corea del Nord, se non un generico approccio più aggressivo. Tillerson non ha però escluso il “preemptive attack”, che vuol dire attaccare il nemico in presenza di una minaccia concreta (attaccare subito prima di essere attaccati, in pratica): è un tipo di approccio di cui si è parlato diverse volte negli ultimi anni e che nel caso della Corea del Nord può voler dire cose diverse, ha spiegato il New York Times.
Primo caso: gli Stati Uniti potrebbero colpire le rampe di lancio dei missili nordcoreani, togliendo alla Corea del Nord la capacità di attaccare per prima. Il problema è che molte di queste rampe potrebbero essere nascoste in luoghi segreti, come i tunnel sotterranei, e il rischio è che una volta partito l’attacco il regime nordcoreano decida di lanciare dei missili armati di testate nucleari dalle rampe non colpite.
Secondo caso: compiere un attacco esteso contro le strutture missilistiche e nucleari della Corea del Nord e allo stesso tempo lanciare degli attacchi informatici per distruggere il sistema di comando militare nordcoreano. Non sarebbe comunque una soluzione definitiva al problema, perché il programma nucleare militare nordcoreano è “fatto in casa” e il regime avrebbe le conoscenze per ricostruire gli obiettivi colpiti. A quel punto ci sarebbe inoltre l’altissimo rischio di una rappresaglia: il governo nordcoreano si sentirebbe sotto attacco e potrebbe usare le installazioni militari rimaste in piedi per rispondere con un missile nucleare.
Terzo caso, il più improbabile e anche il più rischioso: gli Stati Uniti potrebbero iniziare una guerra di invasione, come quella che portò alla destituzione dell’ex presidente iracheno Saddam Hussein nel 2003. È la soluzione più rischiosa perché a quel punto la Corea del Nord userebbe quasi certamente le sue armi nucleari e chimiche contro i suoi vicini – come Corea del Sud e Giappone – uccidendo moltissime persone.
Quindi cosa fare con la Corea del Nord? Altre due soluzioni
Oltre alle ipotesi degli attacchi preventivi e dell’invasione, che come detto potrebbero avere conseguenze imprevedibili e molto pericolose, ci sono altri due scenari molto dibattuti, che sembrano essere meno rischiosi, almeno sulla carta. Il primo riguarda un coinvolgimento della Cina. Bret Stephen ha scritto sul Wall Street Journal che il governo cinese potrebbe organizzare un colpo di stato in Corea del Nord, dando all’attuale leadership l’opzione dell’esilio. Negli ultimi anni la Cina ha mostrato sempre più insofferenza verso il regime nordcoreano, nonostante i due paesi siano ancora alleati, soprattutto perché Kim Jong-un ha brutalmente eliminato dal suo regime i leader più vicini al governo cinese. Una soluzione di questo tipo avrebbe dei vantaggi sia per gli Stati Uniti che per la Cina: gli americani si troverebbero a trattare con un regime avverso ma più ragionevole e disposto ai negoziati sulle armi nucleari, mentre i cinesi non rinuncerebbero all’esistenza della Corea del Nord come stato indipendente e alleato, abbastanza forte da essere usato per limitare l’influenza statunitense nella regione.
Il problema di questo piano, tolte le implicazioni legali ed etiche del fare un colpo di stato in un paese indipendente, è legato alle intenzioni del governo cinese. Finora la Cina non è sembrata incline a collaborare con gli Stati Uniti per mettere in pratica una soluzione di questo tipo e la forte retorica anti-cinese di Trump potrebbe in futuro ridurre il margine di cooperazione tra i due paesi. La situazione si è complicata nelle ultime settimane, dopo che gli Stati Uniti hanno annunciato di avere avviato l’installazione in Corea del Sud del sistema di difesa antimissilistico THAAD (Terminal High Altitude Area Defense system), che è stato definito dalla Cina come un’aperta e pericolosa mossa fatta dagli americani nell’ambito di una grande strategia che avrebbe l’obiettivo di garantire agli Stati Uniti una notevole superiorità strategica in Asia. Una cosa inaccettabile per la Cina.
Per le stesse ragioni è difficile pensare che sia facilmente praticabile la soluzione del negoziato, che comunque viene considerata la migliore da alcuni esperti, tra cui Jong Kun Choi. Se l’obiettivo ultimo di qualsiasi sforzo dovrebbe rimanere la denuclearizzazione della Corea del Nord, dice Jong, il passo preliminare e necessario dovrebbe essere costringere il regime nordcoreano a considerare dei possibili negoziati come l’unico modo per uscire dall’isolamento. Anzitutto gli Stati Uniti dovrebbero smettere di usare la retorica dell’inevitabile collasso della Corea del Nord e cominciare a pensare a una roadmap per la denuclearizzazione: dovrebbero offrire qualcosa in cambio alla Corea del Nord, tra cui delle solide garanzie alla sua sicurezza. Per esempio potrebbero farsi promotori di nuovi negoziati che coinvolgano Corea del Sud, Corea del Nord, Stati Uniti, Cina, Giappone e Russia, e che in passato hanno prodotto alcuni risultati (per esempio un precedente accordo prevedeva la chiusura delle centrali nucleari nordcoreane in cambio di aiuti umanitari e della normalizzazione delle relazioni tra Stati Uniti e Corea del Nord). Oggi la situazione politica in Asia è molto più complicata rispetto a qualche anno fa, e la soluzione diplomatica molto più difficile, anche per l’aumento delle tensioni tra Stati Uniti da una parte e Cina e Russia dall’altra. Ma se si esclude l’ipotesi dell’invasione e dell’attacco preventivo, non rimane molto altro.
da www.ilpost.it
Dovremmo invadere la Corea del Nord?
Se lo chiedono in molti dopo gli ultimi test nucleari e missilistici del regime di Kim Jong-un, ma potrebbe non essere una soluzione praticabile: e quindi cosa rimane?
Il 16 marzo il segretario di stato americano Rex Tillerson era in visita a Tokyo, in Giappone, dove ha incontrato il ministro degli Esteri giapponese Fumio Kishida. I due hanno finito per parlare della Corea del Nord, com’era inevitabile, visto che il regime nordcoreano è la principale minaccia alla sicurezza nazionale del Giappone e negli ultimi anni è diventata un potenziale pericolo anche per gli Stati Uniti. Tillerson non è andato per il sottile e con un paio di frasi ha deciso di fare a pezzi l’approccio degli ultimi governi americani verso la Corea del Nord: «Penso che sia importante riconoscere che la diplomazia e gli altri sforzi degli ultimi 20 anni per portare la Corea del Nord a “denuclearizzarsi” sono falliti». Tillerson ha proposto un «nuovo approccio» che però non ha voluto spiegare e di cui si è avuta una vaga idea solo il giorno dopo, quando ha detto di essere favorevole a politiche più aggressive nei confronti della Corea del Nord e ha parlato dell’ipotesi di un “preemptive attack”, cioè un attacco che anticipi quello nemico, in risposta a una chiara minaccia (la scienza delle relazioni internazionali differenzia il concetto di “preemptive attack” da quello di “preventive attack”, che invece è un attacco che viene compiuto quando non esiste una minaccia concreta e imminente alla propria sicurezza nazionale: in italiano però non esiste un corrispettivo di “preemptive attack”, e per semplicità qui useremo le espressioni “guerra preventiva” e “attacco preventivo” – concetti più immediati e chiari – per indicare il tipo di attacco a cui voleva riferirsi Tillerson).
Tillerson, che è già stato definito il segretario di Stato americano più debole di sempre e che non ha grande dimestichezza con le questioni di politica estera, è stato molto criticato per le sue affermazioni, soprattutto perché non ha saputo presentare un approccio alternativo a quello adottato dall’amministrazione Obama. Le sue critiche, comunque, non sono state le prime di questo tipo. Da tempo diversi analisti ed esperti ritengono che qualcosa nell’approccio americano degli ultimi decenni verso la Corea del Nord non abbia funzionato, perché oggi il mondo si ritrova un paese con un regime dittatoriale dotato di armi nucleari, imprevedibile, di cui si sa pochissimo e che non sembra avere paura di essere sempre più aggressivo, nonostante il rischio di essere attaccato. Quasi nessuno ha un’idea chiara di cosa fare e ogni giorno che passa è visto come un giorno in più che il regime nordcoreano può sfruttare per sviluppare la sua tecnologia nucleare militare. E quindi? È arrivato il momento di invadere la Corea del Nord? Partiamo dall’inizio.
Punto primo: cosa sta criticando Tillerson?
Dalla fine della Guerra fredda, gli Stati Uniti hanno adottato tre approcci diversi per indurre la Corea del Nord ad abbandonare il suo programma nucleare militare. Il primo fu un insieme di tentativi per persuadere il regime nordcoreano a cambiare atteggiamento verso l’Occidente: gli Stati Uniti rimossero unilateralmente le loro testate nucleari dalla Corea del Sud (1991) e tolsero la Corea del Nord dalla lista degli stati sponsor del terrorismo (2008), tra le altre cose. Ma non funzionò. Il secondo fu l’imposizione delle sanzioni – molte sanzioni – decise sia da organizzazioni internazionali (ONU e UE) sia da singoli paesi (tra cui gli Stati Uniti) e finalizzate a fare pressioni sul regime nordcoreano per costringerlo ad abbandonare i test missilistici. Di nuovo, non ci furono grandi risultati, soprattutto perché la Corea del Nord poteva contare sulla sua alleanza con il governo comunista della Cina, riluttante a rispettare le restrizioni previste dalle sanzioni internazionali. Il terzo approccio è quello in vigore oggi e introdotto dall’amministrazione Obama, la cosiddetta “strategia della pazienza”: guardare, aspettare e anticipare il collasso della Corea del Nord. La “strategia della pazienza” si basa sulla convinzione che il regime nordcoreano prima o poi crollerà. Ma è davvero così?
Nel 2015 Obama definì la Corea del Nord «il paese più sanzionato al mondo» e ribadì il concetto centrale della “strategia della pazienza”: «nel tempo vedremo un regime come questo collassare»
Nel corso degli ultimi otto anni ci sono state molte critiche all’approccio adottato dall’amministrazione Obama, che è stato definito da più parti inefficace. Bret Stephens, opinionista del Wall Street Journal e premio Pulitzer nel 2013, ha scritto per esempio che la “strategia della pazienza” sarebbe una politica efficace «se non fosse che il tempo è contro di noi». Secondo Stephens, la capacità del regime nordcoreano di installare testate nucleari su missili balistici intercontinentali – cioè quei missili che hanno una lunghissima gittata e che potrebbero colpire il territorio americano – non è più solo un’ipotesi. Più si aspetta a fare qualcosa e più tempo si lascia alla Corea del Nord per fare altri test e migliorare la sua tecnologia.
Un altro esperto molto critico è Jong Kun Choi, docente di studi internazionali dell’Università di Yonsei, a Seul. In un articolo pubblicato poco più di un anno fa sulla rivista specializzata The Washington Quarterly (PDF), Jong ha definito l’approccio di Obama una “strategia controintuitiva”, perché si basa sull’ipotesi che succederà qualcosa che in realtà è molto difficile prevedere, vista la poca conoscenza che abbiamo del regime nordcoreano. Con la “strategia della pazienza”, ha scritto Jong, sono andate storte due cose. La prima è che l’amministrazione Obama ha ridotto in maniera significativa gli sforzi per cercare di capire come funziona il regime di Kim Jong-un: le accuse di violazioni dei diritti umani sono state continue e pressanti, ma la conoscenza dei meccanismi politici interni del regime e delle sue capacità militari è rimasta minima e superficiale; molto inferiore a quella che era riuscita a raggiungere l’amministrazione di Bill Clinton, che nel 1994 aveva firmato un ambizioso accordo con la Corea del Nord sulla limitazione del programma nucleare nordcoreano e sulla normalizzazione dei rapporti bilaterali. La seconda cosa andata storta è che questa scarsa conoscenza della Corea del Nord ha portato a una generale disinformazione sul tema. Non solo la stampa di tutto il mondo ha cominciato a riportare storie incredibili e assurde sulla Corea del Nord, ma molti leader politici occidentali si sono convinti che il crollo del regime nordcoreano prima o poi avverrà.
Il punto è che finora non è avvenuto, e di crisi la Corea del Nord ne ha passate parecchie: la terribile carestia degli anni Novanta, due successioni alla guida del paese, le moltissime sanzioni dal 2006 ad oggi. Eppure il regime ha sempre retto senza dover rinunciare allo sviluppo del suo programma nucleare, anche grazie all’appoggio della Cina, che pur mostrandosi insofferente verso la crescente aggressività nordcoreana non sembra ad oggi intenzionata a stravolgere le sue politiche. In sostanza, i critici della “strategia della pazienza” non dicono che il regime sicuramente non crollerà: sostengono però che non bisogna contarci troppo, perché ne sappiamo troppo poco e ormai il tempo a disposizione sta finendo.
Perché l’azione preventiva non può funzionare
Non è ben chiaro quale sia il piano di Tillerson e dell’amministrazione Trump verso la Corea del Nord, se non un generico approccio più aggressivo. Tillerson non ha però escluso il “preemptive attack”, che vuol dire attaccare il nemico in presenza di una minaccia concreta (attaccare subito prima di essere attaccati, in pratica): è un tipo di approccio di cui si è parlato diverse volte negli ultimi anni e che nel caso della Corea del Nord può voler dire cose diverse, ha spiegato il New York Times.
Primo caso: gli Stati Uniti potrebbero colpire le rampe di lancio dei missili nordcoreani, togliendo alla Corea del Nord la capacità di attaccare per prima. Il problema è che molte di queste rampe potrebbero essere nascoste in luoghi segreti, come i tunnel sotterranei, e il rischio è che una volta partito l’attacco il regime nordcoreano decida di lanciare dei missili armati di testate nucleari dalle rampe non colpite.
Secondo caso: compiere un attacco esteso contro le strutture missilistiche e nucleari della Corea del Nord e allo stesso tempo lanciare degli attacchi informatici per distruggere il sistema di comando militare nordcoreano. Non sarebbe comunque una soluzione definitiva al problema, perché il programma nucleare militare nordcoreano è “fatto in casa” e il regime avrebbe le conoscenze per ricostruire gli obiettivi colpiti. A quel punto ci sarebbe inoltre l’altissimo rischio di una rappresaglia: il governo nordcoreano si sentirebbe sotto attacco e potrebbe usare le installazioni militari rimaste in piedi per rispondere con un missile nucleare.
Terzo caso, il più improbabile e anche il più rischioso: gli Stati Uniti potrebbero iniziare una guerra di invasione, come quella che portò alla destituzione dell’ex presidente iracheno Saddam Hussein nel 2003. È la soluzione più rischiosa perché a quel punto la Corea del Nord userebbe quasi certamente le sue armi nucleari e chimiche contro i suoi vicini – come Corea del Sud e Giappone – uccidendo moltissime persone.
Quindi cosa fare con la Corea del Nord? Altre due soluzioni
Oltre alle ipotesi degli attacchi preventivi e dell’invasione, che come detto potrebbero avere conseguenze imprevedibili e molto pericolose, ci sono altri due scenari molto dibattuti, che sembrano essere meno rischiosi, almeno sulla carta. Il primo riguarda un coinvolgimento della Cina. Bret Stephen ha scritto sul Wall Street Journal che il governo cinese potrebbe organizzare un colpo di stato in Corea del Nord, dando all’attuale leadership l’opzione dell’esilio. Negli ultimi anni la Cina ha mostrato sempre più insofferenza verso il regime nordcoreano, nonostante i due paesi siano ancora alleati, soprattutto perché Kim Jong-un ha brutalmente eliminato dal suo regime i leader più vicini al governo cinese. Una soluzione di questo tipo avrebbe dei vantaggi sia per gli Stati Uniti che per la Cina: gli americani si troverebbero a trattare con un regime avverso ma più ragionevole e disposto ai negoziati sulle armi nucleari, mentre i cinesi non rinuncerebbero all’esistenza della Corea del Nord come stato indipendente e alleato, abbastanza forte da essere usato per limitare l’influenza statunitense nella regione.
Il problema di questo piano, tolte le implicazioni legali ed etiche del fare un colpo di stato in un paese indipendente, è legato alle intenzioni del governo cinese. Finora la Cina non è sembrata incline a collaborare con gli Stati Uniti per mettere in pratica una soluzione di questo tipo e la forte retorica anti-cinese di Trump potrebbe in futuro ridurre il margine di cooperazione tra i due paesi. La situazione si è complicata nelle ultime settimane, dopo che gli Stati Uniti hanno annunciato di avere avviato l’installazione in Corea del Sud del sistema di difesa antimissilistico THAAD (Terminal High Altitude Area Defense system), che è stato definito dalla Cina come un’aperta e pericolosa mossa fatta dagli americani nell’ambito di una grande strategia che avrebbe l’obiettivo di garantire agli Stati Uniti una notevole superiorità strategica in Asia. Una cosa inaccettabile per la Cina.
Per le stesse ragioni è difficile pensare che sia facilmente praticabile la soluzione del negoziato, che comunque viene considerata la migliore da alcuni esperti, tra cui Jong Kun Choi. Se l’obiettivo ultimo di qualsiasi sforzo dovrebbe rimanere la denuclearizzazione della Corea del Nord, dice Jong, il passo preliminare e necessario dovrebbe essere costringere il regime nordcoreano a considerare dei possibili negoziati come l’unico modo per uscire dall’isolamento. Anzitutto gli Stati Uniti dovrebbero smettere di usare la retorica dell’inevitabile collasso della Corea del Nord e cominciare a pensare a una roadmap per la denuclearizzazione: dovrebbero offrire qualcosa in cambio alla Corea del Nord, tra cui delle solide garanzie alla sua sicurezza. Per esempio potrebbero farsi promotori di nuovi negoziati che coinvolgano Corea del Sud, Corea del Nord, Stati Uniti, Cina, Giappone e Russia, e che in passato hanno prodotto alcuni risultati (per esempio un precedente accordo prevedeva la chiusura delle centrali nucleari nordcoreane in cambio di aiuti umanitari e della normalizzazione delle relazioni tra Stati Uniti e Corea del Nord). Oggi la situazione politica in Asia è molto più complicata rispetto a qualche anno fa, e la soluzione diplomatica molto più difficile, anche per l’aumento delle tensioni tra Stati Uniti da una parte e Cina e Russia dall’altra. Ma se si esclude l’ipotesi dell’invasione e dell’attacco preventivo, non rimane molto altro.
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